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La deriva antiscientifica…
di Sebastiano Isaia
Occorre contrastare la deriva antiscientifica
che si registra un po’ ovunque, anche nel
nostro Paese, sia pure in piccole dosi, per
fortuna. Una deriva antiscientifica che mira
a bloccare il futuro e porta a ricondurre tutto
al passato (Sergio Mattarella).
L’attenzione generale è tutta concentrata sulla questione vaccinale e sulle politiche pseudo sanitarie (vedi Green Pass) che ne discendono. Fin dall’inizio della crisi sociale che chiamiamo Pandemia chi scrive si è invece posto l’obiettivo di mettere in luce le cause strutturali più importanti di questa crisi, che possiamo riassumere come segue: sfruttamento capitalistico degli individui e della natura (*), distruzione degli ecosistemi, globalizzazione ed estrema velocizzazione dei traffici (spostamento di persone e di merci), fragilità dei sistemi sanitari incapaci di generare profitti (vedi la sanità pubblica finanziata con la fiscalità generale), natura profondamente e necessariamente irrazionale (e quindi ostile all’umanità e alla natura) della Società-Mondo che ci “ospita”, e altro ancora riconducibile più o meno direttamente alla natura capitalistica di questa società.
Oggi dire scienza significa dire Capitale, e difatti senza un grande investimento capitalistico la scienza non avrebbe potuto produrre vaccini in così poco tempo e in così grande quantità. Investimento che come sappiamo è stato ben remunerato, com’è necessario che sia in regime capitalistico. Come ha scritto l’apologeta del capitalismo Franco Debenedetti sulla scia di Milton Friedman, «la società assegna all’impresa una e una sola missione: produrre ricchezza», cioè Fare profitti (Marsilio, 2021), che poi è la sola etica che conosce l’impresa capitalistica.
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L’austerità come ostetrica di nuovi fascismi?
di Andrea Del Monaco*
Con il ritorno alla “Fornero” la UE di Draghi e Scholz assomiglia al Governo Bruning nel 1932. Attenzione al sempiterno ordoliberismo di Hayek
Per capire il nesso tra l’assalto neofascista di Forza Nuova alla Cgil, le conseguenze dei risultati delle elezioni tedesche, l'abolizione di quota 100, il contestuale ritorno alla riforma Fornero e l’egemonia dell’ordoliberismo di Friedrich Von Hayek, occorre rileggere il Karl Marx de “Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte” partendo dal suo incipit: “Hegel nota in un passo delle sue opere che tutti i grandi fatti e i grandi personaggi della storia universale si presentano per, così dire, due volte. Ha dimenticato di aggiungere la prima volta come tragedia, la seconda volta come farsa. Caussidière invece di Danton, Louis Blanc invece di Robespierre, la Montagna del 1848-1851 invece della Montagna del 1793-1795, il nipote invece dello zio.”. Oggi abbiamo le politiche deflattive di Draghi e Scholz invece delle politiche deflattive del cancellere tedesco Bruning. L’assalto squadrista alla Cgil inevitabilmente evoca le distruzioni delle sedi dei sindacati, de L’Avanti, de L’Unità e dei partiti antifascisti dal 23 marzo 1919 (fondazione dei fasci da combattimento) al 24 dicembre 1925 (la prima delle leggi fascistissime che chiude definitivamente la fase dell’Italia liberale). Diversamente dal fascismo, il nazismo arriva al potere in Germania nel 1933. La narrazione dominante spaccia come ragione dell’avvento del nazismo l’iperinflazione durante la repubblica di Weimar negli anni venti. In realtà la causa dirimente dell’avvento di Hitler è la politica di austerità condotta dal cancelliere Bruning tra il 1930 e il 1932: aumento del tasso di sconto, forti riduzioni delle spese dello Stato, aumento dei dazi doganali, riduzione dei salari e dei sussidi di disoccupazione. Cosa accadde? Aumentarono la disoccupazione e le imposte, i tagli al welfare ridussero il tenore di vita dei disoccupati e dei proletari presso cui Bruning divenne impopolare. I socialdemocratici, che avevano espresso il precedente cancelliere Muller fino al 1930, malgrado le politiche di Bruning colpissero i lavoratori, si astennero nel timore che il presidente Hindenburg nominasse un governo di destra.
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“La logica interna delle tendenze in atto”
di Eugenio Pavarani
Il titolo di questo contributo è ripreso da una riflessione di Massimo Cacciari: “Si fatica a comprendere la nuova situazione culturale e politica in cui viviamo … La funzione del lavoro intellettuale, se mai ve n’è una, non consiste nel fotografare lo stato delle cose, tanto meno nel farne apologia o nel deprecarlo; essa consiste nell’individuare la logica interna delle tendenze in atto e a che cosa queste possano condurre. Spesso tale logica viene oscurata o mistificata da ragioni contingenti di convenienza politica, altrettanto spesso si evita di fare i conti con essa e viene ignorata. Il lavoro critico, senza alcuna presunzione anticipatrice, con sobrietà e freddezza, è chiamato a metterla in luce e a responsabilizzare nei suoi confronti”. (La Stampa, 07.10.2021)
E’ molto difficile e faticoso comprendere in presa diretta la situazione politica, sociale, economica e culturale in cui si vive. Ne dà un’autorevole testimonianza Hans Magnus Enzesberger: “Ai tempi del fascismo non sapevamo di vivere ai tempi del fascismo”.
E ai tempi di oggi? Sappiamo in quali tempi viviamo? Sappiamo “individuare la logica interna delle tendenze in atto e a che cosa queste possano condurre”? Oppure “tale logica – come indica Cacciari – è oscurata da ragioni contingenti di convenienza politica e si evita di fare i conti con essa e viene ignorata”?
* * * *
Nel corso di alcuni seminari ho invitato le persone che mi ascoltavano a porsi queste domande. Ho posto il problema in questo modo: avete davanti a voi il libro di storia del secondo dopoguerra che sarà scritto nel 2050; scorrete l’indice. Il capitolo sui primi tre decenni avrà probabilmente un titolo che è già diffusamente condiviso in letteratura: “I trenta anni gloriosi dello Stato sociale”. Quali titoli avranno i due periodi successivi? quello che termina con la crisi dei subprime e quello contemporaneo. Proviamo a mettere in luce le tendenze in atto che potrebbero dare i titoli ai due periodi.
