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Verstand e Vernunft nei Grundrisse
di Salvatore Bravo
L’introduzione nei Grundrisse di Marx (in tedesco: Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie 1857 1858) è un esempio vivo della pratica filosofica. Nell’introduzione Marx delinea il campo di ricerca ponendo tra parentesi certezze, valori e “metodologie ideologiche”, il cui scopo è eternizzare lo stato presente. La filosofia non può rinunziare alla ragione (Vernunft), in quanto è la pratica della stessa, essa coglie il complesso per definire il percorso argomentativo e logico che deve condurre alla verità. La Filosofia non è gnoseologia, teoria del rispecchiamento che legittima le scienze e l’economia analizzando limiti e possibilità della conoscenza scientifica, non è servile a nessun sapere, perché utilizza la ragione dialogica per rimettere in discussione dogmi, postulati e saperi cristallizzati in formule socialmente prospettiche. La filosofia non usa l’intelletto astratto (Verstand), il quale, invece, è delle scienze che devono separare per analizzare. Con l’intelletto l’essere umano cade nella ingenua rappresentazione dell’oggetto (Object), con la ragione il soggetto umano è consapevole che il sistema è la rappresentazione prodotta da una comunità (Gegenstand), per cui è trasformabile, ci si apre all’orizzonte della prassi.
Le robinsonate
La prima certezza da scardinare è che l’essere umano è un individuo, un atomo che si relaziona solo in funzione dei valori di scambio. Non solo, ma l’economia classica e l’empirismo inglese insegnano che esiste l’individuo quale postulato da cui ogni analisi economica e sociale deve partire. Postulato ideologico, poiché si parte dall’individuo competitivo ed acquisitivo per giustificare la naturalità del modo di produzione capitalista. il dio mondano è l’individuo che genera e distrugge, si occulta con l’astratto che l’individuo non è un miracolo della natura che è posto da se stesso in modo autotetico, ma è poligenetico, è interno al modo di produzione, vive, agisce e reagisce in esso. L’individuo astratto giustifica meriti e demeriti riferendoli unicamente a stesso, è isolato e narcisista, in questa maniera si vuole celare che non esiste l’individuo, ma egli è parte integrante di una comunità, è intenzionalità relazionale senza la quale il soggetto non esisterebbe:1
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In ricordo di Giorgio Nebbia. Tra passato e futuro
di Sergio Messina
L’amore per la conoscenza, la condivisione della stessa attraverso una comunicazione genuina e diretta, l’instancabile spinta nel servirsi della ‘memoria storica’ avanzando al contempo ‘messaggi di verità’ sempre ‘attuali’ e coraggiosi, sono solo alcune tra le tante caratteristiche inerenti sia lo stile, sia la stessa personalità, versatile e insieme coerente, di uno studioso del calibro di Giorgio Nebbia.
L’’emerito’, il movimentista e il ‘cronista’ lascia in eredità oltre al ricordo di un’umanità senza pari, uno straordinario patrimonio di idee, racconti, lezioni e stimoli per le generazioni future di studenti, studiosi, attivisti, politici ed educatori affinché gli stessi possano evitare di rimanere sprovvisti di adeguati strumenti per poter affrontare tempi sempre più complessi e privi di punti di riferimento. Ed eventualmente continuare (con la stessa chiarezza, determinazione e passione) un enorme lavoro di ‘divulgazione’[1] che necessiterebbe (così come lo stesso autore aveva auspicato in alcuni dei suoi numerosi scritti) di essere completato e/o ulteriormente approfondito.
Come è a molti noto Nebbia riassume in sé diverse ‘personalità’ (Professore universitario, politico, attivista, giornalista, saggista ecc.) che non consentono di incasellarlo in nessuna delle ‘categorie’ che lo stesso ha rappresentato nel corso della sua lunga e intensa ‘carriera’ (termine alquanto riduttivo se si vuole fedelmente descrivere le sfaccettature della sua attività tanto scientifica, quanto ‘divulgativa’) [2]. Ciò che per i più salta subito all’occhio è giustamente l’associazione con i ‘padri’ dell’ambientalismo italiano, relegando però in questo modo (magari inconsapevolmente) il contributo dello stesso a un ‘passato glorioso’ che non tornerà mai più e che ci indurrebbe a fare i conti con una realtà (come quella attuale) spesso povera di contenuti attraverso la consolatoria nostalgia dei ‘bei tempi andati’. Nulla di tutto questo.
Nella presente nota si cercherà di evidenziare (attraverso una breve ricognizione delle varie fasi del suo pensiero e delle principali vicende biografiche) il contributo del Professor Nebbia non solo alla ‘memoria storica’ inerente l’ecologia e la ‘contestazione ecologica’ ma anche all’ambientalismo contemporaneo oggi rappresentato in larga parte dai movimenti transnazionali sulla ‘giustizia ambientale’ e sui ‘beni comuni’.
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"Segui i soldi" dietro le proteste di Hong Kong
di Sara Flounders*
Le manifestazioni a Hong Kong, divenute un aperto confronto con la Repubblica popolare cinese, hanno un impatto globale. Quali sono le forze dietro a questo movimento? Come vengono reperiti i fondi e chi ne beneficia?
Le manifestazioni sempre più violente a Hong Kong sono accolte e sostenute con entusiasmo dai media statunitensi e da tutti i partiti politici imperialisti negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. Questo dovrebbe essere un segnale di pericolo per tutti coloro che lottano per il cambiamento e per il progresso sociale. L'imperialismo americano non è mai disinteressato o neutrale.
Le azioni dirompenti coinvolgono manifestanti con maschere ed elmetti che usano bombe molotov, mattoni ardenti, barre d'acciaio, appiccano incendi, attaccano gli autobus e chiudono l'aeroporto e i trasporti di massa. Tra gli atti più provocatori c'è stata un'irruzione organizzata alla legislatura di Hong Kong, dove gli "attivisti" hanno vandalizzato l'edificio e appeso la bandiera britannica.
Le bandiere coloniali di Stati Uniti, Gran Bretagna e Hong Kong sono prominenti in questi scontri, insieme alle bandiere e altri simboli deturpati della Cina popolare.
Il New York Times ha descritto la chiusura dell'aeroporto: "Le proteste all'aeroporto sono state profondamente tattiche, in quanto il movimento, in gran parte senza leader, colpisce un'arteria economica vitale. L'aeroporto internazionale di Hong Kong inaugurato nel 1998, l'anno dopo che la Cina ha recuperato il territorio dalla Gran Bretagna, funge da porta d'accesso al resto dell'Asia. Elegante e ben gestito, l'aeroporto ospita quasi 75 milioni di passeggeri all'anno e gestisce più di 5,1 milioni di tonnellate di merci". (14 agosto)
I media statunitensi hanno costantemente etichettato queste azioni violente come "pro-democrazia". Ma lo sono?
Anche se i leader di queste azioni reazionarie decidessero di ritirarsi dall'orlo del baratro e ricalibrare le loro tattiche, sulla base dei forti avvertimenti del governo cinese, è ugualmente importante capire un movimento che ha un sostegno così forte dagli Stati Uniti.
