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Nancy Fraser, “La fine della cura”
di Alessandro Visalli
In questo piccolo testo è contenuto un intervento del 2016, edito da Mimesis nel 2017[1], nel quale la militante femminista americana Nancy Fraser si esercita in una denuncia della difficoltà del capitalismo, nella fase dell’accumulazione flessibile e della finanziarizzazione, a riprodurre la società e gli individui. In fondo l’idea è molto semplice, ed anche molto tradizionale: il capitalismo è, in ogni sua fase storica, interessato essenzialmente all’accumulazione del capitale ed annega nel gelido mare del calcolo utilitarista ogni altra considerazione. Una società improntata al capitalismo non è dunque orientata alla sua propria riproduzione, e dei suoi membri, ma all’estensione dello sfruttamento ai fini dell’accumulazione ed alla concentrazione. La riproduzione ne deriva, semmai, some effetto secondario eventuale. Questa tesi è pienamente marxiana.
La cosiddetta “crisi della cura”, deriva come somma di numerosi squilibri che producono nel loro insieme la compressione di capacità sociali non compiutamente mercatizzabili (come quella di generare e crescere figli, prendersi cura degli amici e dei familiari, mantenere le famiglie e le comunità più ampie e sostenere i legami sociali). Secondo l’ingenerosa posizione della Fraser tutte queste cose sono state “storicamente assegnate alle donne” (anche se, successivamente, lamenta che “mantenere le famiglie” sarebbe ingiustamente una prerogativa maschile). Tutto questo vasto ed eterogeneo insieme (cose importanti, ma vaghe come “sostenere i legami sociali”, palesemente svolte da entrambi i sessi) è, secondo il punto difeso, indispensabile, ma spesso non è in quanto tale remunerato.
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Appunti per un neoliberalismo dai margini
di Luca Villaggi
Utilizzando in particolare le analisi di Quinn Slobodian e Melinda Cooper, Luca Villaggi riflette sulla natura del progetto neoliberale. Lo fa riattraversando criticamente la riflessione di Karl Polanyi, i rischi di un certo conservatorismo o nostalgia a cui possono condurre: infatti, se mercato e capitale sono concepiti come forze essenzialmente disgreganti della vita sociale, la resistenza viene immaginata in termini di restaurazione, o al massimo di rinnovamento, di quelle proprietà e di quelle solidarietà sociali che il capitalismo tende a distruggere. Secondo l’autore, approfondire i modi con i quali il neoliberalismo ha cercato di «disciplinare i margini» e di ricostruire una società profondamente diseguale, differenziata e gerarchica, rappresenta un compito imprescindibile per la riflessione critica.
* * * *
Le riflessioni che seguono sono state sollecitate da Globalists. The End of Empire and the Birth of Neoliberalism di Quinn Slobodian e Family Values. Between Neoliberalism and the New Social Conservatism di Melinda Cooper, dei quali si è tentato di individuare una chiave di lettura comune. Da un lato abbiamo un volume che si propone di enfatizzare la natura antidemocratica e neocoloniale del progetto neoliberale, dall’altro lato abbiamo un testo che sottolinea la perturbante affinità elettiva del pensiero neoliberale con il neoconservatorismo sociale. Da una parte, vi è la rigorosa ricostruzione della prospettiva globale che il neoliberalismo dell’Europa centrale e continentale assume fin dalla propria origine, e dall’altra parte incontriamo un’analisi della convergenza che unisce i neoliberali statunitensi con una variegata costellazione di conservatori sociali nel tentativo di risolvere la crisi della famiglia fordista.
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Il G7 guidato da Biden attacca la Cina
“Build back better for the word” versus “Nuova Via della Seta”
di Fosco Giannini
Quali sono stati gli esiti più importanti del summitt del G7 (USA, Canada, Francia, Germania, Italia, Giappone, Regno Unito) tenutosi in Cornovaglia, contea sud-occidentale dell’Inghilterra, dall’11 al 13 giugno ultimi scorsi? Molto è nella ” Dichiarazione di Carbis Bay”, il documento che ha preso il nome dal luogo di villeggiatura dove si è tenuto il summit delle 7 potenze del mondo (cosi come tutta la stampa occidentale ha definito i paesi che hanno partecipato all’incontro, dimenticando di aggiungere, dopo “7 potenze del mondo”, l’aggettivo “occidentale”, poichè la Repubblica Popolare Cinese, esclusa dal summit dal revanscismo imperialista di Biden, è oggettivamente più “potenza mondiale” di tutti i 7 della Cornovaglia).
Che cosa hanno messo, dunque, i 7, nella “Dichiarazione di Carbis Bay”? E anche: che cosa hanno omesso?
Partiamo da ciò che hanno omesso e, in verità, pavidamente, rimosso. Ciò che non hanno riportato nella dichiarazione finale è stato lo scontro politicamente violento che, seppur registrato e diffuso nel mondo dai media, non è stato, appunto, “ratificato”, per imbarazzo e vergogna, nella “Dichiarazione” finale e ufficiale, tra il Primo Ministro del Regno Unito, Boris Jhohnson, e i leader dei paesi dell’Ue. Su cosa è avvenuto tale scontro?
Dopo il 30 giugno dovrebbero entrare pienamente in vigore i controlli sulle merci che partono dalla Gran Bretagna per giungere in Irlanda del Nord, controlli sulle merci che l’Ue reputa necessari in quanto la Gran Bretagna è fuori dall’Ue e l’Irlanda del Nord nè è, invece, un paese membro.
