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Vladimir Lenin, “Tesi sulle questioni nazionali e coloniali”
di Alessandro Visalli
Il secondo Congresso della III Internazionale, che si svolge dal 19 luglio al 7 agosto 1920, tra Pietrogrado e Mosca, affronta al punto 8 la questione coloniale, che nel seguito delle vicende del comunismo internazionale si rivela decisiva.
Nel primo abbozzo delle tesi, Lenin scrive un breve ed intenso testo[1], che viene studiato da un giovane ed entusiasta militante vietnamita, Nguyen ai Quoc (ovvero Ngiuen il patriota, poi noto come “portatore di luce”, Ho Chi Minh). Come racconta nel 1960, “le tesi di Lenin destarono in me grande commozione, un grande entusiasmo, una grande fede, e mi aiutavano a vedere chiaramente i problemi”. Il punto cui giunge è che “solo il socialismo, solo il comunismo può liberare dalla schiavitù sia i popoli oppressi che i lavoratori di tutto il mondo. Compresi come il vero patriottismo e l’internazionalismo proletario siano inestricabilmente legati tra di loro”[2].
La bozza di Lenin si compone di dodici tesi:
1- “Una posa astratta o formale del problema dell'uguaglianza in generale e dell'uguaglianza nazionale in particolare è nella natura stessa della democrazia borghese. Sotto la maschera dell'uguaglianza dell'individuo in generale, la democrazia borghese proclama l'uguaglianza formale o legale del proprietario e del proletario, dello sfruttatore e degli sfruttati, ingannando così gravemente le classi oppresse. Sul presupposto che tutti gli uomini sono assolutamente uguali, la borghesia sta trasformando l'idea di uguaglianza, che è essa stessa un riflesso delle relazioni nella produzione di merci, in un'arma nella sua lotta contro l'abolizione delle classi. Il vero significato della domanda di uguaglianza consiste nel fatto che è una richiesta di abolizione delle classi”.
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Cina. La crisi del Coronavirus: un nuovo capitolo della “guerra dei dazi”
di Francesco Spataro
La notizia per cui un gruppo di ricercatori (soprattutto donne) dell’ospedale romano Spallanzani ha isolato il virus dovrebbe aprire un periodo di minore follia collettiva, consapevolmente o no “pompato” dai media occidentali.
In attesa che ciò avvenga – ma con quel che c’è scritto in questo articolo non c’è da sperarci molto – invitiamo i nostri lettori a tener presente che lo Spallanzani è un ospedale pubblico. E dunque che, invece di mollare ai privati certe perle che provvederebbero a smontare in pochissimo tempo, c’è da riflettere molto sulla forza della “nostra” sanità pubblica.
Nonostante le forbici pluriennali delle Lorenzin e dei Zaia, Formigoni, Zingaretti, Bonaccini, Toti, De Luca.
P..s. E invece lo Spallanzani ha ricevuto lo scorso anno un finanziamento pubblico di appena 3.5 milioni di euro, meno di una “minchiata” destinata ad una qualsiasi “impresa” fasulla con i fondi europei.
* * * *
“Era in quel giorno morta di peste, tra gli altri, un’intera famiglia.
Nell’ora del maggior concorso, in mezzo alle carrozze, i cadaveri di quella famiglia furono, d’ordine della Sanità,
condotti al cimitero suddetto, sur un carro, ignudi, affinché la folla
potesse vedere in essi il marchio manifesto della pestilenza.
Un grido di ribrezzo, di terrore, s’alzava per tutto dove passava il carro;
un lungo mormorìo regnava dove era passato; un altro mormorìo lo precorreva.
La peste fu più creduta: ma del resto andava acquistandosi fede da sé, ogni giorno di più;
e quella riunione medesima non dové servir poco a propagarla…”
Alessandro Manzoni, “I promessi sposi”.
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Il Piano del Secolo
di Francesco Cappello
Nel Nuovo Secolo Americano la Soluzione finale: il Piano del Secolo
Martedì scorso Trump ha annunciato un piano di pace, il Piano del Secolo, a soluzione del conflitto israelo-palestinese, redatto unilateralmente da Usa e Israele e promosso da Trump in completo accordo con Netanyahu.
Più che un piano di pace, una provocazione, tesa a legittimare lo stato di schiavitù permanente del popolo palestinese. Provocazione rimandata al mittente dalla maggioranza dei paesi della Lega araba e dall’Autorità palestinese, del tutto esclusi dalla partecipazione alla sua redazione.
Anche le Nazioni Unite hanno respinto il piano. Esso infatti ignora le più elementari norme del diritto internazionale nonché le decine di risoluzioni che l’ONU ha prodotto nel corso del tempo intorno al conflitto israelo-palestinese. Come si sa l’ONU ha, infatti, riproposto a più riprese la soluzione del conflitto, basata su due Stati – Israele e Palestina – pienamente sovrani all’interno delle frontiere riconosciute pre-1967, soluzione che Trump scavalca a piè pari con la sua soluzione a due stati che ignora i confini del 1967 e che prevede Gerusalemme sotto la piena sovranità israeliana quale capitale «indivisibile» dello stato israeliano, esito peraltro prevedibile da quando Trump ha recentemente deciso di trasferirvi la propria ambasciata.
Netanyahu ha significativamente dichiarato a commento del piano che fin quando lui sarà al potere “i palestinesi non avranno mai uno stato“.
In sostanza al popolo palestinese vengono ora ufficialmente negati autodeterminazione e sovranità sul proprio territorio. La Convenzione di Montevideo, definita sin dal 1933, stabiliva, infatti, che gli stati sono unità sovrane con confini definiti, costituite da una popolazione e un proprio governo; la sovranità sul proprio territorio è, perciò, espressa dal popolo insieme alla possibilità di stipulare accordi in piena autonomia con altri stati.
