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Sul nuovo libro di Thomas Piketty
di Franco Lissa
Questo “libro-mattone” è importantissimo, perché pone al centro dell’attenzione, e in modi non propagandistici ma scientificamente documentati, la questione-spia delle crescenti ineguaglianze che la mondializzazione sta solidificando. Come ricorda Franco Lissa in questa sua puntuale presentazione: ” L’1% più ricco della popolazione si è appropriato del 27% della crescita mentre il 50% dei più poveri ha avuto una crescita del 12%. Le classi medie e popolari dei paesi ricchi hanno subìto una perdita importante del loro benessere economico, il che, come vedremo, ha provocato dei cambiamenti significativi anche a livello di rappresentanza politica”. Sulla proposta del “socialismo partecipativo” avanzata da Piketty a me restano – non avendo sgombrato la lezione di Marx dalla mia mente – molti dubbi. Ma discutiamone. [E. A.]
Il primo atteggiamento che il lettore deve assumere di fronte alle 1200 pagine dell’ultimo libro di Thomas Piketty (Capital et Idéologie, ed. Seuil, 2019, di cui si attende la traduzione in italiano) è la fiducia nell’autore. Esso fa seguito alle 950 pagine del libro precedente (Le capital au XXI° siècle, ed. Seuil, 2013), e nonostante l’imponente dimensione, è un libro di lettura gradevole anche per un non economista di formazione, ma che sia interessato alle scienze umane, economia ovviamente, con una competenza statistica anche non specialistica, storia economica, pensiero politico, scienze sociali. Thomas Piketty è directeur d’étude alla École des hautes études en science sociales e professore all’ École d’économie di Parigi, ma collabora anche con la London School of Economics ed il Massachusetts Institute of Technology.
E’ un seguito del libro precedente, dicevo, che ha decretato il successo planetario del suo autore anche al di fuori dell’ambito universitario, un libro che è stato tradotto in 40 lingue e venduto in più di 2,5 milioni di copie. Ma in qualche misura ne è anche un superamento. Si basa, come il precedente, sulla base statistica del progetto World Inequality Database (http://WID.world), cui collaborano più di 100 ricercatori di più di 80 paesi in tutto i continenti, ma da esso si diparte in varie direzioni.
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La teoria del valore-lavoro e i keynesiani
di Bollettino Culturale
Nel pensiero keynesiano, ci sono argomenti a favore di una società più egualitaria e una preferenza per quote più elevate di ricchezza sociale da orientare verso il popolo. Tuttavia, la sua teoria non abbandona mai la prospettiva del capitale. L'individualismo analitico è così radicato che persino un economista keynesiano di sinistra cosciente come Joan Robinson fraintende Marx in diversi punti della sua critica, perché ritiene che la prospettiva di un singolo capitalista sia il punto di partenza, in cui l'analisi di Marx considera l'insieme sociale come precedente. Accanto a questo c'è il rifiuto di comprendere il valore come una relazione sociale, insistendo su un'analisi materialistica riduttiva. Con queste due assunzioni precedenti al lavoro i keynesiani respingono la teoria del valore-lavoro.
Robinson attaccò il concetto stesso di valore, sostenendo che era solo metafisico, una "misteriosa emanazione" nel marxismo che "era ancora in qualche modo in agguato nei prezzi relativi". Tuttavia c'è una differenza tra una qualità che non può essere apprezzata come sostanza concreta e qualcosa che non ha una vera esistenza. Esistono diverse analogie che possono spiegare questo, ma una è la coscienza umana. Finché non invochiamo il fantasma di Cartesio nella macchina, la coscienza è un fenomeno del mondo materiale, eppure non ci sono particelle di coscienza. Non esiste in questo o quel neurone come unità tangibile. Piuttosto, è la creazione della totalità dell'attività cerebrale; è una proprietà emergente che dipende dal movimento o dal processo per entrare in un'esistenza molto reale.
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Guerra di posizione e guerra di movimento oggi
di Carlo Formenti
Álvaro García Linera, vicepresidente della Bolivia dal 2006 al golpe di qualche mese fa, è uno dei più grandi intellettuali di sinistra latinoamericani. In "Democrazia, stato, rivoluzione. Presente e futuro del socialismo del XX secolo" (Meltemi, 2020), il lettore trova un’antologia dei suoi interventi più significativi, seguita da una postfazione di Carlo Formenti, che qui ripubblichiamo per gentile concessione dell’editore e dell’autore
Nel corso di una conferenza tenuta il 27 maggio 2016 a Buenos Aires (e inserita in questa antologia con il titolo “Presente e futuro del processo rivoluzionario”) Linera ebbe a pronunciare parole che, alla luce del golpe contro il governo socialista boliviano orchestrato da destre e militari nel novembre del 2019, suonano sinistramente profetiche. Il tema della conferenza era il riflusso in atto in diversi Paesi del subcontinente latinoamericano, i quali, dopo un lungo ciclo riformista/rivoluzionario caratterizzato da una radicale svolta postneoliberista, se non socialista, erano teatro di violente controffensive delle forze di destra, spalleggiate dall’imperialismo nordamericano.
Nel suo discorso, Linera prende in esame una serie di concause – limiti oggettivi ed errori soggettivi – che hanno determinato questa brusca inversione di tendenza rispetto agli eventi storici dei due decenni a cavallo della transizione di millennio – eventi che tante speranze in un rilancio degli ideali socialisti avevano alimentato, non solo in Sudamerica ma in tutto il mondo. Sui limiti oggettivi torneremo più avanti. Qui preferisco concentrarmi sugli errori soggettivi. Mi pare che dall’analisi di Linera ne emergano soprattutto tre: 1) la sottovalutazione della difficoltà di cambiare la struttura dello Stato; 2) l’eccessivo ottimismo in merito alla possibilità di integrare i ceti medi nel blocco sociale progressista garantendo, al tempo stesso, l’egemonia politico culturale delle classi subalterne; 3) l’incapacità di risolvere il nodo della convivenza fra socialismo, democrazia rappresentativa e democrazia diretta e partecipativa (ma qui, più che di errore soggettivo, sarebbe più corretto parlare di un problema che nessuno è mai riuscito a risolvere nel corso dell’intera storia mondiale del socialismo).