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Sul femminismo oggi
Un dialogo a distanza fra Chiara Zoccarato e Alessandro Visalli
Quasi tutti gli articoli apparsi su questo blog sono di mio pugno. Solo in pochi casi ho accolto interventi di altri autori (sollecitati da me), questo è uno di quelli. Dopo essere intervenuto in più occasioni sul tema della degenerazione teorica e ideologica di un femminismo mainstream sempre più allineato con gli interessi del sistema capitalistico e con i valori e i principi neoliberali, ho deciso di pubblicare una riflessione inviatami dall'amica Chiara Zoccarato, la quale, pur duramente critica nei confronti delle correnti maggioritarie del femminismo, rivendica i motivi di fondo di un conflitto di genere che ritiene parte integrante della battaglia socialista e anticapitalista. Assieme al suo contributo, ho deciso di pubblicare anche le riflessioni critiche che quel testo ha sollecitato da parte di Alessandro Visalli (che me le aveva inviate dopo averlo a sua volta ricevuto da Chiara). Ovviamente entrambi gli autori sono stati avvertiti della mia intenzione e si sono dichiarati d'accordo. Penso che far circolare il loro dibattito sia importante, non solo per i temi che affronta, ma anche e soprattutto perché il modo in cui li affronta ha il merito di disincagliare la discussione dalle secche della sterile contrapposizione fra accuse incrociate di misoginia e misandria, in cui ultimamente sembra essersi impantanata. Ringrazio quindi queste due persone, della cui fraterna stima e affetto mi onoro, per avermi offerto questa occasione [Carlo Formenti].
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Alcune considerazioni sulla questione femminile
di Chiara Zoccarato
Qualcuno dice che la lotta di classe disturba il sistema, la lotta tra i sessi no.
E’ un’affermazione ad effetto, da verificare con più attenzione.
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Non era depressione, era capitalismo
La solidarietà tra rivoltosi è la cura migliore
di Franco «Bifo» Berardi
Pochissimo si parla degli eventi cileni, qui in Europa, terra di soldi e di vaccini. Anzi niente.
Ma una scritta comparsa sui muri di Santiago c’è arrivata.
Dice: No era depresión era capitalismo
È una frase densa di implicazioni: dice che la solidarietà tra rivoltosi è la cura migliore (insieme all’innamoramento e alla poesia) contro la depressione.
Ma dice anche un’altra cosa: che il capitalismo contemporaneo produce depressione.
Ai tempi di Freud, il capitalismo borghese e austero produceva nevrosi.
Ai tempi di Guattari, il capitalismo globale liberista e biopolitico (che Guattari e Deleuze cartografano in anticipo, come Foucault ne La naissance de la biopolitique) era destinato a produrre psicosi schizofrenica, e panico. Così è andata, in effetti: l’accelerazione dell’Infosfera ha prodotto un’intensificazione spasmodica della psicosfera: l’ansia panica è divenuta endemica, e la depressione è dilagata nella mente collettiva.
Ma oggi, ai tempi della pandemia e del collasso ecosistemico, oggi che cosa accade? Da un paio di decenni la depressione ha dilagato nella psicosfera giovanile. Il ciclo di precarietà, competizione, emulazione, umiliazione, l’invasione del tempo mentale da parte di un’eccitazione senza gioia ha agito come moltiplicatore della depressione.
Con depressione intendiamo l’effetto di un prolungato protendersi del desiderio verso un oggetto che sfugge, la caduta del desiderio, l’affievolirsi e lo spegnersi della tensione che dà senso all’esistenza.
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La rivoluzione incompiuta di Keynes: saggio sulla metodologia
di Anna Carabelli
Nella sua introduzione alla serie di Manuali Economici di Cambridge (1922-3), Keynes scrive: “La teoria dell’economia non fornisce un corpo di conclusioni stabilite immediatamente applicabili alla politica. È un metodo piuttosto che una dottrina, che aiuta il suo possessore a trarre conclusioni corrette” (CW XII, 856).
Questo passaggio evidenzia la continuità tra il Trattato sulla probabilità e le opere economiche di Keynes. Nella sua discussione con Roy Harrod nel 1938, cioè nel suo manifesto metodologico più maturo e schietto, quando afferma che “l’economia è una branca della logica, un modo di pensare, piuttosto che una scienza pseudo-naturale”, Keynes sta semplicemente riaffermando la sua posizione precedente (CW XIV, 296).
La visione di Keynes della teoria economica è quindi quella di un metodo o logica, forse meglio descritta come un apparato di ragionamento probabile. Nel capitolo 21 della Teoria Generale, scrive che l’oggetto dell’analisi economica “non è quello di fornire una macchina, o un metodo di manipolazione cieca, che fornirà una risposta infallibile, ma di fornire a noi stessi un metodo organizzato e ordinato di pensare a problemi particolari”. Aggiunge che “dopo aver raggiunto una conclusione provvisoria isolando i fattori complicati uno per uno, dobbiamo poi ritornare su noi stessi e permettere, meglio che possiamo, le probabili interazioni dei fattori tra di loro”.
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Alle origini della distinzione tra Marx esoterico e Marx essoterico
di Palim Psao
Contrariamente a quanto credono alcuni marxisti, non è stata la corrente della Critica del Valore ad aver stabilito per la prima volta la distinzione tra un Marx essoterico e un Marx esoterico.
Nel contesto dei marxismi tedeschi, questa distinzione è stata utilizzata dalle differenti correnti e dai vari autori del campo marxista; e questo ben al di là di quelli che erano i vari circoli/riviste legati alla corrente della Wertkritik (la quale, in realtà, non ha fatto altro che inscriversi in un dibattito preesistente; cosa che invece non viene affatto recepito dalla grande maggioranza dei marxisti francofoni, in gran parte all'oscuro dei dibattiti teorici marxisti nella Germania degli anni '70).
