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La superstizione scientista
di Salvatore A. Bravo
La verità è qualche cosa di infinitamente più dell’esattezza scientifica
L’epoca della superstizione è il “credo” senza la mediazione del logos. Scienziati ed economisti, ma non solo, assumono la postura riduzionista, ovvero non riconoscono la pluralità dei piani della conoscenza, giudicano il fondamento veritativo flatus vocis.
La verità ama la maschera affermava Nietzsche: la conoscenza è prismatica, da ogni piano traluce un aspetto fondamentale dei possibili, ma necessita dello sguardo della mente che, per giungere alla verità, individua la contraddizione della rappresentazione fenomenica.
Nei confronti della finitudine, vera sostanza della condizione umana, si può assumere una posizione di difesa (per cui si può rimuovere il problema per assolutizzare un piano e cadere nel riduzionismo) o aprirsi alla logica della modalità, dei potenziali aspetti conoscitivi che attraversano la condizione umana e non li esauriscono.
La Filosofia è disciplina del dialogo, insegna il logos, ma non vi è logos senza il limite, per cui il logos[1] è il ponte che pone in relazione con la dialettica, per trascendere i limiti.[2] L’epoca dell’assimilazione e del nichilismo economicistico – nel suo gran rifiuto della finitudine umana – tende a fagocitare ogni opposizione. L’onnipotenza dell’economicismo scientista non vuole vincoli e limiti, per cui – come un dio onnipotente – è autoreferenziale. Il Demiurgo platonico è ancora interno alla logica del limite, la chora (Χώρα) e le idee lo limitano. Lo scientismo economicistico ha piuttosto gli attributi del dio onnipotente, mondano ed unico: ambisce ad affermare se stesso ed a ridurre a nulla ogni posizione che si pone in dialettica con esso. Il primo suo imperativo è nell’affermarsi dell’unica conoscenza degna di tale nome, ovvero, la scienza. Pertanto la metariflessione – la riflessione teoretica sulla verità come fondamento – è tacciata d’essere semplicemente vuota astrazione, priva di ogni spessore conoscitivo e veritativo:
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Autonomia differenziata: il convitato di pietra è l’Unione Europea
di Rete dei Comunisti
Come è stato osservato in più interventi tenuti in una recente e riuscita assemblea a Napoli (09 marzo – “Il Sud Conta”) sulla questione del regionalismo differenziato, dalla riforma costituzionale del 2001 la “questione meridionale” (a prescindere dalle sue varie declinazioni) è stata espulsa dalla agenda politica nazionale e, anche formalmente, la questione settentrionale è entrata a far parte del discorso politico dominante, con chiara legittimazione costituzionale.
Il tema del recupero del “grande divario” tra Nord e Sud del Paese è stato, di conseguenza, del tutto obliterato. Le stesse politiche di orientamento della spesa pubblica nazionale hanno guardato altrove.
Nel 2001 lo Svimez, analizzando l’andamento dell’anno precedente, da un lato si rallegrava del fatto che il Sud da qualche anno presentasse incrementi del prodotto interno lordo, dei consumi e degli investimenti maggiori di quelli del resto del paese, mentre dall’altro lato evidenziava (come a dire qui lo dico e qui lo nego) delle tendenze che mostravano come tale miglioramento fosse illusorio:
«… l’economia del Mezzogiorno si presenta con dati e prospettive certamente migliori rispetto all’esperienza della prima parte degli anni ’90, avendo saputo arrestare la tendenza ad un ulteriore arretramento dei livelli relativi di prodotto, di occupazione e di investimenti. Un consolidamento ed ulteriori progressi del processo di crescita dell’economia dell’area restano più che mai legati, oltre che alla congiuntura nazionale e internazionale, all’intensità e alla regolarità dell’azione volta a rimuovere i vincoli strutturali e gli elementi di debolezza che continuano a gravare sul Mezzogiorno».
In effetti questa ripresa del mai compiuto processo di convergenza si inseriva in un quadro che la rendeva meramente congiunturale, ossia dipendente dal ciclo italiano, europeo e più propriamente mondiale.
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Cosa resterà
di Giovanni Iozzoli
Nel 2017 abbiamo celebrato l’anniversario del movimento del ’77. L’anno dopo è toccato è toccato al ’68. Nel 2019? L’autunno caldo, forse? Sia pur in forme sempre più blande, gli anniversari scandiscono anche una memoria generazionale, al di là della grande Storia, una memoria di persone concrete, in carne e ossa, che ridefiniscono dinamicamente il rapporto con il loro passato. Uomini e donne, ogni anno più vecchi, che discutono di sé, della loro storia, del senso del loro stare al mondo.
Il susseguirsi (più o meno ritualistico) delle celebrazioni mi porta a ripensare alla mia generazione – gli attuali cinquantenni – e al suo destino di apparente mediocrità. Una generazione che non pare aver depositato un vero lascito, una generazione senza slanci epici, senza una sua mitologia da tramandare – se non qualche autoironia sulla propria balbuzie tecnologica, tipica delle “generazioni di mezzo”. Quindi: non avremo anniversari, in futuro, da proporre alla memoria collettiva; niente seminari o monografie in cui sarà esaltato il nostro ruolo di “testimoni”; non riascolteremo nostalgicamente canzoni che celebrano eventi in cui siamo stati protagonisti. Siamo cresciuti con vecchi film in bianco e nero e ci siamo ritrovati all’improvviso nel più fasullo e colorato degli universi virtuali: e tutto nello spazio di un mattino, quasi senza accorgercene.
Vecchia storia, questa della “transizione”: tutte le generazioni sono sempre in transizione, ma la mia, chissà perché, mi dà l’idea di averla subita unilateralmente, più di altre. Una generazione mai davvero protagonista, come se fosse cresciuta in un vuoto artificioso, in un deserto della storia, nel quale non ha ricevuto linfa, impulsi vitali, un ambiente sterile in cui non ha interagito e a cui non ha saputo reagire.
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“Il capitalismo? Va ridiscusso, ora serve radicalità”
Giacomo Russo Spena intervista Fabrizio Barca
A partire da 15 proposte elaborate per contrastare le crescenti disuguaglianze nella società, l’ex ministro spiega come non sia sufficiente battersi per la sola redistribuzione delle ricchezze: “Su questo il pensiero keynesiano ha mostrato i suoi limiti, si deve ricominciare ad incidere sui meccanismi di formazione della ricchezza”. Sa che la battaglia sarà lunga, anche per costruire un’alternativa credibile al salvinismo: “Bisogna mettere insieme i mondi della ricerca e della cittadinanza attiva e pensare nuovi luoghi che possano acquistare egemonia culturale e politica nel Paese”.
