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Fedeli al sogno
di Fabrizio Bondi
Che c’entra il sogno con la filosofia, verrebbe da chiedersi, imbattendosi in libreria nel volumetto di Umberto Curi intitolato Fedeli al sogno. La sostanza onirica da Omero a Derrida (Bollati Boringhieri, 2021)?
La filosofia moderna non si apre forse con l’età dei Lumi, con l’Aufklarung kantiana, che hanno spazzato via la prigionia delle menti e dei corpi, le superstizioni e l’oppressione, insomma tutti quei mostri del passato che, per il Goya dei Caprichos, sarebbero generati dal sueño della Razòn? (in spagnolo, come nel latino somnium, la parola significa sia ‘sonno’ che ‘sogno’). Gufi occhiuti, pipistrelli, demoni grotteschi verrebbero viceversa fatti fuori da un solo raggio di quella formidabile luce che tutti fa risvegliare...
Del resto anche nel più celebre dei miti di Platone lo ‘scopo del gioco’ è uscire dalla Caverna, emanciparsi da quella sorta di eterna avvolgente proiezione cinematografico-onirica nella quale i cavernicoli sono immersi. Tale risveglio è, per Platone, l’inizio del pensiero. Eppure, potrebbero già obiettare i lettori più o meno freschi di ricordi liceali (e magari i liceali stessi) non è proprio Platone quello che non riuscì a fare a meno dei mithoi, a dispetto della sua potentissima dialettica socratica, della sua ‘arma letale’ rivolta contro le credenze dei più?
I miti, dal canto loro, sembrano spesso seguire la logica del sogno, cioè ambientarsi in una realtà in cui tale logica è legge, in cui possiamo vedere un corpo umano diventare albero o animale, parlare cogli dèi ma anche essere da loro perseguitati, per ragioni al contempo cogenti e indecifrabili: un mondo insomma in cui i livelli della realtà, l’umano il divino il naturale, sono stranamente rimescolati.
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Le strozzature: cause e implicazioni macroeconomiche1
di Daniel Rees2 e Phurichai Rungcharoenkitkul3
Le strozzature nella fornitura di merci, merci intermedie e trasporto merci hanno dato luogo a prezzi volatili e ritardi nelle consegne.
• Le strozzature sono iniziate come interruzioni dell'offerta legate alla pandemia a causa della forte domanda derivante dalla ripresa economica globale. Ma sono state aggravate dai tentativi dei partecipanti alla catena di approvvigionamento di costruire buffer in reti di produzione già snelle – i cosiddetti effetti bullwhip.
• Le strozzature sono state particolarmente gravi nelle industrie a monte, ovvero quelle che forniscono input utilizzati in molti altri prodotti. Questi vincoli hanno portato a gravi ricadute internazionali attraverso le catene di valore globali.
• L'effetto inflazionistico diretto delle strozzature sarà probabilmente ridimensionato dopo l'adeguamento dei prezzi relativi. Tuttavia, se le strozzature dovessero persistere abbastanza a lungo da innescare un innalzamento della crescita salariale e delle aspettative di inflazione, potrebbero emergere pressioni inflazionistiche sostenute.
Introduzione
Mentre la ripresa globale prende piede, la domanda di materie prime chiave, input intermedi e servizi logistici ha superato l'offerta disponibile, portando ad un aumento e una volatilità dei prezzi e ritardi nelle consegne.
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Scienze sociali e gestione pandemica: un invito al dibattito
APRI QUESTA PAGINA per la lista delle adesioni o per aderire a questo invito (non è necessario essere affiliati a un’università o centro di ricerca). Per discutere, rispondere o mandare un abstract scrivi a This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.
Siamo un gruppo di scienziate/i sociali, appartenenti a diverse discipline, indipendenti o variamente inquadrati nelle università italiane o estere. Ciascuno di noi è quindi professionalmente abituato ai tempi lunghi della ricerca, alla verifica dei dati e delle fonti, alla responsabilità autoriale, al rigore argomentativo e al confronto con i colleghi. Siamo abituati anche a riconoscere i limiti, gli errori, le storture e la piattezza di narrazioni basate sull’uso opportunistico dei dati, sulla riduzione della complessità e su contrapposizioni manichee – che si tratti della versione mainstream o di narrazioni complottiste.
Proprio per la valenza critica e anti-egemonica delle nostre discipline, riteniamo che oggi chi le pratichi non possa eludere quantomeno una discussione aperta e franca sulle politiche autoritarie, discriminatorie e arbitrarie con cui il governo italiano, e non solo, sta affrontando la diffusione del Covid-19. Siamo coscienti del fatto che gran parte dei nostri colleghi e colleghe, implicitamente o esplicitamente, non abbiano considerato un problema il fatto che il governo abbia puntato esclusivamente sulla campagna vaccinale come via di uscita dalla pandemia. I vaccini anti-Covid sono utili per diminuire l’incidenza di morte e forme gravi di malattia per le persone anziane e/o con maggiori rischi; ma gran parte delle scelte politiche adottate in questi due anni hanno ignorato gli effetti sociali, politici e culturali delle misure prese in nome della salute pubblica.
L’intreccio fra pandemia e gestione della pandemia sta erodendo in profondità il mondo intorno a noi, irrigidendo la struttura delle soggettività che lo abitano e lacerando la trama relazionale fra umani, così come fra umani e non-umani, nonché i rapporti di fiducia e riconoscimento reciproco che chiamiamo “società”. Questa disgregazione avviene proprio quando l’enormità del collasso climatico richiederebbe all’umanità intera di mettere da parte divergenze, conflitti e interessi specifici, nel tentativo di evitare insieme una catastrofe ecologica. Non esprimerci a riguardo significherebbe colludere con la distruzione in corso.