Per la prima volta, questa distinzione tra i "due Marx" venne fatta, nel 1957, da quello che è stato il primo serio marxologo dopo la seconda guerra mondiale: Roman Rosdolsky, in "Der esoterische und der exoterische Marx. Zur kritischen Würdigung der Marxschen Lohntheorie I–III", in: Arbeit und Wirtschaft, Jg. 11 (novembre 1957) , Nr. 11ff (una rivista sindacalista austriaca, della quale, da parte francese, solo Ernest Mandel sembra esserne a conoscenza, e che segnala questo articolo nel suo "La Formation de la pensée économique de Karl Marx"). Mandel ne riporta solo una parte:
«Più di cento anni fa, Marx incominciò a scrivere le sue lezioni di economia. Si tratta di un periodo considerevole di tempo, soprattutto se si considerano le enormi trasformazioni che il mondo ha subito da allora.
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Formare un mondo diverso: contro una scuola delle classi dirigenti, per la scuola che emancipa
di Lucia Donat Cattin – USB scuola
La scuola tradizionale è stata oligarchica perché destinata alla nuova generazione dei gruppi dirigenti, destinata a sua volta a diventare dirigente […] L’impronta sociale è data dal fatto che ogni gruppo sociale ha un proprio tipo di scuola, destinato a perpetuare in questi strati una determinata funzione tradizionale, direttiva o strumentale. Se si vuole spezzare questa trama, occorre dunque non moltiplicare e graduare i tipi di scuola professionale, ma creare un tipo unico di scuola preparatoria (elementare‑media) che conduca il giovinetto fino alla soglia della scelta professionale, formandolo nel frattempo come persona capace di pensare, di studiare, di dirigere o di controllare chi dirige.
A. Gramsci “Quaderni dal Carcere” QXII
L’assemblea di Cambiare Rotta, che si terrà a Bologna il 13 giugno, si terrà in quel luogo perché lì ha avuto inizio quel processo di Bologna, nato a fine anni ’90 del Novecento, volto ad “armonizzare” i sistemi europei di istruzione, che aveva in realtà lo scopo di metterli tutti armonicamente al servizio delle aziende e del sistema di produzione capitalistico.
In questa direzione sono andate, da quel momento in poi, tutte le iniziative europee sull’istruzione e quelle dei governi del nostro paese, innestando quel pilota automatico che ben conosciamo e che caratterizza le scelte politiche, economiche e sociali dei governi dei paesi europei da vent’anni a questa parte: l’Unione Europea decide e i governi nazionali applicano.
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La guerra fredda contro la Cina
Ovvero l'autogoal dell'occidente
di Carlo Formenti
Mentre scrivo queste pagine, il neo presidente Biden viaggia per il mondo nel tentativo di costruire un fronte euroatlantico in funzione anticinese e antirussa, ovviamente sotto egemonia statunitense. Un progetto che costerebbe caro agli alleati europei (per i quali uno sganciamento dalla partnership economica con la Cina comporterebbe effetti catastrofici), per cui è prevedibile che raccoglierà molti consensi sul piano formale assai meno sul piano sostanziale. Ancor più irrealistico appare l’obiettivo di rompere il legame fra Cina e Russia, convincendo la seconda a schierarsi con l’Occidente, soprattutto perché fondato non su aperture e concessioni, bensì su continue provocazioni politico-militari – vedi Ucraina e Bielorussia – e sanzioni economiche (con il risultato che per la Russia l’alternativa obbligata diventa quella fra capitolazione e ulteriore avvicinamento alla Cina). Pura stupidità, sopravalutazione delle proprie forze, sottovalutazione di quelle degli avversari? Probabilmente un mix di questi fattori, ma soprattutto c’è l’ottusa ripetizione di vecchie strategie inadeguate al nuovo contesto mondiale, così come c’è una chiara incomprensione della logica di un competitor – la Cina – assai diverso dall’Urss, il rivale sconfitto qualche decennio fa. A tale proposito, per chi volesse dotarsi di un minimo di conoscenze attendibili – al posto dell’indigeribile paccottiglia che ci viene quotidianamente propinata dai media di regime, con la complicità di non pochi intellettuali “di sinistra” – su cosa è la Cina di oggi, è consigliabile la lettura de La via cinese. Sfida per un futuro condiviso, di Fabio Massimo Parenti, professore associato alla China Foreign Affairs di Pechino e docente al Lorenzo de Medici, The Italian International Institute di Firenze (il libro è appena uscito da Meltemi). Qui di seguito anticipo alcuni argomenti di questo lavoro.
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I fatti di Tavazzano Lodi nelle complicazioni della fase
di Michele Castaldo
Il fatto quotidiano, giornale democratico che ha sostenuto i governi Conte Uno e Conte Due, sui fatti di Tavazzano Lodi, titola in prima pagina: « Fedex Tnt: squadrismo contro gli operai licenziati ». Poi comincia l’articolo dicendo: « sarà un’indagine a svelare se il presidio dei lavoratori assaltato con bastoni e bottiglie è stato opera di bodyguard pagati dall’azienda ».
Sono i miserabili democratici al servizio di sua maestà il capitale che si scandalizzano per fatti che nei tempi moderni ormai non dovrebbero più accadere. Cerchiamo di entrare più da vicino sui fatti, e capire in profondità le complicazioni che presenta la fase per le condizioni dei lavoratori e la possibilità della loro organizzazione per difendersi in questa crisi.