Qualcuno se lo sarà chiesto: che fine ha fatto Fabrizio Barca, l’ex ministro 'illuminato' che doveva rigenerare i circoli Pd e rilanciare la sinistra? La risposta è arrivata quando, lo scorso 25 marzo, ha illustrato a Roma un rapporto con 15 proposte programmatiche che mirano a modificare i principali meccanismi che determinano la formazione e la distribuzione della ricchezza: dal cambiamento tecnologico al salario minimo, dal concetto di sovranità collettiva al campo della ricerca. “L’ingiustizia sociale e la percezione della sua ineluttabilità sono all’origine dei sentimenti di rabbia e di risentimento dei ceti deboli verso i ceti forti e della dinamica autoritaria in atto”, evidenzia Barca. Lontano dai riflettori, ha ideato il Forum disuguaglianze e diversità collaborando con le migliori menti in circolazione ed aprendo a volti noti come l’ex presidente dell’Istat Enrico Giovannini, il direttore del Servizio Analisi statistiche di Bankitalia Andrea Brandolini e a diverse onlus come la Fondazione Lelio Basso, ActionAid, Cittadinanzattiva, Caritas e Legambiente.
* * * *
Partiamo dai numeri: i dati Oxfam evidenziano come nell’era della crisi ci sia stata un’accumulazione delle ricchezze nelle mani di pochi a scapito di molti. Ciò dimostra che la crisi non è stato un fenomeno generalizzato?
Da come si evince dal grafico relativo al periodo tra il 1995 e il 2016, la quota di ricchezza dell’1% più ricco della popolazione adulta è passata dal 18 al 25%, quella del 10% più ricco dal 49 al 62%: l’andamento, quindi, è cominciato vari anni prima della crisi economica.
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Sulle “operations” di Mezzadra-Neilson
di Toni Negri
Recensione letta alla riunione di EuroNomade, Bologna, 15 marzo 2019
Nel Capitale, il “modo di produzione capitalista” è dato in una postura definitiva, è lì. Nei Grundrisse, invece, Marx introduce un discorso su Die Formen (che precedono la produzione capitalista) proprio nel momento nel quale dovrebbe passare dalla definizione della teoria del plus-valore (punto centrale e scoperta fondamentale, proprio qui, di Marx) alla teoria della circolazione, quindi alle teorie del capitale sociale e del General Intellect ecc. Perché fa questa sosta (confessiamolo, talora imbarazzante per la genericità nella quale mondo antico e civiltà asiatiche sono trattati) proprio quando ha scoperto nel plus-valore il cuore del modo di produzione capitalista e l’analisi potrebbe procedere velocemente verso la piena esposizione di quella scoperta?
Mi è sempre sembrato che ciò avvenga perché la scoperta del plus-valore apriva due piste decisive per la critica dell’economia politica: la determinazione del modo di produzione capitalista come movimento antagonista (il capitale come rapporto sociale antagonista) e, d’altra parte, la dialettica di soggettivazione che dal rapporto di capitale sorgeva e che poteva innescare la ricerca politica rivoluzionaria. Così, nei Grundrisse, proponendo dentro quell’insieme problematico, il programma cui il Capitale non riuscirà a dare definitiva risposta – ivi mancando appunto il libro sul salario e quello sullo Stato.
Il libro di Sandro Mezzadra e Brett Neilson (The Politics of Operations. Excavating contemporary capitalism, Duke University Press, 2019) si propone di percorrere quelle due piste, a partire da un approccio analitico al capitalismo globalizzato contemporaneo, e di muoversi nella transizione verso le forme che seguono il modo di produzione capitalista classico, così come l’abbiamo conosciuto: industriale, keynesiano, nazionale, sviluppista, socialista, ecc., inaugurando l’epoca della globalizzazione. Inseguono dunque le operazioni capitaliste (meglio, le “politiche delle operazioni”) che definiscono, oggi, il quadro spaziale e dinamico (temporale) dello sviluppo, dal punto di vista del complesso gioco delle istituzioni e delle soggettività che sono in campo e del processo che, contemporaneamente, si apre sia al “nuovo modo di produrre” sia ad una nuova formazione sociale.
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La natura della UE e la sua immodificabilità
di Domenico Moro
Relazione al Convegno UE: riforma o uscita, Udine 30 marzo 2019
Il capitalismo può trionfare
solo quando si identifica con lo stato,
quando è lo stato.
Braudel
Per capire se la Ue sia riformabile o meno è necessario capirne la natura, cioè quale ne sia la funzione e la ragione d’essere storica. Per rispondere a questa domanda, è necessario fare quello che raccomandava Arrighi, uno dei maggiori sociologi italiani del XX secolo. Marx scriveva che, per capire il capitalismo, bisognava scendere di un livello al di sotto del mercato, seguendo il capitalista nel “laboratorio segreto” dove entra in contatto con il detentore forza lavoro allo scopo di produrre il profitto. Allo studio di questo laboratorio, la fabbrica, Marx dedica capitoli importanti de Il capitale. Arrighi, parafrasando Marx, dice che per capire pienamente il capitalismo è necessario penetrare in un altro “laboratorio segreto”, situato però al piano superiore rispetto al mercato, lì dove il possessore di denaro, ossia il capitalista, incontra un altro attore, il possessore del potere politico[1].
Il piano inferiore al mercato è quello che il marxismo chiama struttura, vale a dire i rapporti di produzione, mentre quello superiore è la sovrastruttura, ossia i rapporti giuridici e politici, in una parola lo Stato. Senza quest’ultimo, il mercato non potrebbe neanche esistere. Se, quindi, vogliamo capire la Ue, anche noi dobbiamo guardare sia al di sotto sia al di sopra del mercato unico, cioè ai rapporti tra struttura e sovrastruttura. La Ue e l’euro non eliminano lo Stato, ma lo rimodulano in base alle trasformazioni della struttura dei rapporti di produzione.
Sul piano della struttura la fase attuale è caratterizzata dalla tendenza alla caduta del saggio di profitto. Contro tale tendenza il capitale mette in atto delle “cause antagonistiche”, come le chiama Marx: la riduzione del salario, l’aumento dello sfruttamento, l’esercito industriale di riserva, la finanziarizzazione e, soprattutto, l’esportazione di merci e capitali.
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La crisi sfascia il governo
di Dante Barontini
In calce un articolo di Guido Salerno Aletta
Il governo soffre, la maggioranza scricchiola, Conte annuncia che non continuerà a far politica, Salvini minaccia-teme che “possa venir giù tutto”, Di Maio reagisce male alle iniziative fascio-integraliste come quella di Verona, Tria considera sconsiderato chi (Salvini e Di Maio) pensa di poter usare la Commissione parlamentare d’inchiesta sul credito come un tribunale per il comportamento delle banche o della Banca d’Italia (e Mattarella pone limiti invalidanti ai poteri della Commissione stessa)…
Che succede?
