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E il desiderio disse: niente!
di Ennio Abate
In margine ad un convegno su Elvio Fachinelli del 1998
Ripubblico questo mio resoconto ragionato di un convegno su Elvio Fachinelli tenutosi a Milano nel 1998 dopo aver letto su LE PAROLE E LE COSE un ricordo di lui nel trentennale della sua morte scritto da Sergio Benvenuto (qui). Ho letto varie opere di Fachinelli e ho spesso citato il suo scritto “Gruppo chiuso e gruppo aperto” (ad es. nel 2011 qui) . Non l’ho mai conosciuto di persona (l’intravvidi solo una volta, attorno al 1988, in mezzo al pubblico alla Casa della Cultura di Milano) ma ho sentito parlare spesso di lui da Giancarlo Majorino. E mi hanno sempre particolarmente colpito il suo scontro con Franco Fortini e l’autocritica postuma di quest’ultimo nei suoi confronti. (Il «diverbio» con Fachinelli Fortini lo rievoca in una nota di «Psicoanalisi e lotte sociali», pag. 229 di Non solo oggi). L’attenzione e lo scrupolo da cronista, con cui allora segui quel convegno privilegiando ancora in un’ottica da insegnante (sarei andato in pensione in quell’anno), dimostra il mio interesse per i problemi sollevati da Fachinelli ma anche la mia diffidenza per la piega impolitica/apolitica con la quale i suoi amici e colleghi psicanalisti lo ricordarono in quel convegno, esaltando – proprio come oggi fa in maniera definitiva Sergio Benvenuto – il lato amicale e liberal-libertario del suo pensiero fin quasi a far scomparire la sua permeabilità e sensibilità alle inquietudini sociali e politiche di quegli anni. Non condividevo né condivido il ripiegamento di tanti intellettuali nei “culti amicali, cultural-editoriali e professional-corporativi ” e neppure il nuovo dogma della leggerezza antideologica oggi di moda. E trovo fiacca, puerile e sospetta l’apologia del Fachinelli “dionisiaco” di Benvenuto e il suo viscerale antimarxismo. Tanto più che lui stesso è costretto a chiedersi:
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Haftar non firma il cessate il fuoco, la Ue prepara i militari
di Dante Barontini
Follow the money, quando vuoi capire come c’è in ballo al di sotto di mosse altrimenti incomprensibili. Ma segui anche il percorso delle armi, quando il minuetto della diplomazia palesemente non determina più le relazioni tra Paesi o frammenti di questi.
La Libia è esplosa quando quell’imbecille ambizioso di Nicolas Salkozy ha deciso di buttar giù militarmente Muammar Gheddafi per prendere possesso in via privilegiata dei terminali di petrolio e gas fin lì gestiti prevalentemente dall’Eni. Il “geniale” e ricattatissimo Silvio Berlusconi gli andò dietro (contro “gli interessi dell’Italia”), in un’operazione folle che non prevedeva nessun regime change credibile. Destabilizzare un equilibrio – gestito con indubbia “durezza” – in un mosaico di tribù è dar via a una guerra civile infinita, non certo a una “più avanzata democrazia”.
Da allora è successo di tutto. E siamo arrivati al vertice di Mosca, ieri, in cui il padrone della situazione sul piano militare – il generale Haftar – si è rifiutato di sottoscrivere un cessate il fuoco contrattato tra Vladimir Putin e Reyyip Erdogan, neo sponsor principale del “sindaco di Tripoli”, Al Serraj.
Sui media mainstream si sprecano le interpretazioni interessate, univocamente orientate a dimostrare che “gli altri” (Russia, Turchia, Egitto, Emirati, ecc) agiscono solo sulla base degli “interessi”, mentre l’Italia e l’Unione Europea avrebbero come faro la “legalità internazionale” e naturalmente “la pace”.
Menzogne.
Da anni la Libia è vista da tutti come un forziere, un tesoro pressoché indifeso ma pericoloso. Sembra una contraddizione, ma non lo è. La libia è indifesa perché lì è stato distrutto lo Stato, con l’abbattimento violento di Gheddafi. E’ stata con lui annientata l’infrastruttura amministrativa, l’esercito, la polizia, l’autonomia decisionale – ripetiamo – in una società fatta di tribù, dove l’appartenenza si misura su una base simil-familiare estesa.
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Come applicare una teoria al capitalismo contemporaneo, in molteplici crisi
di Makoto Itō
Prezioso e gentile contributo dell’economista giapponese Makoto Itō
Caratteristiche della teoria di Uno
La teoria di Uno fu elaborata dall'economista politico marxiano giapponese Kozo Uno (1897–1977). Aveva tre caratteristiche principali, come ho riassunto nel mio libro Value and Crisis. La prima è una chiara distinzione tra l'ideologia socialista e il ruolo dell'economia marxiana come scienza sociale oggettiva. La seconda è la differenziazione sistematica di tre livelli di ricerca - vale a dire i principi dell'economia politica come nel Capitale di Marx, mette in scena la teoria dello sviluppo capitalista (come in Uno 1971; per seguire Lenin 1917), e l’analisi concreta del capitalismo mondiale contemporaneo dopo la Prima guerra mondiale. La terza comprende i tentativi teorici di completare il Capitale, come principi dell'economia politica. Attraverso queste tre caratteristiche, la teoria di Uno intende leggere l'essenza del Capitale di Marx come una solida base della ricerca scientifica nell'economia politica, che può essere applicata in modo flessibile al capitalismo contemporaneo, nelle crisi attraverso la teoria degli stadi intermedi dello sviluppo capitalista.
Secondo la mia comprensione, l'essenza teorica del Capitale di Marx è composta principalmente dalla teoria del valore e della crisi.