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Gli altri volti della Rivoluzione: considerazioni di un antimarxista
di Sandro Moiso
Diego Gabutti, Mangia ananas, mastica fagiani. Vol.I – Dal Manifesto del partito comunista alla Rivoluzione d’Ottobre, WriteUp Books, Roma 2021, pp. 484, 28,00 euro
Lasciate oltrepassare al vostro pensiero i limiti di questo mondo, perché vada a contemplarne un altro completamente nuovo, che farò nascere in sua presenza negli spazi immaginari. (Descartes, Le Monde de M. Descartes ou le Traité de la lumière)
Per chi, come il sottoscritto, crede che il politico costituisca principalmente null’altro che uno dei tanti territori dell’immaginario, non è difficile condividere l’idea di Diego Gabutti che anche la Storia non sia altro che un aspetto, forse il più antico e meglio conservato, della narrazione letteraria e che come tale vada trattata.
I due aspetti, il politico come una delle tante espressioni dell’ immaginario e la Storia come uno dei generi letterari possibili, si intrecciano profondamente infatti nella monumentale opera in due volumi, di cui si recensisce qui il primo, dedicata alla ricostruzione dei percorsi del marxismo e delle sue rivoluzioni attraverso aforismi letterari e filosofici, recensioni di saggi e di romanzi, divertite e divertenti analisi di testi che da sempre dovrebbero costituire il “canone” marxista, che si accavallano nelle sue pagine, non concedendo al lettore un attimo di tregua (ma in compenso regalandogli numerosi motivi per sorridere oppure riflettere su “verità” date troppo spesso per scontate).
Un’opera che se, nei suoi tratti essenziali, potrà infastidire più di un lettore, da un altro lato potrebbe rivelarsi davvero necessaria e stimolante in ambienti sinistresi in cui, ancora e forse soprattutto oggi, il dibattito sul fallimento delle rivoluzioni novecentesche rifiuta troppo spesso il peso avuto nello stesso dall’autentica controrivoluzione staliniana e dagli eccessi ideologici, che ebbero però risvolti drammatici nelle scelte politiche, sociali e culturali che ne derivarono, di coloro che dissero di ispirarsi a Marx e ancor più al marxismo-leninismo (non importa qui se di stampo bolscevico o maoista). Una sinistra che, fingendo si averlo digerito e superato, così come aveva già fatto il PCI nei confronti dello stesso retaggio storico, ogni qualvolta si approccia allo stalinismo afferma che ormai qualsiasi diatriba che lo riguardi è un fatto meramente ideologico. Appartenente ad un passato ormai morto e sepolto.
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Passo d'addio
di Roberto Artoni
Abstract. Nelle scuole di danza il passo d’addio è il saggio finale che chiude il periodo di formazione dei giovani ballerini, ormai pronti a intraprendere la carriera professionale. Nel mio caso il passo d’addio ha un significato del tutto diverso: è il momento finale di una lunga esperienza, rappresentando la presa d’atto dell’itinerario culturale che è stato seguito nel corso di cinque decenni.
Quadro iniziale
Se torno indietro alla fine degli anni ’60, i riferimenti sono agevolmente sintetizzabili. Da un lato, la microeconomia con i due teoremi dell’economia del benessere e, dall’altro, la macroeconomia nella versione IS-LM, fissata nei suoi termini essenziali da Hicks e Modigliani.
Ovviamente, la sistemazione della microeconomia, per le condizioni molto stringenti che garantivano l’efficienza nella produzione e nello scambio e per la indeterminatezza distributiva, lasciava ampio spazio per ulteriori approfondimenti e articolazioni. Per quanto mi riguarda, il primo approfondimento è stato il teorema di impossibilità di Arrow. Il teorema, sulla scia di Sen, è stato da me interpretato come la dimostrazione che al di fuori di giudizi di valore (le comparazioni interpersonali di utilità) in una società articolata in gruppi sociali non è possibile, se si escludono soluzioni dittatoriali, individuare un assetto distributivo appropriato e condiviso.
La macroeconomia, come veniva allora impostata, portava a sua volta ad attribuire la responsabilità della disoccupazione alla rigidità dei salari.
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Critica e crescita della conoscenza in economia
di Emiliano Brancaccio
Prolusione tenuta per l'inaugurazione dell'anno accademico 2021-2022 dell'Università degli studi del Sannio
In questa giornata di celebrazione, di festa, saluto la nostra comunità di Unisannio. Gli studenti, in primo luogo, quindi i tecnici, gli amministrativi, i bibliotecari, i colleghi ricercatori e docenti, il Magnifico Rettore e il Pro Rettore, e poi i Rettori ospiti, il dottor Farinetti e gli esponenti delle istituzioni che sono oggi qui con noi.
1. Ho deciso di far partire questa mia prolusione una domanda perturbante che da qualche tempo aleggia nell’aria, come uno spettro che si aggira per il mondo. La domanda è: cosa può esser definito “scientifico” e cosa invece va considerato “non scientifico”? E’ in interrogativo cruciale, attualissimo, che talvolta, come sappiamo, può persino assumere i tratti tragici della questione di vita o di morte.
Cosa è scientifico, e cosa no? In effetti l’università è il luogo storicamente deputato per tentare di rispondere a questa domanda fondamentale. Fin dai tempi dell’accademia platonica, già prima dell’avvento del metodo galileiano, l’università è sempre stata l’istituzione chiamata a stabilire cosa davvero possa esser definito scientifico e cosa no. Dunque, in questo luogo deputato, in questo momento celebrativo, dovremmo provare a rispondere.
Il problema è che, come ci insegna l’epistemologia moderna, che va da Kuhn a Popper, a Lakatos, fino a Feyerabend, rispondere a questa domanda, purtroppo, è meno semplice di quanto vorremmo.
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Giacomo Gabellini, “Krisis”
di Alessandro Visalli
L’importante libro di Giacomo Gabellini[1] reca l’ambizioso sottotitolo “Genesi, formazione e sgretolamento dell’ordine economico statunitense”. L’oggetto dello studio, informatissimo, è dunque “l’ordine economico statunitense”, l’arco della sua estensione è dalla genesi allo sgretolamento. La narrazione è orientata lungo la freccia del tempo.