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Quello che Marx non ha visto
Paola Rudan intervista Silvia Federici
La versione abbreviata di questa intervista è stata pubblicata su «Il Manifesto» del 30 gennaio 2020
In occasione dell’uscita di Genere e Capitale. Per una rilettura femminista di Marx (Roma, DeriveApprodi), abbiamo raggiunto l’autrice Silvia Federici per un’intervista. Risalta il rapporto conflittuale di Federici con il pensiero di Marx, che considera tanto fondamentale per la critica del capitalismo quanto insufficiente a coglierne il carattere distruttivo. Centrale è per lei la necessità di fare i conti con la complessità delle lotte che contestano il dominio del capitale e di cui le donne – indigene, migranti, proletarie – sono oggi protagoniste in ogni parte del mondo.
* * * *
Ti chiederei in primo luogo di dirci che cosa motiva questo ripensamento di Marx, che in realtà è stato evidentemente centrale sin dai tuoi contributi alla lotta per il salario contro il lavoro domestico ma che oggi mi sembra essere più aspro e polemico di quanto non sia stato allora.
Credo di capire perché si presenta come un rapporto più aspro e penso che ci siano due motivazioni. Una, più immediata, è relativa alla necessità di una critica più intensa anche in risposta all’ondata di celebrazioni che si sono fatte – ho partecipato a molte conferenze, a molti dibattiti – in occasione dell’anniversario della pubblicazione del Capitale e poi della nascita di Marx. C’era il bisogno celebrare, ma anche di domandarsi in che modo fosse necessario andare oltre. Ma la seconda motivazione è più profonda: mentre negli anni Settanta la critica si concentrava soprattutto sul fatto che Marx non ha visto tutta l’area della riproduzione e quindi il lavoro delle donne, e anche se questa tematica rimane, ho compreso negli anni ‒ o comunque argomentato ‒ che questa sottovalutazione del processo della riproduzione è collegata anche a un limite più profondo del pensiero di Marx con cui ci si deve confrontare.
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Previdenza complementare e pensioni da fame
Guardare il dito e ignorare la luna
di coniarerivolta
Siamo nel bel mezzo di un rinnovato dibattito sulle pensioni. Complice l’imminente fine della “sperimentazione” di quota 100 (che, ricordiamo, era prevista per il triennio 2019-2021) e del manifestarsi del cosiddetto “scalone”, si torna a parlare di come riformare il sistema pensionistico. Nelle settimane scorse, sulle pagine de “Il Foglio” si è sviluppato un dibattito circa la previdenza complementare. La discussione trae origine da due recenti proposte: da un lato, quella avanzata dal presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, di istituire un fondo pensione complementare gestito dall’Inps, volontario e a capitalizzazione; dall’altro, quella rilanciata da Massimo Mucchetti, giornalista ed ex senatore del PD, di istituire un fondo pensione complementare pubblico, sempre a contribuzione volontaria e gestito dall’Inps, ma a ripartizione.
Come si vedrà, nessuna di queste proposte è rivoluzionaria. I problemi del sistema pensionistico italiano, che difficilmente possono essere risolti con forme di previdenza complementare, sono ben più profondi e ben diversi da quelli normalmente indicati dai “tecnici”, che suggeriscono riforme sempre più draconiane. Senza politiche finalizzate alla piena occupazione e ad un aumento significativo dei salari sul mercato del lavoro, il problema del nostro sistema pensionistico è destinato ad acuirsi di fronte al progressivo invecchiamento demografico. Il dibattito menzionato, tuttavia, è interessante perché ci permette di evidenziare gli interessi che si muovono intorno alla ghiotta torta del risparmio dei lavoratori. Ma andiamo, come al solito, con ordine.
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Complesso militare industriale, ambizioni europee, crisi della Nato
di Redazione Contropiano
Sintesi di alcune delle relazioni e contributi al convegno di Napoli sul complesso militare industriale europeo
La complessa costruzione del complesso militare industriale europeo (Walter Lorenzi)
(…) Riteniamo che tutti questi stadi di sviluppo siano stati raggiunti da tempo dal capitalismo europeo, ovviamente in forme asimmetriche, riproducendo a livello continentale centri e periferie in funzione della massimizzazione dei profitti dei cosiddetti “campioni” europei.
Ad esso manca, per essere valorizzato al massimo nel conflitto con le altre potenze, un complesso militare/industriale adeguato al livello di sviluppo delle proprie forze produttive e finanziarie.
Da tempo, la Commissione Europea (CE) sottolinea le inefficienze e la frammentazione del settore militare. Il confronto con gli stati uniti salta agli occhi. L’Europa conta 178 sistemi di armamenti (rispetto a 30 negli USA), 17 tipi di carri armati (uno statunitense), 29 tipi di fregate e di cacciatorpediniere (4 USA), e 20 tipi di caccia (rispetto ai sei delle forze armate americane). Gli investimenti nella difesa dei paesi europei rappresentano l’1,34% del prodotto interno lordo, mentre gli usa arrivano al 3,2% del PIL.
Vediamo allora come la UE sta cercando di risolvere questo gap, per rispondere ad un’esigenza non rinviabile, alla luce dell’aumento esponenziale dei fronti di guerra ai propri confini e a livello planetario.
Il 13 giugno 2018 la CE ha presentato le sue proposte finanziarie nel campo della difesa e della sicurezza per il prossimo bilancio comunitario 2021-2027. Il nuovo fondo europeo per la difesa (EDF), avrà una dotazione settennale di 13 miliardi di euro, che significa un considerevole aumento di spesa rispetto 2,8 miliardi del precedente. Il fondo riserverà 4,1 miliardi per finanziare progetti di ricerca. Altri 8,9 miliardi andranno a co-finanziare il costo di prototipi, a cui si aggiungono circa 6,5 miliardi per adeguare le infrastrutture europee al transito di assetti militari (military mobility).