Sulla teoria del valore, Uno ha sistematicamente sottolineato la scoperta originale di Marx della forme-valore nelle relazioni tra merci, denaro e capitale, che è stata trascurata dalla teoria del valore-lavoro della scuola classica rappresentata da Smith (1776) e Ricardo (1817). Uno ha sottolineato il riconoscimento teorico di Marx secondo cui "lo scambio di merci inizia laddove le comunità hanno i loro confini, a contatto con altre comunità o con i membri di queste ultime".
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Dall’economia di guerra ad un’economia di pace
di Francesco Cappello
Al tradizionale conflitto tra lavoratori e proprietari dell’azienda si è aggiunto oggi quello più generale tra debitori e creditori. Alla categoria dei debitori appartengono non solo famiglie e imprese ma interi popoli e le loro organizzazioni statali. Sullo sfondo il conflitto tra micro e macro: microimprese e multinazionali, piccole banche e grandi banche d’affari, stati nazionali e poteri sovranazionali.
L’architettura del sistema finanziario e il sistema dei pagamenti internazionale generano enormi bolle di debiti e crediti, pubblici e privati, che non si incontrano e che la finanza gestisce in forma di cartolarizzazioni, derivati (1) e altro. I debiti accumulati dalla finanza speculativa ammontano secondo stime, utilizzanti dati della BRI, a una somma pari a 54 volte il Pil mondiale! Si tratta di denaro fittizio, ricchezza fittizia, tradotta in titoli, inventati dal sistema finanziario, il cui valore non è determinabile con certezza e che risultano continuativamente soggetti ad improvvisi quanto imprevedibili rischi di svalutazione. Tuttavia, la casta aristocratico-finanziaria (che si avvale dello strumento dei grandi fondi di investimento che controllano le grandi banche d’affari, le multinazionali, le agenzie di rating, le grandi agenzie informative, la stessa politica) che detiene e gestisce questa ricchezza di carta usa allo scopo le più diverse manovre speculative. La pretesa di fondo consiste nel pensare possibile far soldi con i soldi, nei vari passaggi di mano da un investitore all’altro, saltando a piè pari l’economia reale, tenuta ai margini, se non del tutto disgiunta, da quella finanziaria. Piuttosto che concedere prestiti a famiglie e aziende si trova più redditizio commercializzare titoli.
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Il ritorno della Russia nello scacchiere mediorientale
di Carlo Paternollo
L’intervento russo nel conflitto siriano a supporto del presidente Assad ha inciso sulle sorti della guerra ed ha rivoluzionato lo scacchiere geopolitico del Medio Oriente rovesciandone gli equilibri, facendo leva sul disimpegno degli Stati Uniti dalla regione. In questo articolo esamineremo le principali condizioni che hanno permesso il ritorno della Russia come attore protagonista nel Medio Oriente e le motivazioni che hanno spinto Putin ad intraprendere una campagna militare in Siria, supportando uno schieramento ostile a quello appoggiato da Stati Uniti ed Europa. L’articolo cercherà di delineare la Grand Strategy russa nel Medio Oriente, identificandone i punti principali e la loro declinazione a livello tattico e militare nel conflitto siriano. In un successivo articolo osserveremo come la diplomazia e gli investimenti economici russi nella regione siano ulteriori strumenti per comprendere la Grand Strategy di Mosca in Medio Oriente.
Per meglio cogliere le radici dell’intervento della Russia nel teatro siriano è utile fare un passo indietro, risalendo alle origini del conflitto nel 2011, con la violenta repressione esercitata dal regime di Assad sui movimenti di protesta. Nel corso dei mesi la violenza aumentò significativamente fino a sfociare in una guerra civile che in breve tempo assunse una dimensione internazionale. Stati Uniti, Inghilterra, Francia e Turchia – anche se quest’ultima ha tenuto un atteggiamento ambivalente nel corso del conflitto – supportavano la fazione dei ribelli mentre Russia, Iran e la milizia Hezbollah si schierarono con il regime di Assad.
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I comunisti e la questione ecologica
L’elaborazione della RdC
di Italo Nobile*
Nell’introdurre il seminario di Andrea Genovese sull’economia circolare è necessario fare un piccolo accenno a come la Rete dei comunisti (o le strutture e le esperienze che poi nella RdC sono confluite) nel corso di questi anni abbia affrontato la questione ecologica. Ovviamente tale ricostruzione è per forza di cose lacunosa perché in più di vent’anni di riflessione e di iniziativa politica molto del materiale è disperso in molti articoli distribuiti in diversi periodici. Tuttavia è possibile ricostruire un atteggiamento complessivo.
La prima cosa da dire è che la nostra organizzazione ha riconosciuto sempre l’emergenza ambientale ma ha anche evidenziato come la comunicazione deviante che caratterizza quest’ultima fase del capitalismo abbia utilizzato questo allarme per gli interessi materiali che essa serve, per distogliere l’attenzione da altre questioni più scottanti a breve e per alimentare nuove speculazioni in previsione di un aumento del business in questo comparto[1].
Perciò la battaglia delle idee su tale questione è stata qualificata da un lato dal riportare la contraddizione capitale-natura all’interno del conflitto capitale-lavoro[2] e, d’altro canto, nella critica continua e feroce a tutti i tentativi di far rientrare la politica ecologica all’interno del modo di produzione capitalistico ed in particolare nella critica alla Green-Economy[3] .
I due momenti sono compementari e tale stretto legame è significativo di un approccio globale e al tempo stesso storico alle questioni, senza nessuna concessione alla nostalgia di una natura che è invece sempre stata mediata socialmente e senza nessuna concessione ad un naturalismo dietro il quale spesso si nasconde una perpetuazione di rapporti di produzione che vanno tolti nel corso del tempo[4].