L’ordine economico non è chiaramente l’unica forma di ordine, né l’economico l’unico ordinatore possibile o attivo nella successione degli eventi storici. Anzi, come del resto si rileva anche dalla lettura di Gabellini, l’economico è sempre in qualche misura intrecciato e talvolta incorporato nel politico e nel sociale (e culturale). Si relaziona profondamente, quando non promana nella sua forma concreta, al sapere tecnico ed alle tecnologie dominanti (non solo direttamente produttive, anzi una delle forme di ordine emergente è connessa intimamente con tecnologie che non sono apparentemente produttive, ma egualmente hanno una dimensione ‘economica’, come quelle del ‘capitalismo della sorveglianza’[2]), e ha una storica simmetria, nella sua forma moderna, con il razionalismo e la scienza[3]. Per fare un esempio di prospettiva del tutto diversa dell’ordinatore, se pure rivolta alle correnti profonde e non agli eventi superficiali (secondo la famosa immagine di Braudel), Emmanuel Todd inquadra il senso di declino che è anche alla radice della interpretazione per cicli ripresa nel testo nel contesto di una predazione demografica in corso da quaranta anni da parte dell’occidente ricco ed anziano nei confronti dei paesi periferici. La transizione è letta con occhiali antropologici e punta la sua attenzione sulle trasformazioni che si sono accumulate al termine del trentennio ‘glorioso’[4], trasformazioni che muovono tutti gli strati più profondi della società, partendo dall’economico e dal politico per arrivare alla sua cultura ed alle strutture familiari.
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“Tecnoluddismo. Perché odi il tuo lavoro”
di Gavin Mueller
Pubblichiamo in anteprima, per gentile concessione delle amiche e amici di Nero Not, un estratto del libro di Gavin Mueller Tecnoluddismo. Perché odi il tuo lavoro, uscito il 26 gennaio, e tradotto per l’edizione italiana da Valerio Cianci. La questione luddista, il rapporto con le nuove tecnologie e l’urgenza di una nuova “ecologia del lavoro” sono temi già emersi sulla nostra rivista (qui), che riteniamo importante continuare a diffondere e divulgare. Le note sono omesse per favorire la leggibilità [Ndr]
La storia non è stata clemente con i luddisti. L’eredità della loro resistenza alle macchine è stata generalmente intesa come una forma di tecnofobia; e, per via della contemporaneità fra le loro rivolte e l’avvento della produzione di massa, sono spesso stati associati a un irrazionale terrore del progresso. I critici della tecnologia finiscono o con il disconoscere enfaticamente l’eredità luddista, o a professare simpatie fin troppo incontrollate. E se da una parte lo scrittore di tecnologia Andrew Keen, parlando della sua avversione ai social media, insiste a ribadire che «non sono un luddista», dall’altra le «confessioni di un luddista» sono diventate un genere letterario vero e proprio, al cui interno troviamo tanto educatori quanto musicisti e persino specialisti delle tecnologie dell’informazione. L’associazione tra luddismo e tecnofobia è stata essa stessa motivo di una simpatia diffusa. Nel 1984, per esempio, Thoms Pynchon domandava ironicamente se fosse «ok essere un luddista», mentre gli anni Novanta hanno assistito alla nascita del cosiddetto movimento neoluddista che, in una nebulosa coalizione contro le tecnologie allora contemporanee, accorpava critiche sociali assortite e ambientalismo radicale. Benché nel loro manifesto specificassero che non rinnegavano la tecnologia in quanto tale, la generalizzata ostilità dei neoluddisti per l’ingegneria genetica, la televisione, i computer e le «tecnologie elettromagnetiche» tradiva un debito nei confronti delle politiche anticivilizzatrici tipiche dell’anarco-primitivismo.
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Io, terrapiattista femminista
di Nicoletta Cocchi
C’è chi pensa che non siano sufficienti finora le letture femministe della pandemia, proprio ora che i corpi sono al centro di decisioni a qualsiasi livello. Certo, alcune analisi hanno mostrato come la pandemia abbia ulteriormente penalizzato la vita delle donne e aumentato le violenze in tutte le loro forme, ma anche come il covid sia per alcuni aspetti una crisi della cura. E rispetto al green pass? E sul bisogno di riappropriarsi della medicina? E sui diversi dispositivi autoritari approvati, soprattutto in Italia? Un contributo di Nicoletta Cocchi, ricercatrice e traduttrice femminista
Da due anni m’interrogo come molte altre su quello che sta accadendo alle nostre vite e alle scelte che siamo chiamate a fare sui nostri corpi cercando di darmi risposte posizionate, incarnate, alias femministe. Fin dall’inizio dell’emergenza ho cercato di non oppormi aprioristicamente alle difficili scelte dei nostri governi, ma di fronte ai tanti divieti, prescrizioni, recinzioni e gabbie fisiche e mentali che si alternavano a misure di allentamento per poi tornare con una presa sempre più totalitaria sulle nostre vite, il mio atteggiamento è cambiato. Ogni mia previsione, anche la più distopica, si verificava regolarmente.
Allora come oggi mi guardo intorno, m’informo cercando fonti attendibili, parlo e discuto con vicine/i, amiche femministe e non, dosando le parole in acrobatiche conversazioni per non infilarmi in contrapposizioni prive di soluzioni, cerco dati, prove, tento ragionamenti. Quando, non più tardi di qualche mese fa, la presunta nuova normalità sembrava essersi imposta, ho avuto la certezza che qualcosa si era irrimediabilmente rotto, e gli ultimi decreti che entreranno in vigore in questi giorni mi danno la conferma che così è. Sono tra coloro che hanno scelto di non vaccinarsi, dunque non partecipo a convegni, incontri in librerie, non frequento biblioteche e nemmeno più l’associazione di donne che ho frequentato per anni, e naturalmente non vado al ristorante e al cinema.
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Generazione COVID: la pandemia sta influenzando il cervello dei bambini?*
di Melinda Wenner Moyer
Come molti pediatri, Dani Dumitriu era in allerta per il possibile impatto dell’arrivo del coronavirus SARS-CoV-2 nei suoi reparti, ma si era sentita sollevata quando la maggior parte dei neonati del suo ospedale che erano stati esposti al COVID-19 sembravano stare bene. Conoscendo gli effetti di Zika e di altri virus, che possono causare difetti alla nascita, i medici erano attenti a questo tipo di problemi.