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Storia e libertà
di Salvatore Bravo
Ripensare la storia con Gramsci ed a partire da Gramsci (Ales, 22 gennaio1891 – Roma, 27 aprile1937) è un atto di libertà e resistenza, poiché Gramsci vive la storia come il luogo ed il tempo nel quale l’essere umano si umanizza mediante la prassi e la trasformazione comunitaria delle condizioni storiche date. Gramsci resta fedele al suo destino, alla sua formazione hegelo-marxiana per cui la storia non è fatalmente iscritta secondo leggi scientifiche, ma in essa opera il possibile storico, ovvero gli esseri umani possono cambiare la storia nelle circostanze e nelle potenzialità del periodo storico vissuto. La responsabilità storica implica la consapevolezza che l’azione storica necessita della partecipazione e della passione durevoli, in quanto le variabili storiche, le opposizioni, le resistenze reazionarie possono riemergere in qualsiasi momento all’interno del moto rivoluzionario ed all’esterno. La storia umanizza, poiché il soggetto della storia, l’umanità, impara nell’organizzazione di partito ed ideologica a mediare le circostanze con il progetto ideologico. Non vi sono leggi o divinità che presuppongono i fini della storia, ma sono gli esseri umani con la lucida analisi partecipata ed organizzata ad essere il moto della storia. Contro l’utopia Gramsci propone ed oppone la responsabilità dei sottomessi, dei sudditi, che si vorrebbe tali per destino e per sempre. Si è sudditi anche nell’utopia liberatrice che ingabbia la storia in schemi prestabiliti, in quanto si sostituisce al feticismo delle merci il feticismo dei fini. La libertà emancipatrice è nell’atto di porre la storia, nella decisione collettiva capace di dinamizzare le potenzialità e le contraddizioni storiche per mettersi in cammino verso fini stabiliti dalla collettività all’interno di una lettura condivisa del presente e con la chiarezza del modello socio-economico verso cui dirigersi1:
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Craxi, il capitalismo italiano e l’elitarismo laico
di Italo Nobile
Bettino Craxi era figlio di un antifascista militante, ma, per i pericoli che avrebbe potuto correre proprio per questo, da piccolo fu affidato ad un collegio cattolico ed anche successivamente, per altre ragioni, entrò in un collegio privato e fu ad un passo dall’intraprendere il percorso sacerdotale[1]. Questa dimensione claustrale e religiosa, motivata però dagli ideali della lotta antifascista, segnano già l’ambiguità di una storia politica che parlava di grandi ideali liberal-socialisti ma si consumava nel chiuso dei meccanismi delle vicende partitiche che alla fine avrebbero contribuito a stritolarlo.
Craxi fu infatti uomo di partito, sia pur capace di slanci garibaldini (Garibaldi fu almeno a parole il suo eroe[2]) soprattutto in politica estera (in Cile e a Sigonella), e crebbe come giovane uomo di partito allo stesso modo di suoi autorevoli colleghi (Enrico Berlinguer ed Aldo Moro in primis): vicepresidente nazionale dell’Unuri (Unione Nazionale Universitaria Rappresentativa Italiana), membro del Comitato Provinciale del Psi, dirigente della federazione giovanile socialista, consigliere comunale a Sant’Angelo Lodigiano, membro del Comitato Centrale del Psi, membro del Consiglio nazionale dell’Unione Goliardica Italiana, responsabile di organizzazione del Psi a Sesto San Giovanni, Consigliere comunale a Milano, Assessore all’Economato, Segretario provinciale milanese del Psi, assessore alla Beneficenza e Assistenza, Segretario Provinciale del Psu milanese, Deputato, Vicesegretario nazionale del Psi, rappresentante del Psi presso l’Internazionale socialista, Segretario del Psi, Europarlamentare, Presidente del Consiglio, Vicepresidente dell’Internazionale socialista. Insomma non fu sacerdote, ma divenne una sorta di cardinale laico purnon riuscendo a diventare Papa, anche se fu quasi schiaffeggiato come Bonifacio VIII da una sorta di tumulto popolare all’uscita dell’Hotel Raphael il 30 Aprile 1993[3], in piena Tangentopoli.
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Neoliberismo progressista e populismo reazionario… fra la via Emilia e il West
di Militant
I risultati delle recenti elezioni regionali, soprattutto quelle emiliane, ci consegnano alcune indicazioni su cui vale la pena tornare a riflettere provando ad andare oltre il miope sospiro di sollievo di una “sinistra” talmente disastrata che, di fronte alla prospettiva della “brace”, arriva a salutare con malcelata gioia perfino il possibile ritorno della “padella”. Iniziamo però con l’analizzare chi ha vinto e chi ha perso, almeno dal nostro punto di vista.
Anche se la stampa si è comprensibilmente concentrata sulla débâcle di Matteo Salvini, chi esce davvero sconfitto da questa tornata elettorale è però il Movimento 5 Stelle, che ha ormai perso, probabilmente in maniera definitiva ed irrecuperabile, ogni sua residua ragion d’essere politica e sociale. È sempre rischioso provare ad essere categorici quando si parla di politique politicienne, soprattutto in un paese in cui il trasformismo è quasi un tratto antropologico, anche perché si è trattato comunque di elezioni amministrative che hanno coinvolto solo un’esigua parte del corpo elettorale. Eppure la sensazione è che il movimento fondato da Grillo sia ormai costretto all’angolo, un po’ per l’oggettiva impossibilità di dare seguito, anche solo in parte, alle aspettative che aveva suscitato, un po’ per la serie infinita di harakiri politici inanellata dal suo gruppo dirigente. Si trova insomma in quella condizione che i politologi definiscono lose-lose, destinato cioè a perdere in ogni caso, qualsiasi cosa faccia, sia che decida di entrare stabilmente nel campo del centrosinistra sia che decida di andare avanti da solo. I grillini sono di fatto passati, nel giro di un’estate, dall’essere una forza “antisistema”, o almeno percepita come tale, al rappresentare una forza della stabilizzazione euroliberista ed ora pagano inevitabilmente pegno. I dati elettorali, da questo punto di vista, sono davvero inclementi.
