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quieora

Lenin in Inghilterra, Krahl in Italia1

di Marcello Tarì

Questo articolo mi è stato domandato tempo fa da Meike Gerber, Julian Volz e Emanuel Kapfinger per il volume “Für Hans-Jürgen Krahl. Beiträge zu seinem antiautoritären Marxismus” che esce in questi giorni in Germania per la casa editrice Mandelbaum Verlag in onore e memoria del leader francofortese del SDS scomparso a soli 27 anni nel 1970. Il volume tratta i temi centrali delle sue ricerche come l’analisi di classe, il suo confronto con Adorno, la mediazione di teoria e pratica, la dialettica e quindi la ricezione internazionale e la rilevanza contemporanea dell’approccio antiautoritario di Krahl. L’articolo è una breve rassegna ragionata della ricezione della sua opera in Italia a partire dal 1968 e nella sua versione tedesca è arricchito da una bibliografia e alcune note esplicative per il pubblico tedesco. Hanno partecipato al volume Pauline Corre-Gloanec, Samuel Denner, Andreas George, Meike Gerber, Emanuel Kapfinger, Robin Mohan, Alexander Kluge, Hermann Kocyba, Hans-Jürgen Krahl, Marcello Tarì, Julian Volz e Frieder Otto Wolf

01 2 1024x758La ricezione italiana delle idee di Hans-Jürgen Krahl fu non solo immediata rispetto alla loro formulazione, ma quasi contemporanea a quella della Scuola di Francoforte da parte del grande pubblico. Sebbene infatti alcuni dei lavori di T.W. Adorno fossero stati pubblicati in italiano a partire dalla metà degli anni ’50 – ma Dialettica dell’illuminismo appare in traduzione italiana solamente nel 1966 – fino al ’68 le idee della scuola francofortese non ebbero grande circolazione oltre il ristretto circolo di specialisti e studiosi, soprattutto per via dello stretto controllo del Partito Comunista sul dibattito teorico che al tempo era ancora dominato dallo storicismo nella sua variante specificamente italiana. Quindi, la cosa abbastanza curiosa che accadde è che la conoscenza della Scuola di Francoforte da parte del grande pubblico fu contemporanea a quella della sua critica da sinistra operata dal movimento studentesco tedesco. Non per caso, a parlare per primi di Krahl in Italia furono due giovani ricercatori italiani che si trovavano a studiare la Teoria Critica a Francoforte durante il ’68 e che ovviamente partecipavano alla ribellione in corso, la quale era una rivolta contro la società capitalista ma anche nei confronti dell’ortodossia marxista-leninista e dello storicismo (e il moralismo) italiano.

La prima volta che il nome di Krahl compare in Italia è nel febbraio 1968 su di una rivista che fu molto importante sia per il movimento del ’68 che per il dibattito culturale della sinistra extra-parlamentare durante gli anni ’70. Sto parlando di ‘Quaderni Piacentini’, rivista nella quale si formarono un gran numero di quadri e intellettuali della nascente nuova sinistra italiana e che vedeva diversi di loro vicini alle posizioni di «autonomia operaia» sviluppate nei primi anni ’60 dai ‘Quaderni Rossi’ e da ‘classe operaia’, d’altronde la rivista ospitò diversi interventi dei grandi teorici dell’operaismo. Furono queste esperienze editoriali e di lotta che in Italia innovarono profondamente il marxismo, avendo dalla propria un’originalità e una carica offensiva che produsse il decennio che è passato nella letteratura come «il lungo ’68 italiano».

Tra le riviste della nuova sinistra, ‘Quaderni Piacentini’ fu la più longeva. Fondata da Piergiorgio Bellocchio nel 1962 (un anno dopo dei ‘Quaderni Rossi’), attraversò diverse fasi per concludere la sua vicenda storica solamente nel 1984. Tra i suoi più prestigiosi redattori troviamo il poeta e critico letterario Franco Fortini, il germanista Cesare Cases, il poeta Giovanni Giudici, la sinologa Edoarda Masi, il critico e organizzatore culturale Goffredo Fofi e il letterato operaista Alberto Asor Rosa, ma è importante tenere presente che fu suo redattore Renato Solmi, allievo negli anni ’50 di Adorno e Horkheimer e poi primo traduttore in Italia di Adorno e Walter Benjamin.