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Patrick Zaki: Giulio Regeni 2.0, Soros 100.0
Un nuovo Regeni: è in gioco il petrolio e la Libia
di Fulvio Grimaldi
Ve lo raccomando, come difesa dall’eccesso di presa per i glutei da parte della stampa, baby
Regeni raddoppiato
Su Giulio Regeni, dopo aver proposto ai retti e onesti tutte le notizie che media e Roberto Fico occultano e che rovesciano nel suo contrario la narrazione ufficiale (come occorrerebbe fare ogni giorno), avevo scritto una lettera aperta al presidente della Camera, oggi governista ad oltranza per amore di PD. Ma l’increscioso autore del colpo di mano che ha imposto ai parlamentari di rompere ogni relazione con il parlamento egiziano, non se n’è dato per inteso. Dando così prova della sensibilità democratica che, lo comprendiamo, con compagni di merende come PD e Italia Vivacchiante, è incompatibile. Un nuovo Regeni, l’Egitto, i media, sono l’oggetto centrale dell’odio dei nostri specialisti anti-odio e, dunque, di questo articolo. Ma partiamo da lontano.
Siamo sopravvissuti agli tsunami dell’odio rovesciatici addosso, prima, dal Giorno della Memoria e, poi, da quello del Ricordo, entrambi illustratici, come suole, con la nota correttezza dagli storici e parastorici dei vincitori. Per non farci mancare niente, hanno affiancato queste intemperie a quell’altro uragano dell’odio che ci accompagna da tempo e che riguarda gli sciagurati che, fuori da ogni discussione, si meritano l’odio degli anti-odio al potere in Occidente: Russia, Cina (oggi capolista), Siria, Iraq, Iran (sul quale si va esercitando, con particolare perizia Bilderberg, il promotore di Draghi presidente: Stefano Feltri del “Fatto”). Quanto alla Cina, oggi sottoposta a un prodromo di guerra in chiave economico-mediatica-occidentocentrica su base batteriologica, ci possiamo vantare di essere, con l’eccellenza clerico-atlantista Conte Bis, più realisti del re. Primi e, dopo giorni, ancora unici in Europa, nonostante l’OMS l’abbia ritenuto inutile, abbiamo imposto il blocco per un’epidemia influenzale che, nella sua forma in Cina (1,7 miliardi), ha ucciso quasi 800 persone e, nello stesso periodo, in quella degli USA (320 milioni), 10.000.
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Critica dell'economia politica del segno. Baudrillard e Marx
di Leo Essen
I
L’obiettivo dichiarato di Per una critica dell’economia politica del segno di Jean Baudrillard è la decostruzione della distinzione tra valore-uso e valore-scambio che apre il Capitale. L’opera di Marx ha come sottotitolo Critica dell’economia politica. Dunque, il libro di Baudrillard, sin dal titolo, si inscrive nella storia del marxismo, nonostante ne contesti un argomento considerato da Marx elementare, dunque basilare: la distinzione, appunto, tra valore-uso e valore-scambio.
La merce è in primo luogo una cosa – dice Marx (Capitale I, 1.1). Una cosa che soddisfa bisogni umani. Il modo d’uso delle cose non è definito una volta per tutte. La proprietà della calamita di attrarre il ferro, dice Marx, divenne utile solo quando fu scoperta per suo mezzo la polarità magnetica. È compito della storia scoprire i molteplici modi d’uso delle cose. Come è compito della storia definire i termini e i modi di quantificazione di questi oggetti.
L’utilità della cosa è ciò che fa di essa un valore-uso.
Ma che cos’è l’utilità?
Marx ha già chiarito che l’utilità è legata alla proprietà della cosa.
Mentre la proprietà è data (o fabbricata), l’utilità, in ogni caso, è prodotta dalla storia. Ma la storia la produce a partire dalla proprietà della cosa, dalla sua attitudine naturale (qui Marx cita a sostegno Locke) ad appagare un qualche bisogno umano.
L’utilità, dice Marx, non aleggia nell’aria. È legata alle proprietà del corpo dell’oggetto, e non esiste senza di esso. La calamita diventa utile con l’invenzione della bussola. Prima di questa invenzione, la proprietà del magnete di indicare il nord non aveva alcuna utilità. Pertanto, l’utilità non è un carattere permanente e fisso della cosa, non è un carattere naturale. Si potrebbe dire, forzando un po’ la mano, che solo nel suo utilizzo in quanto bussola, la calamita manifesta la sua proprietà.
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Giovanni Arrighi, “Una nuova crisi generale”
di Alessandro Visalli
Nel 1972 sull’organo del Gruppo Gramsci, “Rassegna Comunista” escono quattro saggi brevi[1] su “una nuova crisi generale”. Siamo nei primi anni settanta e stanno accadendo nel mondo alcuni fatti: in Italia sono partite le Regioni, è stato approvato lo statuto dei lavoratori e la legge sul divorzio, a Reggio Calabria scoppia una rivolta su motivi apparentemente marginali, l’Ulster è in pieno scontro in Gran Bretagna, la Polonia è in tumulto per il carovita, muore Nasser in Egitto, il movimento palestinese “settembre nero” è represso dall’esercito giordano, la rivoluzione culturale in Cina retrocede, in Cambogia comincia la guerriglia dei Khmer, in Usa cresce la protesta contro la guerra del Vietnam, in Cile Allende viene eletto. In tutto il mondo si sentono le doglie di un parto che si protrarrà per oltre un ventennio.
Dal 1970 al 1974 è attiva una formazione, forte a Milano, Torino e Varese, che cerca di creare un’alternativa più strutturata allo spontaneismo anarcoide di Lotta Continua ed al marxismo di Potere Operaio. Tra i redattori della rivista c’è Giovanni Arrighi. Il Gruppo, che non è mai stato molto numeroso, dopo il 1974 confluisce in parte in Autonomia Operaia ed in parte si dissolve; per un poco pubblica il quindicinale “Rosso”. Dal 1979 parte dei militanti confluiranno in Democrazia Proletaria (e di lì, un decennio dopo in Rifondazione Comunista).
Il testo del 1972 raccoglie i materiali prodotti nell’ambito di un seminario per i quadri metalmeccanici della Cisl, quando Arrighi insegnava alla Scuola Superiore di Formazione in Sociologia della Università di Milano e con il Gruppo cercava di restare agganciato alle lotte nelle fabbriche ed ai collettivi politici che si formavano in esse (è la stagione dei “consigli”).