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Storia italiana dall’Unità a oggi
di Giorgio Riolo
Splendori e miserie della realtà italiana. A partire dal libro di Massimo L. Salvadori sulla storia italiana dall’Unità a oggi
È questa un’opera di sintesi per un argomento molto importante. Il bagaglio culturale minimo di un cittadino-una cittadina consapevole e attiva nella vita quotidiana richiede un minimo di coscienza storica e un minimo di conoscenza del corso storico. Questo in generale per la storia globale-mondiale. Ma ancor più per la storia del proprio paese. E ulteriormente se si vuole essere attivi nella società civile, nei movimenti, nel mondo culturale e nel complicato mondo politico italiano.
Quando un tempo in Italia, soprattutto a sinistra, esisteva la selezione dei gruppi dirigenti, compresi i quadri intermedi, si procedeva alla formazione di detti gruppi e di detti quadri. In questa formazione, un corso specifico sulla storia d’Italia dall’Unità a quel presente era tra le prime cose che si organizzavano. Con maggiore attenzione e approfondimento della storia del secondo dopoguerra, dalla Resistenza e dalla Liberazione alla realtà contemporanea.
Questo libro è pertanto un’occasione importante per rifarsi i fondamentali sulla nostra storia patria. Per capire e avere memoria, ma soprattutto per capire la dinamica contemporanea della realtà italiana.
Il valore di posizione di Salvadori è che in un solo volume ha reso una sintesi equilibrata ed esauriente di un arco storico piuttosto ampio. Con un giusto equilibrio di dati, riferimenti testuali, citazioni e interpretazioni e giudizi da parte dello storico. L’opera classica a cui sempre abbiamo fatto riferimento nel passato era la Storia dell’Italia moderna di Giorgio Candeloro, in 11 volumi presso Feltrinelli (vedi Bibliografia minima) e che copriva un arco temporale che andava dalla fine del Settecento alla fine degli anni cinquanta del Novecento.
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Oggi destra e sinistra sono divenute due facce del liberismo
di Carlo Formenti
Intervento all’Assemblea nazionale di Nuova Direzione
I. Sulle sinistre
Se oggi destra e sinistra sono divenute due facce del liberismo, non è perché le sinistre abbiano tradito. Questa evoluzione - certificata dalle ricerche di Thomas Piketty che dimostrano come oggi, negli Stati Uniti e in Europa, le sinistre raccolgano quasi esclusivamente i voti degli strati più elevati in termini di livelli di reddito e di educazione delle classi medie (i cosiddetti ceti medi riflessivi) – è piuttosto l’esito dei radicali processi di trasformazione che le società capitalistiche hanno subito nella fase della finanziarizzazione, globalizzazione e terziarizzazione dell’economia.
A incidere profondamente nell’antropologia degli strati sociali di cui stiamo parlando hanno contribuito, fra gli altri, fattori come i processi di scolarizzazione di massa degli anni Sessanta e Settanta, la terziarizzazione del lavoro, con l’emergenza di nuove professioni nei settori della cosiddetta economia della conoscenza e della net economy, l’immissione di larghe masse di forza lavoro femminile nel processo produttivo, i processi di deindustrializzazione, l’emergenza di valori e bisogni post materiali nelle popolazioni dei Paesi occidentali, lo spostamento dell’attenzione dei movimenti sociali dai temi della ridistribuzione economica ai temi del riconoscimento identitario.
Questi e altri fattori hanno fatto sì che al ricambio generazionale nelle file dei partiti e movimenti di sinistra si sia associato un radicale ricambio di principi e valori: dal solidarismo comunitario all’individualismo, dall’internazionalismo proletario al cosmopolitismo borghese, dall’egualitarismo alla meritocrazia, dalla rivendicazione del primato della politica sull’economia e del pubblico sul privato all’antistatalismo, dal realismo politico al moralismo.
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Baghdad-Roma: pacifisti antiguerra e pacifisti di guerra
Elezioni: zuppa batte pan bagnato
di Fulvio Grimaldi
Elezioni: il punto, anzi il puntino
Archiviamo subito la sempre deprimente questione “elezioni”, per poi passare alle cose serie: pace e guerra, finta la prima, vera la seconda. Sfuggiamo a fatica all’onda anomala dello tsunami orgasmatico del 98% dei media italiani, scatenato dagli esiti giudicati esaltanti da chi padroneggia l’intero sistema di fake news nazionale, simboleggiato dalle 10 pagine della “Repubblica” dedicate ai sette punti di vantaggio di Bonaccini su Borgonzoni, seguite da una pagina sola in cui si nascondono i quasi venti punti di vantaggio del centrodestra in Calabria. Ecchissenefrega, alla Calabria (e molto oltre) ci pensa la ‘ndrangheta.
L’autofagia di Grillo e Di Maio
Quanto ai Cinque Stelle, hanno raccolto quanto hanno seminato Grillo, l’equivoco chierichetto degli orchi piattaformisti di Silicon Valley, il suo ragazzo di bottega Di Maio, il premier all’orecchio della Curia e soci. Hanno raccolto il frutto marcio prodotto dall’inquinamento di Sistema, dalla perdita di alterità, terzietà, rispetto a coloro che dovevano restare l’opposto e il contrario su tutti i piani, internazionale e domestico. Dall’ambiente abbandonato agli ecocidi, ai diritti degli ultimi, penultimi e non primi, dalle servitù in politica estera, all’annacquamento del contrasto all’etnocida operazione migranti del globalista Soros, con le sanguisughe Ong attaccate al bancomat costruito dalle Ong con la pelle degli africani, siriani, afghani. Fino al mancato recupero di una sovranità indispensabile alla democrazia, al riscatto sociale, alla liberazione dal cappio degli eurotiranni. Sulle loro spoglie mortali, ora si erge luminosa la figura di Vito Crimi, uno che suscita lo stesso entusiasmo ed emana lo stesso carisma di una patatina abbandonata dopo il Camparino.