Nel n°33 del febbraio 1968 (pp.43-73), dunque, nella rivista comparve una lunga rassegna del sociologo Carlo Donolo dal titolo “Il movimento studentesco di opposizione nella Germania occidentale”. Donolo, come detto, studiava in quel momento a Francoforte e nell’articolo – dedicato alla descrizione del movimento studentesco nato nella RFT dopo gli eventi del 2 giugno 1967 – viene riportato il violento dibattito che ebbe luogo tra Jürgen Habermas e alcuni studenti tra i quali spiccano i nomi e le parole di Krahl e Rudi Dutschke. Viene rievocata da Donolo anche l’accusa che Habermas rivolse ai contestatori, ovvero quello di essere dei «fascisti di sinistra», una provocazione che avrà una lunga storia giornalistica che continua ancora oggi, anche se dubito che coloro che oggi la utilizzano sappiano qualcosa di questa «nobile origine».

Nello stesso numero vennero pubblicati due altri articoli di grande importanza: “Contro l’università”, scritto da Guido Viale, il quale sarà tra i fondatori di Lotta Continua, l’organizzazione politica della nuova sinistra maggiormente diffusa nell’Italia dei primi anni ‘70, e “Il desiderio dissidente” dello psicanalista Elvio Fachinelli, il quale negli anni ’70 dirigerà un’altra importante rivista, ‘L’erba voglio’, che perseguirà nell’area dell’Autonomia un indirizzo più marcatamente antiautoritario e che ebbe una grande influenza sul Movimento del ‘77. Aggiungo che nei ‘Quaderni Piacentini’ fu pubblicata nel luglio del 1968 (n°35) un’altra importante cronaca delle lotte studentesche europee di quell’anno, questa volta da Parigi e curata da Giairo Daghini e Sergio Bologna, due giovani operaisti che in seguito saranno tra i fondatori del gruppo Potere Operaio (Bologna fu anche fondatore della rivista di storia operaia ‘Primo Maggio’). Per molti versi, quindi, si può dire che ‘Quaderni Piacentini’ fu tra la fine degli anni ’60 e i primi anni dei ’70 uno tra i maggiori laboratori delle tendenze che animarono il dibattito del movimento in Italia e per questo il nome di Hans-Jürgen Krahl si iscriverà durevolmente nel suo panorama teorico.

Solo qualche mese dopo quel primo articolo, il nome di Krahl ritornò su di una delle maggiori riviste culturali tra quelle “ufficiali”, ‘Belfagor’ (vol. 23, n°5, settembre 1968, pp.617-629), anche in questo caso all’interno di un racconto francofortese ma a riguardo della settimana di lotta cominciata il 27 maggio ’68, il titolo dell’articolo è infatti “Cronaca politica da Francoforte” e fu scritto da un allora giovane studioso di filosofia politica che in quell’anno godeva di una Humboldt fellowship sotto la supervisione di Habermas. Si tratta di Fulvio Cerutti, destinato a una brillante carriera accademica e anche lui all’epoca collaboratore di ‘Quaderni Piacentini’.