Indipendentemente se siano stati bodyguard o lavoratori di imprese del nuovo appalto nel nuovo impianto di FedEx Tnt di Tavazzano Lodi ad aggredire gli operai licenziati della FedEx Tnt di Piacenza che cercavano di farsi sentire, perché licenziati in 298, bloccando il transito dei mezzi in entrata e in uscita delle merci, c’è un responsabile criminale che
si chiama rincorsa del profitto e che siede nelle poltrone dei capitani d’industria. Dunque c’è innanzitutto un imputato certo, pertanto non cerchiamo nella risposta del magistrato, che indaga, il colpevole, peggio ancora se certe indagini vengono affidate a certi magistrati come la dottoressa Pradella che giustificò l’intervento della polizia, a Piacenza, in virtù di « gravi fattori di pericolosità » nei confronti di lavoratori che chiedevano qualche sacrosanto diritto « garantito dalla Costituzione », o – peggio ancora – come il giudice per le indagini preliminari, la signora Donatella Bonci Buonamici che definì « atto di civiltà » la scarcerazione degli indagati incarcerati da un altro magistrato.
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Il prezzo della crisi
di Marco Bertorello e Danilo Corradi
Anche se gli addetti ai lavori sembrano non preoccuparsene più di tanto, dopo un lungo periodo di ristagno dei prezzi la crisi pandemica potrebbe costituire l’innesco di una impennata inflazionistica frutto della crisi del paradigma austeritario
La crescita dei prezzi ad aprile negli Stati uniti ha riacceso il dibattito attorno alla possibilità di una ripartenza del fenomeno inflazionistico. Il dato registrato è stato pari a +4,2% su base annua, una percentuale superiore di quasi un punto rispetto a quella attesa. In Europa e in Cina l’inflazione al consumo è ancora sotto quota 2%, ma la tendenza è alla crescita e soprattutto appare superiore alle previsioni la risalita dei prezzi alla produzione in Cina, che sempre ad aprile ha fatto segnare un +6,8%. Questi due dati non potevano passare inosservati dopo un lungo periodo di parziale deflazione, ma complessivamente non hanno preoccupato gli addetti ai lavori. Sembra farsi strada l’idea che il fenomeno abbia natura sostanzialmente temporanea, un rimbalzo dei consumi e delle scorte nel quadro del superamento dei mesi più duri relativamente alle misure di contenimento della pandemia.
Pur non potendo vendere certezze di segno opposto, l’idea del semplice rimbalzo ci convince poco, tanto più che l’ipertrofia e le contraddizioni della finanziarizzazione, che hanno spinto David Harvey a parlare di «complessità assai contorte del sistema finanziario», inviterebbero a dismettere metodologicamente l’idea che possano esistere certezze granitiche. Il quadro dell’economia globale è incerto e assai aperto a varie possibilità, tra cui quella di una fiammata inflazionistica non va esclusa. Tale evenienza era stata da noi avanzata in tempi non sospetti proprio sulle pagine di Jacobin Italia al termine della scorsa primavera, cioè in piena pandemia e recessione. Un’ipotesi che all’epoca poteva apparire azzardata, ma che oggi deve perlomeno essere presa in considerazione seriamente.
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La tragedia (o meglio la farsa) della tassa minima sui profitti
di Marco Bersani e Andrea Fumagalli
Atto I. Il potere delle multinazionali
Secondo il rapporto 2020 “Top 200. La crescita del potere delle multinazionali”, elaborato dal Centro Nuovo Modello di Sviluppo, le imprese multinazionali sono 320.000 e occupano 130 milioni di dipendenti, pari al 4% degli occupati mondiali. Il loro fatturato è pari a 132mila miliardi di dollari, con profitti netti pari a 7.200 miliardi di dollari. Il 14% di questo fatturato è coperto dalle prime 200 imprese multinazionali.
Molte multinazionali hanno un fatturato superiore al Prodotto Interno Lordo degli Stati: nella comparazione, nei primi 100 posti compaiono 42 multinazionali (con la prima al 25esimo posto). Ma se il confronto viene effettuato tenendo conto delle entrate degli Stati e dei fatturati, le multinazionali presenti nei primi cento posti diventano 69 (con la prima al 13esimo posto).
Sempre secondo tale rapporto, le società quotate in Borsa sono circa 41.000, con un capitale complessivo di 84mila miliardi di dollari, pari al Pil dell’intero pianeta.
Tra gli azionisti delle prime 10.000 di queste società figurano per il 41% investitori istituzionali (assicurazioni, fondi di investimento, fondi pensione), per il 27% azionariato diffuso, per il 14% investitori pubblici, per l’11% imprese private e per il 7% investitori individuali.
I primi dieci fra gli investitori istituzionali gestiscono da soli il 57% della ricchezza totale finanziaria, mentre fra gli investitori pubblici, è il capitale pubblico cinese a fare la parte del leone (57%).