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Karl Marx sul populismo contemporaneo
di Anselm Jappe
150 anni fa, Marx ha pubblicato il suo Capitale. Agli occhi dei pensatori borghesi e di quello che era il mainstream accademico e mediatico, oggi Marx è del tutto superato. Dove sono i proletari straccioni? Oggi viviamo in un mondo di democrazia e di libero mercato. La sinistra tradizionale a sua volta potrebbe obiettare che il capitalismo è tornato, che esiste di nuovo un enorme divario tra ricchi e poveri, e che esistono anche un altro tipo di persone che sono subalterne e oppresse. Io ritengo che invece ci sia un altro modo per valutare oggi la teoria di Marx: In 150 anni la superficie del capitalismo è cambiata un bel po', ma il suo nucleo rimane ancora lo stesso. Il nucleo è quello che Marx ha analizzato soprattutto nel primo capitolo del Capitale: merce e valore, denaro e lavoro astratto. Al fine di evitare equivoci e confusione tra lavoro astratto e lavoro immateriale, è maglio partire dal lato astratto del lavoro, della sua duplice natura. Marx stesso considerava la sua analisi relativa alla «duplice natura del lavoro» - astratto e concreto - come una delle sue più importanti scoperte. [*1] Ogni singolo esempio di lavoro, in condizioni capitalistiche (ma solo nel capitalismo, dal momento che non c'è niente di naturale in tutto questo), è allo stesso tempo sia astratto che concreto. In quanto lavoro concreto, ogni singola attività produce beni o servizi, ma la medesima attività è anche allo stesso tempo semplice dispendio di energia umana che, misurata in unità di tempo, è una pura quantità di tempo, indipendentemente da ciò che durante quel tempo è stato fatto. Il lato concreto del lavoro corrisponde al valore d'uso ed il lato astratto corrisponde al valore (rappresentato dal denaro) di quella stessa merce. Nel capitalismo, il lato astratto del lavoro, e di quello che è il suo prodotto, prevale sul lato concreto, ed è questa la radice più profonda di quella che è l'assurdità del modo capitalistico di produzione.
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Karl Marx e la religione come «oppio dei popoli»
di Franco Livorsi
Religiosità, redenzione e rivoluzione costituiscono un nodo importante del marxismo sin dalle origini. Emerge già da una decisiva pagina di Marx in cui compare la famosa apostrofe sulla religione come oppio dei popoli, compresa nel suo saggio del 1844 Critica della Filosofia del diritto di Hegel. Introduzione (1844)1. Intendere quel che si dice lì può ancora darci una chiave interpretativa non priva d’importanza.
Al proposito ritengo importante dire due parole preliminari sul contesto storico e filosofico, in funzione della comprensione del testo in oggetto.
Prima c’era stato l’Illuminismo, e più in generale il XVIII secolo: con la sua costante tensione a illuminare il reale con la ragione e soprattutto a razionalizzarlo; col suo rifiuto dei dogmi, e con la messa in discussione radicale di ogni rivelazione e dello stesso cristianesimo, in nessun periodo anteriore mai avvenuta in tale forma radicale e su così vasta scala; con la valorizzazione della scienza unita alla tecnica sin dalla famosa Enciclopedia delle scienze, delle arti e della tecnica curata da D’Alembert e soprattutto da Diderot (1751-1765, in 17 volumi); con la prima rivoluzione industriale inglese e poi europea e, last but not least, con la Rivoluzione francese del 1789 e degli anni successivi. Poi era arrivato Napoleone, che aveva portato, sulla punta delle baionette della sua Armata nazionale, l’idea dell’uguaglianza giuridica tra i cittadini, propria della Gran Rivoluzione, e il proprio Codice civile moderno, privatistico e borghese, dappertutto, sino a Mosca, sia pure con tratto autoritario e con intento imperialistico.
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Il nuovo uomo €uropeo
di Quarantotto
1. Con una certa titubanza, ed un elevato scetticismo sulla possibilità che le più varie formazioni politiche italiane possano (voler) accedere a un dibattito approfondito sui motivi della necessità di efficaci politiche anticicliche, torniamo a trattare il problema del deficit pubblico.
Su questo punto, in realtà, ove si assecondino e si intenda rendere incontestabili i postulati economici che soprassiedono alle regole dell'eurozona, avremmo delle certezze che non possono non essere definite come "diritto positivo".
Anzitutto, avremmo l'indicazione costituzionale fornita dal "nuovo" (ormai non più tanto) art.81 della Costituzione, che, come dovrebbe essere notorio, dispone, nelle parti più direttamente rilevanti sul tema del "livello" del deficit (denominato "indebitamento", sottintendendosi, con tale termine, l'annualità e la pertinenza al settore pubblico dello stesso, nell'ambito dei c.d. saldi settoriali della contabilità nazionale):
"Lo Stato assicura l'equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico.
Il ricorso all'indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi eccezionali...
....Il contenuto della legge di bilancio, le norme fondamentali e i criteri volti ad assicurare l'equilibrio tra le entrate e le spese dei bilanci e la sostenibilità del debito del complesso delle pubbliche amministrazioni sono stabiliti con legge approvata a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera, nel rispetto dei princìpi definiti con legge costituzionale."
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Lenin e la Rivoluzione
di Gianni Fresu (Universidade Federal de Uberlândia)
Materialismo Storico. Rivista semestrale di filosofia, storia e scienze umane è una pubblicazione dell'Università di Urbino con il patrocinio della Internationale Gesellschaft Hegel-Marx, n. 1 2019
Il centenario della Rivoluzione d’ottobre è trascorso in un clima culturale e politico non certo favorevole al libero confronto intellettuale e ben poco disponibile a valutare ragioni ed eredità di un evento che, qualunque possa essere il nostro giudizio, ha rappresentato un radicale cambio di passo nella storia dell’umanità dal quale non si può prescindere. In un quadro nel quale comunismo e nazismo sono presentati come fratelli gemelli figli della stessa degenerazione (il trauma della Prima guerra mondiale), il principale protagonista della Rivoluzione russa è generalmente considerato come l’origine di ogni moderno fanatismo ideologico. Se il Novecento è stato archiviato come il secolo degli orrori, delle dittature e dei totalitarismi, all’interno di questo quadro apocalittico Lenin è l’arcidiavolo cui vanno imputate tutte le calamità di un secolo insanguinato, fascismo incluso1.
