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Gli errori di Tsipras, M5S e sinistra sull'euro
Come sganciarsi dalla moneta unica senza uscire dall'eurozona
di Enrico Grazzini
L'opposizione democratica – quella dei 5 Stelle e della Sinistra – dovrebbe preparare urgentemente un piano chiaro sull'euro e sull'Europa. La situazione italiana è infatti molto più preoccupante di quanto ci fanno apparire. È più che grave: è disastrosa (anche se al peggio purtroppo non c'è fine). La crisi bancaria è serissima, e quella dell'intero Paese prelude a probabili rotture con l'Unione Europea e con i mercati finanziari. In effetti l'Italia è sull'orlo del baratro: l’esito è incerto, ma senza svolte sicuramente avanziamo verso la catastrofe. Il contesto è pessimo: l’euro è una moneta strutturalmente fragile e perennemente a rischio di sopravvivenza, l’eurozona è già in coma, e l'Italia è il punto debole di questa eurozona malata.
Pochi dati sintetici (fonte: Istat) illustrano la drammatica condizione a cui è giunto il nostro Paese. Dal 2007 al 2015 l'Italia dell'euro ha perso quasi 10 punti di PIL (circa 140 miliardi in meno) e un quarto della produzione industriale. I disoccupati sono passati da un milione e 150 mila unità a quasi tre milioni. Il reddito medio è sceso fino al livello pre-euro (primi anni '90) e 4,6 milioni di famiglie sono ormai entrate in condizione di povertà assoluta. Gli investimenti sono caduti del 30% circa. Con i famigerati tagli alla spesa pubblica, i servizi per i cittadini (sanità, istruzione, trasporti) sono in condizioni di degrado. Al sud l'unico business fiorente e liquido è quello delle mafie. I giovani più bravi vanno all'estero. Paghiamo più tasse di quanto lo stato spende per i servizi pubblici, ma lo stato è ugualmente in deficit perché paga circa 70-80 miliardi all'anno di interessi sul debito agli investitori finanziari.
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Economia malata, teoria convalescente
M. Palazzotto intervista Giorgio Gattei
Abbiamo assistito al fallimento del movimento per Tsipras in Europa e il governo greco oggi non fa che perpetrare una politica di austerità in continuità con i precedenti governi (in teoria) più a destra. Podemos sembra non riuscire a superare l’impronta populista dell’anti-casta in salsa grillina. Idem in Italia in cui il M5S si accinge, probabilmente, ad accrescere il proprio potere, soprattutto se il governo Renzi non riuscirà a superare il voto referendario. Alcuni segnali positivi arrivano dall’Inghilterra, che almeno vede ricompattare una sinistra attorno a Corbyn. Che percorsi occorre intraprendere in Italia e in Europa, secondo te, per costruire un movimento di massa che faccia da contraltare alle politiche di austerità e che tenti di superare il potere dei grandi comitati d’affari europei rappresentati dalle istituzioni UE e dal blocco franco-tedesco?
Sullo stato attuale di ciò che avrebbe dovuto essere una “sinistra eterna” e di cui ha parlato da qualche parte François Furet (ma che adesso proprio ‘eterna’ non può dirsi), al momento la vedo andare alla deriva per la perdita del doppio ancoraggio alla marxiana critica dell’economia politica e alla pratica della lotta di classe che è stata sostituita da una accozzaglia di “scontri di civiltà”, guerre di religione, conflitti geopolitici e quant’altro. Va però detto che questo fallimento della “sinistra” non è proprio tutto colpa sua, perché come si poteva mantenere “marxista” e “classista” dopo lo squagliamento vergognoso (perché senza nemmeno un gemito) dell’URSS e dopo la dimostrazione logica dell’erroneità di quella “trasformazione dei valori in prezzi di produzione” che avrebbe dovuto confermare che il profitto non è altro che sfruttamento del lavoro altrui?
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Un «Testamento» senza eredi. Lukács e lo stalinismo
di Matteo Gargani
In margine a una raccolta di scritti di Lukács contro lo stalinismo, che prende nome da una importante intervista del 1971, inedita in italiano. Dal 1930 in poi è presente nella produzione del filosofo ungherese la lotta per la «democratizzazione». Il tema della «trasformazione del lavoro in lavoro socialista». La radicale alterità di Lukács allo stalinismo
Il 28 giugno 1956 le maestranze degli stabilimenti Zispo di Poznań sono riunite per discutere il contenuto degli accordi raggiunti tra la propria delegazione di ritorno da Varsavia e il governo centrale. Dall’assemblea si stacca un corteo spontaneo, raggiunge il centro della città ingrossandosi, i principali edifici della città sono assaltati. Il bilancio della giornata sarà drammatico: 38 morti e 270 feriti. La lettura degli eventi di Poznań costituisce per la sinistra italiana un primo banco di prova rispetto a un fenomeno molto complesso, che nell’imminente autunno ungherese assumerà dimensioni ben più drammatiche. Al comunicato pubblicato su l’Unità del 2 luglio in cui Di Vittorio invita a interrogarsi non solo sui provocatori, ma anche sulle ragioni del «profondo malcontento» serpeggiante tra gli operai polacchi, Togliatti risponderà l’indomani con una dura spalla intitolata La presenza del nemico. Lo stesso 28 giugno, a Budapest, Lukács tiene presso l’Accademia politica del Partito dei lavoratori la conferenza La lotta tra progresso e reazione nella cultura d’oggi. Siamo appena agli inizi di quel lungo periodo di conseguenze innescato dal XX congresso del Pcus di febbraio.