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Lo sdoppiamento virtuale dello spazio pubblico
di Renato Curcio
Riprendiamo questo lungo e interessante articolo di Renato Curcio, uscito sulla rivista “Su la Testa” (qui il link)
Con l’inizio del terzo millennio l’espansione del continente digitale planetario ha investito l’Italia e coinvolto nell’erosione progressiva dello spazio pubblico gran parte dei suoi cittadini. Con “spazio pubblico” non intendo soltanto quell’insieme di luoghi aperti e reali, ovvero non virtuali, entro cui lo Stato dovrebbe garantire a tutti la libertà di esercitare apertamente i diritti di cittadinanza, d’informazione, di attività culturale e politica in tutte le varianti. Ancora prima, infatti, lo si dovrebbe considerare come uno spazio strategico per la maturazione e il consolidamento delle nostre abilità relazionali; delle capacità di progettazione comune, di collaborazione empatica e di operatività condivisa. Come una grande rete di luoghi immaginati, voluti e liberamente istituiti da aggregazioni sociali autonome e autogestite. Luoghi aperti, dunque, in virtù dei quali possano svilupparsi e assumere una forma storica i momenti di confronto e le forme sorgive della creatività e del mutamento sociale. Nella seconda metà del Novecento gli spazi pubblici post-bellici avevano vissuto in questo Paese un importante scossone. Le deboli attrezzature associative istituite per via burocratica dallo Stato dovettero cedere il passo a nuove esigenze culturali portate avanti da un fermento generazionale e laico nato in alternativa anche ad altre istituzioni robustamente sostenute da enti religiosi o privati.
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I «disastri naturali sociali» e il nuovo movimento per il clima
di Thomas Meyer
1.
La rapida diffusione del movimento di difesa del clima nel mondo è veramente notevole (cfr. Haunss; Estate 2020). Notevole è anche l'odio di cui questo movimento è talvolta oggetto, specialmente l'odio contro Greta Thunberg. Semplicemente, il soggetto borghese in crisi non vuole ammettere che il suo stile di vita capitalista è diventato insostenibile. Perfino i più piccoli cambiamenti nelle viti che regolano il sistema, fanno andare su tutte le furie il «cittadino preoccupato». A partire da questo, il movimento per il clima non viene visto come un'occasione o come un'opportunità di riflessione e viene invece, fin dall'inizio, continuamente interrotto da «isteriche reazioni difensive» (cfr. Hartmann 2020, 118ss.). La «virilità tossica» si scarica attraverso innumerevoli commenti di odio e si manifesta per mezzo di "contro-movimenti" assurdi e assolutamente reazionari come i "Venerdì per la cilindrata" (attualmente con circa 500.000 membri). [*1] Coloro i quali vedono la loro automobile come se fosse un'estensione del loro cazzo sembra che si sentano simbolicamente evirati da una ragazza.
Mentre da una parte il cambiamento climatico è diventato ovvio e scontato, dall'altra viene ostinatamente negato dai populisti e dai radicali di destra (come Donald Trump e Beatrix von Storch).
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Il futuro è oggi. L’urgenza di un modello di sviluppo alternativo
di Fabrizio Venafro
Il recente ennesimo disastro ecologico causato dall’affondamento di una nave cargo al largo delle coste dello Sri Lanka, ripropone prepotentemente la questione ambientale e in particolare dell’enorme quantità di plastica prodotta e dispersa nelle acque del globo. Dopo giorni di incendio, la nave affonda disperdendo enormi quantitativi di plastica e petrolio nell’oceano e sulle spiagge. È stato stimato che negli oceani la quantità di materiale inorganico immesso dall’uomo è ormai maggiore di quella di materia organica, costituita da pesci e alghe. Le microplastiche presenti nel ciclo dell’acqua sono ormai diffuse ovunque e fanno parte dell’alimentazione dei pesci (costituendo una sorta di plancton tossico) e tramite questi della nostra. L’invenzione della plastica, salutata quale grande progresso del XX secolo, si sta rivelando un vero e proprio cavallo di Troia per la salute umana. Un materiale che ha insitauna contraddizione dovuta al fatto che, a dispetto della lunga durata, viene impiegato per la produzione di oggetti usa e getta. Quello della plastica è solo uno dei problemi ambientali che ci vengono posti dalle sfide per il futuro e che pongono l’attuale modello di sviluppo sul banco degli imputati. La cosa bizzarra, quasi uno scherzo del destino, è che continuando secondo il modello espansivo perseguito finora, la catastrofe si abbatterà sullo stesso genere umano che ne subirà direttamente le conseguenze e potrebbe autoestinguersi. La Terra sopravvivrà a tutti gli stress cui la stiamo sottoponendo, ma si può dire la stessa cosa per il genere umano? Il nostro è un genere che provoca la propria estinzione e questa è una peculiarità della nostra specie, che pur si distingue per l’uso della razionalità.
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Michel Foucault filosofo del secolo
di Rocco Ronchi
Jules Vuillemin, insigne storico della filosofia che molto aveva contribuito alla elezione di Michel Foucault al Collège de France nel 1970, a distanza di appena un anno da quell’evento, nutriva più di un dubbio sulla bontà di quella scelta. Era stata ottenuta al prezzo di non poche negoziazioni con una Accademia poco incline ad accogliere tra le sue file l’autore di un libro inclassificabile come Folie et déraison (in italiano tradotto con il titolo Storia della follia nell’età classica, che era il sottotitolo francese), libro nato da una tesi dottorato che aveva consacrato il giovane studioso proveniente dalla provincia francese (Foucault era nato a Poitiers il 15 Ottobre del 1926) nell’Olimpo della cultura parigina. In Michel Foucault. Il filosofo del secolo. Una biografia, Feltrinelli 2021 (trad. it. Lorenzo Alunni; ed. originale 2011), Didier Eribon racconta di una telefonata preoccupata di Vuillemin a Georges Dumézil, il grande storico delle religioni, che era stato il nume tutelare della carriera di Foucault fin dagli anni del suo apprendistato filosofico all’École Normale. Sembra che gli chiedesse sgomento “Cosa abbiamo fatto? Mio Dio, cosa abbiamo fatto?” (p. 291). Sfogliando i giornali, Vuillemin vi trovava le immagini del neoletto che insieme a Sartre, al quale, però, tutto era a priori perdonato, e ai maoisti, che erano egemoni sulla scena studentesca, si faceva interprete delle rivendicazioni sociali e politiche più radicali. Non mancavano poi imbarazzanti episodi di cronaca.