Cerutti presenta la figura di Krahl all’interno della narrazione di una grande manifestazione di operai e studenti nella quale il «famigerato» leader dell’SDS parlò alla folla. Krahl viene descritto in questo modo: «[Krahl] ha a Francoforte un ruolo analogo a quello giocato a Berlino dal compagno Dutschke, e che come quest’ultimo viene già stilizzato dalla stampa borghese in una figura di “capo carismatico” che tira i fili degli studenti-marionette: Max Weber si rivolterà nella tomba, ma questa personalizzazione di un problema politico è un troppo utile strumento di mistificazione, permettendo da un lato di ridurre tutto alla responsabilità di alcuni “caporioni” che vanno affidati al giudice istruttore o alle rivoltellate dell’immancabile imbianchino, anormale ma non troppo». Il giovane filosofo italiano raccontava anche degli attacchi di Krahl allo stato d’emergenza, in quei giorni in via di approvazione e considerato uno «strumento terroristico» dal militante dell’SDS che si appellava al diritto all’autodifesa e alla resistenza. Cerutti riportava inoltre nella sua cronaca che il nome di Krahl veniva citato nel volantino fatto distribuire dal Rettore dell’Università, nel quale lo studente dell’SDS era accusato di incitare alla violenza e a cui Krahl e Oskar Negt risposero durante un teach-in che la violenza era invece costitutiva del capitalismo organizzato. Anche Cerutti riportava le accuse di Habermas al movimento e quindi la conseguente risposta di Krahl, il quale affermò tra l’altro che non era vero, come sosteneva Habermas, che il movimento studentesco seguisse l’ortodossia marxista, mentre invece era molto influenzato da autori come Marcuse e infine che l’Aufklärung di Habermas non solo cercava di indebolire il movimento ma era del tutto priva di effetti sull’opinione pubblica. Da lì a poco tempo, il dibattito sulla «violenza» del movimento studentesco ovviamente si impose anche in Italia e le riflessioni provenienti dai compagni tedeschi furono sempre tenute ben presenti dai militanti italiani più accorti.

Cerutti partecipò in seguito con Krahl a un’importante conversazione radiofonica attorno al pensiero di Lukács nel novembre 1969 che fu poi interamente pubblicata per la Germania nel 1971 e in Italia nel 1977 (F. Cerutti, H-J Krahl, D. Claussen, O.Negt, A. Schmidt, Geschichte und Klassenbewusstsein heute, Verlag De Munter, Amsterdam 1971; Storia e coscienza di classe oggi, Edizioni Aut Aut, Milano 1977). Le edizioni Aut Aut rimandano alla omonima rivista, ancora esistente, che fu per tutto il decennio ’70 la tribuna più importante del dibattito strettamente filosofico sul e nel neo-marxismo e che, durante la prima metà di quel decennio, ospitò non solo alcuni degli scritti di Krahl ma anche alcuni contributi critici sulla sua opera (da parte di Laura Boella nel 1974 e di Bruno Accarino nel 1975).

Fu proprio Cerutti a scrivere per ‘Quaderni Piacentini’ il ricordo-epitaffio di Krahl dopo la sua morte, al quale seguiva la traduzione dei suoi “Dati personali”, cioè lo scritto fornito da Krahl al tribunale di Francoforte nel 1969 (n°41, luglio 1970, pp.169-179). Al di là delle ricostruzioni retrospettive che alcuni hanno fatto molti anni dopo, fu questo l’ambiente nel quale Krahl venne inizialmente conosciuto e discusso, cioè quello di giovani studiosi alla ricerca di un nuovo modo di militare nel movimento operaio ma molto sospettosi verso la maniera in cui andavano organizzandosi le nuove forze dopo il ’68, ovvero quasi esclusivamente nei termini del cosiddetto neo-leninismo.

È molto importante allora sottolineare che la conoscenza e l’apprezzamento dell’opera di Krahl in Italia avvenne in un contesto di mobilitazione studentesca e operaia dal forte carattere antiautoritario, elemento che verrà in gran parte abbandonato o sottovalutato dai gruppi politici che si costituirono formalmente all’indomani del ’68 e per motivi non dissimili da quelli che lo stesso Krahl discusse criticamente riguardo al movimento tedesco, anche se l’antiautoritarismo resterà comunque patrimonio della cosiddetta «autonomia diffusa» e anche di certe frange di dissenso cattolico. Per la tendenza antiautoritaria italiana fu certamente importante l’acquisizione della Teoria Critica come anche della sua messa in discussione da parte studentesca, come testimonia la pubblicazione in ‘Quaderni Piacentini’ (n°39, novembre 1969, pp.210-212) dell’articolo scritto da Krahl in occasione della morte di Adorno, “La contraddizione politica della teoria critica di Adorno”.