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La controversia fra integristi universalisti e antirazzisti
di Salvatore Palidda
La celebre rivista online francese Médiapart, con la penna del suo esperto culturale Joseh Confravreux, ha dedicato una serie di 6 articoli che passano in rassegna le diverse posizioni inerenti la cosiddetta “controversia sulla questione della razza” e quindi la letteratura in questo campo[1]. Una controversia esaminata nella sua versione francese, che accenna anche a quella in altri Paesi e in particolare negli Stati Uniti. La scelta di dare attenzione a questa disputa è dovuta anche all’esarcebante attacco da parte degli integristi universalisti di destra – e in parte di “sinistra” – nei confronti degli antirazzisti e razzializzati, accusati di esasperare la loro difesa delle identità delle minoranze (nera, femminista, ecc.) e di provocare una “guerra civile” (di carta).
La disputa ha dei connotati in gran parte palesemente francesi, ma agita questioni che sono ormai correnti in tutti i Paesi, in particolare a proposito dell’uso e abuso delle cosiddette rivendicazioni comunitaristiche o identitarie o delle minoranze. È soprattutto lo spettro dell’islamismo a condurre alla drammatizzazione estrema della controversia, ancor più a seguito degli attentati terroristi pseudo-islamici che dopo il 2015 hanno colpito la Francia e che si sono ripetuti anche recentemente. In questo contesto, l’ultimo attentato a una moschea per opera di persone di destra è stato letto come speculare a quelli pseudo-islamisti che lo hanno preceduto. Ma lo spettro islamista ha dato la stura a un attacco generalizzato contro ogni rivendicazione da parte delle diverse minoranze, così come nella tradizione sciovinista francese è sempre stata intollerabile ogni specificità culturale.
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Questione di classe. Le classi sociali nella modernità liquida
di M. Sgobio
Bauman sembra attribuire la “liquefazione” della società a un cambiamento nella mentalità dei capitalisti, mentre, nella sua analisi, la classe sociale di coloro che per vivere vendono la propria forza lavoro sembra sciogliersi. Però, se si cambia il punto di osservazione, si possono scorgere le radici materiali del cambio di mentalità che descrive. Da questa visuale, le gocce, i singoli individui, assumo nuovamente l’aspetto di un fiume: un corso d’acqua che potrebbe modellare la società in forme del tutto nuove.
Negli ultimi quarant’anni diverse teorie hanno cercato di descrivere la società contemporanea e i fenomeni che l’hanno modellata, dando vita a interpretazioni che, anche se accolte in modo critico, lasciano la consapevolezza di un mutamento, a volte radicale, rispetto al recente passato.
Un nuovo inizio
Nell’esperienza della società attuale, scrive Krishan Kumar, vi è qualcosa “che insistentemente suscita non solo «il presentimento di una fine» ma anche quello di nuovi inizi”i.
Siamo nel 1995, e l’autore traccia una rassegna critica di quelle che chiama “le nuove teorie del mondo contemporaneo”. Teorie accomunate, anche quando divergono, dal prefisso post, che antepongono, di volta in volta, ad aggettivi come industriale, fordista o moderna, riferiti alla società che descrivono.
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Per il socialismo tragico
Lettera-recensione a Carlo Formenti
di Onofrio Romano
[Riportiamo la lettera-recensione di Onofrio Romano al libro di Carlo Formenti, apparsa sul suo profilo Facebook e seguita da due commenti particolarmente interessanti. ndr]
Pubblico qui la mia recensione in forma di lettera all’ultimo libro di Carlo Formenti “Il socialismo è morto, viva il socialismo!” (Meltemi, 2019), già apparsa in appendice al nostro dialogo sul marxismo “Tagliare i rami secchi. Catalogo dei dogmi del marxismo da archiviare” (DeriveApprodi 2019). I libri di Formenti hanno sempre suscitato un vasto e intenso dibattito nel mondo della cultura e della politica, soprattutto a sinistra e non solo in Italia. Si ricordino in particolare i suoi saggi pionieristici sulle conseguenze sociali, economiche, culturali e politiche del digital turn. Da qualche tempo, invece, egli è oggetto di mobbing politico-culturale. Dei libri di Formenti non si parla male. Semplicemente, “non se ne deve parlare”. Più che di mobbing, si tratta di una vera e propria fatwa, poiché la posta in gioco ultima è la morte civile del reprobo. Un dispositivo fascista, che nel mio piccolo conosco molto bene, praticato in maniera ricorrente dai professionisti dell’antifascismo immaginario. Lo ha esplicitato senza troppi complimenti Marco Revelli in uno sciagurato commento su Facebook, in cui rimbrottava un suo amico per aver rotto la congiura del silenzio nei confronti di Carlo, reo – l’accusa è sempre quella – di fare il gioco dell’avversario (anzi, di essere ormai totalmente nel campo dell’avversario). Guai a concentrarsi sul merito delle idee. Io non mi rassegno a questo tritacarne. Non mi rassegno al fatto che il successo a sinistra sia direttamente proporzionale al vuoto di pensiero (sardina docet). Si può essere o meno d’accordo, ma i libri di Carlo Formenti (e di tanti reprobi come lui) sono tra le poche cose che meritano oggi di essere discusse. Buona lettura.
* * * *
Ebbene sì, caro Carlo Formenti. Il tuo libro, “Il socialismo è morto, viva il socialismo!” (Meltemi 2019), è il nuovo manifesto del partito comunista, in versione tragica. Di questo ti fai carico. Di questo dobbiamo farci carico.
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Le ambivalenze e i paradossi della rivoluzione dei diritti
Una storia filosofica e politica
di Francesco Fistetti
Abstract: The object of this essay is the paradox of the philosophical and political history that emerged from May 1968. The instances of liberation, born under the pressure of that epochal event and aimed at the destruction of the traditional authoritarian morality (divorce, abortion, feminism, LGBT movements, etc.), have been emptied of their original emancipatory content and caught by the abstract logic of the market. For a sort of irony of history, the revolution of subjective rights has been turned upside down in new forms of subjugation and hierarchy. The ambivalence of this historicalpolitical process is reflected in the poststructuralist and postmodernist philosophical constellation of the socalled “French Theory” (Derrida, Foucault, Baudrillard, Deleuze, Lyotard, Barthes), in which the AngloAmerican “studies” (women studies, queer studies, postcolonial studies, etc.) are inscribed in the decades 1980/1990.