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Il “lupo marxicano”
di Giorgio Gattei
Giorgio Gattei, docente e storico del pensiero economico ed economista marxista italiano, che ha partecipato al dibattito apertosi nella Sezione Quadri di "Cumpanis" sulla questione Sraffa - Marx, ci invia questo suo prezioso contributo, con Sraffa ancora protagonista
Come fu che Pierino Sraffa chiuse in gabbia il “lupo marxicano”, ma lasciandoci la chiave per ridargli la libertà ("Dianoia", giugno 2018)
Quando nel 1988 ho letto per la prima volta Pierino e il lupo di Gianfranco Pala (dono graditissimo dell’autore) adesso ripubblicato da Franco Angeli, mi sono divertito come non mai: brillante, intelligente, irriverente, prendeva a pretesto l’omonima favola sinfonica (1936) di Serghei Prokofiev (la cui storia è riportata integralmente, a spizzichi, nel corso del libro) per servirsene come il canovaccio per narrare, come recita il sottotitolo, «come fu che Pierino (Sraffa) riuscì a catturare il lupo marxicano salvandolo dai fucili dei cacciatori, epperò facendolo rinchiudere in gabbia».
Tuttavia il libro è prolisso, zeppo di note e di due appendici che fanno quasi un volume a parte, e poi tratta di un argomento, quale la “teoria del valore-lavoro e dintorni”, che oggi pare questione d’archeologia. Ci sono, insomma, troppe parole e troppi animali, col richio che il lettore poco addentro alle segrete cose della “triste scienza” (la political economy di un tempo) finisca per perdersi in tanto zoo. Certamente una ristampa alleggerita di alcune parti polemiche (su temi che allora erano oggetto di feroci dibattiti, ma che adesso non dicono più nulla) avrebbe favorito, ma tant’è: lo si è voluto ripubblicare tale e quale. Trattandosi tuttavia di un libro importante che riporta in scena argomenti cruciali (“critici”, come avrebbe detto il lupo marxicano) che mai andrebbero dimenticati dagli economisti, azzardo un riassunto della trama e ci ricamo un po’ sopra per dar conto anche del seguito della storia di Pierino e del suo lupo, che fortunatamente non si è fermata al 1988, vigilia del più tristo 1989.
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L’illusione della globalizzazione fiscale
di Giacomo Gabellini
Il gigantesco pacchetto di stimoli fiscali elaborato dall’amministrazione Biden e recentemente approvato dal Congresso ha suscitato grandi speranze, nonostante gli enormi problemi legati alla sua applicazione pratica. In concreto, il governo prevede di finanziarlo tramite «il più grande aumento delle tasse mai visto dal 1942», a carico delle fasce alte della società e delle aziende. Secondo i calcoli di Washington, i circa 2.000 miliardi di dollari richiesti dal piano dovrebbero essere rastrellati mediante l’innalzamento delle aliquote relative ai prelievi sugli utili societari (dal 21 al 28%) e sui profitti delle imprese multinazionali Usa realizzati all’estero (dal 10,5 al 21%). Per evitare che l’inasprimento della pressione fiscale all’interno dei confini statunitensi accentui ulteriormente la già spiccatissima propensione delle imprese Usa a spostare la propria sede fiscale all’estero e a ricorrere al fenomeno dell’estero-vestizione per sfuggire al fisco nazionale, Biden e il suo segretario al Tesoro Janet Yellen hanno cercato di richiamare l’attenzione della comunità internazionale sulla necessità di porre fine alla competizione fiscale in cui gli Stati Uniti sono pienamente coinvolti quantomeno dal 2010.
In quell’anno, mentre annunciavano pubblicamente l’intenzione di porre l’abolizione del segreto bancario in cima alla scala delle priorità, governo e Congresso ufficializzavano l’introduzione del Foreign Account Tax Compliance Act (Fatca), una legge che impone a qualsiasi istituzione finanziaria, sia statunitense che straniera, di fornire alle autorità tutte le informazioni riguardanti i clienti statunitensi.
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Una nuova internazionale nera, dalla Spagna all’America Latina
di Geraldina Colotti
L’attualità dell’America latina mette in primo piano le elezioni di domenica 6 giugno in Messico e in Perù, mentre continuano le proteste in Colombia, a cui il governo Duque risponde con massacri silenziati dai media occidentali.
Al riguardo, iniziamo col raccogliere l’invito del filosofo messicano Fernando Buen Abad che si occupa di semiotica radicale e combattiva e che, alle sue riflessioni sulle elezioni in Messico, ha premesso la vignetta di un cervello in gabbia come invito a non ottundere il pensiero critico seguendo le menzogne mediatiche. In Messico, che conta 129 milioni di abitanti, andrà alle urne un totale di 94 milioni di aventi diritto. Voteranno per il rinnovo della Camera dei Deputati, dove si eleggeranno 500 nuovi membri. A livello locale, si vota in 15 governazioni, 30 municipi e 30 congressi locali.