Nella sua relazione all’Accademia politica, Lukács espone senza infingimenti la complicata situazione presente, gli errori del passato, le difficili sfide future. Egli presagisce che dal XX Congresso potrebbe benissimo scaturire – come effettivamente sarà – un terremoto che, alla prova dei fatti, non cambierà nulla. La strada che quindi Lukács indica nel giugno 1956 al movimento socialista mondiale è quella di un’uscita culturale e politica da sinistra alla problematica istanza di rinnovamento apertasi con l’ultimo congresso del Pcus. L’uditorio è sollecitato, sopra ogni altra cosa, a scansare la schematica immagine di socialismo e capitalismo quali indistinto campo del progresso il primo e della reazione il secondo. Lukács esorta in tal senso a riprendere lo spirito del VII Congresso del Comintern del 1935, ossia a tradurre la linea dei Fronti popolari nell’odierna lotta politica tra capitalismo e socialismo.
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La variante Formenti: un congedo dalla sinistra globalista
Mimmo Porcaro
L’ultimo lavoro di Carlo Formenti (La variante populista, Derive e approdi, Roma, 2016) è talmente denso di riferimenti e attraversato da così tante tensioni concettuali – effetto del passaggio dell’autore da un paradigma teorico ad un altro – da costringere chi voglia abbozzarne una recensione ad una drastica semplificazione che punti direttamente all’essenza del testo. E l’essenza si può riassumere in tre tesi.
1) La cultura egemone nella sinistra (e nella stessa sinistra radicale) è ormai parte organica dell’ ideologia delle classi dominanti ed ha la funzione di legittimare la globalizzazione, l’Unione europea ed il nuovo capitalismo esaltandone le presunte potenzialità democratiche e libertarie, e salutando l’indebolimento degli stati come un rafforzamento dell’autorganizzazione sociale. Punta di lancia di questa mutazione della sinistra è la cultura postoperaista che si presenta ormai come autoglorificazione di uno strato superiore del lavoro sociale (il lavoro ad alta qualificazione intellettuale) che ha rotto ormai ogni legame con gli strati inferiori.
2) Il soggetto della trasformazione sociale non deve essere cercato nei punti alti dell’organizzazione capitalistica del lavoro, come suggerisce di fare il postoperaismo, ma piuttosto nei punti più bassi o comunque nei luoghi tendenzialmente esterni alla logica della modernizzazione capitalistica: in ogni caso il soggetto non deve essere dedotto da categorie sociologiche, ma deve essere reperito nel corso di un’analisi concreta di ogni fase storicamente determinata della lotta di classe in una fase determinata;
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Pour en finir avec la souveraineté?
di Toni Negri
Il testo qui pubblicato è quello pronunciato da Toni Negri al festival di DeriveApprodi, a Roma il 25 novembre scorso. Questo testo riprende parzialmente un paio di paragrafi di un nuovo libro, Assembly, di Michael Hardt e Toni Negri, che sarà presto pubblicato da Oxford University Press.
Dunque, se non fosse stato montato e detto da uno solo, dovrebbe esser firmato da tutti e due
Comincerò dalla critica dell’autonomia del politico (nazionale) sotto la cui bandiera si muovono varie posizioni, tutte nostalgiche della sovranità.
“L’autonomia del politico” è infatti oggi da molti concepita come una forza di redenzione per la sinistra – di fatto la ritengo una maledizione dalla quale rifuggire. Uso la frase “autonomia del politico” per designare argomenti che pretendono che il processo decisionale in politica possa e debba essere tenuto al riparo dalle pressioni della vita economica e sociale, dalla realtà dei bisogni sociali
Alcune delle figure contemporanee più intelligenti che propongono l’autonomia del politico lo concepiscono come un mezzo per restaurare il pensiero politico liberal (di sinistra) strappandolo al dominio ideologico del neoliberismo, come antidoto non solo e non tanto alle politiche economiche distruttive del neoliberalismo, ivi comprese privatizzazione e deregulation, ma piuttosto ai modi nei quali il neoliberalismo trasforma e domina il discorso pubblico e politico: il modo nel quale esso impone una razionalità economica sopra il discorso politico e mina ogni ragionamento politico che non obbedisca alla logica di mercato. Laddove la “democrazia liberal” – ci spiega Wendy Brown – mantiene “una modesta separazione etica fra economia e politica”, la razionalità politica neoliberale chiude questa separazione e “sottomette ogni aspetto della vita sociale e politica al calcolo economico”. Secondo questo punto di vista, il neoliberalismo è la faccia discorsiva ed ideologica della “sussunzione reale” della società sotto il capitale ovvero, come si esprime Wendy Brown, “la saturazione delle realtà politiche e sociali da parte del capitale”.
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Cosa fare dopo il NO?
