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Intervista all’economista professor Prabhat Patnaik
di Bollettino Culturale
Prabhat Patnaik, nato a Jatani il 19 settembre del 1945, è uno dei principali economisti marxisti dell’India. Tramite una borsa di studio ha la possibilità di studiare al Daly College di Indore ed in seguito si laurea in economia al St. Stephen’s College di Nuova Delhi. Ad Oxford consegue il proprio dottorato per poi tornare in patria nel 1974 per insegnare, fino al pensionamento avvenuto nel 2010, presso il Centre for Economic Studies and Planning (CESP) della Jawaharlal Nehru University di Nuova Delhi. Specializzato in macroeconomia ed economia politica, è uno dei più attenti osservatori e critici della politica economica del governo indiano. Feroce critico delle politiche economiche neoliberiste e del nazionalismo hindu, ha pubblicato numerosi articoli e libri in diverse lingue.
Tra i più importanti vorrei ricordare: A Theory of Imperialism, scritto con sua moglie Utsa Patnaik, altra importante economista marxista indiana, The Value of Money, Re-Envisioning Socialism, e Demonetisation Decoded – A Critique of India’s Currency Experiment.
* * * *
1. Professor Patnaik, lei è un marxista in un paese che scivola sempre di più a destra. Il fondamentalismo indù di Modi ha molto in comune con lo sciovinismo di Abe in Giappone, Trump, Orbán e Salvini. Come si materializza questo fondamentalismo indù in economia e che rapporto ha con la gestione dell’ordine neoliberista?
L’attuale partito al governo del paese è stato istituito dalla RSS [Rashtriya Swayamsevak Sangh, Organizzazione Nazionale Patriottica] come suo braccio politico. La RSS è un’organizzazione fascista istituita nel 1925 che aveva inviato un emissario a Mussolini e aveva grande ammirazione per il fascismo tedesco e italiano.
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Interviste boliviane
di Alessandro Peregalli
1. “Noi donne indigene il golpe lo abbiamo sentito nel corpo”
Dialogo con Adriana Guzmán e Diana Vargas, femministe aymara attive in uno spazio politico chiamato Femminismo Comunitario Antipatriarcale, che in questi anni ha partecipato, seppur con una visione critica dei governi di Morales, al cosiddetto proceso de cambio. L’autore le ha incontrate a El Alto, nella zona metropolitana di La Paz
In Bolivia nell’ottobre e novembre scorsi si è consumato un colpo di Stato?
Il golpe è stato progettato fin dal 2016, quando ci fu il referendum sulla possibilità di rielezione per Evo Morales. Dopo la vittoria referendaria del No, e contro il ridicolo tentativo di Evo di presentarsi lo stesso, l’opposizione organizzò la campagna Bolivia dijo No, “la Bolivia ha detto no”. Da allora l’opposizione è andata dicendo che ci sarebbero stati brogli elettorali.
Quel referendum in realtà Evo lo perse per via di uno scandalo su un suo presunto figlio non riconosciuto. Come femministe, anche se capivamo che lo scandalo era strumentalizzato dall’opposizione e dagli Stati Uniti, abbiamo comunque considerato che Evo dovesse farsi da parte. Oltretutto, eravamo di principio contro la ri-candidatura, perché non crediamo nei processi caudillisti. Però il MAS decise di candidare Evo lo stesso.
Ed è così che, dal giorno dopo il voto, sono iniziate le manifestazioni: ed erano manifestazioni razziste, con aggressioni alle donne indigene, sfregio della whipala (la bandiera dei popoli originari, Ndr). E’ stato il venire alla luce di un razzismo che per 13 anni era rimasto sotterraneo. E’ stato allora che abbiamo sentito il colpo di Stato; prima ancora che cadesse Evo, noi donne indigene il golpe già lo sentivamo nei nostri corpi: ci incontravamo nelle strade, ci guardavamo, e avevamo paura, paura della persecuzione.
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L'orientamento della sinistra davanti al problema del lavoro
di Sergio Farris
Relazione presentata al convegno organizzato dal Coordinamento della Sinistra di ValleTrompia il 15/02/2020
Prologo
Che il lavoro in Italia non possa essere considerato in situazione ottimale e che i lavoratori dipendenti non attraversino un periodo florido, quasi tutti sono disposti ad ammetterlo. I più avveduti riconoscono anche la tendenza in corso all'aggravamento della disuguaglianza e all'approfondimento della povertà assoluta e relativa.
Tutti i maggiori partiti si dichiarano favorevoli ad affrontare il tema del lavoro. Solitamente essi pongono l'incremento e la tutela dell'occupazione al primo posto nelle rispettive agende politiche. Specialmente quando le pagine dei giornali rendono conto delle ricorrenti crisi aziendali.
Vi sono tuttavia rimarchevoli differenze riguardo alle analisi e ai metodi con i quali l'argomento può essere focalizzato. Altrettanto vale per i mezzi politici da attivare al fine di raggiungere un elevato livello di occupazione e posti di lavoro di qualità.
Attualmente il tasso di disoccupazione ufficiale è di circa il 10%. Gli occupati assommano a circa 23 milioni. Il tasso di disoccupazione giovanile si avvicina al 30%. Va meglio a Brescia e in altre zone del Nord, territori in cui la disoccupazione è storicamente inferiore rispetto alla media nazionale. Comunque, quando si tratta del tasso di disoccupazione, va anche tenuto conto di fenomeni quali il part-time involontario, il diffusissimo precariato, il lavoro autonomo sotto forma di false partite Iva, eccetera. (Ufficialmente, gli autonomi regolari sarebbero 5 milioni 363 mila). E soprattutto, anche quando ci si riferisce agli occupati, andrebbe tenuto conto delle retribuzioni e della qualità delle prestazioni lavorative. (Si ha spesso a che fare con lavoro povero, soprattutto nel composito settore dei servizi).