Tuttavia erano seguiti a ruota gli indizi di una tendenza più sottile e insidiosa. Dumitriu e il suo gruppo al NewYork-Presbyterian Morgan Stanley Children's Hospital di New York avevano a disposizione dati sullo sviluppo infantile raccolti in due anni: dalla fine del 2017, avevano analizzato la comunicazione e le capacità motorie dei bambini fino a sei mesi. Pensando che sarebbe stato interessante confrontare i risultati dei bambini nati prima e durante la pandemia, Dumitriu aveva quindi chiesto al suo collega Morgan Firestein, ricercatore post-dottorato alla Columbia University di New York, di valutare se ci fossero differenze nello sviluppo neurologico tra i due gruppi.
Pochi giorni dopo, Firestein ha chiamato Dumitriu in preda all’agitazione. "Ha detto qualcosa come: Siamo in crisi, non so che cosa fare, perché non solo siamo di fronte a un effetto della pandemia, ma è un effetto significativo", ricorda Dumitriu che rimase sveglia quasi tutta la notte a esaminare i dati. I bambini nati durante la pandemia avevano ottenuto, in media, un punteggio più basso nei test di motricità grossolana (o abilità grosso-motoria), motricità fine e capacità di comunicazione rispetto a quelli nati prima (entrambi i gruppi sono stati valutati dai loro genitori usando un questionario standard). E non importava se il loro genitore naturale era stato infettato dal virus o no; sembrava esserci qualcosa che riguardava l'ambiente stesso della pandemia. Dumitriu era sbalordita. "La sensazione era: oh, mio Dio. Stiamo parlando di centinaia di milioni di bambini."
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Note sul pessimismo climatico
di Raffaele Scolari
Prendo spunto da due testi pubblicati recentemente su climalteranti.it. Il primo è una recensione del nuovo libro di Michael Mann, La nuova guerra del clima, in cui il climatologo americano, oltre a mettere in guardia contro le nuove forme di negazionismo camuffato, pone in risalto la pericolosità di visioni “eccessivamente cupe del nostro futuro”. Il secondo articolo verte sulla COP 26 di Glasgow e sui risultati che essa potrà produrre. Anche in questo caso vi è una sorta di messa in guardia: contro “una visione semplicistica del negoziato sul clima”. Secondo questo post, la contrapposizione “successo vs. fallimento” è fuorviante, perché ignora sia la complessità delle trattative sia i risultati intermedi che, come in occasione di passate edizioni, possono essere ottenuti e che comunque, ai fini di una efficace lotta contro i cambiamenti climatici, sono molto importanti.
Qui di seguito intendo, se non proprio mettere in guardia contro queste e altre simili messe in guardia, presentare alcune riflessioni critiche al loro riguardo. Per cominciare una nota sul titolo del saggio di Mann: considero l’impiego della metafora della guerra in riferimento al riscaldamento globale come problematico e opinabile, e comunque contradditorio rispetto al dichiarato intento di denunciare i facili allarmismi e pessimismi. Data la natura dell’oggetto in questione, il clima mondiale, se di guerra si tratta, quella contro il Climate change deve o dovrà necessariamente assumer l’aspetto di una guerra totale, contro un nemico assai potente e da tempo conosciuto, e in cui nessuno potrà risparmiarsi. Sennonché il nemico non risiede dall’altra parte della frontiera o del mare, bensì è in mezzo a noi, nelle nostre distese metropolitane, nei gangli del potere politico ed economico e pure nelle nostre menti e abitudini, talché se proprio si vuol ricorrere alla metaforica bellica, meglio sarebbe parlare di “nuova guerra civile del clima”.
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Il modello cinese e lo spazio del conflitto
di Sandro Mezzadra
Una lettura importante, sotto la lente dell’attualità, del libro di Giovanni Arrighi, Adam Smith a Pechino, Mimesis, 2021. Si tratta di una nuova edizione del volume dopo la prima pubblicazione italiana, da tempo esaurita, uscita per Feltrinelli nel 2008 (la prima edizione in inglese è del 2007)
Adam Smith a Pechino, di Giovanni Arrighi (2007), è un libro ormai classico. La scomparsa del suo autore solo due anni dopo la pubblicazione mette ancora più in risalto la creatività e l’apertura delle analisi presentate in questo volume, che si muovevano certo all’interno della cornice della “teoria del sistema mondo” e del lavoro dello stesso Arrighi nei decenni precedenti, ma con elementi di significativa innovazione. È dunque meritoria l’iniziativa della casa editrice Mimesis, che propone una nuova edizione del libro, arricchita di una prefazione di Salvo Torre e di una postfazione di Andrea Fumagalli. Rileggere Adam Smith a Pechino nel tempo della pandemia, e mentre tensioni crescenti segnano i mutamenti dell’ordine e del disordine mondiale, getta nuova luce su alcune delle tesi di fondo di Arrighi. Ne proporrò naturalmente una lettura selettiva, isolando alcune questioni che mi sembrano particolarmente importanti.
Adam Smith appare qui un pensatore lontano dall’immagine abituale di apologeta di un capitalismo in pieno sviluppo. Certamente teorico di una società di mercato, Smith considera tuttavia “lo sviluppo economico come processo inserito (embedded) in uno specifico ambito geografico, sociale e istituzionale e che in tale ambito trova anche i propri limiti”. Il capitalismo, definito da Arrighi a partire dallo stretto nesso tra capitale e Stato (tra accumulazione illimitata di capitale e accumulazione illimitata di potere) assume nella prospettiva di Smith caratteri profondamente “innaturali”. E si dispiega storicamente attraverso un “ciclo delle egemonie” che, nel passaggio di testimone dalla Repubblica di Genova ai Paesi Bassi, dall’Inghilterra agli USA, ne articola e garantisce l’estensione globale. Marx e Braudel, Schumpeter e Wallerstein sono i principali riferimenti teorici di Arrighi, che propone qui in forma sintetica i lineamenti di un’analisi sviluppata altrove in modo più ampio (in particolare in Il lungo ventesimo secolo, del 1994).