1. Il ’68 e la traducibilità dei linguaggi scientifici e filosofici
Per sottolineare le ambivalenze e le contraddizioni del maggio ’68, vorrei partire, in questa mia breve riflessione, dalla definizione che dieci anni dopo Edgard Morin avrebbe proposto sulle colonne di “Le Monde” parlando di “eventosfinge” e confermando la chiave interpretativa che insieme a Claude Lefort e Cornelius Castoriadis aveva offerto nel 1968 con la pubblicazione, quasi un instantbook, di La breccia. Per questi autori – sosteneva Morin – “una breccia non richiudibile si era aperta sotto la linea di galleggiamento del nostro ordine sociale”1. Ma il paradosso che vorrei mettere a fuoco è il rovesciamento che nella storia delle società liberaldemocratiche europee si produce delle istanze di emancipazione e di liberazione in forme di assoggettamento e di subordinazione. Il paradosso appare tanto più singolare se guardato dall’angolo visuale del presente storico in cui viviamo, connotato dagli effetti di lunga durata che quella “breccia” non ha mai smesso di provocare negli Stati nazionali modellati dal “secolo socialdemocratico” o dai cosiddetti “trent’anni gloriosi”.
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Althusser, maledetto!
di Andrea Muni
Non avendo un’esistenza veramente mia, un’esistenza autentica, dubitando di me stesso fino all’estremo […], non sono mai stato altro che un essere artificiale, fatto di nulla, un morto.
(Althusser, L’avvenire dura a lungo)
Trent’anni fa sei morto, Louis Althusser. Uno dei più grandi filosofi marxisti del secolo breve, uno di quelli che hanno dovuto vedere, e patire nella carne, il tramonto di un grande sogno. Sei morto pazzo, graziato parzialmente da una supposta infermità mentale attribuita a un delitto tra i più orribili che una persona possa commettere. Un femminicidio brutale, a mani nude, che hai raccontato nelle tua toccante e sconcertante autobiografia postuma L’avvenire dura a lungo (Guanda, 1992). L’omicidio della persona che si ama, l’omicidio di chi non possiamo accettare di perdere. Se non è follia questa… Hai ucciso una grande donna, e lo sapevi. Una donna che non meriterebbe di essere ricordata sempre e solo all’ombra del tuo nome e del tuo crimine, una donna sopravvissuta alla resistenza che ha dovuto soccombere alla violenza del tuo amore malato. Sono anche i quarant’anni dalla sua scomparsa, ed è giusto, prima di tutto, ricordare lei: onore alla memoria di Hélène Rytmann-Legotien.
Quello che cercavo era la prova, la contro-prova, della mia non-esistenza. La prova che ero già bello che morto a ogni speranza di vita e salvezza. Ma la mia autodistruzione doveva passare simbolicamente per la distruzione degli altri, compresa quella della donna che amavo più di ogni altra cosa.
(Althusser, L’avvenire dura a lungo)
Un comunista, un marxista, un filosofo sempre pronto a mettere in dubbio i propri presupposti. Sei diventato da un giorno all’altro un “maledetto”.
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L'aula vuota e i suoi fantasmi*
di Mariangela Caprara
Inquadrare l’ultimo libro di Ernesto Galli della Loggia come ideologicamente reazionario non basta. L’aula vuota. Come l’Italia ha distrutto la sua scuola (Marsilio, 2019), è un libro ardimentoso. Non esattamente un saggio sulla scuola. Un libro molto emotivo e pesantemente autobiografico, poco documentato, sostenuto da una passionalità acre, benché non proprio distruttiva. La nostalgia del tempo che fu, dominante (quando non ottundente) nel ragionare dell’autore, circola da mesi sintetizzata nell’immagine della ‘predella’, la pedana sotto la cattedra, divenuta correlativo oggettivo dell’autorità degli insegnanti in un editoriale dello stesso Galli della Loggia (“Corriere della Sera”, 5.6.2018), che conteneva dieci suggerimenti all’allora neo-ministro Bussetti; il libro rilancia il decalogo rispondendo in modo articolato alle critiche, anche violentissime, piovute sull’editoriale. Ma c’è dell’altro. Anche qui, come nel suo Credere, tradire, vivere (Il Mulino, 2016), l’autore fa i conti con una gioventù infuocata e ‘marxisteggiante’ atterrata in una adultità acquiescente, responsabile e complice della paralisi attuale del Paese. In una prospettiva personalissima, l’analisi è intrecciata a un’autoaccusa che travolge un’intera generazione di intellettuali cosiddetti ‘di sinistra’. L’autodenuncia riguarda comportamenti omertosi e complici: “Chi, per esempio, lavorava all’università (è stato il mio caso) vedeva, sì, giungere ai propri corsi in sempre maggior numero ragazzi e ragazze privi dei più elementari punti di riferimento, incapaci di ripetere ragionamenti anche semplici in modo coerente e comprensibile, da un certo momento in poi addirittura non più in grado nemmeno di usare la punteggiatura […]. Ma – io e molti altri – abbiamo mantenuto il silenzio” (pp. 16-17).
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Classe media salariata e crisi: linee di demarcazione
In merito ad alcune critiche
di R. F.
Il testo che segue costituisce una versione modificata e ampliata di Classi medie e parole in libertà1 – una risposta alla recensione che Dino Erba (d'ora in poi DE) ha dedicato al libro da me scritto in collaborazione con Bruno Astarian, Le ménage à trois de la lutte des classes, uscito in francese a metà dicembre 2019 per le Éditions de l'Asymétrie, e attualmente in corso di traduzione in lingua italiana2. In seguito a varie sollecitazioni, mi è parso opportuno rivenire sulla stesura iniziale di quel testo, in primo luogo per renderlo intellegibile ad una platea di lettori più ampia – visto e considerato, peraltro, che la recensione di DE è circolata unicamente fra i suoi contatti personali e non è, ad oggi, disponibile in rete. In secondo luogo, il resoconto di Le ménage à trois... dato da DE è stato poi ripreso da Michele Castaldo (d'ora in poi MC), che a sua volta ne ha tratto spunto per un testo ulteriore, intitolato Ceto medio e suo movimento in questa fase3, su cui mi è sembrato necessario spendere qualche parola in più.