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La storia segue vie diverse, come la rivoluzione
di Fabio Ciabatti
Umberto Melotti, Marx passato, presente, futuro. Una visione alternativa dello sviluppo storico, Meltemi, Milano 2021, pp. 312, € 20,90
Il multiculturalismo è stato una delle ideologie delle classi dominanti durante gli anni rampanti della globalizzazione. Non bisognerebbe dimenticarlo quando ci si accinge a criticare l’idea che la storia sia un percorso unilineare dalle società primitive a quelle più evolute. Certamente questa visione ci può condurre facilmente a una concezione eurocentrica che, volenti o nolenti, finisce per essere di supporto alle politiche colonialiste e imperialiste dell’Occidente. Un relativismo poco accorto, però, ci può portare con altrettanta facilità all’accettazione acritica non solo delle culture “altre”, ma anche degli effettivi sistemi politico-sociali extra-occidentali perché considerati espressioni dirette o indirette di quelle culture. Anche quando questi sistemi colludono di fatto con il dominio imperialistico.
Se vogliamo orientarci in questo orizzonte problematico non possiamo prescindere dal contributo del vecchio rivoluzionario di Treviri. Ma come, si potrebbe obiettare, non fu Marx artefice di una filosofia della storia finalistica e meccanicistica che lascia poco spazio alla pluralità delle traiettorie storiche? Le cose non stanno così secondo Umberto Melotti: “L’unilinearismo costituisce indubbiamente una delle tentazioni del pensiero di Marx, e più ancora di Engels, così come di tutti i sistemi storicistici e positivistici dell’Ottocento. Eppure Marx unilinearista non è”.1 Fu infatti lo stesso Marx a scrivere che “La storia non fa niente, non possiede alcuna ricchezza, non combatte alcuna lotta! È l’uomo, l’uomo reale e vivente, che fa tutto, possiede tutto e combatte tutto”.2 Un pensiero che viene così completato da Melotti: “Come risultato dell’agire degli uomini, la storia non è, né può essere, unilineare sviluppo di un processo finalisticamente necessario, ma è manifestazione multilineare e disgiuntiva di qualcosa di variamente possibile, se pure non privo di senso”.3
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L’epidemia d’odio, la tecnica e la cultura nell’epoca del Green Pass
Silvia D’Autilia intervista Andrea Zhok
SD: Professor Zhok, lei è stato tra i primi firmatari e promotori dell’appello dei docenti universitari contro il Green Pass, che è oggi arrivato a più di mille professori aderenti. Il vostro dissenso è sia relativo all’adozione di una misura considerata discriminatoria nei confronti di studenti e lavoratori, sia in relazione allo spirito d’inclusione e partecipazione che caratterizza l’università. Dal suo punto di vista, quali conseguenze determinerebbe il perseverare di questa norma o la sua semplice traccia storica nell’ambito della cultura e del diritto allo studio?
AZ: La cultura, che uscirà a pezzi da questa vicenda, quali che ne siano gli esiti, è la cultura civile e democratica. Il decisionismo del governo su una questione delicatissima come questo “certificato di piena cittadinanza” ha prodotto una spaccatura drammatica, una vera e propria epidemia d’odio, da cui temo non ci rimetteremo per anni. Ha dell’incredibile la leggerezza con cui si è messo mano a una norma che:
1) tocca le libertà fondamentali (a partire dall’inviolabilità del corpo proprio, fino al diritto al lavoro e allo studio),
2) lo fa con motivazioni pretestuose (i sondaggi precedenti al GP parlavano di un mero 5% di cittadini pregiudizialmente ostili a vaccinarsi: non c’era nessuna ‘emergenza no-vax’) e
3) scatena simultaneamente incontrollabili istinti atavici come quello dell’autopreservazione (timore del contagio da una parte; timore dell’inoculazione dall’altra).
Di fronte a un tema socialmente, psicologicamente e anche scientificamente così delicato il governo ha ritenuto di procedere come il proverbiale elefante in una cristalleria, portandosi dietro gran parte dell’opinione pubblica in una sorta di riedizione della caccia all’untore.
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PNRR: Piano Nazionale di Radiazione di ogni Resistenza (umana)
di Il Rovescio
Pubblichiamo molto volentieri queste preziose riflessioni sulla Sanità 4.0, scritte da una compagna che da trent’anni si occupa di salute (in senso professionale e non solo) ispirandosi alla medicina tradizionale cinese. Dai corpi ai campi, dai laboratori alle strutture sanitarie, l’intreccio tra digitalizzazione e biotecnologie ci sta portando verso un “nuovo ordine sociale” in cui l’umanità stessa viene concepita e trattata come un “prodotto difettoso”. Diventa allora sempre più urgente, secondo l’autrice del testo, pensare e praticare percorsi di autorganizzazione anche in ambito medico. Uno stimolo, insomma, ad aprire un’ampia discussione che coinvolga sia compagne e compagni sia quella parte del personale sanitario che è ancora e vuole restare umana.
* * * *
È ormai evidente che un’emergenza sanitaria reale è diventata il cavallo di Troia attraverso cui limitare in modo sempre più accelerato le libertà individuali e plasmare un nuovo ordine sociale, in cui il valore di ogni specie, compresa quella umana, e del pianeta diventano esplicitamente secondari rispetto alla sopravvivenza ed al funzionamento adattato del sistema.
Premetto che per me è importante in questo momento sottolineare che non si tratta di un banale virus; che si tratti di un prodotto di laboratorio o che sia conseguenza della devastazione ambientale nel suo complesso, è un dato di fatto che esso richiede di essere trattato per tempo ed in modo appropriato, specifico e da persone competenti (ovvero che hanno studiato e praticato la medicina) e che il cosiddetto “long Covid” riguarda il 14% dei contagiati, in proporzione maggiore nelle fasce più giovani, con conseguenze sul lungo termine ancora ignote.
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“L’essenza, per le fondamenta”. Intervista a Bruno Casati
Dallo scioglimento del PCI all'attuale crisi del movimento comunista italiano
di Bruno Casati*
“Cumpanis” ha posto a Bruno Casati, come ad ogni altro interlocutore/interlocutrice di questo Speciale, “L’essenza, per le fondamenta”, alcune domande, le cui risposte l’Autore ha preferito sintetizzare in questo unico testo
Negli anni ’80, e men che meno nel decennio precedente, non si ebbe mai la percezione della gravità che, nel PCI, andava ad assumere un doppio fenomeno. Il primo dato dai riformisti che, ancora con Berlinguer vivente, conquistano la maggioranza nella Direzione e nella Segreteria Nazionale del Partito, tanto che Berlinguer opera la “seconda svolta di Salerno”, con cui recupera il rapporto che si era allentato con la base comunista, forzando le regole del centralismo democratico e solo così aggirando il dissenso della Direzione.