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Ci saranno improvvise esplosioni, epidemie
di Luigi Grazioli
“J. G. Ballard è uno dei pochi scrittori di fiction del ventesimo secolo dall’immaginazione così singolare da aver ricevuto un suffisso in inglese: in -esque o -ian, come nel caso di “Kafkesque” e “Dickensian””, scrive Simon Reynolds nel saggio che accompagna la traduzione inedita della video intervista All that mattered was a sensation che il grande scrittore inglese ha concesso a Sandro Moiso nel 1992, ora pubblicata in un’edizione bilingue corredata da un apparato iconografico e da una bella introduzione dello stesso Moiso, a cura di Francesco D’Abbraccio e Andrea Facchetti, per le edizioni Krisis. “Per alcuni lettori Ballard ha saputo imporre il suo modo di vedere tra i nostri occhi e il mondo”, tanto che è impossibile non pensare alla sua opera di fronte a eventi catastrofici, esplosioni di violenza, sesso traumatico, celebrità assassinate, comunità isolate che implodono, periferie degradate, grandi strutture stradali che sembrano ecosistemi autonomi ecc., che ritroviamo un po’ ovunque nella realtà degli ultimi decenni, dove le più cupe distopie del grande scrittore inglese, che apparivano solo estremizzazioni di aspetti appena accennati della società a lui (tra il 1960 e il 2000), sembrano essersi puntualmente realizzate, talvolta andando persino oltre la sua immaginazione.
Reynolds, riprendendo e commentando alcuni spunti dell’intervista, districa e ricollega in una fitta maglia questi caratteri tra di loro e, in modo illuminante, ad aspetti della società e della cultura inglese fino ai nostri giorni, dalla politica alle nuove consuetudini, dall’urbanistica alla musica, con una scrittura tanto chiara quanto acuta.
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Vincolo esterno, classi dirigenti e cultura politica
di Lorenzo Mesini
Nell’anno 1900, mentre era impegnato a tracciare un bilancio dello Stato unitario italiano dopo i suoi primi decenni di vita, Antonio Labriola si poneva la seguente domanda: «Quante garanzie di Stato moderno offre ora l’Italia in quanto a mantenere un posto di utile ed efficace concorrente nella gara internazionale? […] La vecchia nazione italiana componendosi a Stato moderno di quanto si è trovata adattabile e di quanto si è trovata difettiva di fronte alle condizioni della politica mondiale in genere?»[1]. Nel momento in cui scriveva, Labriola guardava all’esperienza politica, ormai conclusa, di Francesco Crispi e al suo tentativo, fondato su presupposti inadeguati, di collocare l’Italia nel concerto delle grandi potenze europee[2]. Il ‘prosaico quesito’ posto da Labriola sulla soglia del Novecento non ha perso la sua pregnanza per chiunque si interessi alle sorti dell’Italia di oggi. Quale posizione e ruolo può ricoprire il Paese sulla scena politica europea e mondiale? Come declinare la sua azione entro i rapporti di forza e le dinamiche che caratterizzano la scena globale?
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Macché crisi di governo, è solo normalizzazione…
di Dante Barontini
La crisi infinita della politichetta italiana sta collassando. Non esiste più alcuna differenza apprezzabile tra i vari “schieramenti politici”. L’unica novità sta nell’annullamento di quanto resta della “alternativa” malamente rappresentata per un decennio dai Cinque Stelle.Pura normalizzazione, insomma, condotta per via di logoramento quotidiano.
I due attori principali, per il momento, sono gli stessi che da un quinquennio dominano la scena mediatica: “i due Matteo”. Come in un serial ormai stanco e ripetitivo…
Che un governo possa cadere per via di una cosa poco chiara ai più, come la “prescrizione”, è indicativo del fatto che i veri giochi si stanno facendo su tutt’altro. E che ad aprire la crisi sia il gruppo di interesse – nessuno riuscirebbe a prendere sul serio “Itala viva” come “partito” – che meno di tutti ha la possibilità di trarre vantaggio da eventuali elezioni anticipate, la dice lunga sul ruolo di “killer su commissione” affidato a Renzi & co.
La prescrizione
Togliamo di mezzo questo tema, fonte solo di confusione. In qualsiasi paese di “democrazia liberale” – che è cominciata ad esistere affermando l’habeas corpus, ossia il diritto ad essere processati restando uomini liberi fino alla condanna (con tante e non sempre ovvie eccezioni) – il sistema giuridico deve tenere insieme due esigenze opposte: perseguire chi commette un reato, violando le leggi, e farlo in un processo che abbia “tempi ragionevoli”. Un’ottima panoramica è offerta, una volta tanto, dal Corriere della Sera.
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Dalla Grecia alla Spagna: non alzare la testa, non alzare i salari
di coniarerivolta
Puntuale come le sciagure, cieca e premonitrice come Tiresia, è arrivata l’ammonizione della Banca Centrale Spagnola al neo insediato governo progressista di Spagna. Il nuovo esecutivo una settimana fa, circa, ha varato l’aumento del salario minimo e si appresta, nelle intenzioni, a modificare almeno in parte le contro-misure del lavoro varate dai precedenti governi dopo la drammatica crisi che ha coinvolto la Spagna e l’Europa intera. Noi stessi abbiamo appena fatto in tempo a sottolineare l’ostilità istituzionale nel quale l’esecutivo rosso-viola si sarebbe trovato ad agire, che la prima intimidazione è giunta.