Note dall'assemblea sul potere popolare
Ex OPG Je so' Pazzo
Ripubblichiamo alcune riflessioni sul potere popolare dei compagni napoletani del "Ex OPG Je so' Pazzo". Il NO al referendum è stata una grande e fondamentale vittoria sia per inceppare l'avanzata del progetto autoritario dei padroni, sia per dimostrare a noi stessi che quando ci mettiamo all'altezza della sfida, quando siamo capaci di entrare nelle corde dei nostri nessuna vittoria ci è preclusa.
Ma il difficile viene ora, perché i loro si riorganizzaranno, tenteranno di trovare un nuovo Renzi (o di rimettere in sella il vecchio Renzi), cercheranno altre vie per imporre il loro modello di governo che significa più sfruttamento per tutti noi. Per questo non possiamo perdere tempo, non possiamo disperdere l'accumulazione di forze che abbiamo raccolto in questa campagna referendaria: dobbiamo trovare metodi di lotta e di autogoverno che ci diano in reale efficacia di intervento. Qui i compagni, a seguito di una partecipata assemblea, ci danno alcuni spunti: mutualismo, controllo popolare e battaglie nazionali su temi centrali come lavoro, formazione, sanità [ccw].
* * * *
Sabato scorso a Napoli è successo qualcosa di davvero importante.
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Si può salvare l’Italia dalla stagnazione economica?
di Alberto Bagnai
Nel secondo capitolo scritto per il libro L’euro est-il mort ? (qui la traduzione del primo), uscito in Francia a ottobre 2016, Alberto Bagnai risponde in maniera molto ampia, chiara e argomentata a una domanda cruciale che tutti ci poniamo: ce la farà il nostro paese a uscire dalla stagnazione economica? Se una risposta positiva sarebbe molto semplice dal punto di vista economico (eccellenti studi smascherano i falsi argomenti terroristici dei media), tuttavia le difficoltà vere sono di ordine politico e geopolitico, in quanto implicano un profondo ripensamento del ruolo dello stato nel sistema economico e un accordo a livello internazionale per una nuova regolamentazione dei mercati finanziari. C’è da augurarsi che per arrivare a questa inversione di rotta non si debba passare nuovamente attraverso gli orrori di una guerra mondiale
Mi è stato chiesto, in quanto economista italiano, di rispondere a questa domanda: «Come si può salvare l’Italia dalla stagnazione economica?» Mi sono permesso di modificarla leggermente: «Si può salvare l’Italia dalla stagnazione economica?»
Facciamo il punto
Per cominciare, facciamo il punto della situazione. Abbiamo già insistito sul fatto, oggi riconosciuto praticamente da tutti gli economisti, che la crisi in cui siamo impantanati è dovuta al debito privato. Questo vale, in misura differente, per tutti i paesi della zona euro, inclusi quelli che si credono forti (come la Germania) o che si credevano forti (come la Finlandia). Ma nel momento in cui scrivo questo capitolo (maggio 2016) l’Italia resta il paese che corre il pericolo maggiore, e quindi il più pericoloso. I media hanno sollevato il velo di oblio che copriva la Grecia, i cui problemi non sono stati risolti dal FMI (cosa su cui nessuno si faceva illusioni). Ma i problemi italiani, benché meno evidenti, sono di un ordine di grandezza infinitamente superiore.
I crediti deteriorati delle banche italiane a settembre 2015 hanno toccato i 200 miliardi di euro (ovvero il 115% del PIL greco).[i]
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Appunti per un “International social standard sulla moneta”
di Emiliano Brancaccio
Intervento alla Conferenza GUE/NGL “Resistance and alternatives to free trade”,Parlamento Europeo, Bruxelles, 7 dicembre 2016
Questa conferenza è intitolata “Resistenze e alternative al libero scambio”. Il tema è di assoluta rilevanza, ma vorrei far notare che il “libero scambio” è in crisi già da qualche anno. I dati indicano che dal 2008 ad oggi sono state introdotte e mai rimosse ben 1196 nuove misure di limitazione degli scambi commerciali tra i paesi del G20, e si è verificato un aumento del 12% del numero complessivo di restrizioni ai movimenti internazionali di capitale. Queste misure restrittive sono state adottate non solo da paesi relativamente piccoli come la Malesia o l’Argentina, ma anche da giganti del calibro di Russia, India, Cina e soprattutto Stati Uniti d’America. Solo considerando il biennio 2014-2015, gli Stati Uniti hanno avviato 385 investigazioni anti-dumping che hanno dato luogo a varie ritorsioni nei confronti di paesi concorrenti. Oggi Trump lo grida ad alta voce mentre Obama magari preferiva sussurrarlo, ma a ben guardare la politica americana asseconda già da tempo il vento protezionista che sta soffiando sul mondo.
La lotta in corso tra liberoscambisti e protezionisti è una lotta interna alla classe capitalista. Quella tendenza che Marx definiva “centralizzazione” determina una contesa tra capitali forti che intendono abbattere i confini doganali per proseguire nella loro opera di egemonizzazione dei mercati, e capitali deboli che si difendono elevando barriere. E’ facile rilevare che in questa lotta il lavoro e le sue residue rappresentanze non sono protagonisti. Il lavoro è piuttosto una variabile residuale, che subisce le iniziative altrui.