Non solo nel mondo liberale, ma anche a sinistra, la principale accusa mossa alla Rivoluzione d’ottobre sarebbe anzitutto da ricercare nella mancata estinzione dello Stato. Al contrario, l’ipertrofia delle sue funzioni e attività necessarie a dirigere questo inedito processo storico, che avrebbe svuotato il concetto di libertà individuale fino a impedirne l’esistenza, spiegherebbe la natura liberticida del socialismo storico. È l’idea di un rapporto inversamente proporzionale tra sfera delle libertà e estensione delle attività dello Stato, un’idea che accomuna la concezione del “governo limitato” di Locke alle teorie sul totalitarismo di Hannah Arendt.
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L’uccisione di Soleimani in un interludio torbido
di Michele Castaldo
L’uccisione di Soleimani, il generale iraniano comandante delle forze al-Quds (il corpo d’èlite della Guardia Rivoluzionaria Islamica) da parte degli Usa è il segno di un’accelerazione della crisi generale che investe il modo di produzione capitalistico in una fase cruciale.
La storia dell’uomo è caratterizzata dal principio di Hobbes: homo homini lupus, cioè l’uomo è un lupo nei confronti di un altro uomo, non riesce, perciò, in alcun modo a vedere in un altro uomo un proprio simile, nel suo simile, dunque non cerca di stabilire con lui un rapporto di armonia, ma di aggressione e di concorrenza, cioè cerca di prevalere. Seguendo questo principio l’uomo è arrivato
a sviluppare un moto-modo di produzione che dopo una straordinaria ascesa si avvia al suo declino, perché non riesce più a sviluppare lo stesso valore di un tempo e nella folle corsa per tenersi in vita semina morte e distruzione.
I fatti di questi giorni sono la conseguenza meccanica degli ultimi 40 anni, ovvero dalla rivoluzione antimperialista in Iran del 1979, che rischiò di incendiare tutto il Medio Oriente, coinvolgendo centinaia di milioni di esseri umani. Ma proprio l’homo lupus – in quel caso yankee – spinse Saddam Hussein a uno scontro armato contro l’Iran per evitare che si estendesse la rivoluzione islamica e che si rafforzasse una nazione e uno stato di un paese ricco di petrolio e di altre importanti materie prime. Dopo 8 lunghi anni di guerra e un milione di morti, Saddam Hussein pensò bene di passare all’incasso per aver agito anche pro domo sua, pretendendo di gestire il prezzo del petrolio e al rifiuto della Casa Bianca e di tutti gli altri paesi occidentali, invase il paese fantoccio del Kuwait, per cui tutto il mondo occidentale intese dare una dura lezione al “pazzo” che aveva osato sfidare il mondo “civile”.
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Guerra alla guerra! I conflitti militari nella fase di stallo tra gli imperialismi
di Noi Restiamo
Il nuovo anno si è aperto con momenti di alta tensione a livello internazionale dovuti all’azione militare mirata con la quale gli USA hanno eliminato Qassem Soleimani, generale alla guida delle forze Quds, unità d’élite dei Guardiani della Rivoluzione, e numero due della politica iraniana dopo l’Ayatollah Khamenei.
Questo atto non è un’iniziativa estemporanea dettata da scelte effettuate senza ponderazione, ma è una delle forme con cui in questa fase di stallo si sviluppa la competizione globale tra vari attori, in uno scenario che si avvicina a quello che poco più di un secolo fa fece precipitare il mondo nella prima carneficina mondiale.
È necessario dunque affrontare gli eventi che negli ultimi giorni si sono susseguiti in Medio-Oriente come passaggi di questioni che vanno ben oltre la già complessa relazione tra USA e Iran, e che devono invece essere compresi in quanto momenti di una dinamica che è insieme di lungo periodo, con tutto il portato storico ad essa collegato, ed è anche espressione dell’attuale scontro interimperialistico.
Innanzitutto l’azione statunitense si mostra in continuità con l’operato delle dominazioni coloniali prima e della penetrazione neo-coloniale poi, che per secoli hanno portato miseria e instabilità in tante aree del pianeta, intervenendo militarmente oppure finanziando e poi abbattendo regimi in funzione di quelli che di volta in volta erano i propri interessi in quella specifica contingenza storica.
Il caos in Medio-Oriente è responsabilità delle potenze occidentali, e i venti di guerra sollevati dall’assassinio di Soleimani sono il risultato dell’aggressione imperialista statunitense.
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Orientamenti politici e materialismo storico
di Roberto Fineschi
Il nesso fra il livello strutturale e quello sovrastrutturale non è immediato. È un errore accettarne l’identità immediata e pensare che lottando contro uno dei due lati, immediatamente si lotti anche contro l’altro. Chiarito ciò è possibile comprendere il carattere non rivoluzionario o addirittura reazionario di alcuni movimenti politici attuali
Il seguente articoletto mira a esporre in termini inevitabilmente schematici ma spero chiari e orientativi alcuni posizionamenti politici a livello sia strutturale che sovrastrutturale [1]. Ciò permette di descrivere almeno a grandi linee fenomeni in atto. Gli schieramenti politici indicati riflettono orientamenti individuali che non immediatamente corrispondono a partecipazione attiva a un partito, ma a un modo di vedere. Tutte le mediazioni vanno ovviamente svolte per fornire un’analisi più adeguata. Qui, schematicamente, si pongono delle basi per procedere in questo senso.