Preservare innanzitutto la competitività delle merci nazionali, dice il governatore del Banco de España, che tradotto significa tenere i salari bassi. Se già l’approvazione dell’aumento del salario minimo avrebbe già rischiato di far scattare la molla dell’inflazione, è la messa in discussione delle riforme liberiste del mercato del lavoro che preoccupa il Governatore Pablo Hernández de Cos. Egli ha così voluto mettere in guardia l’esecutivo dal tornare a una contrattazione centralizzata e di settore, abbandonando la contrattazione aziendale introdotta dal precedente governo di centro destra. C’era da aspettarselo, ma crediamo sia giusto spiegare la logica di questo intervento, perché esso rivela quale sia il modello di crescita che ispira tutte le politiche europee e, in generale, quale sia il modello di “cooperazione” tra gli Stati e di relazioni sociali al loro interno. E questa logica ha almeno due facce che meritano di essere indagate: quella che guarda alla strategia di crescita e quella che guarda all’idea di distribuzione del reddito. Proviamo a muoverci in un circuito in cui, partendo dai rilievi della Banca Centrale Spagnola, passeremo per la crescita dell’economia, la distribuzione del reddito e torneremo alle parole del Gobernador.
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Antimperialismo e internazionalismo
Riflessione teorica e iniziativa militante nel libro “Liberare i popoli”
di Luca Cangemi
Il lettore giunto alle ultime pagine del volume dispone senza dubbio di elementi sufficienti per apprezzare, negli scritti di Fosco Giannini dedicati alle questioni internazionali, il valore di una riflessione teorica e dell’iniziativa militante che vi è indissolubilmente connessa.
Con eguale nettezza emerge la forte personalità dell’autore e la sua passione politica. Personalità e passione che lo portarono, anni fa, a levarsi in Parlamento, sfidando l’isolamento anche nelle file della sinistra, per denunciare un mistificante servizio della televisione di Stato sulla Rivoluzione d’Ottobre. E il grande spartiacque dell’assalto bolscevico al cielo ritorna con forza, come stella polare, teorica e politica in ogni scritto di Giannini. E giustamente.
La centralità della dimensione internazionale, il carattere in qualche modo sovradeterminante di essa nell’azione politica quotidiana, sono caratteristiche specifiche del movimento comunista nato dalla rottura rivoluzionaria in Russia. Giusto cent’anni fa (e l’anniversario avrebbe meritato da parte degli storici ben altro impegno di quello finora espresso) nasceva, con il Komintern, il primo esempio di movimento politico, compiutamente e intenzionalmente, globale. In un periodo in cui l’orizzonte di larga parte dell’umanità era ancora limitato angustamente, l’Internazionale Comunista forgia migliaia di uomini e di donne che hanno come campo d’intervento il mondo.
Ce lo raccontano, meglio di complesse analisi storiche, le biografie di questi militanti e queste militanti.
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Chi sono i veri antisemiti?
Nicola Carella intervista Ronnie Barkan*
Le accuse infamanti di antisemitismo a chi critica Israele, il razzismo della destra, le contraddizioni della sinistra, il Piano Trump per la Palestina. Ce ne parla un dissidente israeliano
Ronnie Barkan è un dissidente israeliano e un attivista della campagna per i diritti del popolo palestinese Bds e dei movimenti contro le politiche di colonialismo, occupazione militare e apartheid del governo israeliano. Attualmente vive a Berlino dove, insieme ad altri due attivisti, sta sostenendo un processo per aver definito pubblicamente le politiche di Israele «crimini contro l’umanità».
* * * *
Ronnie, per inquadrare innanzitutto il tuo attivismo, quali sono a grandi linee gli obiettivi politici che ti spingono ad agire in un contesto come quello tedesco in generale e berlinese in particolare?
Credo che il nostro ruolo di attivisti debba essere volto superare le ingiustizie sistemiche e affermare i diritti o i valori per i quali crediamo valga la pena lottare. In secondo luogo, come individuo, sono anche nato in un contesto specifico, in cui i miei diritti e i miei privilegi mi vengono consegnati e garantiti a spese degli «altri». Tutto ciò che riguarda la creazione del progetto sionista in Palestina ruota attorno a questa semplice nozione: i privilegi per un gruppo etnico sono a spese di tutti gli altri, specialmente se gli altri sono gli indigeni di quella terra. Chiunque pensi che lo Stato di Israele sia stato istituito per qualsiasi altro scopo è quantomeno poco informato sulla questione. Esattamente per come qualsiasi persona bianca consapevole dell’apartheid in Sudafrica o durante la schiavitù in Nord America, il mio parlare e agire per l’abolizione del sionismo è qualcosa di naturale, è il risultato diretto e più ovvio dell’essere nato in quel sistema di oppressione.
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Hobbes e la Teologia Politica
di Sergio Crescenzi
Nelle Lezioni sulla Storia della Filosofia, John Rawls, per introdurre la sua interpretazione di Hobbes, dice:
«Lascerò da parte alcune cose, e spiegherò perché. La prima cosa che ignorerò sono gli assunti teologici di Hobbes. Hobbes spesso si esprime come un credente cristiano, e non metto in dubbio né nego che in un certo senso lo fosse, sebbene quando si legge il suo lavoro si capisce perché ci sia stato chi lo ha negato. O ad ogni modo ci si è chiesti come potesse affermare ciò che affermava e allo stesso tempo essere credente, in un qualche senso ortodosso dell’espressione. Perciò intendo lasciare da parte questi assunti teologici ortodossi e assumerò che nel libro ci sia un sistema politico e morale secolare. Questo sistema politico e morale secolare è completamente intelligibile per quel che concerne la sua struttura teorica e il contenuto dei suoi principi anche quando tali assunti teologici vengono messi da parte. In altre parole, non abbiamo bisogno di tenere conto di questi assunti teologici per capire come sia fatto il sistema secolare. Anzi, è proprio perché, o almeno in parte perché possiamo lasciare da parte questi assunti che la sua dottrina rappresentò un affronto all’ortodossia del tempo. Nel pensiero ortodosso, la religione dovrebbe giocare un ruolo essenziale nella comprensione del sistema di idee politico e morale. Se non è così, allora questo già di per sé è un problema. La religione, il pensiero ortodosso, non giocava alcun ruolo essenziale nella visione di Hobbes. Perciò credo che tutte le nozioni usate da Hobbes, come ad esempio la nozione di diritto naturale, di legge naturale, di stato di natura, e così via, possono essere definite e spiegate indipendentemente da qualsiasi retroterra teologico.