Il secondo fenomeno si configura nel manifestarsi, cautamente all’inizio, di una nuova generazione di comunisti. È la leva dei giovani della FGCI degli anni Sessanta che, nell’80, diventati quarantenni alzano la testa. È la loro la prima generazione che non può, ovviamente, disporre del “cursus honorum” dei precedenti gruppi dirigenti del PCI: i fondatori di Livorno, i quadri della clandestinità, poi della Spagna, della Resistenza, del “partito nuovo” di Togliatti e, infine, della “via italiana al socialismo”.
I giovani della FGCI del Sessanta sono, invece, entrati direttamente negli apparati del partito dopo qualche anno di università, taluni, senza aver mai diretto, tutti, una lotta di fabbrica o di territorio. Però sono molto ambiziosi e si propongono di farsi largo nel partito, ma prima devono liberarsi dei padri. L’operazione rasenta l’impossibile fintanto che resta in campo Berlinguer, che avrà pure perso la maggioranza della Direzione ma resta l’ultimo grande dirigente per il quale si possa parlare di “sacralità del capo”. Pertanto, bisogna liberarsi di Berlinguer e della sua intransigenza che lo aveva portato sia alla critica frontale del craxismo che alla denuncia del malcostume interno al partito. I Riformisti filo craxiani che controllano la Direzione, la CGIL e alcune importanti federazioni come quella di Milano, sono d’accordo con i quarantenni rampanti e si apprestano cinicamente a usarli.
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Socialismo. Necessario e impossibile?
di Paolo Favilli
Il problema delle disuguaglianze e il futuro del capitalismo. Una rilettura di Thomas Piketty (“Il capitale nel XXI secolo” e “Capitale e ideologia”) e Joseph E. Stiglitz (“La globalizzazione che funziona” e “Il prezzo della disuguaglianza”)
Nel giornalismo colto
Esaminare il mutamento di prospettiva intervenuto in lavori dello stesso autore scritti in periodi diversi ci permettere di comprendere meglio i problemi connessi alla questione del «futuro del capitalismo»: ha «i secoli contati» oppure è in atto una transizione verso il post-capitalismo, magari verso qualche forma di socialismo?
Non c’è dubbio che il riferimento alle categorie analitiche marxiane sia essenziale per ragionare sulla questione. In questo intervento mi occuperò della progressiva consapevolezza di tale fatto emersa anche in ambito di una cultura estranea alla critica dell’economia politica.
I monumentali libri di Piketty, divisi da tempi più lunghi rispetto alle date di edizione (le ricerche per il primo cominciano nel 1998), sono la punta teorica più evidente di questo itinerario, ma non sono isolati da una temperie di pensamenti che percorre una parte della cultura lato sensu liberale.
Di particolare interesse, ad esempio, il fatto che già a fine secolo si potesse leggere in un magazine americano di alto livello culturale, il «The New Yorker, frasi come questa: «His books [Il capitale] will be worth reading as long as capitalism endures» [1].
Sostenere che Il capitale meriterà di essere letto finché esisterà il capitalismo, potrebbe sembrare un’affermazione ovvia. In verità non lo è assolutamente neppure oggi, dopo un ventennio di crescita ininterrotta delle pubblicazioni dedicate a Marx ed al suo capolavoro. La frase citata appartiene a John Cassidy ed è del 1997, periodo in cui le magnifiche sorti e progressive di un capitalismo liberato da lacci e lacciuoli condannavano Il capitale alla relegazione perpetua nel cimitero dei libri inusabili, dei libri morti.
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Le motivazioni del “no” al green pass in chiave marxista e differenze con la destra
di La Riscossa
Pubblichiamo questo articolo nello spirito di collaborazione che si è costituito tra “Cumpanis” e “La Riscossa”, giornale on-line del Partito Comunista
«Le verità espresse dalla ricerca scientifica non sono verità assolute e definitive ma sono approssimazioni storiche e la scienza è un movimento in continuo sviluppo. Se infatti la verità scientifiche fossero definitive ed acquisite definitivamente su un piano assoluto e metastorico, la scienza come tale avrebbe cessato di esistere. Si ha quindi che la scienza è una categoria storica, essa offre parametri di interpretazione della realtà che sono varianti e varieranno con il variare delle epoche storiche. In realtà anche la scienza è una superstruttura, una ideologia. La scienza quindi non ha una sua validità assoluta, al di là del tempo, ma rappresenta nella sua storia il reflusso di rapporti di forza reali all’interno delle classi e dei modi di produzione». (A. Gramsci, Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce)
Scientificamente e socialmente ci troviamo di fronte ad una pandemia che non può essere messa in dubbio e che, sebbene non abbia le caratteristiche di gravità di altre epidemie (Ebola, Mers, Vaiolo, Poliomielite), certamente richiede un impegno serio per debellarla. A testimonianza di ciò è da sottolineare l’incremento del numero di morti totali che si è avuto in Italia e nel mondo intero in questi due anni.
È certamente discutibile la questione di come siano state effettuate le cure preventive, di come la sanità pubblica sia stata depotenziata dalle continue privatizzazioni, di come siano state fronteggiate le vere situazioni di pericolo, dai trasporti ai luoghi di lavoro e di studio. Ciò ha contribuito ad aumentare il numero di vittime che si sarebbero potute evitare, ma non oscura la pericolosità del virus.
Va sottolineato il processo di urbanizzazione selvaggia portato avanti da molti Paesi sotto la spinta della “finanza cementizia”, processo che ha condotto alla creazione di città-agglomerato sempre meno vivibili e pensate per un uomo-merce in grado unicamente di produrre ricchezza per il vertice della piramide capitalista, ricchezza di cui non potrà godere viste le condizioni in cui versa.
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Note su lotte di classe, nazione e internazionalismo in Engels e Marx
A partire da un libro di Domenico Losurdo
di Fortunato M. Cacciatore (Università della Calabria)
La storia di ogni società finora esistita è la storia
delle lotte di classe.
1.