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Cupola, i fronti delle milizie arcobalenghe: Mosca-Hong Kong-Lampedusa
Controcanto in Argentina
di Fulvio Grimaldi
Parte seconda
“Io sono convinto che è dovere di uno Stato proteggere i confini, espellere chi è irregolare e porre un freno all’immigrazione clandestina che puzza tanto di deportazione di massa a vantaggio del grande capitale” (Alessandro Di Battista, “Politicamente scorretto”, Paper First)
Media italiani? In geopolitica stiamo dove dobbiamo stare
La parte prima di questo dittico si chiudeva con il doveroso accenno al ruolo della nostra stampa: Sappiamo tutti, quei 13 gatti spelacchiati che leggono il manifesto, ora che è diventato enigmistico e offre fumetti agli analfabeti, che nel quotidiano comunista c’è chi è deputato dall’alto a picchiare la Russia e Putin, chi a spernacchiare la Resistenza afghana, chi a scatenare la foia razzista contro Gheddafi e Assad e chi a fare della Cina il Regno di Mordor. Offrono a costoro ampi spazi di empietà giornalistica le manifestazioni di questi giorni a Mosca e a Hong Kong, epicentri della guerra globalista contro le due nazioni che viaggiano in direzione ostinata e contraria sui binari del diritto internazionale e, quanto a bottino di devastazioni e morti inflitti, stanno a chi li avversa come i blob della Solfatara stanno all’eruzione del Vesuvio nel 79 dC. Ma tant’è, su Mosca e Hong Kong dove torme di violenti armati vengono contenuti con mezzi che rispetto a quelli di Macron sui Gilet Gialli sono da esercitazione di boyscout, con pochissimi feriti (molti di più tra gli agenti) e nessun morto, ci si stracciano le vesti. Sugli oltre 300 inermi o lanciatori di sassi fucilati e gli oltre 7000 mutilati e feriti di Gaza ci si straccia la coscienza.
Il fronte nostrano: etero-schiavismo per agevolare l’auto-schiavismo
Non ci volevano i tonitruanti proclami a vuoto dell’energumeno dei “pieni poteri”, finalizzati unicamente alla rabdomanzia dell’Italia liquida dei voti, perché gli italiani capissero, più o meno lucidamente, che cosa si nascondesse dietro a questa Grande Armada che invade l’Italia con bombe umane, fornitegli da altri cooperanti all’ultima fase del colonialismo a fini di globalizzazione militar-neoliberista.
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Carlo Cafiero, il figlio del sole
di Salvatore Bravo
Carlo Cafiero (Barletta, 1º settembre 1846– Nocera inferiore 1892) ha vissuto con pienezza lo spirito di scissione, non è mai stato parte di nessun movimento in toto, ha sempre mantenuto distanza critica rispetto ad ogni appartenenza, si sentiva legato piuttosto all’umanità, ha messo la sua cultura, il suo impegno al servizio degli esseri umani. E’ la testimonianza viva, su cui si dovrebbe riflettere, che l’essere umano non è l’effetto del modo di produzione, ma vi è un’eccedenza, una resistenza al potere ed ai condizionamenti che permette la libertà critica.
Di famiglia agiata, i Cafiero erano una delle famiglie più rilevanti di Barletta e di Puglia, già avviato alla carriera diplomatica, ha il coraggio della scissione, abbandona le certezze e le agiatezze per impegnarsi politicamente a favore degli ultimi, di coloro che non hanno le parole per testimoniare e denunciare la violenza dello sfruttamento. La sua vita è stata tragica, termina i suoi giorni in manicomio, ciò malgrado la sua breve parabola vitale dimostra che la natura umana è capace di vivere l’universale fino alle estreme conseguenze. In un pianeta che è ormai un immenso mercato, in cui le istituzioni formano il consumatore e non la persona, Cafiero è un esempio vivo che vi sono possibilità imprevedibili nell’essere umano. Conobbe direttamente, forse Marx, sicuramente Engels con cui partecipò all’organizzazione dell’internazionale, ma il potere, in qualsiasi forma era per Cafiero il male del mondo, per cui si schierò con gli anarchici avvicinandoci a Bakunin conosciuto nel 1872. Lo divise dall’Internazionale e da Engels il modello di organizzazione che secondo Cafiero non doveva essere accentrato, ma libertario. Al collettivismo comunista, allo stato erogatore dei servizi predilesse il federalismo di società produttive: la libertà prima di tutto.
Nel 1877 a San Lupo nel Matese organizza un moto anarchico che non ha successo, ma sperimenta la propaganda del fatto, ovvero non si incoraggia l’insurrezione con verbosi proclami, ma con azioni effettive: gli archivi comunali furono bruciati, in quanto in essi vi erano documenti e dati che permettevano l’ingiusta tassazione. In carcere legge il Capitale di Marx, ne fa un compendio pubblicato da La Plebe, compendio che ha avuto una ventina di edizioni.
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Roma, Mosca, Hong Kong: in campo i colorati (arcobalenghi)
Controcanto argentino, dove le Ong del cortile di casa non bastano più
di Fulvio Grimaldi
Parte prima
Le mani sul bottino
Un breve giro sul carnevale estivo nostrano, in cui tutti paiono subire gli effetti fantasmagorici della canicola regalataci dei poteri politici ed economici del Sovramondo (con l’aiuto del famoso “mondo di mezzo” di Carminati, Buzzi e Al Capone). Un brano in coda sull’armageddon 5 Stelle dal solito pezzo analitico decisivo di Mario Monforte. E fari accesi, nella seconda parte, su un’America Latina, Argentina e Venezuela, dove la controffensiva imperialista si va arenando e su Hong Kong, dove la si prova con l’ennesima Maidan nazi-colonialista, alimentata dai soliti mezzi messi in campo da Cia, NED e, immancabile, il re dei regime change, delle deportazioni Ong dei popoli da disperdere e delle speculazioni ammazza popoli, George Soros.
Essi – i media – vivono (Carpenter)
Quel gioiello di stampa libera, coraggiosa e sdegnata negatrice di condizionamenti esterni o interni, che sono i nostri media, risplende di luce riflessa dall’alto su tutti i fronti. Da quelli in mano a imprenditori, finanzieri, bancarottieri, cementificatori, nulla ci aspettavamo e nulla di diverso dal solito coro unanime degli scherani del sistema abbiamo visto. Dai “sinistri” neppure nulla ci aspettavamo, ma fa impressione il Fatto Quotidiano per il ciarpame degli “esteri” rispetto allo spesso discutibile, ma dignitoso “interni” di Travaglio, Scanzi, Lillo, Caporale, Daniela Ranieri, Marco Palombi, l’eterodosso taliban Massimo Fini…
Un’invenzione Dada, alla Duchamp, è sempre più “il manifesto” con la sua testatina “comunista” su un organo della Cupola, ma il dadaismo è fuori moda da cent’anni e così la bacheca Usa in Italia si è messa a rimpinzare il magro seguito, accalappiando enigmisti da Terza elementare e fumettari semi-analfabeti dell’horror.
Il Manifesto: fumetti e cruciverba per chi non sopporta più gli articoli?
Sarò arrogantemente intellettualoide, ma ai miei tempi i ragazzetti, superati i libri di fiabe alla Pinocchio (mai superabile) dove, alla mano delle figure, si imparava a leggere e a ripensare, leggevano Topolino, Tex Viller, Bracciodiferro, fino ai 10 anni.