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Dopo il referendum
di Il cuneo rosso
Referendum. C’è qualcosa di interessante per noi … Purché si ritorni alla lotta
Commentando la Brexit, lo storico britannico Niall Ferguson ha avuto, un paio di mesi fa, una frase felice: “Questo è l’anno orribile delle élite globali”, perché è l’anno che ha messo in luce il crescente distacco tra la ‘gente comune’, ovvero i lavoratori, e le élite capitaliste globali (occidentali). Anzi: la crescente sfiducia di massa nei confronti di queste élite.
La cosa si è puntualmente ripetuta in Italia nel referendum sulle modifiche alla Costituzione del 4 dicembre. Da una parte c’erano, a sostegno della riforma di Renzi&C., Confindustria, Bankitalia, le grandi banche, le borse, le agenzie di rating internazionali, Obama, la Merkel, la Commissione europea, pressoché tutte le televisioni e i giornali a maggiore diffusione. Dall’altra circa 20 milioni di No, nonostante una campagna contraria martellante e ricattatoria, con un’affluenza al voto molto alta, inattesa, per un referendum squisitamente politico. Interessante.
La composizione sociale del No e del Sì
Ancora più interessante è, per noi, l’analisi del voto per classi e posizioni sociali; una analisi che è sostanzialmente univoca.
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Dove va l'America di Trump?
di Pierluigi Fagan
Il 9 Novembre scorso, il giorno dopo le elezioni americane, mi son ritrovato a dover correggere le bozze del mio libro che stava per andare in stampa, un libro di geopolitica ma non solo. Trattandosi di geopolitica, era certo ben presente non solo una descrizione del ruolo e strategia degli Stati Uniti nell’ordine mondiale ma ovviamente anche una previsione sul comportamento futuro della potenza egemone. In accordo col sentimento generale, si dava per scontato che questo comportamento futuro avrebbe sviluppato le logiche già ben note ed assai prevedibili della nuova presidente Hillary Clinton. Il 9 Novembre quindi, mi sono ritrovato con un problema e con davvero poco tempo per risolverlo perché comunque si doveva chiudere il lavoro da lì a giorni. Avevo certo seguito le elezioni americane e su Trump mi ero fatto una idea che fortunatamente, non seguendo in genere e del tutto la communis opinio, aveva almeno colto alcuni punti solidi della sua logica. Non ero caduto cioè nel tranello della propaganda americana che dipingeva Trump come poco più di un cretino. Debbo però ammettere che non avevo approfondito più di tanto seguendo un sommario calcolo delle probabilità che all’inizio aveva anche preso in considerazione le previsioni di Michael Moore ed Andrew Spannaus che ammonivano sulle concrete possibilità di vittoria del magnate ma che poi si era adagiato sul più unanime consensus generale che aspettava solo l’incoronazione della Signora del Caos.
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La divaricazione del '77
Baudrillard, Camatte, Collu versus Negri, Mieli, Foucault
di Stefano Borselli
A proposito di una profezia delnociana
Quella che viene comunemente chiamata «la profezia» di Del Noce sulla inevitabile trasformazione in movimento radicalborghese, è spesso intesa come attribuita a tutto il marxismo. Per esemplificare, ecco come Vittorio Messori riassume una sua intervista col filosofo, i corsivi sono nostri:
Era prevedibilissimo», rispondeva Del Noce a chi gli chiedeva conto di queste sue virtú «profetiche». «Non occorreva davvero essere indovini: persa per strada l’utopia rivoluzionaria, l’essenza di surrogato religioso, è restato al marxismo soltanto il suo aspetto fondamentale, di prodotto dell’illuminismo scientista, del razionalismo che esclude Dio per una scelta previa e obbligata. Anche il comunismo «all’europea», dunque, si è rovesciato nel suo contrario: voleva affossare la borghesia e ne è divenuto una delle componenti piú salde ed essenziali».1
La lettura dei testi delnociani mostra tuttavia che il filosofo, ben consapevole della molteplicità delle interpretazioni di Marx, accortamente non parlava del marxismo in toto, ma si riferiva ad alcune sue aggettivazioni e segnatamente a quella cosiddetta gramsciana, in sostanza al PCI:
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L’elezione di Donald Trump
Samir Amin
1. La recente elezione di Donald Trump dopo la Brexit, l’aumento di voti fascisti in Europa, ma anche e molto meglio, la vittoria elettorale di Syriza e l’ascesa di Podemos sono tutte manifestazioni della profondità della crisi del sistema del neoliberismo globalizzato . Questo sistema, che ho sempre considerato insostenibile, sta implodendo sotto i nostri occhi nel suo centro. Tutti i tentativi di salvare il sistema – per evitare il peggio – mediante piccoli aggiustamenti sono destinati al fallimento.
L’implosione del sistema non è sinonimo di progressi sul cammino verso la costruzione di una alternativa veramente migliore per i popoli: l’autunno del capitalismo non coincide automaticamente con la primavera dei popoli.
Una cesura li separa, che dà alla nostra epoca un tono drammatico convogliando i pericoli più gravi. Ciò nonostante, l’implosione – perché è inevitabile – deve essere afferrata con precisione come l’occasione storica offerta ai popoli. Si apre la strada per possibili progressi verso la costruzione dell’alternativa, che comprende due componenti indissociabili: (i) a livello nazionale, l’abbandono delle regole fondamentali della gestione economica liberale a beneficio di progetti di sovranità popolare che danno luogo a progresso sociale; (Ii) a livello internazionale, la costruzione di un sistema di globalizzazione policentrica negoziata.