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«Herr Vogt»: una battaglia di Marx poco nota (e quasi sempre fraintesa)
di Eros Barone
Lo stesso Vogt afferma che il suo proposito... era quello di chiarire «lo sviluppo del suo personale atteggiamento nei confronti di questa cricca» (Marx e compagnia). Abbastanza curiosamente, egli descrive solamente conflitti che non ha mai vissuto e vive solo conflitti che non ha mai descritto. È quindi necessario porre a confronto le sue panzane con un pezzo di storia reale.
Karl Marx, Herr Vogt. 1
Oltre al suo talento di oratore, Kossuth possiede anche quello altrettanto grande di saper starsene in silenzio appena l’uditorio dà chiari segni di insofferenza... Al pari del sole, conosce perfettamente l’arte di eclissarsi. In una sua recente lettera a Garibaldi ha dimostrato di saper essere coerente con se stesso almeno una volta nella vita: in essa ammonisce Garibaldi a non attaccare Roma, per non offendere l’imperatore dei francesi, «l’unico sostegno per le nazionalità oppresse».
Karl Marx, Herr Vogt. 2
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Il signor Vogt: chi era costui?
Nella primavera del 1859 vide la luce, nel mondo di lingua tedesca, uno scritto intitolato Studi sulla situazione attuale dell’Europa, nel quale si sosteneva il punto di vista del partito bonapartista in politica estera. Questo scritto recava la firma di Carl Vogt, rappresentante della sinistra nell’Assemblea nazionale di Francoforte durante il cruciale periodo 1848-1849, esule in Svizzera dopo gli anni rivoluzionari e professore di scienze naturali a Ginevra. 3 Nello stesso anno apparve a Londra un volantino anonimo che denunciava le mene di Vogt per creare consenso intorno alla figura di Napoleone III e alla sua politica europea che proprio in quel periodo compiva un salto di qualità con l’appoggio francese all’unificazione italiana.
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La pandemia del tardo capitalismo
di Luca De Crescenzo
Secondo i dati più recenti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), a livello globale quasi un decesso su cinque è dovuto a una malattia infettiva. Che diventa un decesso su due se si considera solo la metà del mondo più povera. Si tratta di malattie per lo più curabili – polmoniti, bronchiti, dissenterie. E spesso orribili. Quelle che non uccidono debilitano, invalidano e possono trascinarsi in lunghe paralizzanti agonie (cercate su google «elefantiasi» per capire di cosa stiamo parlando). Molte fanno parte delle cosiddette «malattie tropicali dimenticate». «Tropicali», anche se si concentrano dall’equatore in giù dove vive la maggior parte dei poveri del mondo. «Dimenticate», perché notoriamente dei poveri è facile disinteressarsi. Forse sarebbe più appropriato chiamarle «malattie banali poco lucrative». Al momento colpiscono più di un miliardo di persone, con danni che dalla salute arrivano all’economia, tornando nuovamente alla salute, in una classica trappola del sottosviluppo.
Di fronte a questi dati il clamore mediatico per il Coronavirus – con le poche centinaia di vittime a fronte dello straordinario dispendio di risorse ed energie che sta mobilitando – sembra ipocrita quanto ridicole appaiono le scene di panico che ne derivano. Ma non c’è alcuna contraddizione. Il panico porta all’estremo il timore di finire in quelle stesse condizioni di morte e malattia lontane ma presenti, da cui proviamo a proteggerci con muri che si rivelano inutili di fronte a un morbo invisibile. E che in realtà spesso sono già a casa nostra. Un anno fa ha fatto scandalo la notizia di un’epidemia di tifo a Los Angeles, una malattia «medievale» nel pieno della California, lo Stato più ricco del Paese più ricco del mondo, in cui però si registra un record di senzatetto.
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Il declino della politica e l'inizio di un'altra storia
di Domenico Accorinti
Ritengo che, se partissimo dalla citazione di Giuseppe Mila della Costituzione statunitense: “Ogni qualvolta una qualsiasi forma di governo tende a negare questi fini, il popolo ha diritto di mutarla o abolirla e di istituire un nuovo governo fondato su tali principi e di organizzarne i poteri nella forma che sembri al popolo meglio atta a procurare la sua Sicurezza e la sua Felicità”; e dall’affermazione di Giuseppe Ladetto secondo cui: “L’intera sinistra da anni è in crisi in Europa, anzi in tutto il mondo. Sarebbe il caso di partire da questa constatazione per cercare di risalirne alle cause”, tralasciando ogni altra considerazione di natura strettamente contingente legata a semplici valutazioni opportunità politica, sarebbe possibile evitare di lasciarsi trascinare da queste ultime su di un terreno impervio che non ci consentirebbe un esame razionalmente approfondito della questione.
Sia la citazione di Mila sia l’affermazione di Ladetto contengono una parte di verità che però, per consentirci di andare oltre le miserie della politica quotidiana e cercare di centrare in profondità il problema che sta alla base del declino qualitativo delle classi politiche occidentali, non solo italiane, e conseguentemente dei Paesi da queste governati, ci impongono di scavare senza pregiudizi nelle visioni filosofiche che, ormai da 250 anni, in occidente ci portano, magari anche solo implicitamente, il che non è certo un’attenuante, anzi, ad affermare senz’ombra di dubbio la persistenza della bontà della corrente visione della natura hominum, concetto che ha portato all’attuale senso di ineluttabilità dell’uomo “a una dimensione”, quella economica.
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Sul nuovo libro di Thomas Piketty
di Franco Lissa
Questo “libro-mattone” è importantissimo, perché pone al centro dell’attenzione, e in modi non propagandistici ma scientificamente documentati, la questione-spia delle crescenti ineguaglianze che la mondializzazione sta solidificando. Come ricorda Franco Lissa in questa sua puntuale presentazione: ” L’1% più ricco della popolazione si è appropriato del 27% della crescita mentre il 50% dei più poveri ha avuto una crescita del 12%. Le classi medie e popolari dei paesi ricchi hanno subìto una perdita importante del loro benessere economico, il che, come vedremo, ha provocato dei cambiamenti significativi anche a livello di rappresentanza politica”. Sulla proposta del “socialismo partecipativo” avanzata da Piketty a me restano – non avendo sgombrato la lezione di Marx dalla mia mente – molti dubbi. Ma discutiamone. [E. A.]