Nella tabella che segue, nelle colonne si considerano cinque questioni di fondo, 3 a livello strutturale, 2 a livello sovrastrutturale. Per il livello strutturale: A1) essere favorevoli o meno al (per adesso non meglio specificato) capitalismo, A2) essere favorevoli o meno a una sua regolamentazione che includa l’intervento diretto dello Stato (o altra istituzione per lui) nella gestione della riproduzione sociale, ma senza uscire dal contesto capitalistico. Come accessoria, si aggiunge una terza posizione A3), vale a dire essere o meno favorevoli alla presenza dello stato sociale (o in subordine di soli ammortizzatori sociali). A livello sovrastrutturale tutto è ridotto a due nozioni base: B1) essere favorevoli o meno all’universalità del concetto di persona, B2) essere favorevoli o meno alle istituzioni rappresentative parlamentari e alla divisione dei poteri classica borghese. Nelle righe invece si hanno 10 posizionamenti politico-ideologici possibili (numerati progressivamente da 1 a 10). Negli incroci tra righe e colonne, la “V” sta per “sì”, la “X” sta per “no”.
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Il furore di sfruttare e di accumulare
di Gianni Giovannelli e Turi Palidda
Il diavolo è un ottimista
se crede di poter peggiorare
gli uomini
Karl Kraus
Solo chi è prigioniero dell’ideologia dominante può accettare con felice soddisfazione l’odierna struttura dell’economia e dei rapporti sociali. Il sistema di comunicazione costruito dal liberismo contemporaneo ha trasformato la rappresentazione in realtà e il mondo sembra, nonostante tutto (come sussurrano prudentemente i più critici), un porto felice, o, quanto meno, l’unica vita possibile nel terzo millennio. La servitù volontaria, nata per contrastare il timore dell’esclusione e della miseria, rende ciechi, impedisce di vedere gli effetti di una quotidiana violenta prevaricazione che caratterizza il meccanismo di estrazione del valore. L’esame, nudo e crudo, dell’esistenza di gran parte delle persone che ci circondano dovrebbe invece rendere palese la verità: quella di un oggettivo accanimento, di uno sfruttamento crudele e senza freni inibitori, a volte perfino inspiegabile nella sua sostanziale irragionevolezza. Non a caso viene evocato il concetto di neoschiavitù per descrivere le insostenibili condizioni in cui si trovano i soggetti soggiogati dai funzionari del capitalismo ultraliberista.
Era prevedibile questo scenario, a ben pensarci. La concezione liberista della società tende ad esasperare ogni cosa, perfino le modalità dello sviluppo e l’idea del cosidetto progresso. L’esasperazione travolge davvero tutto: il libero arbitrio dell’imprenditore, del padrone e del sottopadrone, del caporale, e ancora omologa i comportamenti dei gendarmi, dei lobbisti, dei politici e delle banche.
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La “leva di Wallerstein”
di Daniele Burgio, Massimo Leoni, Roberto Sidoli
Il presente scritto è un estratto in anteprima del seguente libro in prossima pubblicazione online: Politica-struttura espressione concentrata dell’economia
Un’altra verifica e un ulteriore stress-test riguardo alla teoria della politica-struttura e del fatto che una sezione della sfera politica si rivela costantemente “espressione concentrata dell’economia” consiste nell’esperienza concreta e plurisecolare del capitalismo, la quale dimostra instancabilmente come proprio a fini economici e materiali di classe “il controllo del potere statale (o la sua conquista, quando era necessario) sia stato l’obiettivo strategico fondamentale di tutti i principali attori nella scena politica, lungo l’intero arco del capitalismo” (Wallerstein).
Perché dunque risulta così importante, anche nelle formazioni economico-sociali capitalistiche contemporanee, “occupare” e controllare i gangli fondamentali del potere politico e degli apparati statali?
Perché impossessandosi totalmente/parzialmente dei diversi organi dell’apparato statale, in modo più o meno completo i nuclei politici vittoriosi escludono gli antagonisti dall’accesso al potere direzionale, di controllo e repressivo delle loro formazioni statali, potendo pertanto decidere sugli affari comuni della società in un senso sfavorevole agli interessi politico-materiali dei propri avversari/antagonisti e dei loro mandanti sociali, garantendosi allo stesso tempo una favorevole riproduzione materiale della loro esistenza come soggetto politico e – soprattutto – producendo scelte di priorità almeno particolarmente a vantaggio dei loro più diretti referenti sociali.
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Nancy Fraser, “Il vecchio muore e il nuovo non può nascere”
di Alessandro Visalli
Il libricino raccoglie interventi rivolti a inquadrare la crisi in corso scritta tra il 2017 e 2019 della studiosa americana Nancy Fraser, molto nota per le sue posizioni critiche sul femminismo liberale[1] e il “neoliberismo progressista”[2]. Sembrerebbe, con particolare riferimento all’elezione a sorpresa di Donald Trump nel 2016, di essere alle prese con una crisi politica ma è piuttosto, a parere della Fraser, una crisi ‘globale’. Caratterizzata in ogni luogo dell’occidente dal “drammatico indebolimento, se non un vero e proprio crollo, dell’autorità delle classi politiche costituite e dei partiti”. Ma questa è solo la componente politica di una crisi che ha dimensioni economiche, ecologiche e sociali; tutti processi convergenti che finiscono per “disintegrare” l’ordine sociale neoliberale. Ovvero quell’ordine che si è costituito a partire dall’alleanza, reale e potente, tra due strani partner: le correnti liberali conservatrici tradizionali, espresse in America a partire dagli anni cinquanta nel lavoro continuo di alcuni influenti e ben finanziati centri culturali[3], e il contributo decisivo per la legittimazione sociale e politica della confluenza dei nuovi movimenti sociali (femministi, antirazzisti, del multiculturalismo, ambientalismo e diritti Lgbtq+). Questo “blocco egemonico” è quel che la Fraser chiama “neoliberismo progressista”. I due improbabili partner uniscono lo spirito libertario e individualista dei movimenti anti-autoritari, e quindi anche antistatalisti, degli anni sessanta, con tutto il loro variopinto colore, ai “settori più dinamici, lussuosamente simbolici e finanziari, dell’economia degli Stati Uniti (Wall Street, la Silicon Valley e Hollywood)”[4].