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Dove non è il luogo e quando non è il momento (seconda parte)
Lenin, Luxemburg, i populisti: lotta di classe e sviluppo del capitalismo
di Gigi Roggero
Il saggio di Gigi Roggero che pubblichiamo per la prima volta in italiano, suddiviso in due parti, (qui la prima parte) è stato scritto nel 2012 per un volume curato dagli studiosi militanti della rivista polacca «Praktyka Teoretyczna». Come indicato nel sottotitolo, viene trattato il rapporto critico tra Lenin, Luxemburg e i populisti russi rispetto alla questione dello sviluppo del capitalismo. Più precisamente, da un lato viene tratteggiata in chiave genealogica la polemica di Lenin contro i populisti dell’ultimo decennio dell’Ottocento, sbiaditi eredi di una grande tradizione rivoluzionaria; dall’altro, vengono analizzate le ricchezze e i vicoli ciechi della lettura luxemburghiana dell’accumulazione del capitale. Lungi dall’essere un tema di semplice interesse storiografico, la tensione dell’intero testo è volta all’evidenziazione dell’attualità e della posta in palio politica di quel dibattito apparentemente remoto.
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2. Il mercato mondiale è ancora sempre in formazione?
Anche in questo caso, la contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione, interamente dentro al rapporto di capitale (ciò che faceva dire a Marx che «la vera barriera della produzione capitalistica è il capitale stesso»), è stata decentrata e trasformata in una dicotomia tra interno ed esterno. Dicotomia che, si badi bene, quando Luxemburg scriveva era indubbiamente radicata nella realtà, ma la cui tendenziale scomparsa – come lo scenario attuale dimostra – non avrebbe significato il crollo del capitalismo. Eppure, secondo Luxemburg, è questo il vicolo cieco di Marx, ciò che rende la sua astrazione del sistema capitalistico irrealizzabile nella sua forma pura: «Una volta raggiunto il risultato finale – che rimane tuttavia una costruzione teorica –, l’accumulazione diventa impossibile: la realizzazione e capitalizzazione del plusvalore si trasforma in un problema insolubile.
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Note di commento al documento Collettivismo … forzato? di Nico Maccentelli
di Michele Castaldo
Premetto che non conosco Nico Maccentelli, dunque la discussione verte solo su quello che scrive nel documento che qui commento. Lo faccio nel solito stile: senza lasciare nulla fra le righe perché la fase – come ho scritto più volte – è complessa e le questioni sono spinose e perciò difficili da affrontare.
Nico Maccentelli difende in modo indistinto « chi va in piazza » dalle critiche « degli euroglobalisti e “antagonisti” » circa il carattere individualistico delle proteste contro il green pass e l’obbligatorietà del vaccino. Non appartenendo a nessuna delle due categorie ideologiche, politiche e culturali menzionate, mi sono posto il problema nei seguenti termini: qual è la causa che muove le persone che sono scese in piazza e in quale prospettiva si muove un simile movimento? Dunque niente di ideologico preventivo, innanzitutto perché si è trattato, e si continuerà a trattare, di movimenti compositi, e, per chi ha un minimo di conoscenza delle dinamiche sociali della storia, quello che è composito è destinato a scomporsi e frantumarsi, dunque non a stabilizzarsi. Pertanto l’avvertenza nei confronti di Nico Maccentelli e di tante altre brave persone che si vogliono cimentare su questo terreno, è bene tenerla presente.
Chiarito che si è trattato, e si tratterà ancora, di movimenti compositi, cerchiamo di chiarire contro cosa sono scesi in piazza, il che è presto detto, cioè contro la vaccinazione obbligatoria, ma in modo particolare contro il green pass. Siamo però già a una equiparazione di due rivendicazioni differenti, una di sostanza, la vaccinazione, l’altra di forma, il modo di applicare la vaccinazione, ovvero l’obbligatorietà addirittura con l’introduzione del green pass.
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Rinnovamento industriale
di Avis de tempetes
In questi giorni qualche timido fiocco sta imbiancando le pianure, le foreste e le colline di Belgrado est. Il termometro stenta a salire sopra lo zero nella capitale serba. In questo secondo fine settimana di gennaio sono previste nuove giornate di azione contro il progetto di apertura della più grande miniera di litio d'Europa (58.000 tonnellate all'anno), lanciato dal gruppo anglo-australiano Rio Tinto. Da diversi mesi migliaia di persone partecipano a manifestazioni, ma soprattutto a blocchi stradali in tutto il paese. La devastazione ambientale programmata da questo progetto minerario nella valle di Jadar è l'innesco di una «rivolta ecologica» che a poco a poco sta minacciando la stabilità del regime autocratico. E se le massicce proteste non hanno dato luogo ad ostilità più accese in un Paese particolarmente devastato dall'inquinamento industriale, il governo serbo comincia tuttavia a ritenere più prudente sospendere temporaneamente l'arrivo del colosso minerario Rio Tinto.
All’indomani di queste giornate d’azione, e mentre un pugno di attivisti lanciavano uova contro l'ufficio informazioni di Rio Tinto a Loznica, un illustre industriale francese è intervenuto a Parigi durante una piccola cerimonia organizzata nei palazzi del Ministero dell'Economia. Quel 10 gennaio, Philippe Varin ha solennemente consegnato alle autorità il suo rapporto sulla sicurezza della fornitura all’industria di materie prime minerali. Varin vanta un nutrito palmares: ha cominciato la sua carriera di industriale nei gruppi siderurgici, per diventare in seguito direttore del gruppo PSA Peugeot Citroën di cui ha guidato la ristrutturazione industriale, e poi passare al gruppo nucleare Orano (ex-Areva), di cui ha diretto la ristrutturazione in qualità di presidente del consiglio di amministrazione; sua la responsabilità della chiusura del cantiere del reattore nucleare EPR in Finlandia.
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Filosofia e politica
Marco Mazzeo intervista Paolo Virno
Dal tuo primo libro, Convenzione e materialismo, che risale al 1986 (riedito poi da DeriveApprodi nella nuova edizione del 2011), e anche dai tuoi primi scritti più politici negli anni Settanta, fino a quest’ultimi libri, Dell’impotenza (Bollati Boringhieri 2021) e ora Negli anni del nostro scontento (pubblicato in questi giorni da DeriveApprodi) è stata percorsa una lunga strada. Potresti ricordarne le tappe principali? (cosa che equivale a raccontare la storia della tua vita in un modo o nell’altro).