Il primo atteggiamento che il lettore deve assumere di fronte alle 1200 pagine dell’ultimo libro di Thomas Piketty (Capital et Idéologie, ed. Seuil, 2019, di cui si attende la traduzione in italiano) è la fiducia nell’autore. Esso fa seguito alle 950 pagine del libro precedente (Le capital au XXI° siècle, ed. Seuil, 2013), e nonostante l’imponente dimensione, è un libro di lettura gradevole anche per un non economista di formazione, ma che sia interessato alle scienze umane, economia ovviamente, con una competenza statistica anche non specialistica, storia economica, pensiero politico, scienze sociali. Thomas Piketty è directeur d’étude alla École des hautes études en science sociales e professore all’ École d’économie di Parigi, ma collabora anche con la London School of Economics ed il Massachusetts Institute of Technology.
E’ un seguito del libro precedente, dicevo, che ha decretato il successo planetario del suo autore anche al di fuori dell’ambito universitario, un libro che è stato tradotto in 40 lingue e venduto in più di 2,5 milioni di copie. Ma in qualche misura ne è anche un superamento. Si basa, come il precedente, sulla base statistica del progetto World Inequality Database (http://WID.world), cui collaborano più di 100 ricercatori di più di 80 paesi in tutto i continenti, ma da esso si diparte in varie direzioni.
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La teoria del valore-lavoro e i keynesiani
di Bollettino Culturale
Nel pensiero keynesiano, ci sono argomenti a favore di una società più egualitaria e una preferenza per quote più elevate di ricchezza sociale da orientare verso il popolo. Tuttavia, la sua teoria non abbandona mai la prospettiva del capitale. L'individualismo analitico è così radicato che persino un economista keynesiano di sinistra cosciente come Joan Robinson fraintende Marx in diversi punti della sua critica, perché ritiene che la prospettiva di un singolo capitalista sia il punto di partenza, in cui l'analisi di Marx considera l'insieme sociale come precedente. Accanto a questo c'è il rifiuto di comprendere il valore come una relazione sociale, insistendo su un'analisi materialistica riduttiva. Con queste due assunzioni precedenti al lavoro i keynesiani respingono la teoria del valore-lavoro.
Robinson attaccò il concetto stesso di valore, sostenendo che era solo metafisico, una "misteriosa emanazione" nel marxismo che "era ancora in qualche modo in agguato nei prezzi relativi". Tuttavia c'è una differenza tra una qualità che non può essere apprezzata come sostanza concreta e qualcosa che non ha una vera esistenza. Esistono diverse analogie che possono spiegare questo, ma una è la coscienza umana. Finché non invochiamo il fantasma di Cartesio nella macchina, la coscienza è un fenomeno del mondo materiale, eppure non ci sono particelle di coscienza. Non esiste in questo o quel neurone come unità tangibile. Piuttosto, è la creazione della totalità dell'attività cerebrale; è una proprietà emergente che dipende dal movimento o dal processo per entrare in un'esistenza molto reale.
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Guerra di posizione e guerra di movimento oggi
di Carlo Formenti
Álvaro García Linera, vicepresidente della Bolivia dal 2006 al golpe di qualche mese fa, è uno dei più grandi intellettuali di sinistra latinoamericani. In "Democrazia, stato, rivoluzione. Presente e futuro del socialismo del XX secolo" (Meltemi, 2020), il lettore trova un’antologia dei suoi interventi più significativi, seguita da una postfazione di Carlo Formenti, che qui ripubblichiamo per gentile concessione dell’editore e dell’autore
Nel corso di una conferenza tenuta il 27 maggio 2016 a Buenos Aires (e inserita in questa antologia con il titolo “Presente e futuro del processo rivoluzionario”) Linera ebbe a pronunciare parole che, alla luce del golpe contro il governo socialista boliviano orchestrato da destre e militari nel novembre del 2019, suonano sinistramente profetiche. Il tema della conferenza era il riflusso in atto in diversi Paesi del subcontinente latinoamericano, i quali, dopo un lungo ciclo riformista/rivoluzionario caratterizzato da una radicale svolta postneoliberista, se non socialista, erano teatro di violente controffensive delle forze di destra, spalleggiate dall’imperialismo nordamericano.
Nel suo discorso, Linera prende in esame una serie di concause – limiti oggettivi ed errori soggettivi – che hanno determinato questa brusca inversione di tendenza rispetto agli eventi storici dei due decenni a cavallo della transizione di millennio – eventi che tante speranze in un rilancio degli ideali socialisti avevano alimentato, non solo in Sudamerica ma in tutto il mondo. Sui limiti oggettivi torneremo più avanti. Qui preferisco concentrarmi sugli errori soggettivi. Mi pare che dall’analisi di Linera ne emergano soprattutto tre: 1) la sottovalutazione della difficoltà di cambiare la struttura dello Stato; 2) l’eccessivo ottimismo in merito alla possibilità di integrare i ceti medi nel blocco sociale progressista garantendo, al tempo stesso, l’egemonia politico culturale delle classi subalterne; 3) l’incapacità di risolvere il nodo della convivenza fra socialismo, democrazia rappresentativa e democrazia diretta e partecipativa (ma qui, più che di errore soggettivo, sarebbe più corretto parlare di un problema che nessuno è mai riuscito a risolvere nel corso dell’intera storia mondiale del socialismo).