I progressi paralleli su questi due livelli diventano possibili solo se le forze politiche della sinistra radicale concepiscono la strategia per loro e riescono a mobilitare le classi popolari per progredire verso la loro realizzazione.
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“Sei lezioni di economia”: un libro per capire la crisi dell’Europa. E uscirne
di Vladimiro Giacché
Giunti al termine delle “Sei lezioni di economia” di Sergio Cesaratto si hanno due certezze. La prima è che il testo di Cesaratto è molto di più di un libro di lezioni di economia: è senz'altro un compendio delle principali teorie economiche tra Otto e Novecento, ma anche una storia economica d'Italia dagli anni Settanta in poi, una ricostruzione molto accurata della crisi europea dal 2010 a oggi, e anche – aspetto quest’ultimo da leggersi un po’ in filigrana, ma importante – una ragionata e al tempo stesso appassionata ricostruzione dell'itinerario intellettuale del suo autore nel contesto delle controversie economiche degli ultimi decenni. La seconda certezza è che si tratta senz'altro di uno dei più importanti contributi al dibattito economico italiano degli ultimi anni. Se la seconda certezza rende più gratificante il compito del recensore, la prima lo rende più arduo, costringendo a selezionare tra gli aspetti del libro da trattare: selezione che necessariamente sacrifica qualcosa.
In questa sede ci si occuperà della ricostruzione della crisi europea offerta da Cesaratto, e non senza rammarico: le pagine sulla rivoluzione incompiuta di Keynes e sulla conseguente successiva riconduzione di questo autore nell'alveo della teoria marginalista (riconduzione che Cesaratto considera forzata, ma fondata su alcuni limiti del suo pensiero) avrebbero meritato pari attenzione (lo stesso non si può dire purtroppo delle pagine sbrigative dedicate a Marx, e in particolare alla teoria della caduta tendenziale del saggio di profitto: che, a differenza di quanto sembra pensare l'autore, non è una spiegazione delle singole crisi, ma un’interpretazione delle tendenze di lungo periodo del modo di produzione capitalistico).
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L'investitura. La continuità. Il decreto
di Quarantotto
"...bisogna impedire qualunque interpretazione che un giorno possa far pensare a sovranità trasferite o comunque delegate. Ecco perché al termine «appartiene», come pure al termine «emana», preferisco il termine «risiede».
Gli organi attraverso i quali la sovranità e i poteri si esercitano nella vita di un popolo, sono organi i quali agiscono in nome del popolo, ma che non hanno la sovranità, perché questa deve restare al popolo. Ecco perché è preferibile il termine «risiede» in confronto a quello di «appartiene».
Quell'«emana», originario, dà il senso di una sovranità che si può trasferire agli organi i quali la esercitano; quell'«appartiene» dà un senso di proprietà; mentre il termine «risiede» consolida il possesso; non la proprietà. Il popolo, cioè, rimane possessore di questa che è la suprema potestà democratica.
Può sembrare una sottigliezza, ma sottigliezza non è. La verità è un'altra. Esistono fra gli uomini due categorie di persone di fronte ai problemi costituzionali: quelli che credono nelle Costituzioni e quelli che non credono nelle Costituzioni.
Per quelli che non credono nelle Costituzioni, cioè che pensano che il giorno che avessero la maggioranza farebbero quello che vogliono, un'affermazione di principio può sembrare una sfumatura, e non ha importanza; ma per coloro che, come me, credono profondamente nelle Costituzioni e nelle leggi, ogni parola ha il suo peso e la sua importanza per il legislatore di domani.
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Strike against the machine! Appunti sul presente
di Berlin Migrant Strikers
Ouverture
“Dove c’è rivoluzione… c’è confusione… dove c’è confusione un uomo che sa ciò che vuole ci ha tutto da guadagnare.” (James Coburn in “Giù la testa” – 1971)
“Tu… tu credi che io voglia derubarti? No… no, vedi… no! Non sono io il ladro. Non sono io che chiedo 85 cents per una Coca-Cola, sei tu il ladro! Io sto solo difendendo i miei diritti di consumatore, e riporto i prezzi al 1965…che te ne pare?!” (Michael Douglas in “Un giorno di ordinaria follia” – 1993)
I mesi appena trascorsi ci consegnano diversi fatti politici importanti che riguardano il conflitto capitale-lavoro, la produzione di soggettività e l’organizzazione delle lotte anticapitaliste. Fatti che si danno su una scala talmente ampia da meritare uno sforzo di lettura globale; fatti inoltre che parlano in modo così profondo delle trasformazioni presenti da diventare indizi utili a individuare un lavoro politico possibile.
Tra i diversi vogliamo in particolare soffermarci sullo sciopero in nero delle donne polacche che ha incendiato la prateria di un rinnovato conflitto di genere (dall’Argentina all’Italia, finanche negli USA), sullo sciopero dei lavoratori Foodora in Italia e Deliveroo a Londra (a cui seguono le nuove norme in UK contro Uber) ma anche le lotte dei portuali in Svezia e la firma dell’accordo sui magazzini nel settore della logistica in Italia che definisce un campo di battaglia nuovo e più avanzato in una lotta decennale (da confrontare con il deludente accordo dei sindacati confederali dei metalmeccanici).