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Caso Foodora: la Cassazione difende i rider, la politica i loro padroni
di Alessandro Somma
Dopo tre anni di battaglia legale, i rider di Foodora ottengono finalmente giustizia: sono lavoratori subordinati, e non autonomi come vuole la piattaforma. Si tratta di una vittoria significativa, di un segnale importante per il capitalismo digitale e per la voracità con cui punta allo sfruttamento del lavoro. È però un segnale debole, perché al coraggio dei giudici corrisponde l’inadeguatezza della politica, se non la sua complicità con i nuovi padroni, a beneficio dei quali ha edificato e presidiato il quadro delle regole entro cui hanno potuto prosperare. Regole che si avviano a divenire il punto di riferimento per una complessiva riforma del lavoro sempre più ridotto a merce.
Il coraggio dei giudici
Nel 2017 alcuni fattorini addetti alla consegna di pasti, i cosiddetti rider, chiedono al Tribunale di Torino di riconoscere la loro condizione di lavoratori subordinati. Foodora, il loro datore di lavoro, sostiene però che i rider sono lavoratori autonomi in quanto per le consegne non utilizzano mezzi messi a disposizione dall’impresa: la bicicletta e lo smartphone sono di loro proprietà. Inoltre non hanno alcun obbligo contrattuale di rispondere alle chiamate: sono come i Pony Express degli anni Novanta[1], che la Corte di Cassazione aveva negato fossero lavoratori subordinati facendo leva proprio su questo aspetto[2].
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Siria, Iraq, Iran, Kurdistan, Libia
Il Mondo prigioniero della guerra imperialistica permanente
di Giorgio Paolucci
«Il capitalismo è il racket legittimo, organizzato dalla classe dominante»
La definizione qui sopra non è, come si potrebbe pensare, di K. Marx, ma di uno che di racket se ne intendeva: Al Capone[1]. E l’imperialismo -aggiungiamo noi – è la sua espressione più compiuta. La prova più evidente che sia effettivamente così è data dall’infuriare della guerra ormai in ogni un angolo del pianeta, tanto più se ricco di qualche materia prima o perché situato in una posizione di importanza geostrategica come è il caso del Medioriente.
Esso ha la sfortuna di essere terra di mezzo fra Oriente e Occidente e di conservare nel suo sottosuolo grandi giacimenti di petrolio. Le due condizioni dovrebbero assicurare alle popolazioni che lo abitano un elevato grado di benessere socioeconomico come a poche altre al mondo; invece vi regna una barbarie che non conosce limiti. Fatta eccezione per le ristrette fasce delle borghesie locali e dei loro lacchè, a dare un senso alla vita della maggioranza dei suoi abitanti è solo qualche avanzo di speranza di poter assistere al sorgere e al tramonto del sole anche il giorno dopo. O di fuggire in un altrove, ovunque esso sia, purché lontano da quella quotidianità in cui a farla da padrona assoluta è la fame, la violenza più cinica e feroce e la morte sempre appostata dietro ogni angolo.
È che il petrolio non è solo una fonte energetica di primaria importanza, ma anche un efficace strumento di appropriazione parassitaria di plusvalore.[2]
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L’economia cinese tra minacce Usa e questioni interne
di Vincenzo Comito
L’accordo raggiunto il 15 gennaio tra Usa e Cina a ben vedere non sembra così vantaggioso per Washington, soprattutto rispetto alle mire iniziali di Trump. Pechino disinveste però negli Stati Uniti e ciò profila una tendenza decoupling tra le due economie e a una nuova stagione di guerra fredda economica
Sono almeno tre i fattiimportanti delle ultime settimane relativi all’economia cinese: le cifre del prodotto interno lordi per il 2019, l’accordo del 15 gennaio con gli Stati Uniti e gli sviluppi dei processi di decoupling tra Usa e Cina.
La crescita del pil nel 2019
Dunque il Pil della Cina è cresciuto del 6,1% nell’ultimo anno. Mentre i media occidentali hanno sottolineato come si tratti della cifra più bassa degli ultimi decenni e come essa appare influenzata dal conflitto Cina-Usa,i mercati hanno invece festeggiato la notizia.
Come stanno veramente le cose?
Nonostante la riduzione rispetto all’anno precedente, la crescita del Pil cinese continua ad essere la più elevata tra quella dei più grandi paesi del mondo (i mercati erano più pessimisti ex ante sulle cifre) e anzi essa risulta al primo posto nel 2019 anche se si prendono in considerazione tutti i 43 paesi economicamente più importanti del mondo (The Economist, 2020, a).
Qualche anno fa la crescita del Pil dell’India, dopo una revisione dei metodi di calcolo, era apparentemente diventata più elevata di quella cinese. Ma molti erano i dubbi suscitati già a suo tempo dalla notizia; ormai tutti sono oggi d’accordo che quelle cifre erano largamente gonfiate. La stima ufficiale per il 2019 dell’India è ora di una crescita del 4,9%, mamolti pensano che essa si collochi al disotto del 4%.
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Ichino, Boeri e il paese della cuccagna
di coniarerivolta
Da ormai un decennio viviamo i postumi di una massacrante crisi economica e finanziaria che ha lasciato strascichi incommensurabili. Il nostro paese, come l’intera periferia europea (e ormai anche le aree più ricche del continente), è investito da una crisi di portata storica: disoccupazione a due cifre, salari da fame, precarietà del lavoro, carenza di servizi pubblici e di adeguati ammortizzatori sociali. In questo scenario drammatico, tuttavia, emergono delle disparità territoriali che mostrano tutte le contraddizioni del sistema economico in cui viviamo. Nel caso dell’Italia, ad esempio, la disoccupazione al Sud si attesta al 18%, coinvolgendo circa 1 milione e mezzo di persone. Niente di comparabile a ciò che accade al Centro e al Nord dove, sebbene sostenuta, la disoccupazione si ‘ferma’ rispettivamente al 9 e al 7 percento. Stesso discorso qualora facessimo riferimento al reddito pro-capite: è infatti rilevante la forbice che esiste tra i circa 18mila euro medi della Calabria (la regione più povera) e i 38mila della Lombardia. Questo lo spaccato di un paese in cui la crisi e le successive politiche di austerità in ossequio ai vincoli europei hanno ampliato i differenziali tra individui residenti in diverse regioni, e, da Siracusa a Bolzano, fatto impennare disuguaglianza e disoccupazione.