Per riassumere, sia la recensione di DE che il commento di MC si basano su un «malinteso» (diciamo così) di fondo, di cui è responsabile il primo e non il secondo. Il vizio ad originem della recensione di DE, è che pretende di criticare un libro che visibilmente il suo autore non ha letto. Perché allora scagliarvisi contro? Credo banalmente che DE vi abbia subodorato una minaccia per le proprie tesi, proprio perché esponente di quella (nutrita) schiera di «rivoluzionari» che – riprendendo una formula che ricorre a più riprese in Le ménage à trois… – prendono le lucciole dell'interclassismo per le lanterne della rivoluzione comunista. Ebbene, uno degli intenti del libro era proprio quello di mettere costoro alle strette.
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Il capitalismo-colonialismo-imperialismo ha creato il caos del mondo in cui viviamo!
di Angelo Baracca
Nelle attuali emergenze globali si sta diffondendo la cognizione che la responsabilità della devastazione del mondo è dovuta al sistema di sfruttamento capitalistico, dell’uomo e della natura. Sarebbe necessario che si passasse dalla cognizione a una solida consapevolezza, fondata sull’effettiva conoscenza dei crimini del capitalismo, dei quali soprattutto i giovani non penso siano a conoscenza (dubito molto che a scuola li apprendano!).
Cerco qui di richiamare quelli che mi sembrano principali o significativi, ovviamente senza pretesa di fare un “corso di storia”, che esulerebbe dalle mie conoscenze e capacità. Nell’era dei messaggi telegrafici via WhatsApp o Twitter questa lettura potrebbe risultare ostica, ma dobbiamo contrastare questa tendenza anche concretamente, proponendo qualche materiale più impegnativo.
Le radici violente del capitalismo
Il dominio dell’Europa nel mondo è stato imposto storicamente esercitando una violenza estrema e disumana sugli altri popoli, spesso sterminandoli, e cercando di sradicare le loro fedi e il corpo delle loro conoscenze. Nella seconda metà del secolo XVI e nel secolo XVII fu imposta la supremazia assoluta dell’aristocrazia europea (maschile) cattolica, e la sua estensione con il dominio coloniale sulle Americhe. La civiltà europea ha conquistato il mondo cercando di imporre con violenza inaudita i modi di pensare, agire, vivere al resto dei popoli del mondo, cercando di eliminare fisicamente intere popolazioni (genocidio), e di sradicare e cancellare l’identità culturale, le conoscenze, le credenze (epistemocidio) diverse dalle proprie.
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L’amaro ricatto delle pensioni: flessibilità in cambio di tagli
di coniarerivolta
Il 27 gennaio si è tenuto un incontro istituzionale tra sindacati, governo e INPS, primo di una serie di appuntamenti – già calendarizzati a febbraio e marzo – finalizzati ad elaborare una nuova riforma delle pensioni. Ad oggi, al netto di casi particolari come “Opzione donna”, le pensioni di inabilità e la residuale pensione di anzianità (riservata a coloro che, al 31 dicembre 2011, potevano far valere determinati requisiti anagrafici e contributivi), sono previste tre modalità di pensionamento per la maggior parte dei lavoratori dipendenti: quota 100, la pensione di vecchiaia e la cosiddetta pensione anticipata.
♦ Con ‘Quota 100′, in via sperimentale fino alla fine del 2021, è possibile accedere al pensionamento con almeno 62 anni di età e 38 di contributi.
♦ Quanto alla pensione di vecchiaia, è necessario distinguere tra chi aveva già anzianità contributiva al 31 dicembre 1995 e chi ha iniziato a versare i contributi dopo tale data. Quanto ai primi, essi possono accedere alla pensione di vecchiaia se hanno almeno 67 anni di età (da adeguare agli incrementi della speranza di vita) e 20 di contributi. Quanto ai secondi, essi, oltre ai requisiti che abbiamo appena elencato, devono aver maturato un montante contributivo tale da far sì che l’importo della prima rata di pensione sia non inferiore a circa 687 euro (pari all’assegno sociale moltiplicato per 1,5). Infine, sempre per quel che riguarda i lavoratori dipendenti che hanno iniziato a versare a decorrere dal 1° gennaio 1996, è possibile andare in pensione con 70 anni di età e con almeno 5 anni di contribuzione effettiva (al netto, cioè, dei contributi figurativi, quelli non derivanti da attività lavorativa).
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Sardine, Iowa, Cina, 5stelle
di Fulvio Grimaldi
Piccoli odiatori ittici suicidati con il concorso di Benetton e Toscani, grandi odiatori "progressisti" e i loro assalti al voto in Iowa, alla Cina, ai 5stelle, alla legge uguale per tutti
USA: onta del partito dell’odio, caro agli odiatori nostrani
Trump, il più odiato dagli odiatori seriali. Nelle primarie Democratiche dello Iowa ennesima vittoria di Trump, a dispetto dei tanti ricatti accettati e subiti, sul duo Deep State-Partito Democratico delle guerre al mondo, del Russiagate sgonfiato e dell’impeachment fallito. Ora il presidente, vincitore tra i repubblicani con oltre il 90%, appare lanciato, dai successi economici e dall’occupazione mai così alta, verso il secondo mandato. Una presidenza che si spera più aderente alle promesse di distensione e multilateralismo che avevano portato alla disfatta di Hillary, la gorgone venerata dal “manifesto”.
La campagna del 2016, fu condotta dalla cosca Obama-Clinton con una pletora di metodi sporchi contro il più o meno sinistro Bernie Sanders, prima ancora che contro il pronosticato sconfitto Trump (per il quale fu inventata la grottesca balla dell’intervento russo). Con il nuovo sabotaggio di Sanders da parte del solito Comitato Nazionale Democratico, per eliminare un concorrente sgradito al sistema plutocratico e guerrafondaio, i democratici sono ricorsi a trucchi scandalosi, screditandosi davanti ai loro elettori e facendo ridere il mondo intero. Un risultato che aveva subito visto vincere Sanders (poi confermato per numero di voti) è stato oscurato per giorni di traccheggiamenti e, poi, attraverso l’imbroglio di una app fornita da un miliardario sostenitore del Partito Democratico, Reid Hoffman, stravolto a favore dell’outsider di Sistema, Pete Buttigieg, per supposta prevalenza di delegati.