Quel che era abbastanza ovvio già al momento del varo di questo scombiccherato governo: la crisi economica ha ripreso a mordere, siamo in recessione da ormai nove mesi, in tutta Europa ma con più evidenza in Italia, l’Unione Europea non cambia registro nei confronti dei paesi non core (solo Francia e Germania, e magari l’Olanda, possono rivedere alcuni pilastri della governance), le misure “espansive” immaginate da questa maggioranza (quota 100 e reddito di cittadinanza, sostanzialmente) sono state sotto sferza ridotte a qualcosa di cosmetico senza effetti pratici (ma non sarebbero servite a molto neanche nella versione originale).
E dunque la manovra da disegnare per il prossimo anno diventa una via crucis. Ce ne sarebbe una da fare subito, secondo Bruxelles, per “correggere” la differenza attesa tra previsioni della legge di stabilità e realtà economica. Ma nessuno può chiedere ad un governo “succube” di varare misure lacrime e sangue in piena campagna elettorale; per le europee, oltretutto.
Dunque si aspetterà giugno per cominciare a mettere nero su bianco la legge di stabilità 2020, in cui il massacro sociale sarà così evidente da non poter essere nascosto sotto misure-bandiera a costo zero (blocco dei porti e dei migranti, libertà di sparare e di armarsi, campo libero ai fascio-integralisti, ecc).
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Economia della miseria
di Piero De Sanctis
Sulla rivista mensile de Le Scienze del febbraio scorso, il premio Nobel per l'economia del 2001, Joseph Stiglitz sostiene - nel suo lungo articolo Un'economia truccata - che negli ultimi 30-40 anni, nei paesi occidentali più sviluppati, si è raggiunto il più alto livello di diseguaglianza mai visto prima, non certo per «leggi di natura», ma per leggi economiche. «I mercati non esistono nel vuoto -afferma- ma sono plasmati da norme e regolamenti che possono essere progettati per favorire un gruppo a discapito di un altro. Il sistema economico è truccato dal predominio dell'alta finanza e dalle multinazionali ereditarie di cui lo stesso Trump fa parte… Nella maggior parte dei paesi avanzati - seguita Stiglitz - la diseguaglianza è cresciuta per fattori come la globalizzazione, il cambiamento tecnologico e il passaggio a un'economia di servizi, ma il suo aumento negli Stati Uniti è stato il più rapido, secondo il World Inequality Database. Questo perché sono state riscritte le regole per renderle più favorevoli ai ricchi e svantaggiose agli altri. Alle grandi aziende è stato permesso di esercitare maggiore potere sul mercato, ma l'influenza dei lavoratori è diminuita. Tassazione e altre scelte politiche hanno favorito i ricchi».
«I difensori della diseguaglianza hanno una spiegazione pronta: fanno riferimento al funzionamento di un mercato competitivo in cui le leggi di domanda e offerta determinano salari, prezzi e persino i tassi di interesse. Forse questa storiella alleviava i sensi di colpa di chi era al vertice e convinceva gli altri ad accettare la situazione. Ma il momento cruciale cha ha rivelato questa menzogna è stata la crisi del 2008, in cui gli stessi banchieri che hanno portato l'economia globale sull'orlo del baratro con prestiti predatori, manipolazione dei mercati e altre pratiche antisociali, ne sono riusciti con bonus milionari, mentre milioni di statunitensi perdevano lavoro e casa,e decine milioni di persone in tutto il mondo capitalistico soffrivano per causa loro. Nessuno di questi banchieri ha dovuto rendere conto delle sue malefatte».
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America Latina: cosa fare dopo l’arretramento progressista
Le teorie di Andre Gunder Frank e di Albert O. Hirschman a confronto
di Riccardo Evangelista
Nonostante le ambiziose politiche economiche degli ultimi vent’anni, l’America Latina sta cambiando colore politico. Le lezioni da trarre sono molteplici
1. Suggestioni dalla fine del sogno progressista latino-americano: introduzione
La vittoria dell’ultraconservatore Jair Bolsonaro alle elezioni presidenziali brasiliane dello scorso ottobre sembra segnare un punto di non ritorno nella politica economica del continente latino-americano. Il variegato e altisonante ciclo progressista, iniziato con l’elezione di Evo Morales in Bolivia nel 1998 e poi proseguito con il trionfo di Hugo Chávez in Venezuela nel 1999, di Lula in Brasile nel 2002, di Néstor Kirchner in Argentina nel 2003 e di Rafael Correa in Ecuador nel 2007, può ritenersi concluso. Quelle speranze concrete di profondo cambiamento[1] si sono infrante sotto i colpi delle ravvicinate vittorie elettorali dei nuovi governi conservatori in tutti o quasi i paesi simbolo della precedente svolta progressista. Per di più, i successi delle destre hanno fatto ampiamente leva su una retorica di feroce opposizione verso l’espansione della spesa sociale promossa in maniere e tempi differenti dalle sinistre, ritenendola una perversa espressione di spreco, motivo di corruzione e sintomo di improvvisazione politica.
Una non nuova teleologia del fallimento rischia così di annichilire le istanze riformatrici dell’America Latina: ogni tentativo di trasformazione in senso più egualitario della struttura economica latino-americana è davvero destinato a fallire, conducendo in modo perverso alla reazione delle classi dominanti e quindi a un ciclico ritorno al passato? In termini più generali, è possibile individuare una qualche legge ferrea che ratifichi la caducità delle riforme economiche in nome di un ordine immutabile delle cose?
Due economisti profondamente critici della teoria economica mainstream, Albert O. Hirschman e Andre Gunder Frank, hanno avuto modo di imbattersi direttamente nelle difficoltà che le politiche progressiste tendono a incontrare in America Latina, arrivando a conclusioni agli antipodi di fronte al problema del sottosviluppo e della disuguaglianza economica. Ripercorrere il loro approccio metodologico, in particolare le critiche che Hirschman rivolge a Frank, conduce a interrogarsi in maniera paradigmatica sugli atteggiamenti di politica economica, ancor prima dei provvedimenti concreti, che ogni tentativo di critica dell’ordine esistente può manifestare di fronte al fallimento delle istanze trasformatrici.
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La passione del reale. Freud, la guerra e la pulsione di morte
di Caterina Resta
1. Il secolo di Nietzsche
Sono ormai trascorsi cento anni dalla conclusione della Prima guerra mondiale e in tutti i paesi europei, attraverso manifestazioni di ogni genere, si è ricordato questo evento davvero decisivo per la storia del Vecchio Continente. Al di là delle retoriche “patriottiche”, che quasi fatalmente ritornano in ricorrenze come questa, come pensare questa immane catastrofe, questa insensata carneficina, questa “guerra civile europea”? Al di là di ogni ricostruzione storica che ne indaghi cause e motivazioni, è toccato al pensiero del Novecento – che più da vicino ne ha subito l’onda d’urto, seguita a breve distanza dalla replica di un secondo conflitto ancor più devastante e distruttivo – tentare di gettare lo sguardo sul fondo oscuro di questo abisso, senza arrendersi di fronte all’incomprensibile. Tutto il pensiero del Novecento trema a causa di questa scossa, avanza a tentoni nel buio di questa notte senza stelle, poiché la Grande Guerra segna davvero uno spartiacque e una cesura tra un prima e un poi, preannunciando una vera e propria svolta epocale. Dopo, nulla sarà più come prima: alle spalle, «il mondo di ieri» irrevocabilmente perduto; davanti, nessun progresso può più essere assicurato. Crollano gli idoli che la ragione illuministica prima e positivistica poi avevano eretto, primo tra tutti quella illimitata fiducia nella razionalità umana e nel suo inarrestabile progresso, promessa di un radioso futuro, sul piano scientifico, tecnico, economico, morale e politico. Con furia iconoclasta la Grande Guerra provvide a spazzarli via, fin dai primissimi giorni, imprimendo il suo indelebile sigillo all’intero secolo.