Nella frase d’apertura del Manifesto del partito comunista, il plurale, Klassen- kämpfe, non è casuale, né accessorio, ma è una importante indicazione di lettura per i testi di Marx, di Engels e della loro eredità1. Una lettura che, commisurando il «piano filologico e logico» a quello della «storia reale» (e viceversa)2, provi a inoltrarsi nella complessità delle posizioni, delle contraddizioni, delle oscillazioni interne a una elaborazione teorica e pratica che, nel XIX secolo, ha saputo più di altre confessare la propria intrinseca storicità3. Una lettura che sappia tenere conto degli scarti tra le «definizioni», i «principi», le «teorie» e la loro «applicazione» in circostanze spazio-temporali differenti, o del tutto eterogenee. In tali sfasature, hanno luogo i momenti della pratica politica: sono i momenti in cui la strategia è messa alla prova della congiuntura e della sua irriducibile contingenza. Momenti nei quali, proprio in quanto scissi e contestati, i termini politici si definiscono, si traducono in principi o si istituiscono come elementi teorici fondamentali. Momenti nei quali l’inimicizia non è mai pura perché determinata dall’amicizia che (più o meno inconsapevolmente) vincola tra loro i contendenti (termini, concetti e rispettivi portatori) nella disputa di una tradizione filosofica, politica e lessicale condivisa. Le semplici opposizioni non reggono al fuoco della polemica, a cominciare dalla dicotomia nazionalismo/cosmopolitismo. Assertori del principio di nazionalità si appellano al fine ultimo dell’umanità cosmopolita, per sfuggire alle chiusure nazionaliste; sostenitori del cosmopolitismo si appellano, per incarnarlo, all’esemplarità di una Nazione (della propria).
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Riotta VS Riot
di Nico Maccentelli
Non entrerò nel merito di tutte le scemenze che Gianni Riotta ha scritto nel suo “dotto” articolo di ieri l’altro su La Repubblica: “Sinistra radicale e green pass un legame pericoloso”, dove cita i Wuming e il sottoscritto. Non merita neppure una risposta. L’unica osservazione che mi viene da fare in questo mio intervento a titolo personale, è che il mio accenno a Mosca, che Riotta menziona, è palesemente falso, dato che non ho mai parlato della Russia di Putin nei miei articoli, in particolare in quello menzionato dai Wuming e ripreso dal Riotta.
Ma si sa, i nemici dell’Occidente vengono sempre messi in unico calderone e dall’alto delle loro tribune queste penne strapagate possono raccontarci anche che Cristo è morto dal freddo, così come la Lamorgese, ministra degli interni, può dire in Parlamento che il poliziotto infiltrato tra i manifestanti a Roma stava collaudando le sospensioni del blindato.
Fatta questa doverosa precisazione, voglio cogliere l’occasione per affrontare due punti che emergono dagli sproloqui del Riotta: l’antiscientificità della “sinistra radicale” e la sua pericolosità se associata al movimento no green pass.
Chi sostiene il maistream vaccinale sarebbe depositario della scienza infusa e chi critica questo approccio sarebbe invece antiscientifico? Così come la solita sinistra antagonista? In realtà vero è il contrario e questi giornalisti alla Riotta, Mentana e compagnia bella sembrano diventati degli imbonitori di elisir miracolosi da farwest.
In questi mesi, infatti, abbiamo visto come la scienza sia diventata ancor di più un soggetto economico rilevante al servizio di interessi dominanti.
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Democrazia sociale, conflitto e sovranità nazionale
di Alessandro Somma
Riflessioni a partire da Progettare l’uguaglianza. Momenti e percorsi della democrazia sociale, M. Gambilonghi e A. Tedde (a cura di), Sesto S. Giovanni, Mimesis, 2020
Secondo una lettura diffusa, nonostante lo Stato sociale favorisca una certa redistribuzione della ricchezza, la sua ragion d’essere risiede nella volontà di neutralizzare il conflitto attraverso una sorta di accordo: la rinuncia alla lotta politica in cambio di una inclusione nell’ordine proprietario nella misura necessaria e sufficiente a produrre pacificazione sociale. La lettura non è certo infondata, dal momento che trae spunto dall’origine storica dello Stato sociale nel Vecchio continente, ovvero dalla creazione del primo sistema moderno di sicurezza sociale nella Prussia di Bismarck. Questi aveva tentato di affrontare il conflitto sociale reprimendo il movimento operaio attraverso una legge “contro le aspirazioni socialmente pericolose della Socialdemocrazia” (del 22 ottobre 1878), che tuttavia si rivelò fallimentare: incrementò invece di ridurre lo scontro politico. L’Imperatore Guglielmo I maturò così la convinzione che “la riparazione dei danni sociali non si dovrà perseguire esclusivamente attraverso la repressione dei tumulti socialdemocratici, bensì anche attraverso il sostegno attivo al benessere dei lavoratori” (Kaiserliche Botschaft del 17 novembre 1881). Il tutto sulla scia di quanto era stato sperimentato presso le acciaierie Krupp, dove in effetti la pace sociale venne promossa offrendo migliori condizioni di lavoro a chi rinunciava all’impegno politico e sindacale, e assicurando nel contempo una severa repressione a chi invece vi si dedicava.
Detto questo, è certamente possibile considerare lo Stato sociale il fulcro di un modo di concepire lo stare insieme come società alternativo a quello in linea con la sua origine storica, ovvero di un modello definibile in termini di “democrazia sociale”. A questo è dedicato un volume collettaneo i cui autori si sono esercitati nell’inquadramento di un simile modello, nella ricostruzione delle vicende storiche che hanno condotto alla sua nascita sulle ceneri dell’individualismo proprietario, al suo sviluppo nel corso nel corso dei Trenta gloriosi, e alla sua crisi iniziata con l’affermazione dell’ortodossia neoliberale nel corso degli anni Ottanta[1].
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Sull’ indeterminismo in natura e nella conoscenza della natura
di Giulio Maria Bonali
Il recente conferimento del premio Nobel per la fisica a Giorgio Parisi per risultati conseguiti nei suoi studi sui sistemi complessi o non lineari ha stimolato, soprattutto da parte di ricercatori scientifici, considerazioni filosofiche antideterministiche peraltro ormai da vari decenni largamente prevalenti fra i ricercatori e fra i filosofi della scienza, ma anche sulla stampa non scientifica o filosofica e in particolare su riviste e siti internet politico-culturali di sinistra.
In particolare in questi giorni si leggono frequentemente solenni rivendicazioni di “originalità” e di pretese “grandi scoperte”, nell’ ambito del dominante paradigma (indeterministico) della complessità e da parte dei suoi cultori, circa l’ impossibilità di conoscere e prevedere per filo e per segno il divenire di moltissimi fenomeni naturali, di contro a pretese di “onniscienza” attribuite (ma indebitamente) al determinismo filosofico e scientifico “classico”, che la moderna scienza fisica e la moderna filosofia della scienza avrebbero definitivamente superato.
Inoltre, contro la asserita indebita e irrealizzabile pretesa di conoscere l’ evoluzione certa, dettagliata, precisa e a lungo termine dei sistemi fisici complessi (la stragrande maggioranza in natura, essendo il caso di quelli semplici, come il sistema solare, una sorta di “eccezione che conferma la regola”), se ne encomia spesso lo studio probabilistico, facendo oggetto di grande ammirazione chi l’ha proposto e praticato: dal per me ottimo Boltzmann a cavallo del XIX e XX secolo, al per me pessimo Prigogine a fine ‘900 e ai suoi epigoni di oggi.