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La scommessa estiva di “capitan” Salvini
di Norberto Fragiacomo
Stavolta il grande comunicatore in bermuda ha (forse) toppato, arenandosi come un cetaceo sulla spiaggia, o ha più banalmente palesato scarsa conoscenza di diritto e prassi costituzionali unita ad un pressapochismo tronfio che gli ha dettato una tantum i tempi sbagliati. Ebbrezza da presunta infallibilità? Di certo mancavano i pretesti per scatenare una crisi agostana, e il nostro se li è dovuti inventare, con effetti fra il comico e il surreale: ci vuole una bella faccia di bronzo per tacciare di ostruzionismo chi ti ha appena concesso la fiducia in Parlamento sulla conversione in legge dell’osceno Decreto Sicurezza bis, e la rottura con i 5Stelle per un’innocua e annunciatissima mozione di bandiera sul TAV puzza di sfrontato opportunismo persino al più sbronzo tra i frequentatori del Papeete beach. “Governo dei no”: ma quando mai? A Matteo II gli ingenui grillini sono stati leali perinde ac cadaver, votandogli letteralmente tutto, immunità extra large compresa, e per questo – pur mantenendo buona parte delle promesse fatte – hanno pagato un conto salatissimo in termini elettorali; è stato semmai l’affabulatore leghista a non produrre quasi nulla in quattordici mesi di governo per pugnalare infine alle spalle un compagno di strada sfiancato dal peso di laboriosi compromessi e lodevoli – seppure spesso dilettanteschi – tentativi di combinare qualcosa a beneficio degli italiani.
Perché allora questa maldestra mossa a sorpresa, tanto controproducente nell’immediato da costringere Salvini a riesumare Berlusconi, mettere in forse l’ulteriore crescita nei consensi di una Lega finora col vento in poppa e rilanciare addirittura le ambizioni dell’omonimo Renzi, un camaleonte non meno cinico di lui?
L’ipotesi delirio di onnipotenza è spiegazione parziale e insufficiente, perché ad onta di una certa grossolanità – peraltro orgogliosamente esibita fra piazze e litorali – Salvini è un politico astuto e intelligente[1], se non preparato. Il suo problema è che (misure repressive a parte) egli non crede fino in fondo al proprio programma, o perlomeno non sa come realizzarlo. L’unica delle misure “sociali” andata in porto è Quota 90, condivisa dal M5S: l’azzardo crisi gli garantisce comunque la possibilità di evitare nel breve termine – e con ridotte forze parlamentari (corrispondenti al 17% conquistato nel 2018) – la prova di ostacoli che non sarebbe in grado di valicare.
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Nadia Urbinati, “Utopia Europa”
di Alessandro Visalli
Un altro libro di occasione, nel quale un’intellettuale di fama si presta alla difesa di ufficio della causa europea in vista delle elezioni. Non servirà a fermare la Lega, ma forse questo alzare gli stendardi compatta l’esercito un poco attempato e certamente molto demoralizzato della sinistra.
A questo fine il testo ripercorre nella prima parte, la più interessante, la storia della lunga costruzione europea, mettendo in evidenza la fonte inaspettata (per una sinistra che ormai ha dimenticato tutto) delle sue radici, ma nella seconda si mette la cotta di maglia e va alla guerra.
Come capita a chi fa il suo mestiere, professoressa di teoria politica alla Columbia University, tutta la ricostruzione si muove sulle nuvole del pensiero, non tocca il volgare terreno degli interessi, tanto meno geopolitici. Quindi può dire, entro le regole della sua disciplina, che l’Europa è il prodotto delle idee degli “illuministi” e dei “cattolici” e che queste si muovono attraverso il protagonismo dei paesi sconfitti (e dunque, necessariamente, con l’autorizzazione dei vincitori, che sarebbe altrimenti curioso il progetto più ambizioso della storia europea nasca da chi ha meno potere e meno sovranità). Sono due i piani che propone: la creazione di una polis pacifica e democratica, e il rispetto delle sfere di influenza. Ma l’ordine è palesemente invertito, il fatto rilevante del primo dopoguerra è evidentemente la divisione dell’Europa sconfitta e ridimensionata in due sfere di influenza nette, quella americana e quella sovietica. Il progetto di una “polis” pacifica (ovvero disarmata e subalterna) è l’ideologia di copertura e insieme la necessità pratica del progetto della parte americana[1], ovvero parte della tradizionale politica dell’indirect rule anglosassone e strumento della riduzione dello sforzo e del costo di protezione e di controllo. Lo dice, del resto, anche la nostra politologa: “il progetto nacque anche in funzione antisovietica” (solo che “anche” è di troppo).
Certo non è del tutto infondato che l’idea di un’unificazione europea fosse più antica, e radicata in utopie settecentesche, poi rialzata negli anni venti (anche se non solo da intellettuali antifascisti), e poi tanti altri, l’elenco è lungo. E, se ci si sposta agli anni trenta, coinvolge anche gli stessi nazisti (ma questo è politicamente scorretto e meglio non insistervi).
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Tutte le Fake News di Marattin sull'Europa
di Thomas Fazi
Benvenuti alla terza puntata di “Le fake news economiche di Luigi Marattin”, la rassegna in cui analizziamo le “video lezioni di economia” che da qualche settimana a questa parte il consigliere economico del PD sta pubblicando sul suo profilo. Qui trovate le prime due puntate, dedicate rispettivamente al debito pubblico e al finanziamento monetario della spesa pubblica:
https://www.facebook.com/thomasfazi/videos/2341908382568953/
e
https://www.facebook.com/thomasfazi/posts/2351892221570569
Nel suo ultimo video (https://www.facebook.com/LuigiMarattinPD/videos/740118099768418/) Marattin si propone di spiegare nientedimeno che gli enormi benefici che l’Italia avrebbe tratto dall’ingresso nel mercato unico (UE) prima e nell’euro poi e perché, dunque, «non è vero che se uscissimo dall’Europa e dall’euro ci libereremmo di tutte le nostre catene». Come al suo solito, Marattin ricorre ad un classico argomento fantoccio, in cui si confuta un argomento proponendone una rappresentazione volutamente distorta e macchiettistica: nessuna persona ragionevole, infatti, ha mai posto la questione in questi termini. Ma passiamo oltre.
Secondo Marattin, «il vantaggio principale che abbiamo dal partecipare all’Unione europea, al mercato unico europeo, è quello di poter vendere le nostre merci [in Europa] senza pagare dazi doganali e senza restrizioni commerciali e quindi di poter creare occupazione e investimenti in Italia». «Basta chiederlo a ogni imprenditore che esporta», aggiunge, col tono di chi la sa lunga. Questa affermazione è problematica per numerosi motivi. Tanto per cominciare, dalle parole di Marattin ci si aspetterebbe che l’ingresso dell’Italia nel mercato unico abbia fornito un forte stimolo alle nostre esportazioni rispetto al periodo antecedente (e, di conseguenza, che un’uscita dall’UE e/o dall’euro sarebbe una rovina per l’export italiano).
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Ma cos’è questa crisi
di Michele Castaldo
Rodolfo De Angelis cantava negli anni ’30: “Ma cos’è questa crisi: […] L'esercente poveretto non sa più che cosa far e contempla quel cassetto che riempiva di danar […]”. Se è vero che la storia non si ripete mai uguale a sé stessa, e quando si ripete ha i connotati della farsa, va detto che questa crisi non è una farsa.
Si, è una crisi seria, molto seria e ad essere preoccupati sono innanzitutto lor signori, cioè categorie sociali e personaggi di un potere che vedono scuotere un intero sistema che sembrava incrollabile fino a qualche decennio fa. Cerchiamo di raccapezzarci qualcosa nelguazzabuglio nazionale all’interno di un caotico quadro mondiale.
Il problema è Salvini? Mettiamo subito in chiaro una cosa: Salvini è l’effetto e non la causa dello spettacolo che sta vivendo l’Italia in questa fase. Il problema vero – dunque la causa – è quel 37/38% di elettori (stando ai sondaggi) che lo vorrebbero presidente del consiglio, e perché no? presidente della Repubblica, visto che è così deciso, incisivo, chiaro, schietto, insomma così popolare? Un uomo del fare, un uomo dei sì, un uomo del produttivismo, un uomo che mette l’Italia e gli interessi degli italiani al di sopra di tutti gli altri.