Ho cominciato a occuparmi sistematicamente di filosofia in seguito a una sconfitta politica. Parlo della sconfitta dei movimenti rivoluzionari che gremirono la sfera pubblica in Occidente tra la morte di John Kennedy e quella di John Lennon, dunque dall’inizio degli anni Sessanta alla fine del decennio successivo. Quei movimenti, che provarono orrore per il socialismo reale e si augurarono fin dal principio lo scioglimento del Pcus, avevano utilizzato Marx al di fuori e contro la tradizione marxista, mettendolo in contatto diretto con le lotte di fabbrica e la vita quotidiana delle società pienamente sviluppate. Un Marx letto insieme a Nietzsche e a Heidegger, posto a confronto con Weber e Keynes. Tuttavia, nel momento della sconfitta, quando l’intero panorama sociale fu sconvolto dall’iniziativa capitalistica, ci sembrò naturale saggiare i limiti, e mettere a nudo le omissioni, di questo nostro Marx. Ecco, per me il vagabondaggio filosofico è iniziato chiedendomi: quale teoria della conoscenza, quale etica, quale filosofia del linguaggio si possono desumere da Marx, senza che però egli le abbia mai sviluppate?
Il mio primo libro, Convenzione e materialismo, scritto tra il 1980 e il 1985, affronta con evidente povertà di mezzi questioni filosofiche niente affatto stagionali: il rapporto tra intelletto astratto e sensi, la genesi del singolare dall’impersonale, il radicamento dell’istanza etica nel funzionamento del linguaggio.
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Logiche Relazioni
Lucia Olivieri e Osvaldo Ottaviani dialogano con Massimo Mugnai

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In un contributo di qualche anno fa1 hai parlato di Leibniz come di un “logico del Novecento”. È soltanto un modo paradossale di dire che la riscoperta della logica lei- bniziana data dai lavori di Louis Couturat ai primi del Novecento o c’è qualcosa di più, nel senso che nei suoi scritti di logica Leibniz ha effettivamente anticipato temi e soluzioni della logica moderna (da Boole a Gödel)?
“Logico del Novecento” è una caratterizzazione che intende cogliere entrambi gli aspetti che avete menzionato. È un dato di fatto che soltanto col libro di Couturat (La logique de Leibniz, 1901) e con la pubblicazione degli Opuscules et fragments inédits (1903), sempre a cura di Couturat, è sorto l’interesse per la logica di Leibniz.
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Un concerto di cigni starnazzanti (e neri)
di Franco Bifo Berardi
Crisi russo-ucraina, declino USA, depressione, eventi impensabili: a che serve l’ottimismo quando la prospettiva è il caos?
Stento a crederci. Forse c’è qualcosa che non funziona più bene nella mia testa: quel che accade non riesco a spiegarmelo.
In Italia non se ne parla neanche, siamo impegnati a eleggere l’uomo della Goldmann Sachs oppure un altro chissenefrega. Ma quello che sta accadendo alla frontiera orientale del continente è la situazione più prossima alla guerra atomica che io abbia visto in vita mia. Avevo undici anni ai tempi della crisi dei missili per Cuba, e ricordo che non si parlava d’altro. Oggi nessuno parla più con nessuno, zitti e Mosca. A proposito, ricapitoliamo i fatti.
Quando Biden parlò alla nazione in agosto, quando disse “war in Afghanistan is over” mentre i suoi collaboratori afghani si accalcavano all’aeroporto, rincorrevano gli aerei in partenza, si attaccavano alle ali e cadevano giù da mille metri di altezza, pensai: quest’uomo è finito, ma il problema è che gli Stati Uniti d’America saranno ora costretti a fare i conti con se stessi.
Dopo due catastrofiche guerre concluse in modo ignominioso, con l’Iraq trasformato in terreno di guerra perenne, consegnato in parte all’arcinemico iraniano, e l’Afghanistan restituito ai talebani, pensavo che il ceto dirigente americano avrebbe preso per lo meno una pausa di riflessione.
Per qualche ragione che fatico a capire, Biden ha invece pensato che, perdute due guerre regionali contro nemici militarmente primitivi, il solo modo per ristabilire l’onore dell’America e per recuperare l’appoggio del suo popolo che si prepara a nuove elezioni, era lanciare una guerra contro un regime granitico nel suo nazionalismo, e dotato di un arsenale atomico che può annientare il genere umano.
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Perché così tanti medici diventarono nazisti?
Nella risposta, e nelle sue conseguenze, un bioeticista può trovare delle lezioni di morale per i medici di oggi
di Ashley K. Fernandes*
Un articolo segnalatomi tempo fa (mi scuso, ma non ricordo più da chi) e che può essere molto utile da leggere oggi nel Giorno della Memoria, per tenere a mente quello che è stato l'importante ruolo dei medici e degli scienziati nelle atrocità naziste. Quando la scienza perde il suo legame con l'etica e la filosofia morale, non ha più una bussola che la guida e può facilmente invertire quello che sarebbe il suo scopo originario, a favore della persona umana
Questo saggio è scritto dal punto di vista di un medico, un docente della materia e un bioeticista che trova nel deplorevole coinvolgimento dei medici nella Shoah un'opportunità per evidenziare delle lezioni morali sempre valide per la professione medica. Medicina e diritto sono intimamente legati tra loro e, a partire dalla professionalizzazione della medicina negli Stati Uniti e in Europa nella seconda metà dell'Ottocento, lo sono ancora di più. Una disciplina che collega entrambi è la filosofia morale; poiché tanto la legge quanto la medicina implicano la ragione e la volontà orientate al bene della persona. Quindi, la storia dell'Olocausto è una tragedia che si è svolta a causa della corruzione della filosofia morale prima, della medicina e del diritto in secondo luogo.
Perché questo è importante? Il motivo è che c'è chi si oppone all'applicazione ai giorni nostri delle lezioni apprese dagli orrori della medicina nazista. Alcuni dicono che la “medicina nazista” non fosse vera medicina o scienza: non possiamo nemmeno chiamare “medicina” ciò che facevano i nazisti, poiché la medicina contiene in sé un presupposto di rigore e benevolenza. Questa è un'obiezione che sento da scienziati medici, che indicano le garanzie rappresentate dal Codice di Norimberga (1947), dalla Dichiarazione di Helsinki (1964) e dal Rapporto Belmont (1978) come prova della natura radicalmente diversa della scienza odierna. Ma questo argomento è circolare.