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Patrick Zaki: Giulio Regeni 2.0, Soros 100.0
Un nuovo Regeni: è in gioco il petrolio e la Libia
di Fulvio Grimaldi
Ve lo raccomando, come difesa dall’eccesso di presa per i glutei da parte della stampa, baby
Regeni raddoppiato
Su Giulio Regeni, dopo aver proposto ai retti e onesti tutte le notizie che media e Roberto Fico occultano e che rovesciano nel suo contrario la narrazione ufficiale (come occorrerebbe fare ogni giorno), avevo scritto una lettera aperta al presidente della Camera, oggi governista ad oltranza per amore di PD. Ma l’increscioso autore del colpo di mano che ha imposto ai parlamentari di rompere ogni relazione con il parlamento egiziano, non se n’è dato per inteso. Dando così prova della sensibilità democratica che, lo comprendiamo, con compagni di merende come PD e Italia Vivacchiante, è incompatibile. Un nuovo Regeni, l’Egitto, i media, sono l’oggetto centrale dell’odio dei nostri specialisti anti-odio e, dunque, di questo articolo. Ma partiamo da lontano.
Siamo sopravvissuti agli tsunami dell’odio rovesciatici addosso, prima, dal Giorno della Memoria e, poi, da quello del Ricordo, entrambi illustratici, come suole, con la nota correttezza dagli storici e parastorici dei vincitori. Per non farci mancare niente, hanno affiancato queste intemperie a quell’altro uragano dell’odio che ci accompagna da tempo e che riguarda gli sciagurati che, fuori da ogni discussione, si meritano l’odio degli anti-odio al potere in Occidente: Russia, Cina (oggi capolista), Siria, Iraq, Iran (sul quale si va esercitando, con particolare perizia Bilderberg, il promotore di Draghi presidente: Stefano Feltri del “Fatto”). Quanto alla Cina, oggi sottoposta a un prodromo di guerra in chiave economico-mediatica-occidentocentrica su base batteriologica, ci possiamo vantare di essere, con l’eccellenza clerico-atlantista Conte Bis, più realisti del re. Primi e, dopo giorni, ancora unici in Europa, nonostante l’OMS l’abbia ritenuto inutile, abbiamo imposto il blocco per un’epidemia influenzale che, nella sua forma in Cina (1,7 miliardi), ha ucciso quasi 800 persone e, nello stesso periodo, in quella degli USA (320 milioni), 10.000.
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Critica dell'economia politica del segno. Baudrillard e Marx
di Leo Essen
I
L’obiettivo dichiarato di Per una critica dell’economia politica del segno di Jean Baudrillard è la decostruzione della distinzione tra valore-uso e valore-scambio che apre il Capitale. L’opera di Marx ha come sottotitolo Critica dell’economia politica. Dunque, il libro di Baudrillard, sin dal titolo, si inscrive nella storia del marxismo, nonostante ne contesti un argomento considerato da Marx elementare, dunque basilare: la distinzione, appunto, tra valore-uso e valore-scambio.
La merce è in primo luogo una cosa – dice Marx (Capitale I, 1.1). Una cosa che soddisfa bisogni umani. Il modo d’uso delle cose non è definito una volta per tutte. La proprietà della calamita di attrarre il ferro, dice Marx, divenne utile solo quando fu scoperta per suo mezzo la polarità magnetica. È compito della storia scoprire i molteplici modi d’uso delle cose. Come è compito della storia definire i termini e i modi di quantificazione di questi oggetti.
L’utilità della cosa è ciò che fa di essa un valore-uso.
Ma che cos’è l’utilità?
Marx ha già chiarito che l’utilità è legata alla proprietà della cosa.
Mentre la proprietà è data (o fabbricata), l’utilità, in ogni caso, è prodotta dalla storia. Ma la storia la produce a partire dalla proprietà della cosa, dalla sua attitudine naturale (qui Marx cita a sostegno Locke) ad appagare un qualche bisogno umano.
L’utilità, dice Marx, non aleggia nell’aria. È legata alle proprietà del corpo dell’oggetto, e non esiste senza di esso. La calamita diventa utile con l’invenzione della bussola. Prima di questa invenzione, la proprietà del magnete di indicare il nord non aveva alcuna utilità. Pertanto, l’utilità non è un carattere permanente e fisso della cosa, non è un carattere naturale. Si potrebbe dire, forzando un po’ la mano, che solo nel suo utilizzo in quanto bussola, la calamita manifesta la sua proprietà.
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Giovanni Arrighi, “Una nuova crisi generale”
di Alessandro Visalli
Nel 1972 sull’organo del Gruppo Gramsci, “Rassegna Comunista” escono quattro saggi brevi[1] su “una nuova crisi generale”. Siamo nei primi anni settanta e stanno accadendo nel mondo alcuni fatti: in Italia sono partite le Regioni, è stato approvato lo statuto dei lavoratori e la legge sul divorzio, a Reggio Calabria scoppia una rivolta su motivi apparentemente marginali, l’Ulster è in pieno scontro in Gran Bretagna, la Polonia è in tumulto per il carovita, muore Nasser in Egitto, il movimento palestinese “settembre nero” è represso dall’esercito giordano, la rivoluzione culturale in Cina retrocede, in Cambogia comincia la guerriglia dei Khmer, in Usa cresce la protesta contro la guerra del Vietnam, in Cile Allende viene eletto. In tutto il mondo si sentono le doglie di un parto che si protrarrà per oltre un ventennio.
Dal 1970 al 1974 è attiva una formazione, forte a Milano, Torino e Varese, che cerca di creare un’alternativa più strutturata allo spontaneismo anarcoide di Lotta Continua ed al marxismo di Potere Operaio. Tra i redattori della rivista c’è Giovanni Arrighi. Il Gruppo, che non è mai stato molto numeroso, dopo il 1974 confluisce in parte in Autonomia Operaia ed in parte si dissolve; per un poco pubblica il quindicinale “Rosso”. Dal 1979 parte dei militanti confluiranno in Democrazia Proletaria (e di lì, un decennio dopo in Rifondazione Comunista).