Questa vena antiautoritaria riemergerà maggioritariamente durante il Movimento del ’77, nel quale infatti il nome di Krahl riapparirà con grande forza. Ma, in effetti, la grande parte dei piccoli partiti di estrema sinistra che nacquero dopo il ’68 erano allergici alla Teoria Critica così come in generale all’antiautoritarismo e restavano saldamente ancorati al marxismo-leninismo. Tutto questo spiegherebbe lo strano fatto che l’edizione italiana di Konstitution und Klassenkampf (Costituzione e lotta di classe), che fu la prima traduzione in Europa, venisse pubblicata nel 1973 da una casa editrice cattolica con sede a Milano, la Jaca Book, che in quegli anni era impegnata a pubblicare molti saggi che proponevano una critica da sinistra al comunismo di stampo sovietico e in generale al marxismo-leninismo. Fu Detlev Claussen a firmare una preveggente presentazione all’edizione italiana, nella quale l’ex dirigente della SDS partendo dai testi di Krahl metteva in guardia il movimento italiano da due vizi solo apparentemente opposti: il pragmatismo che sfociava nel riformismo e il purismo e il moralismo nel quale si rifugiavano i vari gruppi marxisti-leninisti e anche gli attori della lotta armata. Vizi e limiti dai quali la nuova sinistra italiana fu tutt’altro che immune.

In ogni caso il volume di Krahl ebbe una calorosa accoglienza e anche L’Unità (nel numero del 2 giugno 1974), il quotidiano del Partito Comunista, ne parlò molto bene con una recensione del sociologo e dirigente sindacale Guido Bolaffi, il quale indicava nell’articolo i punti di forza meritevoli di uno sviluppo che era stato negato a Krahl per via della sua morte prematura, ma allo stesso tempo non faceva mancare la classica accusa del Partito verso i movimenti extra-parlamentari, cioè quella di «soggettivismo».

Carlo Donolo fu poi anche l’autore di un importante saggio, “La politica ridefinita. Note sul movimento studentesco”, uscito sempre su ‘Quaderni Piacentini’ nel luglio del 1968 (n°35, pp.93-125), nel quale le intuizioni di Krahl e di Dutschke furono da lui utilizzate per una lettura del sollevamento in corso in Italia in cui non venivano risparmiate critiche feroci ai “gruppetti” della nuova sinistra. Tuttavia la riflessione più importante contenuta in questo saggio, importante perché sarà alla base di una tendenza teorica che continuerà fino ai giorni nostri, pur se non proprio nei termini in cui la poneva Donolo, è quella in cui parlava della «politicizzazione dei “ruoli cognitivi”», intendendo con questa formula indicare coloro che nella società hanno compiti di produzione, riproduzione e utilizzazione del sapere tecnico-scientifico. La cosa fondamentale che scriveva all’epoca Donolo, e che mi pare riprendesse correttamente le analisi di Krahl, è che però non bisognasse pensare che quello strato sociale impegnato nel lavoro intellettuale rappresentasse qualcosa come una «nuova classe operaia» e al quale bisognava quindi assegnare un «carisma di soggetto storico come prima il proletariato classico», bensì suggeriva di identificare tra i tecnici innanzitutto coloro che potessero essere coinvolti in una contestazione dall’interno delle istituzioni, oltre ovviamente a individuare quei lavoratori della sfera cognitiva che effettivamente potevano essere considerati produttivi nel senso marxiano del termine. In tendenza era evidente che i «ruoli cognitivi» sarebbero entrati sempre più nella nuova composizione di classe, tuttavia in quanto parte di una classe che diventava molteplice e non come «Soggetto» generale nella lotta delle classi. Sottolineo questo passaggio perché invece, come vedremo, nel cosiddetto post-operaismo si teorizzerà, pur se in maniera esplicita solo negli anni ’90, esattamente quello che Donolo temeva già nel ‘68, cioè la visione dei «lavoratori cognitivi» come nuova figura egemonica soggettiva, una «nuova classe operaia».

Alla base di tutto questo sviluppo c’è la pubblicazione, sul n° 43 dell’aprile 1971 di ‘Quaderni Piacentini’, delle celebri “Tesi sul rapporto generale di intellighenzia scientifica e coscienza di classe proletaria” di Krahl (pp.106-119), seguite da un commento di Fulvio Cerutti intitolato “Lavoro produttivo e improduttivo. Resoconto di una discussione”, nel quale veniva riportato il dibattito su quelle tesi nell’ambito del movimento tedesco.