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Quello che potremmo diventare
di Claudia Cipriani
Sono in tanti a considerare il green pass come la sintesi di tutta la strategia che il governo ha adottato dall’inizio della pandemia: addossare le responsabilità ai cittadini. Per questo c’è chi si chiede come mai molti a sinistra lo hanno giustificato senza avere neanche la curiosità di osservare da vicino un movimento complesso che si oppone al governo Draghi. «Bisognerebbe guardare positivamente al fatto che persone che non si sono mai occupate di politica sentono oggi il bisogno di prendere posizione – scrive Claudia Cipriani, documentarista – Ammetto che io stessa spesso in quelle piazze mi ci sono ritrovata un po’ a disagio perché accanto a chi teneva un cartello con la scritta “Ora e sempre resistenza”, c’era magari quello con l’icona di un santo. Per la prima volta però ho vissuto cortei eterogenei, dove persone di provenienza culturale e politica diversa si sono trovate insieme. È una cosa che non avevo mai visto e mi ha fatto riflettere…». Per chi protesta il re è nudo. Per dirla con Foucault, oggi l’obiettivo non è scoprire che cosa siamo ma rifiutare quello che siamo e «immaginare e costruire ciò che potremmo diventare».
* * * *
In questi ultimi due anni mi tormenta una domanda che non ho mai fatto a mia nonna. Lei fu un’adolescente durante gli anni del fascismo, della guerra, e mi raccontò di come fosse spesso triste, cupa, di come tutto ciò che le accadeva intorno le sembrasse assurdo e ingiusto. “Ma gli altri, quelli che invece andavano avanti come sempre, come facevano?”. Ecco, è questa la domanda che vorrei farle, adesso che purtroppo non c’è più. So che i paragoni con quel periodo fanno arrabbiare molti, ma d’altronde viviamo da più di due anni in uno stato d’emergenza e abbiamo subito per mesi il coprifuoco, provvedimento che non si aveva dai tempi della seconda guerra mondiale. Io più che altro, ancora oggi, dopo tanti mesi, mi chiedo come facciano molte persone a far finta che sia tutto normale.
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Politica, miti e realtà delle privatizzazioni in Italia
di Matteo Di Lauro
Il milieu ideologico delle privatizzazioni
Dagli anni ‘90 il clima culturale si è fatto ostile alle ideologie politiche e alle posizioni di parte. La democrazia non andrebbe più intesa come scontro tra ideali diversi, ma si ridurrebbe a un presunto “governo dei migliori”, dove le uniche qualità che contano sono la competenza e l’onestà.
Inutile dire che una persona può essere competente ed onesta, fermo restando il carattere politico delle sue idee. Dietro una scelta squisitamente tecnica si nasconde comunque una visione del mondo, degli obiettivi di lungo periodo e una qualche gestione di parte del conflitto distributivo.
Come sappiamo, in economia politica non esistono scelte squisitamente tecniche, ma sempre delle policy a favore o a sfavore di una certa classe sociale. In politica non esistono scelte neutre: è per questo che il tentativo, sia mediatico sia accademico, di ricondurre qualsiasi presa di posizione politica ad un presunto criterio tecnico scientifico ha fatto degenerare profondamente il dibattito pubblico in questo paese.
Ne è un esempio la riforma dell’IRPEF di Draghi, che, per quanto vanti un carattere tecnico scientifico, nasconde dietro di sé intenti chiaramente politici: una politica di classe.
Per questo, applicare un criterio puramente tecnico all’analisi delle riforme ha poco senso, senza prima aver esplicitato la propria posizione circa i possibili conflitti distributivi che scaturiscono dalla riforme stesse. Da qui, l’impossibilità di avere un esito win-win: qualcuno ci perde sempre.
Inoltre, si constata in modo del tutto singolare che, da quando la politica ha iniziato ad essere pervasa dal mito dell’onestà e della competenza, chi ha perso di più sono state le classi subalterne. Strano. Non sarà mai che gli onesti e competenti alla Draghi siano classe dominante e seguano una propria agenda politica a difesa dei propri interessi?
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Lenin e la pratica filosofica*
di Carlo Di Mascio
La verità non sta all’inizio, ma alla fine, o, più esattamente, nella continuazione. La verità non è l’impressione iniziale…
Lenin, Quaderni filosofici
Bisogna ribadire ‘ad nauseam’ […] il fatto che l’idealismo di Hegel non implica la tesi secondo la quale lo scibile è posto da un ‘io’, vale a dire da un sé che è l’essenza di ogni autoscienza, o addirittura da un isolato soggetto-coscienza.
Hans-Friedrich Fulda, Dialektik in Konfrontation mit Hegel
I.
Louis Althusser, nel suo Lenin e la filosofia, analizzando la distanza tra Lenin e la filosofia ufficiale, quella professorale, accademica, distanza che tende ad annullarsi ogni volta che la filosofia si trova costretta a fare i conti con l’urgenza dell’azione politica e della sua inesorabile relazione con essa, commentava come Lenin, «un naïf e un autodidatta in filosofia […] semplice figlio di maestro, piccolo avvocato diventato dirigente rivoluzionario», avesse avuto l’ardire di confrontarsi con la filosofia ufficiale e tutto questo con l’obiettivo preciso di promuovere «una pratica veramente cosciente e responsabile della filosofia»1. Ora, tuttavia, ciò che maggiormente colpisce di questa premessa è il fatto che Lenin, con tutte le inadeguatezze del caso, abbia inteso occuparsi – in un momento storicamente decisivo, connotato dalle conseguenze del fallimento rivoluzionario del 1905, dal disorientamento «ideologico» di molti intellettuali marxisti del tempo2, dalla singolare parabola della Seconda Internazionale, dal 1889 sino al suo crollo nel 19143, nonché dall’avvicinarsi di un conflitto mondiale e di una rivoluzione proletaria inevitabile – proprio di filosofia, ed in particolare tra il 1908 e il 19164, pur riconoscendo a più riprese, come sottolineato in una lettera a Gorki del 7 febbraio 19085 di non essere un filosofo, di essere impreparato, ma purtuttavia di non fare filosofia come quelli che la fanno di professione, i quali, invece, si limitano a «ruminare nella filosofia.