Il testo del 1972 raccoglie i materiali prodotti nell’ambito di un seminario per i quadri metalmeccanici della Cisl, quando Arrighi insegnava alla Scuola Superiore di Formazione in Sociologia della Università di Milano e con il Gruppo cercava di restare agganciato alle lotte nelle fabbriche ed ai collettivi politici che si formavano in esse (è la stagione dei “consigli”).
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La controversia fra integristi universalisti e antirazzisti
di Salvatore Palidda
La celebre rivista online francese Médiapart, con la penna del suo esperto culturale Joseh Confravreux, ha dedicato una serie di 6 articoli che passano in rassegna le diverse posizioni inerenti la cosiddetta “controversia sulla questione della razza” e quindi la letteratura in questo campo[1]. Una controversia esaminata nella sua versione francese, che accenna anche a quella in altri Paesi e in particolare negli Stati Uniti. La scelta di dare attenzione a questa disputa è dovuta anche all’esarcebante attacco da parte degli integristi universalisti di destra – e in parte di “sinistra” – nei confronti degli antirazzisti e razzializzati, accusati di esasperare la loro difesa delle identità delle minoranze (nera, femminista, ecc.) e di provocare una “guerra civile” (di carta).
La disputa ha dei connotati in gran parte palesemente francesi, ma agita questioni che sono ormai correnti in tutti i Paesi, in particolare a proposito dell’uso e abuso delle cosiddette rivendicazioni comunitaristiche o identitarie o delle minoranze. È soprattutto lo spettro dell’islamismo a condurre alla drammatizzazione estrema della controversia, ancor più a seguito degli attentati terroristi pseudo-islamici che dopo il 2015 hanno colpito la Francia e che si sono ripetuti anche recentemente. In questo contesto, l’ultimo attentato a una moschea per opera di persone di destra è stato letto come speculare a quelli pseudo-islamisti che lo hanno preceduto. Ma lo spettro islamista ha dato la stura a un attacco generalizzato contro ogni rivendicazione da parte delle diverse minoranze, così come nella tradizione sciovinista francese è sempre stata intollerabile ogni specificità culturale.
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Questione di classe. Le classi sociali nella modernità liquida
di M. Sgobio
Bauman sembra attribuire la “liquefazione” della società a un cambiamento nella mentalità dei capitalisti, mentre, nella sua analisi, la classe sociale di coloro che per vivere vendono la propria forza lavoro sembra sciogliersi. Però, se si cambia il punto di osservazione, si possono scorgere le radici materiali del cambio di mentalità che descrive. Da questa visuale, le gocce, i singoli individui, assumo nuovamente l’aspetto di un fiume: un corso d’acqua che potrebbe modellare la società in forme del tutto nuove.
Negli ultimi quarant’anni diverse teorie hanno cercato di descrivere la società contemporanea e i fenomeni che l’hanno modellata, dando vita a interpretazioni che, anche se accolte in modo critico, lasciano la consapevolezza di un mutamento, a volte radicale, rispetto al recente passato.
Un nuovo inizio
Nell’esperienza della società attuale, scrive Krishan Kumar, vi è qualcosa “che insistentemente suscita non solo «il presentimento di una fine» ma anche quello di nuovi inizi”i.
Siamo nel 1995, e l’autore traccia una rassegna critica di quelle che chiama “le nuove teorie del mondo contemporaneo”. Teorie accomunate, anche quando divergono, dal prefisso post, che antepongono, di volta in volta, ad aggettivi come industriale, fordista o moderna, riferiti alla società che descrivono.
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Per il socialismo tragico
Lettera-recensione a Carlo Formenti
di Onofrio Romano
[Riportiamo la lettera-recensione di Onofrio Romano al libro di Carlo Formenti, apparsa sul suo profilo Facebook e seguita da due commenti particolarmente interessanti. ndr]
Pubblico qui la mia recensione in forma di lettera all’ultimo libro di Carlo Formenti “Il socialismo è morto, viva il socialismo!” (Meltemi, 2019), già apparsa in appendice al nostro dialogo sul marxismo “Tagliare i rami secchi. Catalogo dei dogmi del marxismo da archiviare” (DeriveApprodi 2019). I libri di Formenti hanno sempre suscitato un vasto e intenso dibattito nel mondo della cultura e della politica, soprattutto a sinistra e non solo in Italia. Si ricordino in particolare i suoi saggi pionieristici sulle conseguenze sociali, economiche, culturali e politiche del digital turn. Da qualche tempo, invece, egli è oggetto di mobbing politico-culturale. Dei libri di Formenti non si parla male. Semplicemente, “non se ne deve parlare”. Più che di mobbing, si tratta di una vera e propria fatwa, poiché la posta in gioco ultima è la morte civile del reprobo. Un dispositivo fascista, che nel mio piccolo conosco molto bene, praticato in maniera ricorrente dai professionisti dell’antifascismo immaginario. Lo ha esplicitato senza troppi complimenti Marco Revelli in uno sciagurato commento su Facebook, in cui rimbrottava un suo amico per aver rotto la congiura del silenzio nei confronti di Carlo, reo – l’accusa è sempre quella – di fare il gioco dell’avversario (anzi, di essere ormai totalmente nel campo dell’avversario). Guai a concentrarsi sul merito delle idee. Io non mi rassegno a questo tritacarne. Non mi rassegno al fatto che il successo a sinistra sia direttamente proporzionale al vuoto di pensiero (sardina docet). Si può essere o meno d’accordo, ma i libri di Carlo Formenti (e di tanti reprobi come lui) sono tra le poche cose che meritano oggi di essere discusse. Buona lettura.
* * * *
Ebbene sì, caro Carlo Formenti. Il tuo libro, “Il socialismo è morto, viva il socialismo!” (Meltemi 2019), è il nuovo manifesto del partito comunista, in versione tragica. Di questo ti fai carico. Di questo dobbiamo farci carico.