È questa, allora, la Cosa1 che ancora ci resta da pensare nella sua intollerabile verità, quell’ottenebramento a causa del quale il Novecento ha dovuto trovare nuove parole, nuovi concetti, nuove forme espressive per dirla, per tentare di pensarla sino in fondo, nella consapevolezza di una certa afasia. Un tentativo, dunque, al limite del silenzio, costretto a confrontarsi con il “cuore di tenebra” di questa guerra.
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Quando inizierà il secolo asiatico?
di Pierluigi Fagan
L’anno prossimo, secondo i calcoli UNCTAD-UN riportati da FT, quando l’insieme delle economie asiatiche calcolate in Pil-PPP, per la prima volta dal 1850, saranno più importanti di tutto il resto del mondo. Naturalmente, questa è solo la riduzione giornalistica di un processo che è di natura storica. Le epoche trapassano come le dissolvenze incrociate, sempre meno del precedente e sempre più del successivo, con tempi più o meno lunghi o lunghissimi. Qualche volta la dissolvenza si ferma, incespica, sembra addirittura ravvoltolarsi, ma a grana grossa funziona così: un’era sfuma nella successiva. Ci si accorge che un’era è finita, in genere, molto dopo che ha iniziato la sua lenta fine, la scelta del momento in cui non più l’una allora l’altra è sempre arbitrario.
La quantità e qualità degli indicatori di questo passaggio è vasta e solida. A grana grossa, l’Asia è il 60% della popolazione mondiale e continuerà ad esserlo nel mentre la popolazione mondiale continuerà a crescere nei prossimi trenta anni, mentre l’Occidente che era ancora il 30% del mondo ai primi del ‘900 e che oggi è regredito al 15%, tra trenta anni sarà al 12%. Quasi tutta questa contrazione occidentale di peso è dovuta all’Europa, Italia e Germania in testa ed è in dubbio se nei prossimi decenni avremo un unico Occidente coerente e compatto o un Occidente anglosassone ed uno continentale. Nella misura in cui l’intero sistema asiatico, dal dopoguerra (ma con una accelerazione a partire dagli anni ’80), si è votato al moderno modo di stare al mondo, dedicandosi alla produzione e scambio con sviluppo della tecnica, la quantità demografica è destinata a trasformarsi in quantità economica e questa in potenza generale. Nell’analisi tra grandi partizioni continentali, non solo l’Asia supererà l’Occidente, ma risulterà il cliente ideale per la materia energetica degli arabi ed il partner ideale per l’inclusione dell’Africa nella nuova modernità. Fungerà quindi da attrattore e motore mondiale.
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Marx a Parigi
di Antonino Morreale
“L’impresa può riuscire o no. In ogni modo sarò a Parigi alla fine del mese”
Marx tedesco
1. Il problema
Dal commento della “Prefazione del ‘59”, era risultato che quella narrazione autobiografica di Marx era fortemente condizionata dal tentativo di accreditare, da un lato, un precoce e compatto curriculum da economista (dal ’42!), e di nascondere, dall’altro, le fondamentali scoperte degli anni ‘57-‘58. Quella autobiografia non era quindi affidabile, e bisognava de-costruirne il percorso. Né più convincente era la proposta – cito solo quella che negli anni ’60 fece il più forte rumore - di un importante studioso francese, Althusser, il quale ha sostenuto l’esistenza di due Marx, uno “ideologico” ed uno ”scientifico”. Lo scarto tra i due sarebbe avvenuto intorno al 1846 con “L‘ideologia tedesca”, un po’come il passaggio dall’alchimia alla chimica per merito di Lavoisier. Fra il primo e il secondo ci sarebbe stata una “rottura epistemologica”, solo asserita e mai dimostrata: un bel giorno Marx si coricò “ideologo” hegeliano e feuerbachiano e si svegliò “scienziato”. Poiché non crediamo ai miracoli, nemmeno se c’è di mezzo Marx, ci è parso obbligatorio l’approccio più terra-terra, empirico, del “cambio di residenza” che, per un apolide quale Marx fu, qualche cosa significa; a meno di non volerlo lasciare sradicato anche da morto. Bisognava quindi lasciare che il “romanzo” della sua formazione si srotolasse tappa dopo tappa. Avremo così un Marx tedesco, uno parigino, uno belga e uno inglese. Tanto meglio, se poi, giusto nel periodo “parigino”, le influenze esterne su Marx pesarono più che in qualsiasi altro. Su questa ipotesi analizzerò quel “romanzo” molto rapidamente cercando di mostrare la non originale tesi che, in un tempo brevissimo, appena 15 mesi, Marx prende le decisioni fondamentali della sua vita privata, politica, scientifica.
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23 marzo 1919: genesi e primi passi del fascismo
di Armando Lancellotti
I Fasci italiani di combattimento
Cent’anni fa, il 23 marzo del 1919, in piazza San Sepolcro a Milano, Benito Mussolini fondò un movimento politico chiamato “Fasci italiani di combattimento”. Alla prima adunata parteciparono1 soprattutto ex-combattenti e Arditi, futuristi, tra i quali Filippo Tommaso Marinetti, uomini provenienti sia dall’area politica nazionalista sia da quella socialista, dal sindacalismo rivoluzionario e dall’anarchismo. Eterogeneità e convergenza di correnti politiche differenti, accomunate però da alcuni elementi ideologici, appaiono gli aspetti essenziali del “fascismo della prima ora”, che rese noto il suo primo programma politico il 6 giugno del 1919 su «Il Popolo d’Italia»2.