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L'Italia capitalista è in grosse difficoltà
Ma la classe lavoratrice, al momento, non sta meglio
di Il cuneo rosso
Queste note sono un primo contributo all'analisi dello stato della classe proletaria oggi in Italia. Per evitare - per quanto possibile - fraintendimenti, facciamo tre precisazioni preliminari che chiediamo ai compagni di tenere bene presenti. La prima: il nostro discorso è qui circoscritto esclusivamente (o quasi) all'Italia per ragioni di utilità, per cercare di andare un po' più a fondo nell'indagine e perché è questo il campo principale della nostra attività. Ma non dimentichiamo certo che il proletariato è una classe internazionale per definizione, sia per il legame inscindibile che il mercato mondiale ha costruito tra i proletari di ogni angolo del globo, sia per la sua composizione di fatto multinazionale all’interno dei singoli recinti nazionali. La situazione italiana ha dei tratti specifici, ma il destino dei lavoratori in Italia è indissolubilmente legato al destino dei lavoratori del Nord e del Sud del mondo. La seconda: il quadro tracciato dello stato della classe oggi in Italia potrà apparire a qualche compagno pessimista (di sicuro quello di altri paesi è molto, o enormemente, più mosso specie in Asia, o anche in Francia), ma nel tracciarlo ci siamo attenuti al motto di Rosa Luxemburg, "Dire ciò che è, rimane l'atto più rivoluzionario", che riprende in pieno un concetto e un'attitudine espressi con altre parole cento volte da Marx e da Lenin. La nostra analisi può essere incompleta (lo è) o sbagliata (crediamo di no), ma risponde al criterio: partire dai fatti, non dai nostri desideri, quanto mai lontani, oggi, da essi.
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Nazionalizzare!
di Leonardo Mazzei
Perché la nazionalizzazione del sistema bancario è necessaria, giusta e perfino conveniente. Piccolo problema: per farla come si deve ci vuole la Nuova Lira
Ieri la vicenda del Monte dei Paschi di Siena (Mps) si è tinta di giallo. C'è o no lo stop della Bce alla richiesta di proroga dei termini per la ricapitalizzazione chiesta dalla banca senese? Ad oggi non si sa: le agenzie hanno battuto la notizia, ma il vertice di Mps dice di non aver avuto comunicazioni ufficiali...
Ovvio perciò il dubbio che si sia trattato del solito trucchetto della tecnocrazia eurista per ottenere una rapida soluzione della crisi di governo, cercando di indirizzarla verso uno sbocco che non dispiaccia a Bruxelles e Francoforte. Per costoro l'Italia è solo una scomoda colonia da tenere sotto controllo, ed a tal fine ogni mezzo è lecito.
Se questo è il risvolto politico delle mosse di ieri, nulla cambia riguardo agli aspetti di fondo della crisi bancaria italiana, della quale Mps è solo la punta dell'iceberg.
Ricapitoliamo perciò rapidamente la questione per trarne alcune conclusioni più generali. Da molto tempo le cose al Monte dei Paschi vanno male. Anzi, malissimo. Negli ultimi cinque anni la banca ha dovuto effettuare due ricapitalizzazioni da 5 e 3 miliardi, convertendo inoltre in azioni 240 milioni dei Monti bond. Al tempo stesso la capitalizzazione borsistica è scesa dai 6 miliardi del 30 giugno 2011 ai 600 milioni di ieri.
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La guerra che incombe sulla Cina
John Pilger
Quando andai a Hiroshima per la prima volta nel 1967, l’ombra sui gradini era ancora lì. Era l’impronta quasi perfetta di un essere umano rilassato: le gambe larghe, la schiena curva e una mano lungo il fianco mentre aspettava l’apertura di una banca. Alle otto meno un quarto della mattina del 6 agosto 1945, una donna e la sua silhouette furono impresse a fuoco nel granito. Rimasi a fissare quell’ombra per un’ora o forse più: non sarei mai riuscito a dimenticarla. Molti anni più tardi, al mio ritorno, non c’era più: spazzata via, “svanita”, motivo di imbarazzo politico.
Ho trascorso due anni nella realizzazione di un film documentario, The Coming War on China, nel quale prove e testimonianze mettono in guardia contro una guerra nucleare che non è più un’ombra, ma una eventualità concreta. La più massiccia mobilitazione di forze armate usamericane dopo la Seconda guerra mondiale è già ben avviata. Sono localizzate nell’emisfero settentrionale, ai confini occidentali della Russia, e in Asia e nel Pacifico, faccia a faccia con la Cina.
Il grande pericolo che ciò richiama non fa notizia, se non una sepolta e distorta da un bombardamento di falsità mediatiche che fa eco alla paura psicopatica infissa nella coscienza pubblica per gran parte del XX secolo.
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Crisi Infinite
di Jacob Blumenfeld
Il mondo è già finito? Ci siamo persi il momento della nostra scadenza?
In questo momento, sembra essere questa la domanda che ci stiamo collettivamente ponendo attraverso i medium della cultura popolare.