In Italia la questione della politicizzazione dei tecnici e in generale del lavoro scientifico era stata affrontata, tra il ’68 e i primi anni ’70, in particolare dal fisico Franco Piperno, prima leader del ’68 studentesco romano, quindi tra i fondatori di Potere Operaio e poi militante di lungo corso dell’Autonomia italiana, il quale conosceva molto bene il lavoro di Krahl. Per cui fu un argomento vivo e sentito che ebbe un ruolo importante nello svolgimento delle lotte in Italia, non solo a livello delle università ma anche tra i tecnici nelle fabbriche e specie in alcuni settori del lavoro tecnico-scientifico come quelli della medicina, dell’architettura e della psichiatria.

01 5 600x406Per ciò che riguarda più generalmente il movimento dell’Autonomia degli anni ’70, gli scritti di Krahl sull’organizzazione delle lotte metropolitane nell’ottica di una dialettica virtuosa tra decentralizzazione e centralizzazione, tra ricchezza delle esigenze esistenziali e durezza delle esigenze della strategia politica, in cui cercava di sviluppare una posizione che evitasse da un lato l’adozione tutta ideologica di modelli leninisti e dall’altro lo schiacciamento del movimento su forme contro-culturali inoffensive, furono essenziali all’elaborazione autonoma anche se non si riuscì mai a mantenere quel giusto equilibrio che Krahl riteneva così importante per la «grande salute» del movimento. Le sue critiche valevano tanto per le forme di vita antiautoritarie che senza alcuna disciplina rischiavano di cadere in un «egoismo emancipatorio» e che infine si risolvevano in un impulso autodistruttivo, che per quei modi di organizzazione formalistici e ideologici della «lotta per il potere» che non potevano che arrivare alla medesima conclusione. Quello che Krahl domandava era «tempo», che il movimento avesse cioè il tempo di maturare, vivere e risolvere questa contraddizione. E in effetti il tempo sembra fu proprio quello che ad un certo punto mancò in Italia, quando alla fine degli anni ’70 il movimento fu costretto dentro un’accelerazione militare dello scontro che acuì entrambe i vizi segnalati da Krahl e che erano forse consustanziali alla cultura politica venuta fuori dal ’68. In realtà, si può dire che Krahl esplicitò molto precocemente una (auto)critica degli esiti del movimento del ’68 che tuttavia in Italia rimase per lo più minoritaria, pur se combaciava perfettamente con i limiti tanto oggettivi che soggettivi del movimento.

Ad ogni modo, la battaglia che Krahl condusse contro la riproposizione di un leninismo astorico nella realtà della metropoli tardo-capitalistica è una di quelle acquisizioni che influenzarono molto la pratica dell’area dell’Autonomia e questo anche se buona parte della sua critica si sarebbe potuta facilmente rivolgere al neo-leninismo presente in diverse fazioni dell’Autonomia Operaia Organizzata. In ogni caso, il nodo che Krahl ha il merito di aver affrontato per primo in Europa, nel tentativo di sciogliere la contraddizione tra forme di vita in liberazione “qui e ora” e processi di organizzazione politica a lungo termine, fu al centro di tutta la storia dell’Autonomia e per molti versi, come ho sostenuto al termine di Autonomie! L’Italie, les années 1970 (La Fabrique, 2011; ed. italiana Deriveapprodi 2012), il suo mancato scioglimento ne determinò la definitiva crisi nel periodo che va dal 1977 al 1980.

Mi sembra di poter dire comunque che a un iniziale interesse complessivo nei confronti dell’opera di Krahl, testimoniata dall’immediata traduzione del suo libro postumo, un interesse che concerneva cioè le sue idee sull’organizzazione politica, sulla soggettività e in generale le sue ricerche di carattere più marcatamente filosofico, parlo quindi del periodo che arriva fino alla prima metà degli anni ’70 ma con un ritorno di fiamma nel ‘77, seguì una fase differente nella quale il lavoro di Krahl subì una specie di mutilazione, nel senso che sempre più spesso la sola cosa citata o commentata in Italia furono le sue Tesi che, negli anni successivi al decennio dei ’70, assunsero un valore feticistico pari solo a quello che nel post-operaismo ha avuto il “Frammento sulle macchine” dei Grundrisse di Marx (d’altra parte nei contributi post-operaisti le une sono sempre messe in stretto collegamento con l’altro).