In un’Italia che, uscita dalla guerra, assisteva alla riapertura della polemica politica dell’anteguerra tra neutralisti ed interventisti, i Fasci di combattimento difendevano e rivendicavano in modo chiaro le ragioni dell’intervento, denunciando al contempo il debole ed inetto neutralismo degli avversari, in particolare dei socialisti; mettevano sotto accusa l’inconcludente ceto politico liberale, ritenuto responsabile della “vittoria mutilata”, in quanto incapace di ottenere al tavolo delle trattative della Conferenza di pace di Parigi quanto i soldati italiani avevano conquistato versando il loro sangue nelle trincee. Avanzavano inoltre richieste, anche radicali, di cambiamenti politici e sociali che dovevano «assicurare immediatamente l’emancipazione delle classi lavoratrici sottraendole al partito socialista»3 e, pertanto, sul piano politico-istituzionale volevano la repubblica, richiedevano la convocazione di una costituente, il suffragio politico e l’eleggibilità anche per le donne, il sistema elettorale proporzionale, l’abolizione del Senato e, sul piano sociale e finanziario, le otto ore lavorative, la partecipazione dei lavoratori al funzionamento tecnico delle industrie, l’imposizione di una forte tassazione straordinaria sui grandi capitali, il sequestro di tutti i beni delle congregazioni religiose. Per la politica estera, il nascente fascismo proponeva iniziative capaci di promuovere e valorizzare la nazione italiana nel mondo4 ed infine autodefiniva il proprio progetto politico come un programma nazionale di un movimento autenticamente italiano.
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Una spirale in continuo sviluppo
Rosa Luxemburg e l'accumulazione del capitale
di Giovanni Di Benedetto
Ciò che Marx presuppone non è la fantasia bambinesca di una società capitalistica sull’isola di Robinson, che fiorisce nel chiuso, «isolata» da continenti con popoli non-capitalistici, di una società in cui lo sviluppo capitalistico ha raggiunto il più alto grado immaginabile (…) e che non conosce né artigianato né contadiname e non ha rapporti col mondo circostante non-capitalistico. Il presupposto di Marx non è un assurdo della fantasia, ma un’astrazione scientifica. Marx anticipa la tendenza realedello sviluppo capitalistico; ammette come già raggiunto quello stato di dominio generale assoluto del capitalismo su tutto il mondo, quell’estrema dilatazione del mercato mondiale e dell’economia mondiale, verso cui il capitale e l’intero suo sviluppo economico e politico odierno realmente tende.
(Rosa Luxemburg, Ciò che gli epigoni hanno fatto della teoria marxista. Una anticritica)
Quando, all’inizio del proprio discorso, nel mese di Gennaio del 1919, alcuni giorni dopo l’assassinio di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, Grigorii Zinoviev, presidente del Soviet di Pietrogrado, li commemorò, ebbe a dire, pressappoco, che la Luxemburg era appartenuta a quella rara schiera di affiliati al movimento dei lavoratori che aveva avuto non solo il merito di divulgare le idee di Marx ma anche di contribuire, con la propria parola e il proprio pensiero, all’arricchimento della stessa teoria marxiana della critica dell’economia politica.
Allo scoccare del secolo dal terribile eccidio del 15 Gennaio 1919, ordinato dal socialdemocratico Gustav Noske ed eseguito dai Freikorps, questo lapidario e solenne giudizio non sembra, col passare del tempo, aver perso di vitale veridicità. Tutt’altro, considerato che, a partire dalla metà degli anni ’20 del secolo scorso, l’ortodossia stalinista aveva condannato all’oblio e a una sostanziale rimozione, l’eredità luxemburghiana. Eppure, oggi, l’opera intellettuale di Rosa Luxemburg dimostra una forza e una lucidità non comuni e, forse, una produttività, agli occhi di molti, inaspettata.
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Sui valori dopo il neoliberismo: recensione a Laura Pennacchi
di Vincenzo Russo
Il libro parte dalla contestazione dell'opinione corrente secondo cui "De gustibus et de valoribusnon est disputandum" - un'opinione apparentemente di senso comune, in realtà basata sulla fallace equiparazione epistemologica dei "valori"
Il libro “De Valoribus Disputandum Est. Sui valori dopo il neoliberismo” di Laura Pennacchi (Mimesis Edizioni, 2018) è una formidabile rassegna della filosofia morale, dell’etica, dell’economia, della sociologia, della psicanalisi, della teoria della giustizia sociale degli ultimi secoli non senza trascurare quella dei Greci e dei Romani. In considerazione degli effetti devastanti prodotti dal neoliberismo negli ultimi quaranta anni in termini di scissione tra mezzi e fini, di razionalità strumentale in un contesto di accelerazione del processo di globalizzazione quello di Laura Pennacchi è un importante tentativo di ricostruire una teoria dei valori. Un contesto che ha messo in discussione la possibilità di conciliare globalizzazione non governata, sovranità nazionale e democrazia secondo il noto trilemma di Dani Rodrik.
Partendo dall’assunto della Scuola di Chicago secondo cui i fallimenti dello Stato sono più gravi di quelli del mercato e, quindi, dalla endemica ostilità del neoliberismo nei confronti dell’operatore pubblico, ci si aspetterebbe che l’individuo fosse seriamente valorizzato al massimo, invece, il soggetto viene ridotto a homo economicus. Un uomo razionale che massimizza il proprio interesse e, quindi, egoista, migliore giudice di sé stesso che non ha bisogno delle mediazioni di chicchessia. Dagli economisti il soggetto è assunto come individuo rappresentativo che semplifica e fa funzionare i modelli ora computabili di equilibrio economico generale. Apparentemente in contrasto con questo assunto, le forze politiche populiste e sovraniste assumono il popolo come soggetto del loro modello teorico. Sennonché, mentre l’individuo rappresentativo ha qualche risconto concreto con gli individui reali operanti nell’economia e nella società, il popolo rappresentativo è mera realtà virtuale sulla quale appaiono efficaci le semplificazioni ingannevoli ed illusorie propalate dai politici populisti e sovranisti.
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Le ombre di Kafka
Editoriale del numero 1: Kafka, la scrittura della destituzione?
Con una straordinaria intuizione, Giorgio Agamben ha identificato la “colpa” di Josef K., protagonista del Processo, nell’autocalunnia, nell’accusa che egli fa a sé stesso calunniandosi e che mette in moto il romanzo (G. Agamben, “K.”, in Id., Nudità, Roma, nottetempo, 2009). Un reato paradossale, in cui l’accusato sa di essere innocente, ma in cui, nel momento in cui si autoaccusa, diventa colpevole (di calunnia, appunto). Ma perché K. calunnia sé stesso? Secondo Agamben, nel Processo l’accusa è la chiamata in causa dell’essere del diritto, che è appunto accusa nella sua stessa essenza, dal momento che l’essere, una volta “accusato”, perde la sua innocenza, divenendo “cosa”, causa, oggetto di lite. È contro questa origine del diritto che si scaglia Kafka. Dall’autocalunnia discende infatti nel romanzo un processo in cui non solo in causa non è nulla di preciso, ma in cui ad essere chiamata in causa è la stessa chiamata in causa, l’essenza stessa del processo. Ma, a cosa punta l’autocalunnia di Josef K.? Qual è il movimento che Josef K. (e Kafka) punta a mettere in opera? La sottigliezza dell’autocalunnia consiste nel fatto che è essa è una strategia che mette in questione la stessa implicazione fondamentale dell’uomo nel diritto, tentando di disattivare e rendere inoperosa l’accusa, la chiamata in causa che il diritto rivolge all’essere. La calunnia che Josef K. fa nei confronti di sé stesso è in altri termini un modo di affermare la propria innocenza di fronte alla legge, un mezzo di difesa contro le autorità che minacciano continuamente l’esistenza, irretendola nella logica della colpa, nella dimensione di una legge che appare sempre come una lancinante e grottesca caricatura di una Legge originaria a cui non è possibile avere accesso. Ma, come Kafka sperimenta proprio attraverso la stesura del romanzo, si tratta di una strategia insufficiente, perché il diritto risponde a questo tentativo di destituzione trasformando in delitto la stessa chiamata in causa e facendo dell’autocalunnia, che doveva renderlo inoperoso, il proprio nuovo fondamento.