Manovre internazionali? Certo, quelle non mancano mai, ma non inganniamo noi stessi: le manovre prendono piede lì dove c’è il terreno favorevole, tanto è vero che Steve Bannon può ben vantarsi di aver favorito la nascita di un governo come quello giallo verde, ma non potrebbe ascrivere a proprio merito il salto elettorale della lega prima del marzo 2018 ein meno di un anno il travaso di alcuni milioni di voti dal M5S alla Lega di Salvini, in modo particolare al sud. Insomma la storia non la fanno i personaggi che studiano a tavolino come muovere milioni di persone in un senso piuttosto che in un altro. I complottisti si inseriscono in tendenze oggettive cercando di favorire quella che più va incontro ai propri interessi. Il Complotto in assoluto non esiste: l’Urss implose perché le leggi del mercato la fagocitarono. La Jugoslavia implose per le stesse ragioni.
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La parola allo Zio Ho a proposito di “Patriottismo e Internazionalismo”
di Michele Franco
Negli ultimi mesi la discussione sul concetto di “sovranità” è stata egemonizzata da concezioni teoriche e culturali reazionarie. Spesso qualsiasi allusione a questo tipo di categoria è stata bollata come una concessione al nazionalismo borghese o a presunte derive da “piccole patrie”.
Costantemente, specie da parte degli epigoni della “sinistra” tale ragionamento viene catalogato come una variante del leghismo e associato all’altro grande ossimoro di questa bizzarra stagione politica: il sovranismo.
Eppure il marxismo, particolarmente nei punti alti dell’esperienza del movimento comunista internazionale, ha sempre affrontato e trattato la “questione nazionale” non disdegnando – sulla base del fondamentale metodo “analisi concreta della situazione concreta” – di misurarsi, senza complessi di inferiorità teorica o di subordinazione politica, con lo stesso concetto di “patria”.
Questo cimento politico/pratico è avvenuto non solo nell’ambito delle lotte di liberazione nazionale dal vecchio ordine colonialista e/o imperialista, nei paesi del Sud del mondo, ma si è concretamente palesato anche nelle battaglie politiche che i comunisti hanno affrontato, a vario titolo, nel cuore dell’Occidente capitalista durante il Novecento.
Da tale punto di vista le resistenze antifasciste durante e subito dopo il secondo conflitto mondiale (quella Jugoslava e Greca in primis, ma – per molti aspetti – anche quella Italiana) sono state paradigmatiche di come i comunisti declinarono il tema della “patria” nei vari contesti in cui agivano. Probabilmente, al giorno d’oggi, si può discutere e problematizzare gli esiti avveratisi, ma non possiamo non riconoscere la positiva e matura attitudine che i partiti comunisti riuscirono a mettere in campo quando furono chiamati ad intervenire dentro giganteschi sommovimenti sociali e politici.
Ma relegare al Novecento questa battaglia teorica e politica sarebbe una omissione storica ed un grave errore politico nei confronti dell’attuale corso generale della crisi capitalistica.
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La moneta mondiale privata
di Riccardo Petrella*
L’annuncio della creazione di una moneta mondiale digitale privata il Libra, da parte di Facebook e 27 altre maggiori imprese multinazionali (statunitensi) (1) non ha fatto bomba. Nel comunicato ufficiale della Facebook si legge «Tramite Calibra, si permetterà di rispamiare, inviare e pagare con Libra. (…) Calibra permetterà di trasferire dei Libra a qualunque persona dotata di uno smartphone in maniera altrettanto facile e istantanea che inviare un sms , a basso costo, gratuitamente. Nei tempi consentiti, speriamo offrire dei servizi supplementari ai particolari e alle imprese, come pagare delle fatture premendo solo su un bottone, comprare un caffé o utilizzare i trasporti pubblici senza denaro e senza biglietto».
Non ha suscitato nessun scalpore, nè reazione di massa, né dibattiti nazionali e internazionali al di fuori dei circoli degli addetti al lavoro. Le reazioni non sono mancate, ma è come se si fosse trattato di un fatto di cronaca. L’assenza di sorpresa da parte della gente non meraviglia. Le reazioni delle autorità pubbliche e monetarie sollevano molti interrogativi.
Un fatto normale ?
A proposito di « moneta mondiale » è evidente che dopo più di quarantanni di bombardamento mediatico e politico sulla nuova grande era della globalizzazione dell’economia , del commercio, dei trasporti, dell’informazione e comunicazione, delle imprese e della finanza, la crezione di una moneta mondiale (per il momento, mezzo di pagamento e di trasferimento di denaro) non costituisce una novità, ma è percepita come la concretizzazione di una necessità, di un’evoluzione naturale dell’economia di mercato globalizzata. Le economie nazionali hanno dato la nascita alle monete nazionali, l’economia mondiale crea la moneta mondiale.(2)
La stessa osservazione di « normalità » vale per la « moneta digitale ». Tutto sta diventando digitalizzato, specie nel mondo dell’informazione e della comunicazione, in tutti i campi della realtà , beninteso virtuale compresa. Da anni, la moneta metallica ed ora quella cartacea è in via di abbandono.
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Vento d’estate
di Giacomo Gabbuti
Mentre il tormentone della crisi di governo prefigura una musica ancora peggiore, inediti scioperi estivi nei trasporti portano un po’ di fresco, indicando da dove può sorgere l’opposizione alla Lega
Il 5 agosto, introducendo un incontro con le parti sociali, l’attuale traballante Primo ministro del fu Governo del Cambiamento ha affermato l’urgenza di «affrontare l’emergenza salariale». Il monito di Giuseppe Conte era forse un ultimo tentativo di bilanciare la maggioranza, tra la proposta del M5S di introdurre un salario minimo legale e le resistenze della Lega, strenuo difensore di imprese e profitti. Ma al di là dell’equilibrismo di Conte, l’ovvia realtà per qualsiasi persona si sia trovata a campare di salario nell’Italia degli ultimi trent’anni è diventata così evidente da vincere persino le ultime difficoltà statistiche.
Nonostante la stagnazione delle retribuzioni imposta dagli accordi del 1992-1993, dall’esplosione di contratti che definire precari è oramai eufemistico, dalle esternalizzazioni, dall’aumento della disoccupazione, e via discorrendo, l’Italia viveva infatti il paradosso di rappresentare una grande eccezione nel crollo della quota salario. Questa misura, elemento tradizionale dell’analisi marxista della distribuzione economica, altro non è che la parte di reddito nazionale di cui si appropriano i lavoratori, contrapposta a quella spettante al capitale. Dopo essere cresciuta nei cosiddetti “trenta gloriosi” anni del compromesso keynesiano, nei decenni successivi alla svolta neoliberale avviata da Thatcher e Reagan, la quota salario è andata riducendosi in tutte le economie avanzate – con parziale eccezione, appunto, dell’Italia.