Per misurare l’importanza di Krahl nel pantheon dell’Autonomia italiana e poi del successivo post-operaismo, si può citare l’affermazione di uno fra i suoi maggiori teorici, Paolo Virno, che in un articolo dedicato alla “tradizione autonoma” si espresse in questo modo: «La tradizione di cui si parla risale grossomodo agli anni ’60 […] Il catalogo (un primo e approssimativo catalogo) è questo: l’operaismo italiano, dai “Quaderni Rossi” fino a oggi; il situazionismo, ma in particolare quella critica preventiva e acuminata della cultura postmoderna che è La società dello spettacolo di Guy Debord; i dispositivi di sapere/potere di Foucault e la “rivoluzione molecolare” di Deleuze e Guattari; le tesi di Hans-Jürgen Krahl sul lavoro intellettuale di massa; la riflessione storiografica della rivista “Primo Maggio”: l’affondo di Alfred Sohn-Rethel sulla scienza e il sapere astratto» (P. Virno, “La tradizione del pensiero critico” [1998], in Esercizi di esodo. Linguaggio e azione politica, Ombre Corte, Verona 2002, p.20).

All’elenco di Virno in verità manca almeno La teoria dei bisogni in Marx di Ágnes Heller (Feltrinelli, 1974) che fu un punto di riferimento molto importante per l’area autonoma e della nuova sinistra, tanto che la parola «bisogni» divenne un intercalare nell’eloquio movimentista. Tuttavia, come si desume dalla pagina citata, il Krahl che più interessava a questa parte di Autonomia è quello delle Tesi, appunto, e Virno in questo frammento traduce l’originaria “intellighenzia” delle Tesi nella formulazione che inventò lui stesso negli anni ’90, cioè l’«intellettualità di massa».

Un aspetto che infatti vorrei mostrare è che il lavoro teorico sulle Tesi di Krahl da parte del post-operaismo iniziò veramente in modo serio solo tra la fine degli anni ’80 e i primi dei ’90, pur se le basi si possono individuare nella riflessione più generale che si sviluppò attorno al Movimento del ’77.

Se prendiamo gli scritti di Antonio Negri degli anni ’70 troveremo infatti che Krahl appare solo due volte e in una posizione tutto sommato abbastanza marginale; la prima volta in una nota di Crisi dello Stato-piano. Comunismo e organizzazione rivoluzionaria (Feltrinelli, 1974) che ne segnalava l’importanza per il discorso sulla «intelligenza produttiva» e poi nel corpo del testo di Dominio e sabotaggio (Feltrinelli, 1978), un libro che risentiva fortemente dell’atmosfera insurrezionale del ’77 italiano e dove Krahl è citato a sostegno dell’ipotesi negriana sulla «separatezza» della soggettività proletaria.

Si trattava di un semplice apprezzamento nel primo caso e, nel secondo, di una indicazione di ricerca che recepiva il lavoro che altri in Italia avevano cominciato a fare in quel periodo. Infatti molto più influenti per la discussione sulla nuova composizione di classe e sulla questione dell’organizzazione proletaria a partire dagli scritti di Krahl, furono un saggio di Lucio Castellano del 1976 – che in un primo momento circolò nel movimento come dattiloscritto e fu pubblicato poi nel 1981 in uno dei Preprint, una collana di opuscoli editi dall’ultima delle grandi riviste autonome, ‘Metropoli. L’autonomia possibile’, dal titolo “Lavoro e produzione” – e un saggio scritto nello stesso periodo da Furio Di Paola e pubblicato su di un numero speciale della rivista ‘Ombre Rosse’ col titolo “Per un dibattito su militanza e organizzazione proletaria” (Quaderni di Ombre Rosse 1, 1977, pp.12-106). Entrambe si richiamavano a Krahl, ma con prospettive abbastanza differenti.