Peccato che l’ autentico pioniere di questo approccio alla ricerca scientifica nel caso dei sistemi fisici complessi (e di quelli biologici, ad essi riducibili), ben prima ancora dell’ottimo Boltzmann (quest’ ultimo particolarmente in riferimento alla termodinamica e alla meccanica statistica), sia stato un certo …Pier Simon de Laplace, vituperatissimo da grandissima parte se non da tutti i propugnatori “del paradigma della complessità”, in particolare nel suo famosissimo Saggio filosofico sulle probabilità.
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Contro il Green Pass. La posta in gioco: disciplina e sorveglianza
di Giovanna Cracco
Gli ultimi studi su vaccini, contagiosità e immunità naturale, la blockchain europea del Green Pass con le ‘condizionalità’ che implementa e l’identità digitale, i corpi docili e la disciplina come pratica di potere
“Il corpo è anche direttamente immerso in un campo politico: i rapporti di potere operano su di lui una presa immediata, l’investono e lo marchiano, lo addestrano, lo suppliziano, lo costringono a certi lavori, l’obbligano a delle cerimonie, esigono da lui dei segni. Questo investimento politico del corpo è legato, secondo relazioni complesse e reciproche, alla sua utilizzazione economica. È in gran parte come forza di produzione che il corpo viene investito da rapporti di potere e di dominio, ma, in cambio, il suo costituirsi come forza di lavoro è possibile solo se esso viene preso in un sistema di assoggettamento: il corpo diviene forza utile solo quando è contemporaneamente corpo produttivo e corpo assoggettato.” Michel Foucault, Sorvegliare e punire
“Chi non astrae da ciò che è dato, chi non collega i fatti ai fattori che li hanno prodotti, chi non disfà i fatti nella sua mente, in realtà non pensa.” Herbert Marcuse, L’uomo a una dimensione
Ciò che ruota attorno a Covid-19, vaccini e Green Pass andando a investire le sfere politiche, economiche e sociali, è molto ampio. Circoscrivere un’analisi a un focus è inevitabile. Su ciò che è stata la gestione politica della pandemia abbiamo già scritto ad aprile 2020 (1), e con il passare del tempo la situazione non è affatto cambiata. La novità degli ultimi mesi sono i vaccini. Non si intende qui approfondire l’intricata questione – sperimentazione, produzione, brevetti, effetti collaterali, sviluppo alternativo del protocollo per le terapie di cura ecc. – ma la campagna vaccinale italiana e l’introduzione del Green Pass, con la tecnologia blockchain e la rete europea Gateway che lo caratterizzano.
Partiamo dai punti fermi.
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Dare a Cesare quel che è di Cesare
(e ai sindacati confederali quel che spetta loro)
di Sandro Moiso
Poiché siamo abituati a dare a Cesare ciò che è di Cesare e al cielo ciò che gli appartiene, va detto che un merito, per ora forse l’unico, che il movimento No Green Pass può vantare è quello di aver contribuito indirettamente a far sì che, non certo per la prima volta ma in maniera più consistente, i sindacati confederali risplendessero alla luce del servilismo e del collaborazionismo che da sempre ne contraddistingue azione e funzione politica.
Contro la marmaglia ribelle, nei giorni precedenti il 15 ottobre, i media, il PD e il governo stesso si sono sperticati gola e mani nell’esaltazione dell’opera di pacificazione sociale portata avanti da CGIL, CISL e UIL e in particolare dalla figura, ormai prossima alla beatificazione, di Luciano Lama in occasione delle celebrazioni per il centenario della sua nascita.
Mentre si sorrideva, giustamente, della richiesta di Salvini a Draghi affinché il presidente del consiglio contribuisse a riportare la pace sociale in vista delle elezioni amministrative e dei successivi ballottaggi, molti, quasi sempre offuscati da qualsiasi superficiale richiamo alla mistica dell’antifascismo istituzionale, ignoravano o sembravano soprassedere sull’autentica e definitiva dichiarazione d’intenti manifestata dai leader sindacali, “unitari” nel sostenere la necessità di evitare qualsiasi tipo di conflittualità sociale al fine di permettere la ripresa economica promessa dal PNRR.
Certo non è la prima volta che i sindacati della concertazione, uscita pari pari dalla Carta del Lavoro di mussoliniana memoria, chiedono sacrifici e compartecipazione dei lavoratori in nome del supremo interesse nazionale. La storia degli ultimi cinquant’anni ne è piena, ma tale funzione di collaborazione spesso è apparsa più sfumata rispetto alle dichiarazioni attuali.
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Dalla sinistra senza popolo alla destra muscolare
Note sul processo di fascistizzazione
di Eros Barone
Lacroix - Dunque noi avremmo fatto della libertà una puttana! Danton - Del resto cosa ci sarebbe! La libertà e le puttane sono le cose più cosmopolitiche di questa terra.
Georg Büchner, La morte di Danton. 1
1. Un convitato di pietra: l’astensione
L’affermazione del centrosinistra nella maggior parte delle grandi città (Torino, Milano, Bologna e Roma) ha caratterizzato le recenti elezioni amministrative. Tuttavia, va detto che tale affermazione è il sottoprodotto non di uno smottamento elettorale del blocco di centrodestra, ma della dimensione eccezionale di un'astensione dal voto che ha interessato prevalentemente quei ceti medi produttivi i quali, se si riconoscono nella Lega, non si riconoscono però nella linea perseguita dal suo attuale segretario. Così la scelta di aderire alla maggioranza di governo che sostiene il governo Draghi e dunque di sostenere una politica di unità nazionale ha sicuramente pesato sul voto, potenziando le contraddizioni già esistenti tra la Lega e Fratelli d'Italia sul terreno della lotta per l’egemonia all’interno di una coalizione che vede queste due forze, ad un tempo, alleate e concorrenti. L’analisi dei flussi elettorali dimostra peraltro che Fratelli d'Italia non ha tratto un vantaggio proporzionale dal netto arretramento della Lega, poiché in gran parte il deflusso leghista ha alimentato il ricco serbatoio dell'astensione. Ad ogni modo, è questa la prova che le due principali forze della destra italiana controllano un blocco sociale ed elettorale potenzialmente maggioritario.