Certo, anche da noi la “fetta” dei lavoratori si era ridotta sin dai primi anni Ottanta con l’avvio delle “riforme” che – silenziosamente come nel caso del divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia o più platealmente come nel caso della scala mobile e del Patto sui salari del 1992 – smantellarono quelle politiche che avevano permesso la riduzione delle disuguaglianze e una distribuzione più equa (in termini di classe ma anche geografici) dei frutti del Miracolo economico. L’estate stava finendo, e le conquiste dei lavoratori se ne andavano. Secondo le stime più autorevoli (che ho riassunto qui), il risultato fu portare questa misura a livelli addirittura inferiori a quelli degli anni Cinquanta. Tale declino sembrava essersi però fermato all’alba del nuovo millennio: soprattutto dalla crisi del 2008, la quota salario italiana addirittura aumentava, e non solo per le normali fluttuazioni tipiche delle recessioni (in cui, almeno finché esisteranno forme di tutela dei lavoratori, i profitti crollano prima dei salari).
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La politica del dilemma. A proposito del recente congresso dei Democratic Socialists of America
di Felice Mometti
Se fare una convention negli Stati Uniti è più o meno come fare un congresso in Europa, lo stesso non si può dire per le modalità di svolgimento della discussione politica e dei criteri per prendere delle decisioni. Nel primo weekend di agosto si è tenuta ad Atlanta la convention dei Democratic Socialists of America (DSA). Per due motivi, si è trattato di un appuntamento importante non solo per i DSA – la più grande organizzazione della sinistra americana da molti decenni a questa parte ‒ ma anche per gran parte di coloro che si collocano alla sinistra del partito Democratico. Il primo motivo era una verifica della tenuta politica di una formazione che in tre anni ha avuto una crescita esponenziale, passando da 5 mila a 56 mila iscritti. Il secondo riguardava la scelta di una forma organizzativa e le conseguenti modifiche dello Statuto. Fino a ora i DSA hanno funzionato in modo decentrato con un’ampia autonomia delle singole città e dei quartieri nelle grandi metropoli come New York, Los Angeles e Chicago. Il Comitato politico nazionale e le varie commissioni tematiche nazionali, nei fatti, erano riconosciuti più come ambiti di coordinamento che come organismi politici decisionali.
Raccogliere e contenere
La crescita dei DSA è avvenuta, da una parte, intercettando il processo di politicizzazione soprattutto di un settore giovanile, bianco e con un elevato grado di istruzione che aveva fatto la prima esperienza politica durante le scorse primarie sostenendo Bernie Sanders. Dall’altra parte, i DSA hanno raccolto le istanze di molti collettivi locali e gli attivisti di una serie di piccole organizzazioni della sinistra radicale che non avevano più reali prospettive di radicamento sociale. E, caso emblematico, nell’organizzazione si sono anche riversati molti e molte aderenti dell’International Socialist Organization, la principale formazione politica di matrice trotskista, dopo il crollo e l’autoscioglimento della stessa innescato dalle denunce di stupro e di molestie sessuali subite da alcune attiviste a opera di dirigenti nazionali.
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L’insegnamento scientifico e politico di Gramsci sulla costruzione del partito comunista
di Eros Barone
1. La direzione gramsciana del Partito Comunista d’Italia (1923-1926) e la lotta contro le opposizioni di sinistra
La lettura dei documenti raccolti nel quinto volume delle opere di Gramsci1 presenta, nell’attuale congiuntura ideologico-culturale, un interesse che, se difficilmente si può sopravvalutare, sicuramente arricchisce il significato dell’80° anniversario della morte del grande rivoluzionario e pensatore sardo. Questo elemento va sottolineato non tanto per i nessi che collegano la situazione di quella fase alla situazione del 1944-1945 e alla situazione odierna (nessi che pure vi sono) quanto per l’insegnamento scientifico e politico che si ricava da questa serie degli scritti di Gramsci precedenti il carcere: l’ultimo articolo contenuto in questo volume è infatti del 22 ottobre 1926 e la prima lettera datata dal carcere è del 20 novembre. L’arresto era avvenuto la sera dell’8 novembre a Roma. Si tratta perciò di un volume che abbraccia un arco di tempo (autunno 1923 – autunno 1926), che coincide con un periodo di intensa attività nella vita militante di Gramsci: periodo che ha riscontro solo nelle lotte operaie del “biennio rosso” 1919-1920, la cui eco si avverte, nitida e costante, in molte di queste pagine.
Il primo aspetto che occorre rilevare è che contro la direzione gramsciana del Partito Comunista d’Italia (d’ora in avanti PCd’I), costituita con un atto di forza della Terza Internazionale nella seconda metà del 1923 ed imposta ad una schiacciante maggioranza di bordighiani, convergevano, da un lato, la repressione fascista e, dall’altro, l’attacco della socialdemocrazia turatiana e nenniana contro i cosiddetti “fascisti rossi”: repressione ed attacco che trovavano spazio nell’assenteismo politico del vecchio gruppo raccolto attorno a Bordiga. Allora, esattamente come accade oggi con il tentativo di ricostruire un partito comunista nel nostro paese, la sinistra italiana contrapponeva al PCd’I la tesi secondo cui per battere il fascismo era necessario che la borghesia si staccasse dal fascismo; il corollario di questa tesi era la necessità di un ‘partito di sinistra’ (antifascista), ma non di un partito comunista (anticapitalista). Sennonché, si domanda Gramsci, dopo l’assassinio Matteotti (10 giugno 1924) che cosa è la ‘sinistra italiana’? chi sono gli antifascisti italiani? qual è, nella seconda metà del ’24, il significato della parola d’ordine ‘di massa’ del ‘cartello delle sinistre’?
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Onofrio Romano, “La libertà verticale”
di Alessandro Visalli
Onofrio Romano è un sociologo che insegna all’università di Bari ed ha scritto questo impegnativo libro nel 2019. Si tratta di un’ampia ricostruzione della logica della regolazione sociale lungo la storia del capitalismo interpretata con un modello binario di fondo: malgrado tutte le differenze e le specificità, si sono succeduti nel tempo due canoni: quello “orizzontale” e quello “verticale”. Il primo caratterizza profondamente la modernità capitalista, ma a lungo termine quando si presenta in forma pura risulta ogni volta insostenibile per la società, dissolta dal suo corrosivo acido. Il secondo ha dominato nella fase precapitalista, ma dopo il ‘disincanto’ del mondo seguito al processo di secolarizzazione e modernizzazione non riesce ad esse sopportato a lungo, entrando in contrasto con il desiderio di libertà individuale e l’autocomprensione dell’occidente.
Lo scontro tra i due ‘fratelli’ viene letto nel libro prevalentemente con gli strumenti della sociologia e con ampie ricostruzioni dei principali autori dell’ultimo secolo, a partire da quello in qualche modo centrale e dal quale il modello esplicativo viene ripreso: Karl Polanyi[1].
Al termine del lungo percorso emergerà una proposta che, in qualche modo, è perfettamente complementare con quella del libro di Carlo Formenti “Il socialismo è morto. Viva il socialismo!” che abbiamo appena finito di leggere: mentre quello cercava di identificare le condizioni oggi possibili di una “transizione alla transizione” verso il socialismo, Romano si impegna in un compito altrettanto arduo, fornire un abbozzo del possibile socialismo realizzato. Ovvero immaginare in che modo la giostra tra “orizzontalismo” e “verticalismo” può essere interrotta. Per dirla meglio: cosa bisogna mettere a tema per interromperla.
Per arrivarvi Romano disegna un percorso di esplorazione che potrebbe ricordare la “critica immanente” di Honneth e Jaeggi[2]: nella Prima Parte, riassume la storia della regolazione sociale nella modernità, poi, nella Seconda Partericostruisce l’evoluzione della sociologia in relazione alle fasi individuate e, infine, nella Terza Parte prova a tratteggiare la soluzione, ovvero la “libertà verticale”.