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“L’Italia siamo noi. La sinistra e l’identità nazionale”
La "reimmaginazione politica" di Jacopo Custodi
di Alessandro Visalli
Su MicroMega, testata del gruppo La Repubblica/L’Espresso, il dottorando in Scienze Politiche alla Scuola Normale Superiore che “si occupa di sinistra radicale” Jacopo Custodi[1] sostiene che alla egemonia della destra bisogna contrapporre un’altra idea di Italia, evitando sia il rifiuto dell’identità nazionale sia l’interiorizzazione del discorso della destra. E questa posizione, che dichiara frutto di “reimmaginazione politica”, la descrive come:
“immaginare un’identità italiana che sia includente e progressista, basata sulla storia migliore del nostro paese. Che ricordi con orgoglio la storia dei nostri nonni che diedero la vita per la libertà, contro i fascisti che distrussero il nostro paese. Un’identità italiana che non dimentichi che gli italiani sono stati un popolo migrante, e che l’accoglienza e l’ospitalità italiana sono valori impressi nella nostra storia e di cui dobbiamo andare fieri. Un’Italia che ami il suo passato e la sua cultura, nella consapevolezza che la storia va avanti e le tradizioni evolvono. Un’Italia internazionalista e interculturalista, consapevole che una comunità nazionale sana ha tutto da guadagnare dall’incontro tra i popoli”.
Continua:
“Patriottismo non è chiudere le frontiere, patriottismo è lottare per un paese con scuole e ospedali pubblici di eccellenza, per la dignità di chi lavora. È rivendicare una comunità solidale che ami la sua terra e che rifiuti ogni discriminazione tra i suoi membri, ad esempio per il paese di origine o per il colore della pelle. Perché l’Italia non è la Meloni, non è Salvini, non è Minniti. L’Italia siamo noi che lottiamo per un paese migliore, che siamo attivi nella difesa dell’ambiente e nella solidarietà coi migranti, che difendiamo i nostri diritti in quanto lavoratori, donne, studenti. Non dovremmo più permettere alla destra di appropriarsi incontrastata di quel termine – «Italia» – che identifica tutti noi.
L’Italia siamo noi, ed è venuto il momento di riprendercela”.
A parte l’ultima frase retorica e aggressiva (l’Italia, evidentemente, non è della sinistra, almeno quanto non è della destra, ma è lo spazio di una contesa), questa posizione mi ricorda qualcosa.
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Nuove note su “lavoro di cittadinanza”, salari minimi, Piano del lavoro e terzo settore
di Jacopo Foggi
A poche settimane di distanza dalla più volte rinviata pubblicazione del libro da me curato (Tornare al lavoro. Lavoro di cittadinanza e piena occupazione, Castelvecchi) dedicato al “lavoro garantito”, “occupazione di ultima istanza” o “lavoro di cittadinanza”, che dir si voglia, mi sembra opportuno riprendere il filo del discorso per aggiornarlo alla luce di dibattiti e vicende più recenti ed esplicitarne alcuni aspetti in funzione delle esigenze di sviluppo del nostro martoriato paese.
Per chi si fosse perso il tema di cui stiamo parlando, sintetizziamo brevemente gli elementi centrali. Si tratta di una politica che consiste, almeno in prima battuta, in un intervento pubblico di “occupazione di ultima istanza” che, rifacendosi appunto all’azione delle banche centrali come prestatrici di ultima istanza, vede le istituzioni governative entrare in campo come datori di lavoro di ultima istanza nel momento in cui il mercato prevedrebbe o di non offrire alcun posto di lavoro retribuito oppure di fornirne solo di pagati al di sotto delle soglie dei redditi minimi consentiti e stabiliti per legge, o in generale a livelli di povertà – per la misera retribuzione o per le troppo poche ore. Analogamente al modo in cui la Banca centrale garantisce alle banche e allo Stato anticipazioni o scoperti di conto ad un tasso prestabilito sostenibile nei momenti di carenza di liquidità, stabilendo così un tetto massimo al tasso di interesse e garantendo la circolazione monetaria, allo stesso modo lo Stato decide di fornire un impiego retribuito, a un livello salariale di base ma dignitoso, a tutti coloro ai quali il mercato imporrebbe condizioni inaccettabili, vuoi perché semplicemente inesistenti, vuoi perché troppo basse per essere ritenute socialmente accettabili, stabilendo così un pavimento minimo alle retribuzioni1 .
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L'intreccio patriarcato-capitalismo libero dai marxismi
di Franco Romanò
Questo saggio è stato ampiamente discusso nella redazione ed è solo la prima parte di una riflessione più ampia che seguirà. Una rinnovata critica radicale al sistema capitalistico non può prescindere dai suoi intrecci con il patriarcato: è questo il nodo che i marxismi novecenteschi in tutte le loro declinazioni, non hanno saputo o potuto affrontare. Nel pensiero più vitale e meno determinista di Marx, liberato dalle tradizioni novecentesche, ci sono tuttavia spunti che riteniamo dense di futuro. A partire da questa considerazione e dalla pratica di resistenza dei movimenti contemporanei, il saggio si propone di offrire riflessioni e idee in divenire per una nuova soggettività antagonista
Introduzione
Continuiamo a rileggere Karl Marx. Un po’ per lasciarci alle spalle tutti i ‘marxismi’, un po’ perché nel Marx giovane continuiamo a trovare sorprese sulle quali ci sembra molto opportuno riflettere; ma su Overleft abbiamo anche lo sguardo puntato sul presente, soprattutto su ogni movimento che definisca la propria lotta dentro una critica radicale al capitalismo e al suo intreccio col patriarcato, un presupposto quest’ultimo per noi irrinunciabile che proviene dalle analisi e lotte di buona parte del femminismo. Il sistema patriarcale e capitalistico continua a produrre i propri antagonisti come accadeva nei due secoli precedenti (La storia non è finita con buona pace di Fukuyama e di chi è succube del Tina, There Is No Alternative, l’espressione varata da Margarteh Thatcher). Il capitalismo reale, seguito alla caduta del socialismo reale che nell’immaginario era la causa di tutti mali, ha prodotto decine di guerre nel giro di trent’anni, un impoverimento vertiginoso delle classi salariate e dei ceti medi, lo smantellamento del welfare, l’aumento vertiginoso di costi ambientali che rischiano di diventare irreversibili, riciclato tutti i modelli di oppressione a cominciare da quella di genere, modulandola in modo diverso nei diversi contesti. Tuttavia, sono nate del in questi anni ribellioni e movimenti, a volte più strutturate altre volte più caotiche, che hanno comunque prodotto lotte sociali e forme di resistenza che si collocano all’esterno e spesso contro le formazioni politiche e sindacali del marxismo novecentesco.