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Le ambivalenze e i paradossi della rivoluzione dei diritti
Una storia filosofica e politica
di Francesco Fistetti
Abstract: The object of this essay is the paradox of the philosophical and political history that emerged from May 1968. The instances of liberation, born under the pressure of that epochal event and aimed at the destruction of the traditional authoritarian morality (divorce, abortion, feminism, LGBT movements, etc.), have been emptied of their original emancipatory content and caught by the abstract logic of the market. For a sort of irony of history, the revolution of subjective rights has been turned upside down in new forms of subjugation and hierarchy. The ambivalence of this historicalpolitical process is reflected in the poststructuralist and postmodernist philosophical constellation of the socalled “French Theory” (Derrida, Foucault, Baudrillard, Deleuze, Lyotard, Barthes), in which the AngloAmerican “studies” (women studies, queer studies, postcolonial studies, etc.) are inscribed in the decades 1980/1990.
1. Il ’68 e la traducibilità dei linguaggi scientifici e filosofici
Per sottolineare le ambivalenze e le contraddizioni del maggio ’68, vorrei partire, in questa mia breve riflessione, dalla definizione che dieci anni dopo Edgard Morin avrebbe proposto sulle colonne di “Le Monde” parlando di “eventosfinge” e confermando la chiave interpretativa che insieme a Claude Lefort e Cornelius Castoriadis aveva offerto nel 1968 con la pubblicazione, quasi un instantbook, di La breccia. Per questi autori – sosteneva Morin – “una breccia non richiudibile si era aperta sotto la linea di galleggiamento del nostro ordine sociale”1. Ma il paradosso che vorrei mettere a fuoco è il rovesciamento che nella storia delle società liberaldemocratiche europee si produce delle istanze di emancipazione e di liberazione in forme di assoggettamento e di subordinazione. Il paradosso appare tanto più singolare se guardato dall’angolo visuale del presente storico in cui viviamo, connotato dagli effetti di lunga durata che quella “breccia” non ha mai smesso di provocare negli Stati nazionali modellati dal “secolo socialdemocratico” o dai cosiddetti “trent’anni gloriosi”.
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Althusser, maledetto!
di Andrea Muni
Non avendo un’esistenza veramente mia, un’esistenza autentica, dubitando di me stesso fino all’estremo […], non sono mai stato altro che un essere artificiale, fatto di nulla, un morto.
(Althusser, L’avvenire dura a lungo)
Trent’anni fa sei morto, Louis Althusser. Uno dei più grandi filosofi marxisti del secolo breve, uno di quelli che hanno dovuto vedere, e patire nella carne, il tramonto di un grande sogno. Sei morto pazzo, graziato parzialmente da una supposta infermità mentale attribuita a un delitto tra i più orribili che una persona possa commettere. Un femminicidio brutale, a mani nude, che hai raccontato nelle tua toccante e sconcertante autobiografia postuma L’avvenire dura a lungo (Guanda, 1992). L’omicidio della persona che si ama, l’omicidio di chi non possiamo accettare di perdere. Se non è follia questa… Hai ucciso una grande donna, e lo sapevi. Una donna che non meriterebbe di essere ricordata sempre e solo all’ombra del tuo nome e del tuo crimine, una donna sopravvissuta alla resistenza che ha dovuto soccombere alla violenza del tuo amore malato. Sono anche i quarant’anni dalla sua scomparsa, ed è giusto, prima di tutto, ricordare lei: onore alla memoria di Hélène Rytmann-Legotien.
Quello che cercavo era la prova, la contro-prova, della mia non-esistenza. La prova che ero già bello che morto a ogni speranza di vita e salvezza. Ma la mia autodistruzione doveva passare simbolicamente per la distruzione degli altri, compresa quella della donna che amavo più di ogni altra cosa.
(Althusser, L’avvenire dura a lungo)
Un comunista, un marxista, un filosofo sempre pronto a mettere in dubbio i propri presupposti. Sei diventato da un giorno all’altro un “maledetto”.
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L'aula vuota e i suoi fantasmi*
di Mariangela Caprara
Inquadrare l’ultimo libro di Ernesto Galli della Loggia come ideologicamente reazionario non basta. L’aula vuota. Come l’Italia ha distrutto la sua scuola (Marsilio, 2019), è un libro ardimentoso. Non esattamente un saggio sulla scuola. Un libro molto emotivo e pesantemente autobiografico, poco documentato, sostenuto da una passionalità acre, benché non proprio distruttiva. La nostalgia del tempo che fu, dominante (quando non ottundente) nel ragionare dell’autore, circola da mesi sintetizzata nell’immagine della ‘predella’, la pedana sotto la cattedra, divenuta correlativo oggettivo dell’autorità degli insegnanti in un editoriale dello stesso Galli della Loggia (“Corriere della Sera”, 5.6.2018), che conteneva dieci suggerimenti all’allora neo-ministro Bussetti; il libro rilancia il decalogo rispondendo in modo articolato alle critiche, anche violentissime, piovute sull’editoriale. Ma c’è dell’altro. Anche qui, come nel suo Credere, tradire, vivere (Il Mulino, 2016), l’autore fa i conti con una gioventù infuocata e ‘marxisteggiante’ atterrata in una adultità acquiescente, responsabile e complice della paralisi attuale del Paese. In una prospettiva personalissima, l’analisi è intrecciata a un’autoaccusa che travolge un’intera generazione di intellettuali cosiddetti ‘di sinistra’. L’autodenuncia riguarda comportamenti omertosi e complici: “Chi, per esempio, lavorava all’università (è stato il mio caso) vedeva, sì, giungere ai propri corsi in sempre maggior numero ragazzi e ragazze privi dei più elementari punti di riferimento, incapaci di ripetere ragionamenti anche semplici in modo coerente e comprensibile, da un certo momento in poi addirittura non più in grado nemmeno di usare la punteggiatura […]. Ma – io e molti altri – abbiamo mantenuto il silenzio” (pp. 16-17).
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