La Prima Parte è a sua volta divisa in tre fasi storiche: il “canone orizzontale”, nel periodo di ascesa del mercato auto-regolantesi descritto da Polanyi, fino al crollo del golden standard e la disgregazione che portò alla guerra mondiale; il “canone verticale” del novecento dal New Deal alla crisi degli anni settanta; il ritorno al “neo-orizzontalismo” a partire dagli anni ottanta (si potrebbe dire, con linguaggio più tradizionale, “liberismo”, “welfarismo”, “neo-liberismo”).
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Il populismo in generale e quello di Salvini
di Moreno Pasquinelli
Da alcuni anni, anzitutto dopo la sorprendente ascesa al trono di Trump, non c'è giorno in cui i media globali, anzitutto liberali e di rito politicamente corretto, non discettino sul "populismo".
Abbiamo così visto il fior fiore dell'intellighènzia di regime cimentarsi sul tema, chiedersi cosa il populismo sia e dove vada a parare. La categoria di populismo è diventata così onnicomprensiva, unpassepartout per aprire porte ad ogni latitudine: populisti Trump e Sanders, Le Pen e Maduro, Orban e Corbyn, Putin e Erdogan, Mélenchon e Farage, Grillo e Salvini, Podemos e l'AFD tedesca, la Kirchner peronista e Bolsonaro. Fiumi di inchiostro, tanta fuffa, univoco il risultato: scomunica del populismo come fenomeno funesto, illiberale e totalitario.
Le sinistre transgeniche d'ogni razza e latitudine hanno accettato questa narrazione. Chi a sinistra era stato colpito dall'anatema del populismo (Mélenchon, Corbyn o Iglesias) ha ben presto compiuto il rito dell'abiura rientrando nei ranghi del politicamente corretto.
La maledizione di Laclau
Minoritarie propaggini colte di questa sinistra hanno invece tentato di affrontare il fenomeno populista, andando alla sua genesi, alla sua polimorfica natura, alla sua fenomenologia.
Di qui la riscoperta delle riflessioni teoriche di Enesto Laclau e Chantal Mouffe. Qui avveniva tuttavia un fatto deprecabile: il più radicale congedo dalla tradizione teorica marxiana era direttamente proporzionale al vacuo funambolismo teorico.
Laclau, soprattutto quello della "seconda fase", porta una responsabilità enorme per questo smarrimento intellettualistico. Modo e rapporti di produzione relegati a "costrutti soggettivi"; le leggi antagonistiche del sistema capitalistico rifiutate come ipostasi metafisiche; il rifiuto di ogni teleologia e filosofia della storia sostituito dal "tutto contingente"; il determinismo sostituito dal più deciso indeterminismo; l'autonomia del Politico trasformata nella secessione del Politico dall'economico-sociale; il discorso di Gramsci sulla filosofia della praxis e sull'egemonia recuperato scaltramente per giustificare il più radicale empirismo.
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Filosofia, democrazia, Stato-nazione nei Quaderni del carcere
di Francesca Izzo (già Università L’Orientale, Napoli)
1. Teoria del moderno
I termini che compaiono nel titolo meriterebbero, anche singolarmente presi, una trattazione specifica ben più ampia di quella che è possibile in questa sede. Per delimitarne l’ambito, mi concentrerò sulla concezione della modernità elaborata da Gramsci: la sua genesi, la sua natura, le sue contraddizioni e la sua crisi. Il suo profilo emerge pienamente proprio nel nesso che tiene assieme filosofia, democrazia e Stato-nazione.
Né umanistica (la modernità sarebbe l’epoca dell’affermazione del regnum hominis, con l’inversione del rapporto Dio-mondo di contro alla trascendenza medievale) né “nichilistica” (la modernità sarebbe l’epoca della dissoluzione di ogni sostanzialità, destinata a consumare ogni fondamento stabile e ad affermare la libertà come decisione), la teoria del moderno di Gramsci si nutre, o meglio è un frutto originale, della sua rielaborazione/revisione del materialismo storico in termini di filosofia della prassi. E per anticipare quello che svilupperemo analiticamente nel prosieguo, per Gramsci l’epoca moderna non è “infondata”perché ha un soggetto, ma si tratta di un soggetto non umanistico: è lo Stato-nazione.
2. Filosofia della prassi (filosofia, politica, storia)
Come ampiamente mostrato dalla letteratura critica più recente, nei Quaderni Gramsci giunge, attraverso un percorso complesso e per nulla lineare, a maturare la sua interpretazione/revisione del materialismo storico in termini di filosofia della prassi, cioè di un’autonoma e integrale concezione della storia (una filosofia che è politica in quanto è integralmente storia) che non prende a prestito né dal materialismo filosofico né dall’idealismo elementi per “completarsi”; insomma, Gramsci rifiuta il cosiddetto “marxismo in combinazione”1. Il “ritorno a Marx” si inserisce appunto in questa ricerca di totale autonomia determinata da ragioni non astrattamente teoriche, ma altamente politiche.
A Gramsci appare sempre più evidente che la necessità della filosofia - in particolare di quella elaborata da Marx nelle Tesi su Feuerbach – discenda dal fatto che si tratta di rifondare su basi nuove la soggettività rivoluzionaria, il nuovo soggetto storico.
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Radiografia di una crisi di mezza estate
di Andrea Muratore
Dal Papeete al patatrac: Matteo Salvini e la Lega hanno scelto la rottura dell’alleanza con i Cinque Stelle. La crisi del governo Conte è scoppiata nel cuore di agosto, cogliendo in contropiede un’Italia intenta, in larga parte, a celebrare riposo e ferie. L’Osservatorio ha voluto “radiografare” la crisi, le sue cause e i potenziali sviluppi in ambito politico, economico e internazionale per fornirne una lettura a tutto campo che è risultata mancante in diversi settori dei media tradizionali. Per ragguagliare analisti e osservatori interessati sulle conseguenze a lungo termine del duello politico. Ma anche per aggiornare in maniera completa chi, tra riposo e vacanze, non ha potuto sino ad ora seguire in maniera continuativa le discussioni politiche e istituzionali.
* * * *
Il dado è tratto: Matteo Salvini e la Lega hanno deciso di ritirare il loro appoggio al Governo Conte e presentato una mozione di sfiducia al Presidente del Consiglio. Il Senato ha calendarizzato per il 20 agosto le comunicazioni a Palazzo Mada del Presidente del Consiglio, frustrando il tentativo leghista di accelerare il voto sulla mozione di sfiducia a prima di Ferragosto. Lo strappo del Carroccio dopo il voto contrastante di Lega e Movimento Cinque Stelle nelle mozioni sulla TAV ha funto da catalizzatore per una serie di reazioni in campo politico ed economico, aprendo diverse questioni di grande importanza sul futuro del Paese. La Lega invoca nuove elezioni forte della crescita di consensi certificata dal trionfo alle Europee, ma il percorso che punta al ritorno alle urne è intervallato da ostacoli: lo scioglimento delle Camere porrebbe fine alla più breve legislatura della storia repubblicana, garantirebbe un voto autunnale per la prima volta in un secolo ma, soprattutto, può essere decretato solo dal Quirinale. Che ora aspetta le mosse della macchina politico-istituzionale messasi in moto, di cui la Lega è solo una parte: per meglio orientarsi nel migliore dei modi nella ridda di dichiarazioni, ipotesi e voci che stanno interessando il dibattito politico l’Osservatorio Globalizzazione ha deciso di pubblicare questa radiografia della crisi per permettere a lettori e analisti di meglio comprenderne cause, sviluppi e conseguenze nei principali ambiti in cui essa si svilupperà.