Di Paola cercò di affrontare il tema dell’organizzazione autonoma del proletariato a fronte, da un lato, dell’operazione del Partito Comunista il quale mirava, attraverso il cosiddetto “compromesso storico” con la Democrazia Cristiana e il balzo in avanti compiuto dai comunisti con le elezioni del giugno 1976, a identificare Partito e Stato nella speranza di poter mediare e governare i processi della crisi in corso, scelte che portarono a identificare come nemici pubblici tutti i movimenti che si muovevano al di fuori della sfera parlamentare, legittimando sostanzialmente una svolta autoritaria dello Stato; dall’altro lato ci si trovava davanti a un’impetuosa ristrutturazione capitalista sia a livello tecnologico che ideologico. In questa situazione emerse drammaticamente una crisi generalizzata della militanza, con relativo scioglimento dei gruppi creati nel dopo ’68, che produsse una grande tensione tra tre posizioni nel movimento: vi erano coloro che perseguivano la costruzione immediata di forme di vita comuniste, quelli che sulla base del neo-leninismo spingevano per forme di lotta armata e infine altri, sempre di provenienza leninista, che credevano fosse giusto organizzare una “mediazione” con lo Stato. Situazioni soggettive che Krahl aveva già ben individuato come rischi e limiti interni al movimento, per questo Di Paola e altri si richiamavano direttamente ai suoi scritti.

Di Paola vedeva nel movimento di massa esploso in Italia alla fine degli anni ’70 i segnali della trasformazione della lotta di classe in lotte di liberazione, ad esempio la presenza del femminismo era ormai enorme nel movimento, per cui i problemi che Krahl aveva segnalato quasi dieci prima erano ormai tutti all’ordine del giorno. La lotta di liberazione dei singoli, sosteneva Di Paola, non era più in contrasto bensì era condizione dell’autonomia collettiva e tale moltiplicazione dei fronti di lotta – operai, giovani, donne, omosessuali, prigionieri, bambini, folli – implicava l’impossibilità di pensare a un Soggetto storico che li unificasse e rappresentasse tutti. In definitiva, alla crisi della centralità operaia non si poteva rispondere con un’altra nuova centralità; inoltre, strategicamente, la lotta non si poteva fermare alla soddisfazione del «bisogno di cose» ma doveva approfondire il diffuso «bisogno di comunità», facendo eco a ciò che Krahl scrisse nei suoi “Dati personali” e cioè che «Possiamo dire quale sarà l’aspetto del progresso tecnico fra un secolo, ma non siamo in grado di dire quali saranno le relazioni umane fra cento anni, se non cominciamo a trasformarle ad hoc, fra noi, nel rapporto sociale» (in Costituzione e lotta di classe, p.35).

Il saggio di Di Paola si conclude proprio con un capitolo dedicato alla crisi della figura del militante professionale basato sulle analisi di Krahl laddove, sostiene Di Paola, che l’intellighenzia scientifica entri a far parte diffusamente della composizione di classe proletaria significa che viene tolto il privilegio del militante professionale di essere l’esperto che dirige le lotte e questo mette definitivamente in crisi il partito come macchina di comando sulla attività rivoluzionaria: i nuovi militanti sono in mezzo e non sopra i processi di organizzazione proletaria. È la socializzazione del sapere sociale proletario attraverso le lotte diffuse che potrà produrre una cooperazione rivoluzionaria antagonista su tutto l’arco della società e non il contrario: la liberazione proletaria non si «dirige» e non si mette ai voti. E così un antiautoritarismo intelligente fu recuperato a un livello maggiore di coscienza dentro la dura materialità del conflitto che investì l’Italia nel 1977.