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L'uomo artificiale
di Il Pedante
Non passa giorno senza che ci si imbatta nell'annuncio di nuove e vieppiù audaci applicazioni dell'intelligenza artificiale: quella all'indicativo futuro che guiderà le automobili, diagnosticherà le malattie, gestirà i risparmi, scriverà libri, dirimerà contenziosi, dimostrerà teoremi irrisolti. Che farà di tutto e lo farà meglio, sicché chi ne scrive immagina tempi prossimi in cui l'uomo diventerà «obsoleto» e sarà progressivamente sostituito dalle macchine, fino a proclamare con dissimulato orgasmo l'avvento di un apocalittico «governo dei robot». Questo parlare di cose nuove non è però nuovo. La proiezione fantatecnica incanta il pubblico da circa due secoli, da quando cioè «la religione della tecnicità» ha fatto sì che «ogni progresso tecnico [apparisse alle masse dell'Occidente industrializzato] come un perfezionamento dell'essere umano stesso» (Carl Schmitt, Die Einheit der Welt) e, nell'ancorare questo perfezionamento a ciò che umano non è, gli ha conferito l'illusione di un moto inarrestabile e glorioso. Come tutte le religioni, anche quella della «tecnicità» produce a corollario dei «testi sacri» degli officianti-tecnici un controcanto apocrifo di leggende popolari in cui si trasfigurano le speranze e le paure dell'assemblea dei devoti. Delle leggende non serve indagare la plausibilità, ma il significato.
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Come leggere il pensiero, secondo le neuroscienze
di Federica Sgorbissa*
Lo stato dell’arte delle ricerche su decodifica del pensiero e telepatia
Nel 1995, in Strange days, Kathryn Bigelow immaginava un futuro in cui memorie e pensieri possono essere registrati, venduti e comprati come fossero dei video. Nel film uno stralunato Ralph Fiennes interpreta Lenny Nero, una sorta di “spacciatore di ricordi” che sviluppa una dipendenza dal suo stesso “prodotto”. Un racconto simile l’aveva girato qualche anno prima Wim Wenders in Fino alla fine del mondo, dove Henry, interpretato da Max Von Sydow, è uno scienziato che resta intrappolato nelle sue ricerche, vittima, al pari di Lenny, del consumo compulsivo dei sogni altrui. Curiosamente, entrambi i film sono ambientati alla fine del 1999, con una differenza sostanziale: Strange days si spinge un po’ più avanti nell’immaginazione tecnologica e così, mentre Henry si limita a vedere i sogni su uno schermo, come fossero film, Lenny non solo può archiviare le esperienze in una sorta di minidisc, ma rivive queste registrazioni direttamente nel proprio cervello grazie allo SQUID, una specie di Playstation per ricordi.
Nonostante la visionarietà di Bigelow e Wenders, il capodanno del 2000 è passato senza la nascita di nessuna tecnologia simile. A distanza di vent’anni, tuttavia, si stanno effettivamente ottenendo grandi avanzamenti nel campo della decodifica di sogni e pensieri e, almeno parzialmente, della trasmissione brain-to-brain. Fra gli scienziati più attivi e ottimisti c’è Moran Cerf, professore della Kellogg School of Management della Northwestern University, imprenditore high-tech e consulente scientifico di Hollywood (oltre che ex-hacker). “Con l’elettroencefalografia oggi si possono avere decodifiche anche molto precise, usando dispositivi indossabili e non invasivi”, dice Cerf a il Tascabile.
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Inasprire il vincolo esterno. Il Meccanismo europeo di stabilità e il mercato delle riforme
di Alessandro Somma
Un Superstato di polizia economica
Nel corso degli anni l’Europa unita è divenuta un catalizzatore di riforme che elevano il principio di concorrenza a paradigma dello stare insieme come società, e impediscono a principi alternativi di persistere o eventualmente di riemergere. I Paesi membri sono chiamati a tradurre le leggi del mercato in leggi dello Stato, riducendo così l’inclusione sociale a inclusione in un ordine incentrato sul libero incontro di domanda e offerta. Il tutto presidiato da uno “Stato forte e indipendente” cui attribuire compiti di “severa polizia del mercato”: come sintetizzato anni or sono da un padre del neoliberalismo[1].
Spicca tra questi compiti il contrasto delle concentrazioni di potere economico, ovvero l’isolamento dell’individuo di fronte al mercato, al fine di condannarlo a tenere i soli comportamenti che costituiscono reazioni automatiche agli stimoli della libera concorrenza. E lo stesso deve valere per gli Stati, che si devono rendere incapaci di operare in senso difforme rispetto a quanto corrisponde alle aspettative dei mercati. Anche per questo i Trattati europei codificano il “principio del non salvataggio finanziario”, per cui “l’Unione non risponde né si fa carico degli impegni assunti dalle amministrazioni statali, dagli enti regionali, locali, o altri enti pubblici, da altri organismi di diritto pubblico o da imprese pubbliche di qualsiasi Stato membro” (art. 125 Trattato sul funzionamento Ue).