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“La mente inquieta. Saggio sull’Umanesimo” di Massimo Cacciari
di Federico Diamanti*
Recensione a: Massimo Cacciari, La mente inquieta. Saggio sull’Umanesimo, Giulio Einaudi Editore, Torino 2019, pp. 128, 18 euro, (scheda libro)
L’ultima pubblicazione di Massimo Cacciari, La mente inquieta. Saggio sull’umanesimo, è introdotta da una brevissima pagina ‘memoriale’ in cui il filosofo racconta, con un’immagine che risalterà in tutta la sua importanza agli occhi del lettore, dove affondano le radici ‘umanistiche’ (nel senso stretto di ‘legate al periodo dell’Umanesimo) del suo pensiero. Esse – rintracciabili d’altronde in tutta la bibliografia cacciariana – sono però legate ad un anno, in particolare: il 1976. Come è noto, fu l’anno della pubblicazione del primo notevole cimento filosofico dell’autore, Krisis. Saggio sulla crisi del pensiero negativo da Nietzsche a Wittgenstein; ma quello stesso anno vide l’inizio della circolazione di uno dei più importanti e maturi volumi di Eugenio Garin, Rinascite e rivoluzioni. Movimenti culturali dal XIV al XVIII secolo. Si incontravano dunque, nello stesso lasso di tempo, per una assoluta casualità di natura editoriale, due figure, due volumi e due percorsi di ricerca diversi, con differenti orientamenti e opposte esperienze alle spalle: ma la lettura di Rinascite e rivoluzioni significò qualcosa di più profondo per il filosofo. «Ed ecco che Rinascite mi spalancava di fronte una visione dell’Umanesimo come età di crisi, età assiale, in cui il pensiero si fa cosciente alla fine di un Ordine e del compito di definirne un altro, drammaticamente oscillante tra memoria e oscuri presagi, crudo scetticismo e audaci idee di riforma»: il volume con cui Garin supera le «colonne d’Ercole» della tradizionale concezione del Rinascimento (la definizione è di Michele Ciliberto[1]) e compie un passo ulteriore rispetto al suo dialogo con H. Baron a proposito dell’umanesimo ‘civile’ fu dunque il punto di partenza per una ‘cura’ di Cacciari nei confronti del secolo XV e dei suoi protagonisti: una cura che culmina nel saggio su cui qui si presenta una riflessione, già apparso – in forma lievemente meno estesa – come introduzione ad un fondamentale volume antologico del 2017, Umanisti italiani (a cura di R. Ebgi), che contiene un’ottima selezione di testi di epoca umanistica – tradotti e commentati – tuttora difficilmente reperibili in edizioni moderne e ben curate.
Il primo capitolo inquadra la questione della storia delle interpretazioni dell’Umanesimo. Si tratta certamente di un preliminare imprescindibile del libro, poiché è proprio a partire delle varie interpretazioni dell’Umanesimo che Cacciari ha elaborato, nel tempo, intuizioni filosofiche e criteri metodologici nella sua ricerca.
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Ancora sul salario cosiddetto minimo
di Carla Filosa
La necessaria riduzione dei costi dei capitali pagata dai lavoratori
Al momento attuale non si capisce più se il progetto di legge sul “salario minimo” sia diventato merce di scambio politico, o se proseguirà effettivamente nell’originario proposito di aggiornamento del controllo statale del lavoro e del non lavoro. Per quanto emerge dalla stampa su cui apprendere le più recenti proposte del PD di marzo – a firma di Tommaso Nannicini – e dei 5S – a firma di Marco Palladino e Alessandro Zona – si punterebbe a una regolamentazione nazionale della contrattazione. Una delega ad una Commissione presso il Cnel dovrebbe poi stabilire i criteri di misurazione e certificazione della rappresentatività di sindacati e datori di lavoro, per i contratti collettivi di riferimento, separatamente per categoria. Naturalmente quando si nominano i sindacati è da intendere che questi partiti considerano solo “quelli più rappresentativi”, o confederali, cioè con esclusione di quelli minori che avrebbero stipulato “contratti pirata” con un salario minimo più basso.
Se qui non possiamo riportare tutta la storia che ha condotto alla formazione dei sindacati di minor rilievo – per questioni di spazio e di specificità tematica – possiamo però attestare l’ambiguità dei confederali nella loro istituzionalizzazione e accettazione di una pace sociale da salvaguardare, lasciando ignorata la generale iniquità predisposta per i lavoratori. Se l’obiettivo che il Pd cerca di perseguire è quello di dare valore legale ai minimi contrattuali, per cui bisogna ipotizzare più salari minimi che riguardino anche quelli che – come i rider – non hanno un rapporto subordinato, bisognerebbe che riconsiderasse anche il perché di un mercato del lavoro frantumato in uno sventagliamento di competenze diversamente remunerate, mansioni, tempi, contrattualità, false autonomie lavorative, ecc. pur di precarizzare e poter ricattare ogni settore lavorativo a favore dei capitali investiti e da investire ulteriormente, attrattivamente!
Se questo banalissimo retroscena sotto gli occhi di tutti interessasse chi ancora si autodefinisce di sinistra (partiti o sindacati, per non citare economisti, intellettuali, giornalisti che confondono salario con reddito!) si scoprirebbe la banalissima realtà già individuata da Marx due secoli fa, per cui ai capitali, prevalentemente in periodi di crisi, occorre soprattutto ridurre i costi del lavoro per riappropriarsi di profitti in deficit di accumulazione, altrimenti insufficienti a sostenere la concorrenza internazionale.
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Tutte le fake news di Marattin sul "finanziamento monetario"
di Thomas Fazi
Benvenuti alla seconda puntata di “Le fake news economiche di Luigi Marattin” (la prima puntata la trovate qui).
Oggi prendiamo in esame l’ultima “video lezione di economia” di Marattin, in cui il consigliere economico del PD si propone di rispondere «ad una domanda che va molto di moda tra ciarlatani e finti economisti vari, cioè perché non possiamo semplicemente stampare tutta la moneta che vogliamo?».
La risposta è semplice: perché altrimenti faremmo la stessa tragica fine di tutti quei paesi i cui governi «hanno ceduto alla tentazione di stampare soldi», con il risultato che si sono ritrovati «l’inflazione al miliardo per cento» [sic] e «l’economia in rovina». Gli esempi portati da Marattin sono, ça va sans dire, i soliti noti cari agli amanti del genere “piaghe d’Egitto da iperinflazione”: la Repubblica di Weimar, lo Zimbabwe e il Venezuela. O, come si dice in gergo tecnico, lo Zimbabweimaruela.
«I tutti questi casi – dice Marattin – la molla che ha fatto scattare tutto questo è il governo che aveva bisogno di soldi e ha pensato di stamparli», facendo schizzare l’inflazione alle stelle. Marattin passa poi a spiegare il meccanismo economico, ahem, alla base di questo di questo fenomeno: «La moneta sottostà alle normali leggi di domanda e offerta di qualunque altro bene. Prendiamo i cellulari. Se il mondo fosse inondato di offerta di cellulari il prezzo di questi si ridurrebbe fino ad arrivare a zero. Per la moneta è la stessa cosa. Se chi controlla l’offerta di moneta – cioè la banca centrale – comincia a stamparne in quantità molto elevate, quindi ad aumentare l’offerta di moneta, il valore di quella moneta va rapidamente a zero».