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Con la Nuova Via della Seta la Cina è vicina, anzi è tra noi
di Pino Nicotri
E anziché cercare il dominio politico militare cerca l’incremento degli scambi. Non solo commerciali
Il Mediterraneo – una volta il Mare Nostrum – tornerà ad essere ciò che il suo nome significa, e cioè “In mezzo alle terre”, dove per terre si intende l’Europa, l’Africa e l’Asia? E’ possibile, se non probabile o certo. E a riempire concretamente il significato del suo nome sarà il poker d’assi porti italiani di Genova e Trieste e quelli spagnoli di Bilbao e Valencia più quello portoghese meridionale di Sines: questo infatti anche se affacciato sull’Atlantico farà da snodo verso l’Africa. Questi cinque porti saranno i terminali occidentali del gigantesco progetto cinese Belt and Road Initiative, in sigla BRI, noto anche come Nuova Via della Seta, al quale hanno già aderito 60 Paesi più oltre 40 organizzazioni internazionali e che intende stimolare anche con rotte navali non solo l’integrazione dei commerci e delle economie dei tre continenti citati, ma diventare per loro “un percorso che porta all’amicizia, allo sviluppo condiviso, alla pace, all’armonia e ad un futuro migliore”. Lo ha dichiarato a Shangai lo scorso novembre il presidente della Cina Xi Jinping all’International Economic and Trade Forum, al quale il 5 novembre ha partecipato, con il suo secondo viaggio in Cina, il nostro vicepremier e ministro dello Sviluppo Economico e del Lavoro Luigi Di Maio (https://video.repubblica.it/politica/shanghai-la-gaffe-di-luigi-di-maio-il-presidente-xi-jinping-diventa–ping/318842/319471).
Poche settimane dopo avere pronunciato quelle parole il presidente Xi è stato in visita in Spagna dal 27 al 29 dello scorso novembre per proporre l’adesione alla BRI anche alla Spagna, Paese nel quale l’anno scorso la compagnia navale cinese Cosco Shipping Holdings si è aggiudicato il 51%, cioè la maggioranza assoluta, del gruppo spagnolo Notaum Port, gestore dei servizi portuali per le navi container a Bilbao e Valencia. E se la Spagna si è riservata di decidere, il Portogallo invece lo scorso 5 dicembre ha aderito e concesso per la BRI lo sbocco nel porto di Sines, sulla costa meridionale del Portogallo e poco distante dallo Stretto di Gibilterra.
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I gilets jaunes visti da vicino: un’analisi di classe del movimento
I limiti della sinistra italiana
di Lorenzo Battisti
Spesso per comprendere la natura di un fenomeno sociale è bene osservarlo da una certa distanza. Quando vivevo in Italia questo mi permetteva di cogliere meglio certi aspetti delle vicende francesi, poiché non ne ero personalmente coinvolto. Al contempo questa distanza dovrebbe permettere ai compagni italiani di leggere meglio di me (che ora vivo in Francia) il movimento dei Gilets Jaunes, i gillet gialli.
L’impressione purtroppo sembra opposta: per qualche ragione i compagni italiani hanno di questo movimento un’immagine che non corrisponde affatto alla realtà. Cercherò di fare un’analisi del movimento e di spiegare le ragioni di questa attitudine italiana a scambiare i propri sogni per la realtà.
Genesi del movimento: l’ecotassa sul carburante
Il movimento è partito nel mese di Novembre come protesta spontanea e auto-organizzata contro l’introduzione di un'accisa sui carburanti volta a finanziare il passaggio del parco auto francese verso modelli meno inquinanti. L’idea del governo era di punire i gli inquinatori, per premiare con gli introiti i cittadini responsabili. In realtà si è trattato della goccia che ha fatto traboccare il vaso di una Francia già soggetta un carico fiscale importante[i].
La struttura attuale dell’Unione Europea infatti non colpisce solo i lavoratori, lanciandoli in una competizione al ribasso, in cui ciascuno è costretto ad accettare condizioni di lavoro sempre peggiori per ottenere che il lavoro venga svolto nel proprio paese invece che nel paese a fianco. Questa colpisce anche i sistemi fiscali che vengono messi in competizione l’uno contro l’altro per far sì che le grandi imprese investano nel proprio paese. Se il paese a fianco fa uno sconto fiscale del 30%, noi dobbiamo farlo del 40%, cosa che porterà un terzo paese a farlo del 50%. Il risultato è che le grandi imprese multinazionali di fatto non pagano più imposte, e ora la competizione è sugli incentivi per farle venire o per non farle andare via: il loro saldo fiscale è passato da negativo a positivo. Queste imprese pagano imposte zero, e ricevono una parte delle imposte pagate dagli altri sotto forma di incentivi.
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‘Tutto il potere ai Soviet!’, parte sesta
Il carattere della Rivoluzione russa: il Trotsky del 1917 contro quello del 1924
di Lars T. Lih
Nell’aprile del 1917, Georgii Plekhanov – venerando esponente della socialdemocrazia russa, ma in quel momento confinato nell’ala “difensista” dello spettro socialista – scriveva una coppia di articoli che, per una via inaspettata e sorprendente, sono divenuti la base dell’odierna narrazione del “riarmo” dei bolscevichi durante la rivoluzione. In questi articoli, Plekhanov formulava le seguenti asserzioni:
1. Nelle sue Tesi di aprile, Lenin proclamava il carattere socialista della Rivoluzione russa.
2. Così facendo, Lenin sottovalutava la natura arretrata della società russa.
3. La nuova posizione assunta da Lenin costituiva un’esplicita rottura rispetto all’ortodossia marxista da lui stesso propugnata in precedenza.
4. Affermare il carattere socialista della Rivoluzione russa rappresentava una necessità logica per chiunque sostenesse il trasferimento del vlast (l’autorità politica sovrana) ai soviet.
5. Il riconoscimento della natura democratica-borghese della rivoluzione implicava logicamente il sostegno al Governo provvisorio.
Queste cinque proposizioni sono ortodossia assolutamente incontrovertibile per la maggioranza degli autori, tanto accademici quanto militanti, che si occupano di Rivoluzione russa. Curiosamente, tuttavia, lo stesso Lenin respinse ognuna di queste affermazioni.