Un paese diviso in due, quindi, che a qualcuno ha ricordato la storica divisione tra Germania Est e Ovest. Stiamo parlando di Pietro Ichino e Tito Boeri, due personaggi che hanno spesso fatto capolino tra le pagine del nostro blog, mai per prendersi complimenti.
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Intervista a Wolfgang Streeck
di Bollettino Culturale
Wolfgang Streeck, nato a Lengerich il 27 ottobre del 1946, studia sociologia all’Università Goethe di Francoforte, proseguendo i suoi studi alla Columbia University tra il 1972 e il 1974. A Francoforte studia nel contesto dell’omonima scuola marxista, fondamentale per lo sviluppo del marxismo occidentale. Dopo aver insegnato in alcune università tedesche, nel 1995 diventa direttore dell’Istituto Max Planck per lo studio delle società mentre insegna sociologia all’Università di Colonia.
Dal 2014 è direttore emerito dell’Istituto Max Planck.
Nei suoi lavori è centrale l’analisi dell’economia politica del capitalismo, usando un approccio dialettico applicato all’analisi istituzionale. Feroce critico del neoliberismo e della struttura imperialista chiamata Unione Europea, negli ultimi anni ha anche cercato di definire le modalità con cui potrebbe collassare il capitalismo.
In italiano è stato tradotto nel 2013 Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo democratico. Segnaliamo inoltre: How Will Capitalism End?: Essays on a Failing System; Re-Forming Capitalism: Institutional Change in the German Political Economy; e Politics in the Age of Austerity.
* * * *
1. Professor Streeck, come Samir Amin e Giovanni Arrighi lei parla di una crisi del capitalismo che dura dagli anni ’70. In Gekaufte Zeit. Die vertagte Krise des demokratischen Kapitalismus conduce un’analisi interessante del capitalismo dagli anni ’70 ai giorni nostri. Vorrei chiederle se la sua lettura accetta l’analisi di Arrighi, che interpreta il predominio nel capitalismo del capitale fittizio come parte finale del ciclo di accumulazione aperto dagli Stati Uniti.
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L’ascesa della destra e le responsabilità degli economisti progressisti
di Guido Ortona
Premessa
Mi pare che la situazione politica del nostro paese possa essere riassunta come segue. Il popolo è molto arrabbiato con la classe politica e in particolare con il governo: e con ragione, perché il governo non è capace di risolvere i problemi che assillano la vita quotidiana di tante persone normali. Uno dei più importanti, anche perché da esso ne derivano molti altri, è la mancata creazione di posti di lavoro. Se fossimo più vicini alla piena occupazione, infatti, ci sarebbero meno paura della possibilità di perdere il lavoro e una maggiore fiducia nella possibilità di avere a suo tempo una pensione adeguata; e i giovani smetterebbero di essere disoccupati e di emigrare in massa. E’ evidente che i motivi addotti dal governo per non implementare politiche adeguate (“fra qualche anno le cose andranno meglio”; “ce lo impone l’Europa”; “facciamo del nostro meglio, ma i soldi non ci sono”) non possono soddisfare l’opinione pubblica. Non lo potrebbero nemmeno se fossero veri, e giustamente, perché la democrazia si basa sul diritto/dovere del popolo di ritenere il governo responsabile di ciò che accade nel paese. Ma quei motivi veri non sono. Secondo un rapporto Unioncamere (l’ente che riunisce le Camere di Commercio) la disoccupazione al 2023 (quando si voterà, sempre che non si abbiano elezioni anticipate) sarà ancora superiore al 9% (oggi è intorno al 10), quindi le cose non andranno meglio (a conferma, la legge di bilancio recentemente approvata punta ad un tasso del 9.1% nel 2022, a fronte di un livello pre-crisi del 5.7%).
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Marx a cent’anni dalla Rivoluzione d’Ottobre
Un seminario del 2017 di Domenico Losurdo
di Gabriele Borghese
Il presente testo costituisce una sintesi degli argomenti affrontati nel corso delle tre giornate di seminari tenuti da Domenico Losurdo dal 4 al 6 dicembre 2017 a Napoli, presso l’Istituto italiano per gli Studi Filosofici. Durante il seminario Losurdo concentrò l’attenzione, oltre che sul bilancio storico della Rivoluzione d’Ottobre, anche su punti più prettamente teorici della filosofia marxista, tra i quali il dibattito che si è sviluppato nel Novecento riguardo alla concezione dello sviluppo delle forze produttive e alla relazione che questo sviluppo ha con la natura; e la definizione operata da Marx ed Engels del socialismo scientifico rispetto alle altre correnti utopiche del socialismo.
Le considerazioni di merito presentate nel testo seguente intendono tutte riferire il ragionamento di Losurdo, non sono giudizi o conclusioni dell’autore di questo testo.
Nella prima giornata di seminari intitolata Decrescita o sviluppo delle forze produttive, Losurdo ha trattato da un punto di vista critico la posizione di Serge Latouche, che ha sostenuto l’idea della decrescita felice (S. Latouche – 2006, Le pari de la décroissance) in contrapposizione alla teoria di Marx, che invece poneva l’enfasi proprio sullo sviluppo delle forze produttive considerandolo decisivo per la propria teoria della rivoluzione. Secondo Latouche non sarebbe sostenibile, anche dal punto di vista ecologico, una nuova crescita impetuosa del PIL. In quest’ottica non è opportuno seguire Marx che criticava il modo di produzione capitalistico perché esso blocca lo sviluppo delle forze produttive e distrugge la ricchezza sociale.