Tutto questo spiegherebbe perché «la leggenda per cui se a un governo servono i soldi basta stamparli e tutto risolve è una leggenda che nell’ultimo secolo ha portato distruzione, danni permanenti all’economia ed è una pericolosa illusione che viene spacciata da chi non ha idea di come funzioni un sistema economico».
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L’anatra-coniglio della nazione "a sinistra"
di Diego Melegari
Nell’ancora minoritario mondo di quanti oggi tentano di intrecciare la riflessione sulla questione nazionale a politiche dalla parte delle classi popolari si assiste spesso ad un problema di focalizzazione non troppo diverso da quello segnalato dall’articolo di Matteo Masi sulla dialettica tra piano A e piano B relativamente alla questione euro [1] . Da un lato, abbiamo posizioni, come quella di Eurostop, in cui si pone correttamente il tema dell’irriformabilità dell’UE e, più recentemente, il riconoscimento del quadro nazionale come spazio di accumulo delle contraddizioni in vista della creazione di un’area euromediterranea[2], inibendosi però di definire il tipo di investimento soggettivo, “affettivo” direbbe Laclau, rispetto a questo stesso spazio. Dall’altro, ci sono posizioni come quelle espresse, ad esempio, da un recente articolo di Jacopo Custodi [3], ma anche da alcuni scimiottamenti della narrazione del primo Podemos (“patriottica” ma sostanzialmente ambigua sulla questione UE), in cui, nel comprensibile sforzo in termini emancipativi, inclusivi e aperti al conflitto, la questione della sovranità, si evita accuratamente di esprimersi sul problema dell’interesse nazionale, ovvero sullo Stato come ente giuridico distinto da altri (dunque delimitato da confini), in qualche modo indipendente dall’identificazione soggettiva con esso. “Patriottismo” diventa, allora, il contenitore per qualunque comportamento si ritenga moralmente e socialmente positivo. Un po’ come nella figura gestaltica dell’anatra-coniglio, chi vede la “patria” come orizzonte e riferimento di una politica di “sinistra” tende a non cogliere la cruda realtà degli interessi e dei rapporti di forza economici, istituzionali e geopolitici, chi pensa che anche in questi ultimi possa aprirsi un margine di contraddizione e, dunque, un suo utilizzo per una politica alternativa, magari socialista, fatica a costruire un discorso in cui sia possibile risignificare e rivendicare la propria appartenenza nazionale, il proprio “essere italiani”. Esiste, infine, chi, vedendo solo la figura nel suo complesso o soffermandosi su tratti particolari di essa, concepisce come mera illusione ottica quella di chi vi riconosce la forma dell’uno o dell’altro animale.
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Mario Tronti, “Il popolo perduto”
di Alessandro Visalli
Libro del 2019 di Mario Tronti, che certo non ha bisogno di alcuna presentazione. Uscito poco prima delle elezioni europee il testo, che ha la forma di una intervista, muove da una domanda decisiva: “quali sono le cause che hanno portato la sinistra in tutte le sue articolazioni partitiche, da quelle cosiddette moderate a quelle cosiddette radicali, al suo attuale punto di crisi, fino a perdere il suo popolo e quindi a perdere identità, riconoscibilità e forza”? Da intellettuale della vecchia scuola l’autore parte dalla situazione internazionale, vi iscrive quella dell’Italia e poi scende sul terreno del Partito, delle agende, delle scelte. C’è una dimensione propagandistica, di servizio al suo Partito, nel testo, e c’è una dimensione diagnostica, meno contingente. Entrambe sono interessanti, la prima per ascoltare quel che nel ceto politico e sociale nel quale l’autore si è abituato a vivere è considerato un buon argomento, determinante e decisivo. La seconda per confrontarsi con una più ampia visione del mondo di un grande intellettuale della sinistra, storico ed inaggirabile.
Capiterà di essere più facilmente in accordo con la seconda dimensione, francamente la prima è sorprendente, persino a questo livello allignano imbarazzanti miraggi, nella cui vaporosa sostanza, tuttavia si intravede chiaramente il profilo del solito, metallico, desiderio di potenza europeo-occidentale.
Tutto il discorso del nostro muove da una densa rete di concetti, che proveremo a scoprire un poco alla volta, e dal presupposto, dichiarato in apertura che tutto promana dal movimento (anzi, con vezzo gramsciano dalla ‘guerra di movimento’) nel mondo ‘grande e terribile’. Distinguendo tra ciò che trasforma (che si oppone al dominante mondo di vita), ciò che innova e ciò che conserva, dal movimento del mondo viene l’innovazione. E viene quindi, Tronti ne è certo al punto da non spendere una nota, una battuta, il macro-spostamento dell’asse globale dall’Atlantico al Pacifico. Viene, in altre parole, il “ritorno” alla centralità asiatica[1].
Ma la tentazione di leggere tutto secondo una interna coerenza, e di scivolare nella filosofia della storia è profondamente incardinata nell’ex marxista che quindi si dice “proprio convinto” di una “regolarità di movimento” della storia umana che si nutre di nuovo e ritorno del passato (riecheggiando le sue nuove letture del pensiero “grande conservatore”, Nietszche in particolare).
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L'ecomarxismo di James O'Connor*
di Riccardo Bellofiore
Quasi 30 anni fa usciva sulla benemerita (e ormai quasi introvabile) 'rivista internazionale di dibattito teorico' MARX 101 questo testo, adesso recuperato dall'autore (profetico nell'assenza di trionfalismo "sulla conciliabilità tra lotte operaie e lotte in difesa della natura ") che gentilmente ci permette di ripubblicarlo
L'ultimo libro di James O'Connor (L'ecomarxismo. Introduzione ad una teoria, Datanews, Roma 1989, trad. dall'inglese di Giovanna Ricoveri, pp. 56, Lit. 10.000), autore largamente e tempestivamente tradotto in italiano, ha certamente almeno un merito: quello di proporre, controcorrente, una "conciliazione" tra marxismo e ambientalismo, due corpi teorici e due esperienze politiche che molti vedono invece fieramente contrapposti.
L'obiettivo del saggio è, mi pare, conseguentemente duplice. Ai marxisti, che spesso snobbano con sufficienza la "parzialità" della questione della natura o criticano il troppo tiepido anticapitalismo degli ecologisti, O'Connor vuole mostrare che la difesa della natura è parte integrante dell'apparato categoriale marxiano, e non qualcosa che le è estraneo. Ai "verdi", O'Connor vuole mostrare come un ecologismo coerente non possa che investire globalmente i processi economici e politici su scala planetaria, segnati irrimediabilmente dal dominio del capitale.
La tesi centrale è, molto in breve, che l'ecologismo (ma anche i "nuovi movimenti sociali", e perciò anche il femminismo) puntano l'attenzione su questioni che sono qualcosa di più, e non di meno, della lotta di classe.
Il tentativo di O'Connor si svolge in quattro mosse.
La prima mossa è costituita da un ritorno alle rigorose definizioni di base del Capitale , che tengono esplicitamente conto delle "condizioni di produzione" tanto "esterne" (natura in senso stretto) quanto "personali" (la forza-lavoro come elemento materiale e naturale essa stessa).
La seconda mossa consiste in una traduzione della teoria della crisi economica del marxismo - si tratta qui in particolare della crisi da realizzo - in una teoria della crisi ecologica: la distruzione della natura dà luogo ad un aumento dei costi di riproduzione delle condizioni di produzione, quindi ad un uso improduttivo del capitale, che è costretto ad utilizzare una parte crescente del plusvalore per sanare le ferite che esso stesso procura all'ambiente invece di farne capitale addizionale.
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