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Il capitalismo non sarà mai ecologico
di Gilles Dauvé
«All’interno del discorso politico contemporaneo, l’ecologia è diventata ormai onnipresente: transizione energetica, capitalismo verde, riformismo ecoresponsabile… Ma se in fondo nulla cambia, se i piccoli progressi compiuti ritardano appena il montare dei pericoli, è perché l’incompatibilità tra ecologia e capitalismo non dipende dalla miopia dei suoi dirigenti: più semplicemente, essa è intrinseca alla natura stessa di questo sistema»
1. Un’ineluttabile assenza di limiti
Definita «industriale» oppure – oggi – «postindustriale», la società moderna è fatta di imprese, ciascuna delle quali è un polo di valore che cerca di accrescersi mettendo i sistemi industriali al proprio servizio. Il ricercatore può appassionarsi alla scoperta di un nuovo processo di fabbricazione, e l’ingegnere adorare costruire dighe, ma i loro progetti diventano realtà solo se coincidono con l’interesse dell’impresa che li impiega: vendere un prodotto competitivo sul mercato, accumulare profitti, reinvestirli…
« […] lo sviluppo della produzione capitalistica rende necessario un aumento continuo del capitale investito in un’impresa industriale, e la concorrenza impone a ogni capitalista individuale le leggi immanenti del modo di produzione capitalistico come leggi coercitive esterne. Lo costringe ad espandere continuamente il suo capitale per mantenerlo, ed egli lo può espandere soltanto per mezzo dell’accumulazione progressiva. […] Accumulazione per l’accumulazione, produzione per la produzione, in questa formula l’economia classica ha espresso la missione storica del periodo dei borghesi.» (Karl Marx, Il Capitale, Libro I, cap. XXII, p. 727-31).
La prova che viviamo innanzitutto in un mondo capitalistico e non industriale, è che l’ipertrofia industriale, lungi dall’essere un fenomeno autonomo, è sottomessa alle esigenze della valorizzazione del capitale. Poco importa che una fabbrica di automobili, una miniera o un’acciaieria siano ancora funzionanti: se non sono più redditizie, le si chiude. Il borghese non ha il diritto di dormire sugli allori, e un capitalismo stazionario è sinonimo di declino. Da duecento anni, la «megamacchina» si rinnova incessantemente per costruzione, autodistruzione e ricostruzione… Conosciamo il destino della Rust Belt americana, che non significa d’altronde la fine dell’industria in quella regione, da cui proviene ancora il 40% della produzione manifatturiera del paese.
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Vent’anni dopo l’11/09. Guerre, repressione del dissenso e narrative religiose apocalittiche all’insegna della paura
di Matteo Bortolon
La quasi coincidenza temporale del ritiro USA dall’Afghanistan e il ventennale degli attentati dell’11 settembre sembra suggerire la chiusura di un ciclo, come ha fatto notare Pino Arlacchi su La Fionda.
Il XXI secolo si è aperto con una cesura di rara accuratezza cronologica: il 2001 marca una discontinuità netta nella storia recente.
Il 7 ottobre i primi bombardamenti sull’Afghanistan inaugurano un ciclo in cui la reazione politico-militare degli USA all’11/09 apre un ventennio nero di guerre, morti e securitarismo, avvelenando l’immaginario di una intera generazione con paure di altri catastrofici attacchi e la previsione di un mondo futuro basato sul paradigma ossessivamente paranoide della sicurezza: controlli invasivi, uomini armati ad ogni passo ed il sospetto di tradimento gettato su chiunque maturasse una forma di opposizione al governo in carica. Nella decade successiva il clima si sarebbe alleggerito con la presidenza Obama ma i fattori di continuità erano troppo forti. Tale ventennio si è davvero esaurito, come suggerisce il ritiro dall’Afghanistan a poca distanza dalla ricorrenza della caduta delle Torri Gemelle?
Per capirlo ricapitoliamo il profilo dei due gruppi al centro di questa storia, che hanno determinato queste dinamiche scrivendo la storia col sangue di molte vittime, per lo più innocenti. Entrambi ambivano a modellare il mondo ma in modo molto diverso rispetto al risultato effettivo. Si tratta degli islamisti radicali e dei neocon americani; ognuno di essi ha cercato di sostituire la costruzione del consenso con abbondanti dosi di una delle risorse più universali e radicate nell’animo umano: la paura.
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Basta propaganda: siamo seri, almeno coi morti
di Paolo Bellavite
Si sa che personalmente non sono contrario ai vaccini per partito preso, tanto che ho iniziato la “carriera” di vaccinologo nel 2017 con un libro intitolato “Vaccini sì, obblighi no”. Se dovessi riscriverlo, sceglierei il titolo “Vaccini se, obblighi no”, dove il “se” indica la valutazione accurata dei rischi e dei benefici. Comunque non sono un “novax”, sono solo contrario agli obblighi vaccinali, tomba della scienza e dell’etica medica, e sono contrario alla disinformazione. Non può esservi libertà di scelta se non c’è corretta informazione.
Uno degli argomenti di maggiore interesse per l'opinione pubblica riguarda gli effetti avversi dei vaccini e in particolare la mortalità. Per questo vale la pena commentare un articolo di Antonio Socci, comparso su Libero del 13 Ottobre, intitolato “Ma perché qualcuno ha più paura del vaccino che del COVID? Una riflessione statistica”. Tale articolo è emblematico di quale confusione si possa generare su un argomento così delicato e per questo prendendo spunto da questo ritengo utile trattare in modo tecnico alcuni aspetti della questione. Per brevità, pubblico il testo nel mio fascicolo in “Sfero” in attesa di altre eventuali possibilità di pubblicazione.
Socci analizza il tema delle morti improvvise, che definisce “uno dei temi più diffusi, fra i Novax, forse quello che più alimenta la paura e il rifiuto della vaccinazione”. I cosiddetti “Novax” sono accusati di rilanciare sui socials le notizie di cronaca relative a morti di persone che da pochi giorni hanno fatto il vaccino, come se ciò fosse espressione di ignoranza di statistica. Successivamente, l'autore si lancia in considerazioni tecniche in difesa delle vaccinazioni che lasciano stupiti per la loro scarsa consistenza scientifica.
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“L’essenza, per le fondamenta”. Contro la gabbia del “biopotere”
Alessandro Testa intervista Alberto Sgalla
Alberto Sgalla, nato in Ancona il 24.11.1948, dove vive, già docente di discipline giuridiche-economiche in istituiti tecnici e licei a Varese e Ancona, ha pubblicato in rivista saggi di filosofia politica e 4 romanzi (Il colore del vuoto, ed. Transeuropa 2000; Senza commozione, ed. Pequod 2005; Federico Onori, ed. Cattedrale 2009; Café Le Antille, ed. Italic Pequod 2014). Ha militato nel corso degli anni ‘70 nell’area “operaista”, con un’attenzione al pensiero di Hegel e un’ispirazione leninista.