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In ricordo di Sebastiano Timpanaro
Intervista a Luca Baranelli
Con la partecipazione di Fiamma Bianchi Bandinelli
Nel novembre 2000 moriva Sebastiano Timpanaro jr, uno dei massimi protagonisti del dibattito culturale e politico del dopoguerra. Filologo e latinista di fama mondiale, uomo schivo e appartato, insegnante in scuole medie e professionali e poi, per tantissimi anni, “correttore di bozze” com’egli amava definirsi, marxista e materialista, militante del Psi e poi del Psiup con simpatie per Trotsky, intellettuale attentissimo e appassionato alle vicende politiche e culturali italiane e internazionali, autore di testi sul materialismo, lo strutturalismo, la psicoanalisi, accolti dal silenzio degli specialisti eppur fondamentali, studioso massimo del Leopardi.
Per ricordarlo pubblichiamo una intervista rilasciata da Luca Baranelli per la rivista “una città” nel 2001 alla cui conversazione ha partecipato anche la rimpianta Fiamma Bianchi Bandinelli.
Luca Baranelli è stato un esponente del movimento della nuova sinistra e ha collaborato con il gruppo di Quaderni rossi. Ha fatto parte successivamente anche della direzione della rivista Quaderni piacentini diventando poi redattore a Torino delle case editrici Einaudi e Loescher.
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Tu sei stato amico di Sebastiano Timpanaro. Un aspetto che impressiona è constatare quanto egli sia stato importante per tantissimi intellettuali e militanti della sinistra e quanto poco fosse invece conosciuto. Ce ne puoi parlare?
Provo a dire perché è stato importante per me, anche se non bisognerebbe partire da sé per parlare di una persona del suo livello intellettuale, culturale e morale. In queste settimane, dopo la sua morte, ripensavo a quando l’ho conosciuto: poteva essere il ’59 o il ’60. Sapevo chi era, perché mio padre, un pittore nato nel 1895, aveva conosciuto il padre di Timpanaro, amico di tanti artisti, e conosceva il figlio.
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L’istante della rivoluzione: per Walter Benjamin
di Dario Gentili
Da qualche giorno è in libreria la riedizione di "Il tempo della storia. Le tesi Sul concetto di storia di Walter Benjamin" (Quodlibet), testo nel quale Dario Gentili ripercorre il significato fondamentale delle Tesi e lo sfondo politico e filosofico entro cui esse si stagliano. Ringraziamo l'autore e l'editore per averci gentilmente concesso di ripubblicare il IX capitolo del libro
La nona è la famosa tesi incentrata sulla figura dell’Angelus Novus; essa trae ispirazione da un acquerello di Paul Klee acquistato da Benjamin nel 1921. Sicuramente è la tesi più nota di Über den Begriff der Geschichte, citata ed evocata ovunque nel mondo negli ambiti più disparati. Effettivamente essa occupa una posizione centrale sia semplicemente come numero sia, soprattutto, per una sorta di mutamento di prospettiva che rappresenta. L’angelo della storia, infatti, è descritto in equilibrio precario tra passato e futuro e, tornando alla tesi precedente, nell’attimo stesso della decisione tra la catastrofe e la redenzione: rappresenta quel presente in cui si decide la storia, il metodo da privilegiare e la direzione, in bilico tra progresso e regresso del senso storico. Inoltre, nell’economia stessa dell’opera, la IX tesi segna, dopo che nelle tesi precedenti si è evidenziato come lo storico materialista deve considerare il passato, lo spostamento dell’attenzione sulla concezione del futuro che il materialismo storico deve far propria. Che naturalmente non si tratti di una svolta particolarmente evidente, tanto che nell’analisi delle tesi precedenti si è dovuto far spesso ricorso alla nozione di futuro trattando della redenzione del passato, deriva proprio dal rifiuto benjaminiano della concezione di una temporalità lineare, secondo cui passato e futuro occupano due estremi opposti. La IX tesi può essere considerata, piuttosto che un passaggio secondo un tracciato lineare da una prima a una seconda parte, come l’istante (Augenblick) della decisione presente in cui sono concentrati passato e futuro. Il non decidere comporta l’essere travolti dalla bufera del progresso che, trascinando l’angelo verso il futuro, distende il tempo nella scansione lineare di passato, presente e futuro. Per Benjamin, l’esser trascinati dalla bufera del progresso non è l’inesorabile necessità a cui la storia non può sottrarsi, ma la colpa a cui si condanna quella storia incapace di decidere nell’istante (Augenblick) in cui presente, passato e futuro coincidono.
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La cosa e il segno. Su linguaggio, ontologia e Destino*
Davide Grossi intervista Emanuele Severino
Abstract: In this interview we asked Professor Severino, one of the major contemporary Italian philosophers, to investigate aspects of his research regarding the relationship between ontology and philosophy of language. From his theoretical point of view we have investigated some of the central themes of the philosophical speculation suche as the nature of will, the structure of identity and the matter of what is the truth
Introduzione
Emanuele Severino (Brescia, 1929), allievo di Gustavo Bontadini, è uno dei più importanti filosofi del nostro tempo. Accademico dei Lincei, insegna all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. È autore di opere fondamentali tradotte in varie lingue. Tra di esse ricordiamo La struttura originaria (1958), Studi di filosofia della prassi 1963), Essenza del nichilismo (1972), Destino della necessità. Katà to chreòn (1980), Il giogo (1989), Oltre il linguaggio (1992), Tautótēs (1995), La gloria (2001), Oltrepassare (2007), La morte e la terra (2011), Intorno al senso del nulla (2013).
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Buongiorno Professore, Le siamo grati di averci concesso questa intervista. Per noi è un onore avere la possibilità di porgerLe alcune domande relative al rapporto tra linguaggio, ontologia e Destino.
A proposito del contenuto dei Suoi scritti Lei utilizza l’espressione “testimonianza” allo scopo di indicare ciò che non è il prodotto di una volontà o il contenuto di una coscienza. Tuttavia anche la testimonianza è una volontà. In che modo la volontà della testimonianza, pur essendo avvolta dalla fede - dalla volontà di dire e quindi dall’errare -, riesce ad indicare quell’assolutamente altro dall’errore che è il Destino? La verità non può non apparire, perché fintanto che qualcosa appare, appare la sintassi del Destino; ma il modo in cui appare il Destino alla testimonianza è diverso o no dal modo col quale esso appare alla non testimonianza?