In un articolo rivolto contro Plekhanov, pubblicato sulla Pravda il 21 aprile, Lenin sottolineava che “se i piccoli proprietari costituiscono la maggioranza della popolazione e se non esistono le condizioni oggettive per il socialismo, come può la maggioranza della popolazione dichiararsi a favore del socialismo?! Chi può dire e chi dice di introdurre il socialismo contro la volontà della maggioranza?!”. Fatto cruciale, Lenin asseriva che la via verso il potere al soviet era cionondimeno dettata dalla natura democratica della rivoluzione: “Com’è allora possibile , senza tradire la democrazia, pur intesa alla maniera di Miliukov, pronunciarsi contro la «conquista del vlast politico» da parte della «massa lavoratrice russa»?” (Si veda il quinto post di questa serie, “‘Una questione fondamentale: le glosse di Lenin alle Tesi di aprile’”).
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“Non ci saremo alle europee, ma saremo ovunque”
di Potere al Popolo
Il documento politico approvato dal Coordinamento nazionale di Potere al Popolo del 24 marzo
“Sono tempi difficili, lo so, ma non cedete alla rassegnazione, non abbandonate la speranza, mai! Neppure per un attimo. Anche quando tutto sembra perduto e i mali che affliggono l’uomo e la terra sembrano insormontabili, cercate di trovare la forza e di infonderla nei vostri compagni. È proprio nei momenti più bui che la vostra luce serve. E ricordate sempre che ogni tempesta comincia con una singola goccia. Cercate di essere voi quella goccia”.
Sono queste parole, scritte dal combattente YPG e partigiano italiano Lorenzo “Orso”, ad aver ispirato il Coordinamento Nazionale di domenica 24 marzo. Queste parole, così come il video e l’esempio di Lorenzo, hanno colpito noi come migliaia di persone. Perché hanno dimostrato di cosa è possibile una singola persona quando è animata da una grande idealità e da un forte sentimento del collettivo, ci hanno riportato al senso originario del nostro fare politica, che a volte si perde fra mille urgenze e problemi, ci hanno dato forza e mostrato l’orizzonte.
Ci siamo rivisti in queste parole perché Potere al Popolo! nasce proprio come una sfida: che tanti singoli partigiani e diverse “bande” che quotidianamente resistono, potessero mettersi insieme, trasformare le singole gocce che oggi si perdono o vengono assorbite, in una tempesta che lavi via lo sporco del nostro paese e di questo mondo.
Ci siamo rivisti in queste parole perché Potere al Popolo! non ha mai voluto essere l’ennesima forza di sinistra, magari più estrema, a fianco e in conflitto con le altre, ognuna fissata con la sua piccola verità. Ma soprattutto un messaggio, un movimento popolare, una struttura di collegamento, di diffusione e di organizzazione di pratiche, di condivisione di saperi e competenze, di finalizzazione delle lotte, di spinta all’autorganizzazione sui territori, di visibilità di un’altra Italia, di quella città futura, come diceva Gramsci, che già oggi esiste in embrione, ma che deve affermarsi contro chi impoverisce le nostre vite.
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Nove volte Stalin
di Eros Barone
«La radio al buio e sette operai / sette bicchieri che brindano a Lenin / e Stalingrado arriva nella cascina e nel fienile / vola un berretto un uomo ride e prepara il suo fucile / Sulla sua strada gelata la croce uncinata lo sa / D’ora in poi troverà Stalingrado in ogni città.»
Stalingrado, Stormy Six.
La ricorrenza del centoquarantesimo anniversario della nascita di Iosif Vissarionovic Giugasvili, detto Stalin (1879-1953), costituisce un’occasione per interrogarsi sul ruolo di una personalità che, dopo aver dominato la scena della politica interna del suo paese e la scena della politica internazionale del mondo intero nella prima metà del ventesimo secolo, ha continuato a proiettare una lunga ombra sugli sviluppi politico-ideologici dei decenni successivi sino ai nostri giorni.
Può allora essere utile ricordare il significato di questo soprannome, gridando il quale (“Sa Stalina!”, ossia “Per Stalin!”) milioni di soldati sovietici combatterono nella Grande Guerra Patriottica, sacrificando la loro vita per difendere il primo Stato socialista del mondo: Stalin, cioè ‘acciaio’, un soprannome che indica due qualità essenziali di questo metallo, la durezza e la flessibilità, e la loro incarnazione in un leader bolscevico che lo stesso Lenin ebbe a qualificare come “quel meraviglioso georgiano” (definizione etnica che compare nel sottotitolo di una bella biografia di Stalin scritta da Gianni Rocca 1 ). Poiché una figura come quella di Stalin non permette di operare un taglio netto fra la leggenda (sia eulogica sia demonizzante), che ben presto si è formata attorno a tale figura, 2 e la concreta funzione storica che questa personalità ha svolto nel “secolo degli estremi”, proverò ad accendere su questo soggetto ad alta tensione interpretativa alcuni ‘flash’ che ne fissano quelli che, secondo il mio giudizio, sono i tratti salienti.
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Impero
di Salvatore Bravo
In Impero di Toni Negri vi è l’analisi della condizione presente del capitalismo assoluto; la “rete capitale” è un’invisibile gabbia d’acciaio, il suddito vive la sussunzione formale e materiale, in media, senza percepirne l’onnipresenza. La rete del capitale produce ininterrottamente merci, astrae materie prime, ma il potere è creatura prometeica e demiurgica, nello stesso tempo produce, con lo stesso ritmo, merci e coscienze. Il potere è biopotere che predetermina la vita, la gabbia d’acciaio è il trascendentale, il potere censura linguaggi, stabilisce gerarchie, attraverso le sue maglie filtra un modo di essere e di esserci prestabilito, il tempo presente con i suoi stili di vita è così eternizzato. La guerra è il mezzo attraverso cui l’impero risolve le contraddizioni, essa diviene la condizione quotidiana in cui ogni contradizione ed alterità è assimilata al male “reductio ad Hitlerum” è la legge che prepara l’eliminazione/assimilazione in nome delle libertà, dei diritti civili. Si combatte il male in nome del bene, dei diritti umani, pertanto i bombardamenti umanitari sono necessari perché il bene trionfi, la crisi è la normalità dell’impero, una tattica di governo per rafforzare l’impero, per tenere in tensione i sudditi, per farli sentire, senza capire, che abitano nella parte giusta, che sono l’impero del bene in perenne lotta contro il male1 :
”C’è qualcosa di inquietante in questa rinnovata attenzione per il concetto per il concetto di justum bellum che la modernità o meglio, la moderna secolarizzazione ha ostinatamente cercato di sradicare dalla tradizione medioevale. Il concetto tradizionale di guerra giusta comporta la banalizzazione della guerra e la sua valorizzazione come strumento etico: due assunti risolutamente respinti dal pensiero politico moderno e dalla comunità degli stati-nazione. Queste tradizionali caratteristiche sono invece riapparse nel nostro mondo postmoderno: da un lato, la guerra viene ridotta ad un intervento di polizia internazionale e, dall’altro, viene sacralizzato il nuovo tipo di potere che può legittimamente esercitare funzioni etiche mediante la guerra. (…) La guerra è divenuta un atto che si giustifica da sé.
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