Ci piacerebbe cominciare quest’intervista chiedendoti una riflessione sullo Stato Postmoderno, sulla sua evoluzione come sovrastruttura e sui suoi legami con la maniera specifica con cui si è evoluto il capitalismo.
Siamo entrati in una nuova epoca, che non è definibile se non con il prefisso post- (postindustriale, postmoderna, postfordita, postumana, postverità eccetera), epoca di transizione da un non-più al trionfo dell’indefinito, del senza-identità, segno del caos della crisi, della società dell’incertezza, dove tutto è cedevole, disperso, movimento che non conduce da nessuna parte, se non all’accumulazione di profitti e poteri privati. Occorre comunque dare significato alle trasformazioni e la critica comunista resta la migliore per capire “lo stato di cose presenti”, critica totale, affermativa, vitale.
Con il postmoderno è avvenuta:
– la marxiana sussunzione reale della società al capitale, che ha completamente assorbito la società in sé, la società informatizzata e automatizzata, la società ridotta a mercato e spettacolo; il capitale non ha più un esterno, non ha niente fuori di sé, si presenta come forza produttiva primaria, separata dal lavoro, che sembra destinato ad uscire definitivamente di scena;
– la modificazione della natura dello sfruttamento dalla quantità alla qualità, con processi di creazione del valore che non trovano più al loro centro il lavoro di fabbrica;
– l’incapacità del capitale di pianificare lo sviluppo inteso come movimento dialetticamente compiuto, il capitale appare come vuoto apparato di costrizione, un parassita della cooperazione del lavoro vivo che si autovalorizza;
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La bolla del consenso
di Giorgio Antonangeli
Sono tanto semplici gli uomini e tanto obbediscono alle necessità presenti, che colui che inganna troverà sempre chi si lascerà ingannare.
Machiavelli, ‘il Principe’
Oggi come ieri vediamo le stesse dinamiche di potere e consenso: c’è un principe, o più precisamente un viceré, che pare esercitare un potere – proprio o delegato che sia – senza freni o remore. Dall’altro lato ci dovrebbe essere un Popolo i cui sensi però sono stati intorpiditi e ingannati dagli apparati della società dello spettacolo, le cui bocche di fuoco non si sono mai fermate da quando Pasolini denunciò il “genocidio culturale” e le forme di rieducazione delle masse verso l’omologazione totale.
Intanto l’accumulazione capitalista ha seguito la sua parabola: in fase espansiva prometteva un benessere diffuso, sostenuto da un’inondazione di nuovi beni di consumo, sufficiente a far ignorare la progressiva marginalizzazione non solo delle vecchie culture tradizionali, ma anche della nuova concezione di cittadinanza che tra Costituzione e Statuto dei Lavoratori, con enorme fatica si stava affermando: a forza di miraggi le lotte sindacali furono frazionate sempre più, depotenziate a scaramucce e, affinché si potesse vendere il sogno del miracolo americano, venne sviluppato un apparato culturale e mediatico per alimentare il necessario sonno della ragione, o almeno una pennichella, mentre agli inquieti, a chi non prendeva sonno, veniva presentata un’ampia gamma di sfogatoi fra cui scegliere, dall’isolamento in comunità marginali fino alla lotta armata, colore a scelta, tanto è lo stesso: alla faccia di chi usa la parola ‘complottista’ come sinonimo di fuori dal mondo, già nel ‘74 Pasolini riconduceva “le due differenti, anzi, opposte, fasi della tensione” allo stesso “vertice”.
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Afghanistan III
L’eredità geo-storica
di Alessandro Mantovani
La prima parte di questo lavoro potrete trovarla qui, la seconda qui
"L'Afghanistan è uno di quei luoghi del mondo su cui le persone che meno ne sanno più trinciano giudizi inappellabili" (Thomas Barfield, AFGANISTAN, A CULTURAL AND POLITICAL HISTORY, Princeton & Oxford, Princeton University Press, 2010, p. 274).
"Pochi conflitti sono stati trattati così tanto, fotografati così tanto e studiati così tanto senza facilitare né il processo decisionale né la conoscenza. Con poche eccezioni, gli studi seguono l'evoluzione delle strategie politiche per confermarle, piuttosto che informarle. Inoltre, molti studi sono compiacenti sull'intervento occidentale, demonizzano il movimento talebano e sono impregnati di paradigmi obsoleti e talvolta semplicistici” (Adam Baczco, Lo Stato e la guerra in Afghanistan 1978-2012, Irsem Fact Sheet No. 19, luglio 2012, http://www.defense.gouv.fr/irsem).
Uno degli effetti di vent’anni di presenza occidentale in Afghanistan è stato quello di favorire una pletora di studi su di un paese di cui pochissimo si sapeva, ed ancora poco si sa. Anche se la più parte è come vedremo viziata da una pregiudiziale griglia di lettura “tribalista” ed “etnicista1, non
mancano ovviamente i validi contributi2, in virtù dei quali ho calibrato il tiro rispetto alle mie valutazioni di quindici anni fa3.
A partire dalla destituzione di Daud del 1978, passando per l’invasione russa, la guerra civile, l’effimero primo regime talebano, fino alla sconfitta odierna dell’Occidente, l’Afghanistan ha vissuto un eccezionale periodo di conflitti, riforme e controriforme: non solo distruzione, miseria e morte ma anche, come in tutte le guerre (e le economie di guerra) grandi trasformazioni, di cui il tanto stamburato incremento dell’esportazione dell’oppio non è che un aspetto: dimensioni essenziali di queste trasformazioni l’esacerbazione della questione fondiaria, l’esplosione dell’urbanizzazione e la crescita dell’emigrazione, che verranno trattate in appositi articoli.
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La libertà al di là della retorica della libertà
di Andrea Zhok
Ieri, stremato dall’ennesimo scempio argomentativo ascoltato nell’ennesima discussione su Green Pass e dintorni avevo pensato di provare a redigere (di nuovo) una sorta di vademecum con domande e risposte, magari solo per un senso di ordine mentale. Tuttavia ho l’impressione che siamo oramai andati oltre il livello in cui questo livello di ragioni poteva avere preminenza. Se non hanno attecchito a sufficienza da due mesi a questa parte, oramai siamo arrivati ad un livello ulteriore.
Sul piano di merito al di là dei mille argomenti di dettaglio in cui ci si può perdere, per stabilire l’illegittimità del Green Pass nella sua versione italiana bastavano due argomenti, semplici, e che chiunque avesse fatto un minimo sforzo di approfondimento poteva acquisire subito.