Invece bisogna considerare il saggio di Castellano come alla base degli sviluppi che, tra la fine degli anni ’80 e i primi dei ’90, porteranno nell’ambito post-operaista alla teoria del «lavoro cognitivo e/o immateriale». Castellano vi affermava, sulla base ma anche andando oltre le Tesi di Krahl, che «la cooperazione non si esaurisce nel lavoro produttivo» (cooperazione intesa come “sociale” e non solo “lavorativa”) e che il concetto di produzione dovesse essere allargato andando contro la legge del valore marxiana, qui seguendo le teorie che in quel periodo andava sviluppando Toni Negri sulla crisi del valore-lavoro, arrivando a sostenere che la cooperazione sociale fosse già relativamente «autonoma» dal rapporto di produzione capitalistico e che, in questo senso, il «partito di classe» doveva essere inteso non in quanto strumento per la presa del potere o di avanguardia ma nei termini del «momento più alto della riappropriazione delle forze produttive», ovvero come il tessuto del «nuovo modo di produzione». Il successivo lavoro di Negri e in parte di Virno porteranno queste tesi al loro estremo sviluppo.

Nel saggio “Lavoro immateriale e soggettività” del 1991, scritto da Toni Negri insieme al sociologo Maurizio Lazzarato (il saggio uscì dapprima nel 1991 in Francia sul numero 6 della rivista ‘Futur antérieur’, quindi in M. Lazzarato, Lavoro immateriale. Forme di vita e produzione di soggettività, ombre corte, Verona 1997), si inaugurò così la categoria di «lavoro immateriale», accogliendo in parte anche quella coniata da Virno di «intellettualità di massa», nata nell’anno precedente durante le mobilitazioni contro la riforma universitaria.

Secondo Negri, nel post-fordismo tutto «il lavoro si trasforma integralmente in lavoro immateriale e la forza-lavoro in “intellettualità di massa”» realizzando così il General Intellect marxiano. In questa maniera si faceva del lavoro cognitivo la nuova figura egemone tanto socialmente che politicamente, un Soggetto caratterizzato dall’indipendenza dell’attività produttiva e che perciò viene identificato da Negri come «soggettività autonoma» dal capitale. In sostanza, il «nuovo modo di produzione» sarebbe già tutto presente ma espropriato politicamente da un capitalismo parassitario. È nel contesto della discussione sulle origini di questa nuova definizione del lavoro e della soggettività che in questo saggio compare ancora una volta il nome di Krahl, al quale viene addebitata una definizione e una conseguenza in verità assenti nella sua elaborazione, cioè quella di «lavoro immateriale» così come la trasformazione dei ruoli cognitivi in soggetto rivoluzionario centrale della tarda modernità. Questa impostazione segnò profondamente la lettura che dei nuovi movimenti diedero i post-operaisti fino alla metà degli anni ’00, con esiti non proprio esaltanti e difatti diversi tra loro hanno poi cambiato o molto sfumato l’idea iniziale, lo stesso Maurizio Lazzarato è ritornato in maniera critica su quella modellizzazione e forse solamente Negri vi è restato affezionato più a lungo degli altri.

La lettura dell’opera di Krahl è tornata infine in auge al termine del movimento antiglobalizzazione e, seppur sotterraneamente, ha determinato una nuova presa di coscienza tra quei militanti ed attivisti che hanno di nuovo messo al centro un sano equilibrio tra cura delle forme di vita adesso e necessità della strategia a lungo termine o, con altre parole, tra costruzione comunitaria e lotta insurrezionale.

Concludendo questa rapida rassegna, la cosa che maggiormente salta agli occhi è che l’opera di Krahl non solo influenzò profondamente l’elaborazione teorico/pratica dell’Autonomia nell’Italia degli anni ’70, ma ne rappresentò anche la sua critica immanente e, cosa per noi più importante, ancora oggi indica con grande precisione sia le trappole in cui i movimenti tendono facilmente a cadere che alcuni dei percorsi per evitarle, puntando diritto alla possibilità della liberazione dal capitalismo in Occidente non più a partire dal punto più alto dello sviluppo bensì da dove le lotte sono più forti.


Note
1 Lenin in Inghilterra è il titolo del celebre editoriale di Mario Tronti sul primo numero di ‘classe operaia’ (1964) nel quale si compie la cosiddetta rivoluzione copernicana dell’operaismo, ovvero «prima la classe, poi il capitale» e «la tattica al partito, la strategia alla classe». Lenin era inteso come la “possibilità” della rivoluzione nel punto più alto dello sviluppo capitalistico, ancor più che come indicazione organizzativa.

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