Morena, il partito del presidente Lopez Obrador, si presenta in una coalizione denominata Juntos Hacemos Historia, e composta anche dal Partido del Trabajo (PT), dal Partido Verde Ecologista de México. I due partiti di destra, il Pri e il Pan, vanno invece uniti nell’alleanza Va por Mexico. Un dato significativo per un paese nel quale le violenze patriarcali e omofobiche sono molto elevate, è il record di candidati alla Camera dei movimenti LGBTIQ+ , e il fatto che quasi il 2% degli oltre 5.300 candidati ai diversi incarichi ha dichiarato in un’inchiesta di identificarsi come parte della comunità. In queste elezioni, vi sono candidati che si definiscono transgender, omosessuali e muxe, un terzo genere riconosciuto all’interno della cultura degli zapotechi di Oaxaca, nel Messico meridionale, che indica una persona alla quale è stato assegnato individualmente il sesso maschile, ma che si veste e si comporta con modalità femminili.
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Perché ho parlato contro i lockdowns
Sulla necessità di sfidare il senso comune sul Covid
di Martin Kulldorff
Nota introduttiva a cura della Redazione de La Fionda
Dall’inizio dell’epidemia di Sars-Cov-2, abbiamo assistito all’amplificarsi e all’imporsi di un approccio e di una dinamica politica, mediatica e scientifica, che ha fatto della censura e della politicizzazione di dubbi argomentati, di opinioni, posizione scientifiche autorevoli o addirittura di farmaci e protocolli terapeutici, una forma di gestione di ciò che nel discorso pubblico e nello spazio sociale delle democrazie occidentali, può esser considerato legittimo e dicibile, e di ciò che invece deve essere rifiutato come fake. Si tratta di un metodo di controllo o, per meglio dire, di governo della pubblica opinione e del suo spazio di accettabilità e di legittimità: metodo che era già radicato e praticato nell’era pre-Covid, rispetto, ad esempio, a temi riguardanti l’Unione Europea, le questioni economiche e monetarie, o ancora i rapporti geo-politici tra gli Stati o i problemi legati all’immigrazione, ma che ha fatto dell’epidemia e della questione sanitaria il nuovo campo d’azione e di delimitazione del discorso pubblico.
Questo metodo di governo della pubblica opinione, così come delle posizioni scientifiche, ha sostanzialmente racchiuso le maggiori questioni problematiche riguardanti l’epidemia, delimitando il campo del discorso considerato legittimo perché certificato da autorità politiche, TV, giornali e social media come vero, e costruendo, al tempo stesso, una cappa di indicibilità su chi ha sollevato dubbi e interrogativi capaci di mettere in discussione quella narrazione ufficiale. La sola possibilità di espressione libera che non incorra né nel meccanismo di delegittimazione pubblica e mediatica, né nella conseguente censura, consiste nel presentare le tesi opposte alla narrazione certificata e vera, come delle pure ipotesi senza alcuna pretesa veritativa.
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Trump, Fort Detrick e il Covid 19
Il colpevole silenzio degli Stati Uniti sulla vera origine del coronavirus
di Daniele Burgio, Massimo Leoni e Roberto Sidoli
Tutta una serie di variegate informazioni e di fatti concreti, combinati strettamente tra loro a partire da alcune clamorose anomalie, provano e attestano oltre ogni dubbio che:
1. Il coronavirus ha iniziato a contagiare e devastare il mondo trovando il suo luogo di origine e di propagazione nella base militare e nel laboratorio batteriologico di Fort Detrick, collocato nello stato del Maryland degli Stati Uniti, fin dal luglio del 2019 e quindi più di tre mesi in anticipo rispetto ai casi riportati a Wuhan e in Cina;
2. Il governo Trump, gli apparati statali americani e l’amministrazione Biden in carica dal gennaio del 2021, hanno via via cercato, coscientemente e costantemente, di coprire e nascondere tale gravissimo evento di contaminazione durante il periodo compreso tra il luglio del 2019 e il presente, ossia per due lunghi e sanguinosi anni: una menzogna permanente e perfettamente consapevole di Washington che ha direttamente causato e prodotto il dilagare della paurosa strage di più di tre milioni di esseri umani, insanguinando dall’estate del 2019 quasi tutto il nostro pianeta e provocando circa 600.000 vittime innocenti nella stessa America.
Fin dal 1943 e senza soluzione di continuità uno dei principali siti militari statunitensi per la guerra batteriologica, Fort Detrick, registrò al suo interno una prima e innegabile “fuga” verso il mondo esterno del batterio che causa l’antrace (una gravissima infezione, con sintomi molto simili a quelli creati dalla polmonite) già il 18 settembre 2001, ossia solo una settimana dopo gli attentati dell’11 settembre.1
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Alla ricerca dell’alleato: la Agrarfrage di Karl Kautsky
di Eros Barone
La Questione agraria (1899) di Karl Kautsky si compone di tre parti distinte, anche se fra loro logicamente connesse: una prima parte generale e prevalentemente teorica; una seconda parte dedicata all’analisi degli aspetti specifici dell’agricoltura sul finire del secolo XIX, con una particolare attenzione alla Germania; una terza parte conclusiva in cui sono formulate le grandi linee del programma politico della socialdemocrazia tedesca nei confronti dei contadini e riguardo ai problemi dell’agricoltura. Il fine che viene esplicitamente perseguito dall’autore è quello di «… studiare se e come il capitale si impadronisce dell’agricoltura, la trasforma, rende insostenibili vecchie forme di produzione e di proprietà e crea la necessità di nuove forme. Soltanto quando avremo risposto a queste questioni potremo vedere se la teoria di Marx è applicabile all’agricoltura o no…». 1 In altri termini, Kautsky si è prefisso di sottoporre Il Capitale ad una specie di verifica, e quanto questa sia stata positiva è testimoniato dall’influsso durevole di quest’opera sull’ala sinistra della socialdemocrazia e sul pensiero di Lenin in particolare. 2 Nelle note seguenti si cercherà di porre in luce le categorie teoriche, i contenuti più rilevanti e il metodo dialettico che caratterizzano il ‘magnum opus’ kautskiano e, grazie anche al confronto con l’elaborazione di Lenin sullo stesso tema, ne rendono quanto mai ricca ed istruttiva la lettura.