Per definire sul piano scientifico l’illegittimità del GP basta stabilire che:
1) anche i vaccinati contagiano;[1]
2) nessuno è nella posizione di garantire la piena sicurezza dei preparati da inoculare ora in uso.[2]
Non ci voleva assolutamente niente altro. Ed entrambi i punti sono accertati al di là di ogni possibile dubbio (vedi un po’ di riferimenti in nota).
Il primo punto elimina alla radice la presunzione di dover “tenere alla larga” il non inoculato in quanto potenzialmente lesivo (in effetti non godendo della protezione del farmaco il non inoculato è più facilmente la parte lesa.)
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Il General intellect nella Divina Commedia di Dante
di Gennaro Scala
Per quale motivo Dante colloca l'invettiva contro Firenze all'inizio del Canto XXVI dell'erno, qual è il suo rapporto con la parte dedicata ad Ulisse? Considerata l'attenzione di Dante per questi particolari, pensiamo solo alla teoria politica dei due soli posta esattamente al centro della Commedia (Pur. XVI), non può essere casuale che la più dura invettiva contro Firenze sia collocata all’inizio del «canto di Ulisse». Partiremo con questo interrogativo, che mi è servito da orientamento nella labirintica creazione dantesca in cui, tra le figure memorabili della Commedia, si staglia quella di Ulisse, cercando di capire meglio il significato dell'invettiva:
Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande,
che per mare e per terra batti l’ali,
e per lo ’nferno tuo nome si spande!
Com'è noto, i versi richiamano la targa del Palazzo del Capitano del Popolo (Bargello), fatto costruire nel 1255 dal «Governo del primo popolo», in seguito alla sconfitta dei cavalieri ghibelllini. Un passo dell'iscrizione ricalcava quasi alla lettera i versi della Pharsalia di Lucano riguardanti la potenza romana: «que mare, que terras, que totum possidet orbem».
Dante, appartenente all'Arte dei medici e degli speziali (fra le Arti maggiori) fu uno dei sei priori, la massima carica nel governo detto del Secondo popolo di Giano della Bella, che istituì gli Ordinamenti di giustizia che escludevano dal governo della città i “magnati” appartenenti alle grandi famiglie. Gli anni che vanno dal Governo del primo popolo fino alla fine del secolo furono di grandi trasformazioni, videro il rapido ingrandimento della città e il sorgere di una proto-borghesia composta soprattutto da grandi mercanti e imprenditori appartenenti alle Arti maggiori, e artigiani appartenenti alle Arti minori, la «gente nova» dai «subiti guadagni».
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Comunismo, democrazia e liberalismo
di Carlo Formenti
Note a margine di un libro postumo di Domenico Losurdo e di un’intervista ad Alvaro G. Linera
Nota introduttiva
Nel dibattito teorico interno al campo marxista, la questione del rapporto fra comunismo e democrazia liberale è intricata, controversa e divisiva. Non solo perché eredita le scorie ideologiche di passaggi storici come la rottura fra Seconda e Terza Internazionale, la guerra fredda, la svolta eurocomunista e il crollo dei regimi socialisti, ma soprattutto perché il trionfo del pensiero unico negli ultimi decenni è riuscito, da un lato, a inscrivere nel senso comune l’equazione comunismo=totalitarismo (vedi la delibera del Parlamento Europeo che equipara comunismo e nazismo), dall’altro lato, a liquidare ogni interpretazione alternativa del termine democrazia, ormai univocamente associato ai regimi liberal liberisti dei Paesi occidentali (e ciò malgrado le analisi di autori come Colin Crouch e Wolfgang Streeck (1) abbiano ampiamente descritto il divorzio fra democrazia e liberalismo che si è celebrato dopo la svolta neoliberista).
Liberarsi delle pastoie ideologiche di cui sopra non è semplice, tanto è vero che, anche intellettuali che non rinunciano a indicare nel socialismo l’alternativa a un capitalismo sempre più aggressivo e predatorio, esitano ad assumere posizioni radicali e, di fronte all’offensiva ideologica del nemico di classe, ripiegano su posizioni difensive, come se, per legittimare le proprie idee, dovessero dimostrare che il futuro che prospettano, non solo è compatibile con i principi e i valori liberaldemocratici, ma ne rappresenta addirittura il compimento. Qui non mi confronterò con questi atteggiamenti giustificatori, discuterò invece le più serie motivazioni con cui Domenico Losurdo - in un’opera postuma di recente pubblicazione (2) – argomenta a sua volta che i comunisti non dovrebbero svalutare le conquiste del liberalismo, bensì appropriarsene.
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Gli articoli più letti degli ultimi tre mesi
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Carlo Rovelli: Una rapina chiamata libertà
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L'eterno "Drang nach Osten" europeo
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BankTrack - PAX - Profundo: Obbligazioni di guerra a sostegno di Israele
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Fulvio Grimaldi: Siria, gli avvoltoi si scannano sui bocconi
Enrico Tomaselli: Sulla situazione in Medio Oriente
Mario Colonna: Il popolo ucraino batte un colpo. Migliaia in piazza contro Zelensky
Gianandrea Gaiani: Il Piano Marshall si fa a guerra finita
Medea Benjamin: Fermiamo il distopico piano “migliorato” di Israele per i campi di concentramento
Gioacchino Toni: Dell’intelligenza artificiale generativa e del mondo in cui si vuole vivere
Fulvio Grimaldi: Ebrei, sionismo, Israele, antisemitismo… Caro Travaglio
Elena Basile: Maschere e simulacri: la politica al suo grado zero
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Michelangelo Severgnini: Le nozze tra Meloni ed Erdogan che non piacciono a (quasi) nessuno
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Autori Vari: Sul compagno Stalin
Qui è possibile scaricare l'intero volume in formato PDF
A cura di Aldo Zanchetta: Speranza
Tutti i colori del rosso
Michele Castaldo: Occhi di ghiaccio
Qui la premessa e l'indice del volume
A cura di Daniela Danna: Il nuovo volto del patriarcato
Qui il volume in formato PDF
Luca Busca: La scienza negata
Alessandro Barile: Una disciplinata guerra di posizione
Salvatore Bravo: La contraddizione come problema e la filosofia in Mao Tse-tung
Daniela Danna: Covidismo
Alessandra Ciattini: Sul filo rosso del tempo
Davide Miccione: Quando abbiamo smesso di pensare
Franco Romanò, Paolo Di Marco: La dissoluzione dell'economia politica
Qui una anteprima del libro
Giorgio Monestarolo:Ucraina, Europa, mond
Moreno Biagioni: Se vuoi la pace prepara la pace
Andrea Cozzo: La logica della guerra nella Grecia antica
Qui una recensione di Giovanni Di Benedetto