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Gramsci in translation: egemonia e rivoluzione passiva nell’Europa di oggi
di Fabio Frosini*
Materialismo Storico. Rivista semestrale di filosofia, storia e scienze umane è una pubblicazione dell'Università di Urbino con il patrocinio della Internationale Gesellschaft Hegel-Marx, n. 1 2019
1. La fine dell’egemonia
Se analizzato con categorie gramsciane, il secondo dopoguerra europeo può essere descritto come una trentennale guerra di posizione, il cui il risultato è stata l’integrazione delle organizzazioni di massa delle classi lavoratrici dentro la trama del potere pubblico da un lato, dall’altro il forte condizionamento del mercato da parte di istanze depositate nelle costituzioni, nel complesso normativo e nella serie di pratiche di patteggiamento sviluppate tra Stato, capitale e lavoro mediante una serie molto ampia di corpi intermedi, come la giustizia sociale e l’ eguaglianza, che esprimevano le rivendicazioni di quelle stesse classi lavoratrici come rappresentanti dell’intera nazione1. Questa guerra di posizione può essere vista pertanto come un compromesso, una rivoluzione passiva in termini gramsciani2, che è entrato in crisi dagli anni Settanta e che è stato abbandonato unilateralmente dalle classi dominanti negli anni Ottanta.
Le ragioni di questo abbandono sono complesse da enumerare e argomentare. Dal nostro punto di vista importa solamente notare che i presupposti della crescita economica del dopoguerra furono messi in discussione non dalla dinamica puramente interna dello sviluppo, ma dal fatto che non si riuscì a separare questa dinamica – a livello delle forze sociali organizzate e, di riflesso, a livello dei vari Stati europei – dalla prospettiva dell’accumulazione capitalistica. La crisi esplose per volontà degli Usa, che dinnanzi all’assottigliarsi dei profitti inaugurarono una politica economica di carattere neo-protezionistico, iniziando a usare il dollaro non più come fattore di stabilizzazione ma come strumento flessibile per drenare risorse e per ottenere un vantaggio competitivo3.
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Reading Capital Politically
di Harry Cleaver
[Uscito sul finire degli anni Settanta, Reading Capital Politically (1979) di Harry Cleaver propone una lettura politica dell’opera marxiana al servizio della lotta di classe. Tradotto in svariate lingue, il testo è stato diffuso in italiano nel corso degli anni Novanta dalla rivista vis-à-vis – Quaderni per l’autonomia di classe. Nonostante alcuni riferimenti al contesto politico-economico internazionale siano inevitabilmente dettati dal periodo in cui il testo è stato steso, l’analisi proposta dall’autore mantiene inalterata la sua efficacia politica ed è per tale motivo che si riproduce di seguito l’apertura del libro.
Harry Cleaver ha insegnato economia alla statunitense University of Texas di Austin, ha pubblicato numerosi articoli su riviste scientifiche e politiche sui temi dello sviluppo economico, sulle politiche economiche, sulle teorie della crisi, su Marx e sul marxismo, è stato redattore della rivista statunitense Zerowork ed ispiratore e curatore, insieme ad altri, del Texas Archive of Autonomist Marxism- ght].
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Introduzione
In questo libro vengono riesaminate le analisi sul valore condotte da Marx mediante uno studio dettagliato del Primo Capitolo del Volume I de Il Capitale. L’oggetto di questo studio si propone di trovare un’utilità politica all’analisi del valore situando i concetti astratti del Primo Capitolo all’interno dell’analisi globale fatta da Marx della lotta di classe nella società capitalista. Ci si propone di tornare a quello che si consida il proposito originario di Marx: Il Capitale è stato scritto come arma data nelle mani dei lavoratori. In quest’opera egli ha presentato una dettagliata analisi delle dinamiche fondamentali della lotta tra la classe capitalista e quella operaia1. Dalla lettura de Il Capitale come documento politico, i lavoratori potranno approfondire tanto le diverse forme con cui sono dominati dalla classe capitalista quanto le modalità con cui essi lottano contro tale dominio.
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Comportamento egoista e società socialista
di Bollettino Culturale
Un fantasma viaggia attraverso i paesi socialisti: il fantasma della modernizzazione. Dopo gli anni ottimisti dell’"uomo nuovo" dei guevaristi e il primitivismo ideologico di una rivoluzione culturale cinese che voleva sterminare incentivi, disuguaglianze e gerarchie, i leader dei diversi partiti comunisti sembrano aver imparato una sola tonadilla: il più grande problema delle economie socialiste è assenteismo, disinteresse, mancanza di dinamismo, che trovano la loro traduzione economica in bassa produttività. Non solo, oltre alla diagnosi, concordano sulla terapia: aprire le porte alla competizione.
In questo lavoro cerchiamo di rivelare la grammatica sociale di questo processo, ricordare le diverse soluzioni che la tradizione socialista ha offerto ai problemi che sono alla base ed esporre una critica delle versioni più ingenue della "rivitalizzazione" da parte del mercato, una versione assunta dalle varie "nomenclature", secondo la quale il mercato è il miglior garante del progresso tecnico e dell'allocazione efficiente in quanto fornisce informazioni precise e rapide sui bisogni delle società e stimola la ricerca di risposte.
La lunga gestazione dell'«Homo economicus»
La storia del capitalismo è lungi dall'essere un percorso di rose e fiori per coloro che vi hanno preso parte. Le condizioni ingrate della vita, lo sradicamento, l'esecuzione di compiti insignificanti per i suoi esecutori o la pavimentazione delle tradizioni culturali, sono alcune delle caratteristiche che macchiano il rovescio del cammino intatto del progresso e della libertà con cui viene spesso identificato.
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Oltre la destra e la sinistra: la necessità di una nuova direzione
di Andrea Zhok
1) Lo scenario contemporaneo
Due grandi tendenze caratterizzano la politica dell’ultimo quarto di secolo nel mondo occidentale. La prima, e più importante, è rappresentata dal trionfo del modello liberale con i connessi processi di globalizzazione; e in maniera concomitante, dalla crescita di reazioni di rigetto di tali processi (dai ‘no-global’ degli anni ’90, al ‘populismo’ e ‘sovranismo’ odierni).