Il divieto di bail out non costituisce un presidio contro l’indebitamento pubblico, o almeno questa non costituisce la sua principale ragion d’essere. Prevale infatti una diversa finalità: costringere gli Stati a reperire risorse presso i mercati, a cui si conferisce così la funzione di disciplinare i comportamenti degli Stati.
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Il Venezuela ha tre parlamenti
I media di guerra scelgono Guaidó (ovvero gli USA)
di Geraldina Colotti
Seguire i passi del nemico, analizzarne le strategie, serve per affinare le proprie, usando la capacità critica come l’imperialismo usa i suoi droni. Contrastare il racconto egemonico costruito dai media di guerra nei paesi capitalisti, è un’impresa titanica, almeno finché non interviene un nuovo ciclo di lotta che spazzi via la cortina di fumo e mostri un’altra visione del mondo. Tuttavia, si può (si deve) aprire qualche breccia, mostrare le insidie attraverso le quali s’insinua l’interpretazione dominante.
Ieri abbiamo seguito in diretta la seduta parlamentare che, in Venezuela, doveva rieleggere il presidente dell’Assemblea Nazionale, uno dei cinque poteri di cui dispone la costituzione bolivariana, tenuti in equilibrio dalla massima istanza giuridica, il Tribunal Supremo de Justicia (TSJ). In contatto costante con i colleghi sul posto, ne abbiamo seguito tutte le fasi, confrontando tre fonti: la prima, proveniente dalla più estrema all’estrema destra venezuelana, ovvero quella di Patricia Poleo, che conduce una trasmissione da Miami intitolata Agárrate. La seconda, fornita dai vari giornalisti e i video-maker presenti a Caracas, e la terza diffusa dalle agenzie stampa in Italia.
Quello di Poleo è un programma che, volendo essere più a destra della destra, accusa l’autoproclamato “presidente a interim Juan Guaidó” di essere stato troppo timido nell’ordire le sue trame contro il socialismo bolivariano. In questo modo, tra urla e proclami, tira fuori però tutte le magagne dell’opposizione venezuelana, golpista, affarista e, soprattutto, ladrona.
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Sull’esito delle elezioni in Gran Bretagna
RP. intervista Joseph Halevi
RP. Come prima cosa ti chiedo una considerazione generale della sconfitta del partito laburista clamorosa in termini di seggi. Tenendo conto che la vittoria dei conservatori era comunque data per scontata.
JH. Fino a qualche tempo fa, quando anche Boris Johnson si vedeva bocciare le sue iniziative del parlamento, mi sembrava fosse su una linea meno catastrofica di Teresa May, che stava veramente distruggendo il partito conservatore. La scelta di Johnson per riprendere in mano la politica dei conservatori è stata proprio quella di andare alle elezioni e come le ha gestite. Però secondo me queste sono cose superficiali.
Secondo me il problema fondamentale sono i laburisti, i quali sono entrati in una crisi che rischia di essere di non ritorno. Come, anche se in condizioni completamente diverse, i socialdemocratici tedeschi sono in una crisi di non ritorno: loro oggi sono al 15%, mentre erano un partito del 40%. In Gran Bretagna non c’è lo stesso tipo di situazione, con la medesima politicizzazione che c’è in Europa continentale, quindi la dinamica è diversa, però un partito che sta sul 30% diventa non agibile, diventa non spendibile perché non è un sistema pluralistico al livello politico. È un sistema che si basa su due partiti, che possono fare qualche alleanza qua e là, occasionalmente, però devono essere tutti e due in una situazione maggioritaria, dal punto di vista dei seggi (cioè essere sempre nella situazione di diventare maggioritario). Se uno dei due non ha la maggioranza dei seggi, può rimanere fuori per decenni. Come è accaduto ai laburisti negli anni trenta con la spaccatura introdotta da MacDonald e sono stati fuori fino al 1945; quando, sostanzialmente, è stata la guerra a fargli vincere le elezioni. Perché, anche se la guerra l’ha condotta Churchill, era cambiata l’idea presso la classe lavoratrice inglese che con la vittoria il mondo sarebbe stato diverso per ciò che li riguardava, i diritti, ecc.
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Dallo Stato-imprenditore allo Stato-stratega
Dibattito sull’Iri
di Andrea Muratore
Nelle ultime settimane la crisi industriale dell’Ilva, con la problematica partita apertasi tra il governo e Arcelor-Mittal, unitamente al nuovo rinfocolamento del caso-Alitalia ha riportato in auge il tema dello “stato-imprenditore”, del coinvolgimento pubblico nell’economia funzionale allo svolgimento della politica industriale, e la parola “Iri” è ritornata prepotentemente nel dibattito.
Il modello di riferimento, nel dibattito italiano, non ha potuto che essere l’Istituto di Ricostruzione Industriale (Iri), il conglomerato fondato nel 1933 per iniziativa di Alberto Beneduce e divenuto nel secondo dopoguerra il principale braccio operativo del sistema di economia mista che ha guidato la rinascita del Paese. L’Iri, fino alla crisi conclusiva della Prima Repubblica che segnò l’inizio della sua messa in liquidazione (terminata nel 2002), ampliò gradualmente il suo perimetro sino a risultare protagonista nei principali gangli strategici del sistema Paese: dal ramo bancario (azionista in Banco di Roma, Credito Italiano e Banca Commerciale Italiana) alla siderurgia (Finsider, l’antenato dell’Ilva), passando per le telecomunicazioni (Stet), la cantieristica e la difesa (Fincantieri e Finmeccanica) e i trasporti (controllando Alitalia e le autostrade). Nel 1993, quando il governo Ciampi iniziò la sua graduale privatizzazione, l’Iri era il settimo conglomerato al mondo per dimensione, potendo contare su un fatturato superiore ai 67 miliardi di dollari.