Non siamo più soddisfatti dal vedere il nostro pianeta ripetutamente minacciato da alieni, epidemie, robot, esplosioni nucleari, o dalla natura, e ci piace guardare l'umanità mentre si trova a dover gestire le conseguenze del disastro anziché prevenirlo. Non più convinti dall'unificazione dell'umanità contro la minaccia universale, traiamo piacere dal guardare le persone dividersi e combattere a morte gli uni contro gli altri secondo la razza, lo stato e la nazione. Credere in quello che una volta era l'ideale utopico delle classi lavoratrici, che vedeva tutte la nazioni unirsi insieme per rendere il mondo più perfetto, certifica, oggi più che mai, che uno è pazzo.
C'è rimasta una qualche speranza per un futuro senza che ci sia una guerra perpetua, crisi economiche, catastrofi ambientali, misoginia dilagante, violenza razzista, disuguaglianze enormi, terribili prigioni, lavoro senza fine? Non c'è niente che punti a questo. Utopia è sempre stata un'idea nata morta, dichiarata morta al suo arrivo in questo mondo che dobbiamo lasciare. Per qualcuno, il mondo diventa migliore solamente se si fanno partecipare più persone della ricchezza della società.
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Il nómos della modernità
di Robert Kurz
Pubblichiamo il capitolo IX del libro Weltordnungskrieg1 di Robert Kurz, inedito in Italia, nella traduzione di Samuele Cerea.
Ecco la prima parte
Abstract:
La crisi del diritto è solo uno dei molteplici livelli su cui si manifesta la crisi complessiva della modernità capitalistica. La crisi degli Stati nazionali nel processo della globalizzazione coincide con la crisi della possibilità regolative degli apparati statali sui rapporti sociali all’interno e, soprattutto, con una crisi fondamentale del diritto internazionale, ossia della regolazione del rapporto tra gli Stati. Un aspetto quest’ultimo drammaticamente evidenziato dalle guerre dell’ordine mondiale, condotte dagli USA sotto l’amministrazione Bush: la costruzione pericolante del diritto internazionale classico non viene sostituita da un nuovo nomos giuridico ma dalla legge del più forte. Robert Kurz analizza questo processo di deriva anomica sia all’interno che all’esterno dello Stato, facendo riferimento alla categoria schmittiana dello stato di eccezione e al costrutto dell’”homo sacer” di Agamben. Secondo Kurz la dicotomia stato normale/stato di eccezione, uno dei cardini del pensiero schmittiano, si risolve, nella società della merce, nell’alternativa tra uno stato di eccezione coagulato (la cosiddetta normalità) e uno stato di eccezione fluido mentre la forma-diritto, kantianamente modellata sulla soggettività moderna del denaro e del valore, contiene in sé il nucleo della riduzione dell’uomo a “homo sacer” nel senso di Agamben, liquidabile in ogni momento se superfluo per la logica del valore.
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Parte prima:
La fine del diritto, lo stato di eccezione globale e il nuovo «homo sacer»
Quando la sovranità si dissolve, si dissolve necessariamente anche ogni relazione giuridica e contrattuale tra gli Stati.
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Il populismo al tempo degli algoritmi / 3
Giso Amendola e Paolo Gerbaudo
Pubblichiamo oggi con gli interventi di Giso Amendola e Paolo Gerbaudo la terza e ultima parte di uno speciale che, prendendo spunto da alcuni temi trattati nel recente volume di Carlo Formenti La variante populista (già recensito su alfabeta2 da Cristina Morini), si propone di affrontare le nuove declinazioni del cosiddetto populismo.
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Macché populismo, macché comunità: nelle città oggi si muove tutta un’altra lotta di classe
Giso Amendola
1. Nella politica moderna, almeno nel suo filone maggioritario, quello nato attorno all’esperienza dello stato sovrano, rappresentanza, sovranità e popolo stanno insieme e muoiono insieme. Le regole del gioco le detta Thomas Hobbes in modo estremamente cogente e preciso: il popolo è costituito come unità politica solo attraverso la sovranità. Ricordare questo nodo indissolubile che stringe, nella modernità, popolo, sovranità e rappresentanza, può aiutare a districarci in qualche apparente paradosso che abita la nozione di populismo.
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Antropologia, progettualità neo-liberale, Soggetto
Un dialogo con Adelino Zanini
Pierluigi Marinucci – Adelino Zanini
D.: Affrontare il tema delle relazioni tra antropologia ed economia richiede una riflessione preliminare: in merito cioè a quanto questo complesso viluppo di relazioni abbia innanzitutto trovato esplicazione ”progettuale” nel campo epistemologico delle scienze umane, intese in chiave necessariamente e sufficientemente ampia da includere nel loro alveo concettuale anche la disciplina economica.