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Usa, Cina e futuro del sistema dollaro
L'intervista al gen. Mini sui libri di Qiao Liang
Claudio Gallo* intervista il generale Fabio Mini
Qiao Liang è un ex generale maggiore dell'aviazione dell'Esercito Popolare di Liberazione diventato celebre nel 1999 con il libro Guerra senza limiti (LEG Edizioni, 2001) di cui è coautore insieme con il collega Wang Xiangsui. Con gli usuali occhiali ideologici, i media occidentali hanno presentato lo studio come l'annuncio di un nuovo tipo di guerra che la Cina stava progettando contro l'America. Gli autori affrontavano il concetto di conflitto asimmetrico, prefigurando in qualche modo eventi che sarebbero accaduti di lì a poco, come l'attacco dell'11 settembre.
Qualche anno fa, Qiao ha scritto un nuovo libro, L’arco dell’impero, ancora tradotto dalla LEG (Libreria editrice goriziana). E’ la prima edizione in una lingua occidentale ed è stata curata dal generale Fabio Mini, già capo di stato maggiore del Comando NATO del Sud Europa nel 2000-2001 e comandante della Forza internazionale in Kosovo (KFOR) a guida NATO dal 2002 al 2003. Mini aveva introdotto in Italia anche Guerra senza limiti: la sua prefazione italiana è stata tradotta e inclusa nella seconda edizione cinese.
Il nuovo lavoro di Qiao è uno studio sulla superpotenza americana. Spiega il suo incredibile successo e le possibili ragioni del suo declino. Secondo Qiao, gli Stati Uniti hanno superato la logica imperiale colonialista dell’Impero britannico del XIX secolo adottando un rivoluzionario sistema di dominio economico, che ha raggiunto il suo apice con la fine gli accordi di Bretton Woods del 1971. Il potere del dollaro come moneta universale sostiene il primo impero finanziario della storia. The City Upon a Hill dei Padri Pellegrini, l'immagine dell'eccezionalismo americano amata da Reagan, è, in realtà, la Zecca sulla Collina. Con questa "economia finanziaria coloniale", la ricchezza americana è pagata dal resto del mondo.
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Culture e pratiche di sorveglianza. In balia dell’Incoscienza Artificiale e dell’algocrazia
di Gioacchino Toni
«Il punto è che non esiste una protesi cerebrale artificiale che sia intelligente; il calcolo senza significato può al massimo esprimere l’ossimoro dell’“intelligenza incosciente” […] La perdita di conoscenza e di autonomia fanno parte di un processo iniziato nel Ventunesimo secolo, nel corso del quale stiamo invertendo il rapporto gerarchico tra noi e le macchine. Oggi siamo sempre più portati a mettere in dubbio la risposta a una nostra domanda dataci da una persona, oppure quella di un assistente virtuale?» Massimo Chiariatti
«gli algoritmi sono pur sempre progettati da esseri umani, sono opachi, ossia poco trasparenti, e perseguono non solo obiettivi di efficienza, ma ancor più di profitto. Quando imparano dall’esperienza, poi, tendono a replicare i pregiudizi umani» Mauro Barberis
Nonostante si tenda a pensare all’Intelligenza Artificiale antropomorfizzandola, come se si trattasse di una macchina in grado di prendere “sue” decisioni ponderate, questa si “limita” a elaborare una mole di dati non governabile dagli esseri umani e a farlo con una velocità altrettanto al di sopra dalle loro possibilità. Per gestire le informazioni disponibili l’essere umano ha sempre teso a esternalizzare alcune funzioni del suo cervello estendendole nello spazio e nel tempo; sin dalla notte dei tempi l’umanità ha fatto ricorso a protesi tecnologiche per superare i suoi limiti fisici e cognitivi ma giunti alla digitalizzazione delle informazioni queste sono talmente aumentate che per la loro gestione si è resa necessaria una tecnologia sempre più sofisticata e performante soprattutto in termini di velocità di elaborazione.
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La relazione capitale-lavoro come rapporto di classe
di Sebastiano Isaia
È il capitale che impiega il lavoro. Già questo rapporto,
nella sua semplicità, è personificazione delle cose e
reificazione delle persone. In questo modo, il capitale
diventa un essere incredibilmente misterioso (K. Marx).
La relazione Capitale-Lavoro è in primo luogo e fondamentalmente un rapporto di classe, non un fatto meramente economico che si esaurisce sul mercato del lavoro o dentro il luogo di lavoro. Quella relazione, che caratterizza la società capitalistica, presuppone e pone sempre di nuovo l’esistenza del rapporto capitalistico di produzione, il quale si fonda sulla separazione dei produttori diretti (i lavoratori) dai mezzi di produzione e, quindi, dal prodotto del loro lavoro. I lavoratori posseggono solo la loro capacità lavorativa, che essi offrono sul mercato del lavoro al miglior offerente per riceverne in cambio un salario; i mezzi di produzione (macchine, edifici, materie prime, ecc.) e i mezzi di sussistenza comprati dai lavoratori con il salario ricevuto sono invece di esclusiva proprietà del Capitale – non importa in quale forma giuridica esso si presenti dinanzi al lavoratore: capitale privato, capitale pubblico, azionario, “misto” pubblico-privato, cooperativistico, e quant’altro.
Riprendendo ironicamente la celebre frase di Proudhon («La proprietà è un furto»), Marx definisce la proprietà specificamente capitalistica nei termini di un «furto di lavoro altrui». «La proprietà di capitale possiede la qualità di comandare sul lavoro altrui» (1).
Apro una piccola parentesi a proposito della fenomenologia giuridica del Capitale. Nel Manifesto del partito comunista del 1848, Marx ed Engels scrivono: «I comunisti possono riassumere la loro dottrina in quest’unica espressione: abolizione della proprietà privata» (2).
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