L’Iri è stato citato esplicitamente dal Ministro dello Sviluppo Economico Stefano Patuanelli (Movimento Cinque Stelle) che ha affermato esplicitamente di non essere contrario al “ritorno” al sistema di gestione statale, nel contesto di una forte critica alle modalità di privatizzazione delle proprietà dell’ente.
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Rompere lo specchio neoliberista
Bjarke Skærlund Risager intervista David Harvey
Nel 2005 usciva Breve storia del neoliberismo di David Harvey, saggio ancora oggi tra i più citati sull’argomento. Da allora sono esplose diverse crisi economiche e finanziarie, ma anche nuove ondate di resistenza che spesso hanno fatto proprio del neoliberismo il loro bersaglio critico.
Ma di cosa parliamo esattamente quando parliamo di neoliberismo? Si tratta di un concetto utile per la sinistra? E come si è evoluto dal momento della sua genesi alla fine del ventesimo secolo? Bjarke Skærlund Risager ha affrontato questi temi con David Harvey.
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Neoliberismo è un termine molto in voga, ma spesso non è chiaro a cosa faccia riferimento esattamente. Cercando di darne una definizione più sistematica potremmo dire che si riferisce a una teoria, a un insieme di idee, a una strategia politica oppure a un periodo storico. Potresti spiegarci, per cominciare, cosa intendi per neoliberismo?
Ho sempre concepito il neoliberismo come quel progetto politico portato avanti tra la fine degli anni Sessanta e tutti gli anni Settanta da una classe capitalista che si sentiva messa all’angolo sia dal punto di vista politico che economico e ha operato un tentativo disperato di fermare l’ascesa della classe lavoratrice al potere.
Si è trattato quindi di un progetto controrivoluzionario sotto molti aspetti, che servito a stroncare sul nascere i movimenti rivoluzionari dei paesi in via di sviluppo dell’epoca (Mozambico, Angola, Cina, ecc.) ma anche a contrastare la crescita del consenso per i movimenti comunisti in paesi come l’Italia, la Francia e, in misura minore, la Spagna.
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Piazza Fontana e la psicologia delle masse
di Enzo Pellegrin
Riceviamo e pubblichiamo
Nell’anniversario del tragico 12 dicembre 1969, mi è capitata sott’occhi un’intervista allo Storico Miguel Gotor, titolata “Non chiamiamola strage di Stato” (1). Come spesso avviene, il titolo ingigantisce le parole dell’intervistato anche oltre il lecito, ma è significativo un passo dell’intervista dell’autore sul punto:
“La Strage di Stato è stato il titolo di un libro che ebbe molto successo all’epoca. Cosa pensa di questo concetto?
Fu un’espressione efficace sul piano politico, propagandistico e militante allora, ma oggi, dal punto di vista storico, la trovo insufficiente e persino ambigua. In primo luogo perché deresponsabilizza i neofascisti che ormai lo usano anche loro in questo senso. Se è stato lo Stato, nessuno è stato. Per capire, invece, bisogna anzitutto fare lo sforzo di distinguere. E poi perché, se è ormai accertato sul piano giudiziario e storico che nei depistaggi furono coinvolti esponenti degli apparati, dei servizi segreti e dell’ “Alta polizia” sopravvissuti al fascismo, vi furono anche magistrati come Pietro Calogero e Giancarlo Stiz o agenti come Pasquale Juliano che imboccarono da subito la strada della pista nera, con coraggio e andando controcorrente. Non erano anche loro esponenti dello Stato? Nella notte della Repubblica, nonostante il fango deliberatamente sollevato, il faro della giustizia e della ricerca della verità rimase acceso e non è giusto dimenticare l’impegno personale e professionale di quegli uomini con formule genericamente autoassolutorie.” (2)
Gotor si scaglia anche contro il concetto di “manovalanza neofascista” della strage. Partendo dal materiale processuale, che più di ogni cosa ha provato il coinvolgimento della “pista nera”, lo storico afferma che, ritenere i neofascisti dei puri esecutori, rischia di attenuare il loro ruolo militante nell’attacco alla democrazia.
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Il ritorno del capitalismo in Russia
di Fabrizio Poggi
L’atteggiamento di molta pubblicistica di sinistra nei confronti della Russia odierna si divide in due grandi filoni. Da un lato, una perenne venerazione di tutto quanto promani da Mosca, ignorando persino le critiche rivolte al Cremlino anche dai comunisti del KPRF, di cui, pure, spesso ci si fa portavoce. Dall’altro, il completo silenzio su qualsiasi manifestazione dell’opposizione che non sia quella liberal-borghese o confessionale, come se altra non ne esistesse.
Non ci è capitato di leggere nulla, ad esempio, sui duecento dipendenti licenziati dai supermarket SPAR e SemJA di Pietroburgo, caricati il 30 dicembre dalla polizia mentre stavano picchettando gli uffici di Intertorg, chiedendo il pagamento di 10 milioni di rubli di salari arretrati. I lavoratori erano dipendenti di un’agenzia interinale, “scomparsa”; così, i funzionari di Intertorg, ritenendosi estranei alla cosa, hanno chiamato i reparti speciali della milizia per disperdere i manifestanti.
Lo stesso giorno, a Mosca, una cinquantina di custodi addetti a manutenzione e pulizia dei caseggiati del rione “Lomonosov” avevano chiesto un incontro col direttore dell’impresa semi-pubblica di gestione, per lamentare l’organico ridotto alla metà, il non esser ammessi al convitto (sono tutti migranti da altre Repubbliche dell’ex URSS, con salari dai 20 ai 27mila rubli: 3-400 euro) anche in caso di malattia, se non dopo le 18, mancata fornitura di tenute invernali e di materiali per le riparazioni. Il direttore li sbatte fuori dell’ufficio e loro cominciano la protesta in strada. Risultato: tutti alla stazione di polizia e in tribunale; il rischio è condanna e espulsione dalla Russia.
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