R.: Per quanto concerne lo statuto delle scienze umane, c’è un prima e un dopo Foucault (mi sia permesso di richiamare direttamente ciò che ho scritto nel mio libro dedicato al filosofo francese). Egli ci ha insegnato, infatti, come nel caso di tali scienze non vi sia “discorso” capace di restituire, attraverso un’unità architettonica formale, la totalità della propria storia. Il ricorso storico-trascendentale (l’individuazione di una fondazione originaria) e quello empirico (la ricerca del fondatore) appaiono, rispettivamente, tautologici ed estrinseci. Ciò che, ad esempio, permette di individuare un discorso come “economia politica”, non è l’unità di un oggetto, non è una struttura formale, un’architettura concettuale o una scelta filosofica fondamentale, appunto; è piuttosto l’esistenza di regole di formazione per tutti i suoi oggetti, per tutte le sue operazioni, per tutti i suoi concetti, per tutte le sue opzioni teoriche. È per questo che un’episteme non è la somma di conoscenze di un’epoca, bensì lo scarto, le distanze, le opposizioni, le differenze, le relazioni dei suoi molteplici discorsi scientifici. Essa non è una grande teoria sottostante, ma uno spazio di dispersione: non è uno stadio generale della ragione; è un complesso rapporto di spostamenti successivi.
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La voce dal padrone
La psicoanalisi ai tempi della Leopolda
di Maurizio Montanari
Non so se, quando lo psicoanalista J.A. Miller sosteneva la necessità di ‘parlare la lingua dell’altro’, cercando di rendere l’analista una figura attuale, elastica, capace di lasciare sempre più le mura dello studio, si riferisse anche alle kermesse di corrente di partito, come quella tenutasi alla Leopolda. La passerella fiorentina rappresentava invero più un salotto esclusivo, il défilé di una piccola élite, che non le voci della città.
La psicoanalisi, piuttosto che accasarsi presso un’avanguardia benpensante e piena, satolla di mezzi e verità, dovrebbe andare laddove la carne della città è viva, in bilico, precaria, disoccupata. Dove c’è il vuoto, dove qualcosa manca, cercando di dare voce a tutti coloro i quali la voce l’hanno persa, al prezzo di volgarizzarsi. Non è populismo dire che là dentro non erano rappresentate che alcune delle voci della società. Non certo quelle dei docenti toccati dalle recenti riforme, nè quelle dei giovani vittime del jobs act, manco quelle degli operai della Fiat colpiti dal ‘modello Marchionne’, uomo col quale il leader della Leopolda si dice in piena sintonia. Se la psicoanalisi la si vuole usare in città, dans la rue, si deve cercare di arrivare anche nelle periferie. Pena, il cadere in un gioco di specchi dove il padrone si bea delle sue parole e dei suoi tecnicismi, che si stagliano, ma sfumano in mezzo alla pletora di applausi e voci univoche del coro.
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Populismo di secondo grado e manipolazione dell’esito referendario
di Elena Maria Fabrizio
Tra i sintomi che affliggono le democrazie occidentali, la manipolazione dell’opinione pubblica e la manipolazione del voto sono i più noti. E non c’è consultazione politica e referendaria, con o senza quorum, che non confermi questo trend. Così, puntualmente, nell’ultima consultazione la tutela della Costituzione e il conseguente rigetto di una riforma irresponsabile che non ci avrebbe protetto da maggioranze retrograde, populiste e autoritarie, viene surclassato da altri dati, dotati di scarsa oggettività e più semplicistici. Non solo i cittadini avrebbero innanzi tutto votato per dire Sì o No al Presidente del Consiglio Renzi e al suo governo, ma con questa scelta, più che esprimersi sulla sua politica e le sue leggi, si sarebbero di fatto espressi sull’alternativa Renzi o il populismo, che è ovviamente sempre quello degli altri, Salvini e Grillo in primis.
Sembra quasi superfluo evidenziare che la carente analiticità di questa lettura eleva il populismo a giudizio di secondo grado cui scadono nell’analisi del voto, ma già prima nei modi e nei toni della campagna referendaria, quegli stessi sostenitori che hanno eretto il Pd a partito antipopulista per eccellenza; il quale non cede alla tentazione di dividere ancora una volta l’elettorato nel popolo che interpreta correttamente i propri valori (cambiamento, bellezza, sogno, futuro) dal popolo che al contrario ne sarebbe incapace.
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Ma gli operai votano?
di Roberto Salerno (*)
La vittoria del “NO” al referendum ha avuto una lettura prevalente: è il successo di Grillo e Salvini e segna il definitivo trionfo del populismo in Italia. Così come in Gran Bretagna il Leave e negli USA Trump hanno certificato un immaginario trionfo del populismo, agevolato dal voto operaio, in Italia una maggioranza, identificata qui come il “ceto medio impoverito” di concerto con una classe operaia incanaglita e incapace di comprendere lo spirito, precario, del tempo, avrebbe trascinato il Paese in una spirale che avrà come sbocco un governo Grillo (magari con Salvini, anche se non si capisce come). Uno sbocco comunque reazionario e questo, dicono, sarà il prodotto (e la responsabilità) di chi ancora illude larghi tratti della popolazione che le garanzie novecentesche, la stabilità del “secolo del lavoro” sia ancora possibile. Qualcosa del genere si era visto appunto dopo l’elezione di Trump e il voto sulla Brexit.
Subito dopo l’imprevista – più o meno – vittoria di Trump alle elezioni statunitensi si è immediatamente alzata la canea diretta verso il solito tradimento della classe operaia, che avrebbe votato l'impresentabile tycoon. Se la maggior parte di queste sbavanti accuse erano – e sono – semplici tentativi di deresponsabilizzazione di quella che incredibilmente viene a volte definita “sinistra” di governo, alcune di esse hanno fatto presa anche su insospettabili e disinteressati commentatori.
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