Severino: Dunque la domanda contiene molti temi. Cominciamo a dire che il Destino della verità appare ovunque ci sia un ascolto, ovunque ci sia una presenza del mondo laddove intendendo per presenza del mondo non esclusivamente quel che si costituisce solo all’interno di quegli enti che chiamiamo “uomini” o di quell’insieme di enti che chiamiamo “prossimi”.
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Il valore nel PIL
di Michael Roberts
Alla recente conferenza ASSA 2020 si è tenuta una sessione per stabilire se il prodotto interno lordo (PIL), l'onnipresente misura della produzione nazionale, fosse adeguato come indicatore del "benessere o benessere sociale". Sono state avanzate varie proposte per tentare di misurare il benessere sociale, tra cui "dashboard"1 di indicatori economici e sociali, nonché approcci più esplicitamente legati alla teoria economica. Il Bureau of Economic Analysis (BEA) degli Stati Uniti ha avviato una discussione in ASSA per esaminare i pro e i contro di approcci alternativi.
Il prodotto interno lordo (PIL) è la classica misura principale del livello di produzione di un paese e persino della prosperità. È una misura monetaria del valore di mercato di tutti i beni e servizi finali prodotti in un determinato periodo di tempo. La misura risale agli albori dell'economia politica classica, con William Petty che sviluppò il concetto di base nel 17 ° secolo. Il concetto moderno è stato sviluppato per la prima volta da Simon Kuznets nel 1934 per misurare la produzione nazionale degli Stati Uniti.
Esistono tre modi per misurare il PIL. Il primo è l'approccio produttivo, che riassume i prodotti di ogni impresa. Il secondo è l'approccio della spesa che riassume tutti gli acquisti effettuati; il terzo è l'approccio del reddito che riassume tutti i redditi percepiti dai produttori.
Questi tre approcci diversi corrispondono sostanzialmente alle tre principali scuole di pensiero economico. L'approccio produttivo ha un'affinità con la scuola neoclassica, che considera la produzione nazionale come la somma di tutta la produzione dei micro-agenti. L'approccio della spesa è stato adottato dalla scuola keynesiana, che considera investimenti, consumi e risparmi a "livello macro" per misurare la "domanda effettiva".
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Dei movimenti di branco: sardine
di Alessandro Visalli
Alcune settimane fa, il 19 novembre, avevo provato una riflessione a caldo[1] sul fenomeno delle Sardine del quale veniva riconosciuto il carattere politico, in quanto orientato ad un nemico. Quando si sceglie di attribuire ad un movimento il carattere politico per il fatto, capitale, che individua un “nemico” giova in genere riferirsi al capitale articolo di Carl Schmitt del 1932[2]. In esso l’autore cerca una specificità del “politico” che sia distinta dall’azione come dal pensiero. Ovvero da ciò che si lascia decidere in base all’essere utile o dannoso (ovvero nel campo dell’economico), buono o cattivo (nel campo della morale), bello o brutto (dell’estetica). È una distinzione eminentemente ‘politica’, dunque, quella che non afferma la cattiveria, la bruttezza o la dannosità, ma designa gli amici (freund) e i nemici (feind). Una distinzione, meramente concettuale, che si fonda su un “criterio, [ovvero] non una definizione esaustiva o una spiegazione di contenuto”, che ha a che fare con ciò che appartiene, ciò che unisce, non necessariamente con ciò che si distingue per il grado dell’utile, bontà o bellezza. Un concetto questo che è catturato da frasi come “è un bastardo, ma è il nostro bastardo”, detto, ad esempio di un dittatore sudamericano (frase attribuita al Presidente Roosevelt e riferita a Somoza)[3].
Coglie questo punto Moreno Pasquinelli in un articolo dal titolo espressivo “Sardine: tra Kant e Schmitt”[4], su Sollevazione. Il movimento è letto come interprete di una vasta area che unisce un sentimento progressista di ispirazione globalista (anche designato come “neoliberismo progressista”[5]) e un sottostante, e sotto alcuni profili contrastante, umanitarismo di marca cattolica. Materiali eterogenei ma sedimentati, che sono coaugulati da una inimicizia. Quindi una estraneità, quella verso il plebeismo ostentato di Salvini.
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Perché il Partito Laburista ha subito questa sconfitta elettorale?
di Víctor Taibo
Le circostanze oggettive per una vittoria di Corbyn sono state presenti negli ultimi quattro anni, ma gli errori politici si pagano, ed a volte sono molto costosi
Le elezioni in Gran Bretagna hanno stabilito un’impattante vittoria di Boris Johnson e del Partito Conservatore. Con 13.966.565 voti, il 43,6%, i Tory hanno raggiunto una comoda maggioranza assoluta di 365 deputati, ottenendo 47 nuovi scranni rispetto alle elezioni del 2017. Nonostante il fatto che l’incremento di consenso sia stato abbastanza limitato, di solo 329.881 voti (l’1,2%), la notizia del forte arretramento del Partito Laburista capeggiato da Jeremy Corbyn ha sconvolto le fila della sinistra, di ampi settori della classe operaia e della gioventù britannica, e di attivisti in tutto il mondo.
Capire cosa è successo è un compito primario per preparare le future battaglie di lotta di classe che, inevitabilmente, scoppieranno con forza sotto il mandato di questo sciovinista reazionario. E questo esige, senza dubbio, un serio esame delle cause di questa sconfitta, non solo per rispondere alle menzogne della classe dominante e dei suoi mezzi di comunicazione – infangati fino al collo in una campagna di falsificazioni e calunnie contro il candidato laburista -, ma anche per non cadere in spiegazioni superficiali che cercano di nascondere le responsabilità di Corbyn, dei dirigenti di Momentum e dei vertici sindacali in quanto accaduto. Solo traendo lezioni politiche da questi eventi, per amare che siano, si potrà rinforzare e costruire un’alternativa capace di superare l’incubo dei governi Tory.