La seconda tendenza, derivativa, è una crisi profonda delle categorie politiche di ‘destra’ e ‘sinistra’; tale crisi si è manifestata sia come ‘crisi d’identità’ che in cortocircuiti e ribaltamenti concettuali, dove posizioni tradizionalmente ascrivibili alla ‘sinistra’ sono state assimilate dalla ‘destra’ e viceversa.
Questi due processi vanno intesi insieme e sono parte di una medesima configurazione. La prima tendenza è quella strutturalmente portante e definisce il carattere della nostra epoca, come epoca del trionfo della ‘ragione liberale’ (e della sconfitta del suo principale competitore storico, dopo la caduta del muro di Berlino). In mancanza di avversari la ragione liberale ha accelerato le tendenze di sviluppo interne, e segnatamente i processi di movimentazione globale di merci, forza-lavoro e capitale. Quest’accelerazione ha riportato alla luce i limiti del progetto politico liberale e capitalistico, che dopo la crisi finanziaria del 2008 appaiono manifesti a chiunque non sia ideologicamente accecato.
Il rimescolamento odierno delle categorie di ‘destra’ e ‘sinistra’ è un effetto diretto dell’apogeo, e della concomitante crisi, della ragione liberale. Una chiara manifestazione ne è stato lo scivolamento negli anni ’80 e ‘90 della ‘sinistra’ occidentale (comunisti e socialisti) su posizioni liberali, facendo proprie le istanze di ciò che fino a poc’anzi era il ‘nemico’.
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Immigrazione: il sonno dell’antimperialismo genera mostri
di Militant
Il tema dell’immigrazione ha rappresentato (e rappresenterà) una delle questioni fondamentali intorno a cui si giocherà la partita della nostra internità tra i salariati e la nostra capacità di esercitare (non solo tra di essi) una qualche forma di egemonia, non fosse altro che per la funzione divisiva che tale questione ha svolto nella classe negli ultimi anni e la centralità che ha assunto nel dibattito pubblico. E il fatto di non avere uno straccio di strategia politica in merito, né una analisi condivisa delle radici del fenomeno nella sua concreta attualità certamente non ci aiuta.
Per essere più chiari, sappiamo bene che la storia dell’umanità è contrassegnata dalle continue migrazioni di esseri umani e che, anzi, queste ne sono parte costituente e imprescindibile, ma fermandoci a questa lettura, che potremmo definire quasi “etologica” dell’immigrazione, corriamo il rischio di “naturalizzare” un fenomeno che invece è sociale, e quindi “storico”, e che dunque va analizzato e compreso nello specifico contesto in cui si determina. Stiamo parlando di milioni di esseri umani, delle loro vite e delle loro storie e non di uccelli o di balene che “migrano” da nord a sud in funzione delle stagioni o dei cicli vitali. Questo dev’essere chiaro perché altrimenti si finisce per rimuovere, pur senza volerlo, il semplice fatto (si fa per dire) che nel mondo contemporaneo i principali “push factor” dei movimenti migratori (come gli “esperti” chiamano i fattori che spingono milioni di persone a spostarsi dai luoghi in cui sono nate) sono comunque riconducibili al modo di produzione capitalistico nella sua fase imperialista e alla maniera (ineguale) con cui esso disegna i rapporti sociali tra classi, popoli e stati. Una considerazione come questa dovrebbe risultare persino banale per chi annovera il barbone di Treviri tra i suoi padri putativi, ma mai come in questo caso il condizionale è d’obbligo.
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Società signorile di massa o società signorile e basta?
di Fabrizio Venafro, Salvatore Bianco
In un suo recente libro Luca Ricolfi descrive l’Italia come una “società signorile di massa” consumista, parassitaria, imbelle. Ma dietro questa interpretazione si cela il tentativo di salvare il sistema e soggettivizzare le colpe, trovando un capro espiatorio nelle vittime
Se si volesse rintracciare una forma esemplare, nei suoi tratti anche estremi, del tipo di racconto emergente intorno alla società italiana, occorrerebbe riferirsi senza esitazioni a Luca Ricolfi, sociologo, professore di Analisi dei dati all’Università di Torino, che in un recente saggio, La società signorile di massa (La nave di Teseo, 2019), corroborato da una serie di interviste, delinea un regime sociale, per l’appunto signorile e di massa, che si sarebbe instaurato da tempo in Italia: «La tesi che vorrei difendere – dichiara l’autore – è che l’Italia è un tipo nuovo, forse unico, di configurazione sociale. La chiamerò società signorile di massa, perché è l’innesto, sul suo corpo principale, che rimane capitalistico, di elementi tipici della società signorile del passato feudale e precapitalistico. Per società signorile di massa intendo una società opulenta in cui l’economia non cresce più e i cittadini che accedono al surplus senza lavoro sono più numerosi dei cittadini che lavorano».
L’enunciato è preceduto dall’espediente retorico del marziano esploratore, che consente al sociologo di imporre il suo quadro di realtà, riducendo le altre fosche narrazioni circolanti a mere fantasie o a luoghi comuni; osservando la penisola, questo viaggiatore dello spazio troverebbe tantissima «gente che non lavora, oppure lavora poco e trascorre degli splendidi fine settimana in luoghi di vacanza», famiglie con due o più case di proprietà, barche ormeggiate, ristoranti pieni, eccetera.
Che la formula adottata non sia per nulla provocatoria, ma vada presa alla lettera, è dimostrato dalla mole impressionante di dati forniti per descrivere un Paese che prospera, a suo dire, come una nuova Bengodi, dedito a consumi opulenti e sfrenati che coinvolgerebbero perlomeno tre quarti della popolazione (nel conto sono inclusi pensionati e giovani in età scolare), a fronte di una minoranza di produttori di appena il 39,9% e con un sistema scolastico compiacente che forma una generazione di giovani che «può permettersi il lusso di consumare senza lavorare».
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