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Infrastrutture e globalizzazione: una sfida strategica
di Francesco Giuseppe Laureti e Stefano Guarrera
Fin dall’antichità, le infrastrutture riflettono la capacità, tipica dell’essere umano, di rimodellare il territorio secondo le proprie necessità. Se è vero che, in origine, era il fabbisogno di beni di prima necessità e di materie prime a guidare i commerci dall’Europa attraverso le rotte del Mediterraneo e, in seguito, su distanze ben più lunghe, fino all’Estremo Oriente, ecco che l’esigenza di facilitare gli spostamenti, velocizzare il flusso di merci, semplificare le comunicazioni e collegare gli angoli più remoti del globo emerge prima di quanto si sia portati a credere.
Eppure, c’è chi offre una versione più prudente e attenta alle sfide e ai rischi che possono derivare dalle dinamiche economiche e geopolitiche innescate e catalizzate dalle opere infrastrutturali di carattere strategico.
Nel suo The Great Convergence: Information Technology and the New Globalization, Richard Baldwin, professore di Economia internazionale al Graduate Institute di Ginevra, racconta di come la pax mongolica che vigilò sulla Via della Seta tra XIII e XIV secolo non fu soltanto fattore di sviluppo dei commerci tra Occidente e Oriente, ma anche motivo di rapida diffusione della peste bubbonica. L’epidemia senza precedenti che spazzò via tra un quarto e metà della popolazione europea era stata veicolata dai traffici commerciali di un tentativo di globalizzazione, secoli prima della comparsa di treni e battelli a vapore. L’Europa sarebbe uscita prostrata da questa terribile crisi.
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Alla lotta contro i licenziamenti e contro il governo Draghi!
di Tendenza internazionalista rivoluzionaria
Siamo ad un passo dallo sblocco dei licenziamenti di massa, e sulla stampa di regime, il regime-Draghi, è partito il battage propagandistico dell’“andrà tutto bene”, che già ci assordò tempo fa, e abbiamo visto com’è andata. Al megafono il forzista Brunetta, ministro della p.a.: “Siamo alla vigilia di un nuovo boom economico. Stiamo vedendo all’opera gli ‘spiriti animali’ della nostra Italia. Con le nostre riforme (…), una rivoluzione gentile. È il momento Italia” (la Repubblica, 30 maggio). Il capo di Bankitalia Visco ha lanciato l’identico messaggio.
C’è euforia nei palazzi del potere
Il boom di cui parlano sarebbe in realtà un semplice rimbalzo dal fosso (-8,9%) in cui è caduta nel 2020 l’economia italiana insieme a quella mondiale; un rimbalzo che, se andasse “tutto bene” (+4,3% nel 2021, +4,0% nel 2022), la riporterebbe nel 2023 ai livelli del 2019, che erano inferiori a quelli del 2007. Ma non è detto che vada come prevedono.
La loro euforia si fonda sull’ipotesi di una ripartenza a razzo di Stati Uniti e Cina in grado di trainare l’intera economia mondiale. Su questa ripartenza a razzo gravano, in realtà, diverse incognite, che potrebbero farla cortocircuitare anche piuttosto a breve. A cominciare dall’andamento della pandemia da covid-19 nel mondo, e dalla non remota possibilità di nuove pandemie in arrivo.
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L’obbedienza alla ragione è un invito alla rivolta. La proto-Grammatologia di Hamann
di Leo Essen
Nel 1756 Johann Georg Hamann, concittadino e amico di Kant, si reca a Londra per una missione segreta. La ditta Berens (Isaiah Berlin, Il mago del Nord) gli affida una missione la cui esatta natura è a tutt’oggi un mistero. Il compito di Hamann sarebbe stato quello di proporre agli inglesi un eventuale distacco dell’area baltica «tedesca» dall’Impero russo e la nascita di uno Stato autonomo o semiautonomo. La missione si conclude con un nulla di fatto.
A Londra Hamann abita in casa di un insegnante di musica, inizia a suonare il liuto e si vota a una vita di terribile dissipazione. Dopo solo 10 mesi accumula debiti per 300 sterline, versa in uno stato di prostrazione, miseria e solitudine. Poi lascia la casa del musicista e si trasferisce in una modesta pensione, dove, da buon pietista, il 13 marzo 1758 inizia a rileggere le Bibbia. Annota i suoi progressi spirituali giorno per giorno.
Tornato in Germania rifiuta l’invito di Kant di scrivere un manuale di fisica a quattro mani, e nel 1767 accetta un posto di funzionario all’Amministrazione generale delle imposte e dei dazi.
Nel Settecento, la Prussia di Federico il Grande, è, tra tutte le provincie tedesche, la più progressista. La burocrazia di Berlino deve raggiungere il livello di quella francese. Esperti stranieri, soprattutto francesi, vengono invitati alla corte di Potsdam e messi al lavoro. La lingua della corte è il francese.
Ai francesi (Voltaire, Maupertuis e La Mettrie, solo per citare i più famosi), dice Berlin, vengono assegnati gli incarichi intellettuali di maggior prestigio. Sono messi a capo degli uffici amministrativi dello Stato, con grave onta di tutti i veri prussiani (specie nella zona orientale del paese, roccaforte del tradizionalismo), che brontolano, ma obbediscono.
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