Campagna di diffamazioni… e qualcosa in più
La chiave di queste elezioni è stata l'emorragia di voti subita da Corbyn, che rispetto alle elezioni del 2017 ne ha persi 2.582.853, scendendo dal 40% al 32,2%. I mezzi di comunicazione borghesi hanno mentito in maniera lampante, presentando questo risultato come il peggiore dal 1935, ma in realtà Corbyn ha raccolto oltre 10 milioni di voti, più di quelli che prese Blair nella sua ultima vittoria elettorale del 2005, e molto più del 29% raggiunto da Gordon Brown nel 2010.
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Tesi sull’Italia e il socialismo per il XXI secolo
a cura di Nuova Direzione
Documento finale approvato dall’Assemblea Nazionale di Nuova Direzione
1. Contro la mondializzazione
L’esposizione senza protezioni all’uso capitalistico della rivoluzione tecnologica e alla globalizzazione finanziaria sono fondamentali fattori distruttivi nel mondo contemporaneo. L’interconnessione non è un valore in sé. In assenza della capacità di mutuo riconoscimento delle identità storiche e degli ordinamenti istituzionali differenti ciò che resta è semplicemente competizione rivolta ad instaurare rapporti di dominazione. La modernità capitalistica, dissolvendo sistematicamente tutte le barriere, non produce autodeterminazione né emancipazione, ma dipendenza e servitù (talvolta coattiva, talaltra servitù ‘volontaria’, come nel caso italiano). Capitalismo è l’asservimento di ogni funzione sociale e antropologica al fine della riproduzione e accrescimento del capitale, mercificando ogni relazione, quali che siano le conseguenze.
La cosiddetta ‘finanziarizzazione dell’economia’ rende esplicito questo aspetto, in quanto indebolisce le componenti fisse, territoriali, della produzione, rendendo più facili gli spostamenti di capitale e con ciò il potere di ricatto dello stesso. I mercati finanziari (azionario, obbligazionario e monetario) appaiono come il motore centrale dell'accumulazione, indebolendo il potere contrattuale del lavoro, che viene marginalizzato. Fusioni, acquisizioni, outsourcing, riacquisti azionari, precarizzazioni, cartolarizzazioni, piramidi di controllo, elusione fiscale, sono fenomeni connessi che abbiamo sotto gli occhi costantemente. Il gigantismo dell’apparato finanziario, lungi dall'aiutare l'economia reale, sottrae risorse attraverso interessi e provvigioni, aumenta la concorrenza internazionale e alimenta la mobilità del capitale industriale.
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Cambia il mondo, dopo la Brexit
di Guido Salerno Aletta
Viviamo in un paese di ciechi, e i media ne sono i primi responsabili. Come nelle peggiori dittature fasciste, le notizie che smentiscono la “narrazione” dominante non esistono. E quando pure sono costretti a darle, devono essere sminuite e depotenziate nelle loro implicazioni destabilizzanti.Cambia il mondo, dopo la Brexit di Dante Barontini - Guido Salerno Aletta
Questo fenomeno è facile da vedere nel caso dei movimenti sociali e politici, ma è ancora più ferreo – se possibile – con i fenomeni economi, politici e internazionali che svuotano ciò che resta del “pensiero unico della globalizzazione”, incrinato definitivamente dalla crisi iniziata nel 2007-2008.
La Brexit, per esempio, è stata affrontata ridicolizzando uno dopo l’altro i leader britannici fautori dell’uscita dalla Ue. Compito facile, in effetti, con gente come Farage e Boris Johnson, un po’ meno con Theresa May; ma comunque molto al di sotto della semplice necessità di capire le implicazioni della Brexit.
Il solo fatto che dopo 70 anni un paese di prima fila rompa il patto originario, cui aveva aderito sempre con molte riserve, avrebbe dovuto far capire che un’era volge al tramonto. Si è preferito negarlo e minacciare – in forma di “previsioni autorevoli” sui giornali, molto più direttamente nelle sedi istituzionali – sfracelli economici dopo questa dolorosa “rottura”.
Ciò che sta morendo, lo diciamo da qualche anno ormai, è la fase storica della cosiddetta “globalizzazione”. Quella situazione per cui le “dinamiche di mercato” prevalgono e si impongono a tutte le altre formazioni istituzionali (Stati, governi, alleanze regionali, ecc), il che implicava anche un rovesciamento forte di dominanza della sfera economica – costitutivamente internazionale, perché globali, sulla sfera politica.
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Qualcuno era comunista
di Emanuele Bellintani
Il Pd medita di cambiare nome. Una specie di riedizione della «svolta della Bolognina» che trent'anni fa portò allo scioglimento del Pci. Ma il partito di Zingaretti non c'entra più nulla con quella storia, così come l'Emilia di Bonaccini
«Qualcuno era comunista perché c’era il grande partito comunista / Qualcuno era comunista malgrado ci fosse il grande partito comunista».
L’ultimo grido disperato di Enrico Berlinguer – simbolo di un tempo ormai passato – sostituì la lotta di classe con un moralismo di sinistra, preannunciando la fine: conosceva la corruzione del sistema politico italiano e ancora di più aveva sotto gli occhi la trasformazione del suo partito in un immenso blocco di potere. Nelle alte sfere del partito già da anni si dibatteva sull’opportunità di «andare oltre» il Pci, sempre più incalzato dall’onda lunga del Psi di Bettino Craxi. In questo quadro, l’eurocomunismo, la «diversità» italiana e l’allontanamento dai Paesi dell’est erano tutte formule retoriche per conservare capre, cavoli e consenso.
Al primo colpo di piccone sul Muro di Berlino, l’Unità diretta da Massimo D’Alema era già pronta a titolare in favore della libertà e del «giorno più bello per l’Europa». Il 12 novembre il segretario del Pci Achille Occhetto, durante la commemorazione per l’eroica battaglia partigiana di Porta Lame, dichiarò di «non voler continuare su vecchie strade, ma inventarne di nuove per unificare le forze del progresso»; tra le righe si leggevano nitidamente il cambio del nome, di simbolo, di teoria politica, l’avvicinamento al Psi di Craxi. Nove milioni e seicentomila elettori, e un milione e quattrocentomila iscritti al partito vennero traumatizzati dall’annuncio del «Papa rosso» che dichiarava finita la religione in cui avevano creduto per decenni e rivelava la riorganizzazione della «chiesa».
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