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marx xxi

La “leva di Wallerstein”

di Daniele Burgio, Massimo Leoni, Roberto Sidoli

Il presente scritto è un estratto in anteprima del seguente libro in prossima pubblicazione online: Politica-struttura espressione concentrata dell’economia

marx engels berlinUn’altra verifica e un ulteriore stress-test riguardo alla teoria della politica-struttura e del fatto che una sezione della sfera politica si rivela costantemente “espressione concentrata dell’economia” consiste nell’esperienza concreta e plurisecolare del capitalismo, la quale dimostra instancabilmente come proprio a fini economici e materiali di classe “il controllo del potere statale (o la sua conquista, quando era necessario) sia stato l’obiettivo strategico fondamentale di tutti i principali attori nella scena politica, lungo l’intero arco del capitalismo” (Wallerstein).

Perché dunque risulta così importante, anche nelle formazioni economico-sociali capitalistiche contemporanee, “occupare” e controllare i gangli fondamentali del potere politico e degli apparati statali?

Perché impossessandosi totalmente/parzialmente dei diversi organi dell’apparato statale, in modo più o meno completo i nuclei politici vittoriosi escludono gli antagonisti dall’accesso al potere direzionale, di controllo e repressivo delle loro formazioni statali, potendo pertanto decidere sugli affari comuni della società in un senso sfavorevole agli interessi politico-materiali dei propri avversari/antagonisti e dei loro mandanti sociali, garantendosi allo stesso tempo una favorevole riproduzione materiale della loro esistenza come soggetto politico e – soprattutto – producendo scelte di priorità almeno particolarmente a vantaggio dei loro più diretti referenti sociali.

Una prima conferma “in negativo” della sovraesposta “teoria dell’occupazione” viene dall’esperienza plurimillenaria vissuta dall’élite economica del popolo ebraico e in particolare dalla sua profonda e costante vulnerabilità, in assenza forzata fino al 1947 di un suo controllo (almeno parziale) sui centri decisivi del potere politico e degli apparati statali delle nazioni nelle quali operava.

«In diversi periodi, nell’antichità, nei secoli bui e nell’Alto Medioevo, nel XVI secolo, gli ebrei avevano avuto commercianti e imprenditori brillanti, spesso di grande successo, ma il potere economico ebraico era estremamente vulnerabile, con ben scarsa tutela sul piano legale. Sia nella cristianità sia nell’islam i patrimoni degli ebrei erano esposti a sequestro arbitrario da un momento all’altro. Si potrebbe dire che l’assalto nazista alle attività ebraiche, tra il 1933 ed il 1939, o le confische di proprietà ebraiche da parte degli stati arabi negli anni 1948-50, sono stati soltanto gli ultimi più radicali di questi attacchi economici contro gli ebrei.»

Il filosionista P. Johnson, ostile ai sacrosanti diritti del popolo palestinese, almeno ha intuito quasi per caso la reale importanza (economica) del controllo diretto-indiretto degli apparati statali per ogni classe e frazione di classe sfruttatrice: ma anche nella nostra epoca post-moderna vi sono innumerevoli segnali in questa direzione, a partire dalla vittoria nelle elezioni presidenziali statunitensi del 2000 e del 2004 del repubblicano G. W. Bush.

Anche se la differenza reale tra i programmi di quest’ultimo e quelli dei democratici A. Gore e Kerry era inesistente su nodi politici centrali, quali la difesa a oltranza del sistema capitalistico americano o la priorità assoluta attribuita da tutti gli interessati alle esigenze planetarie dell’imperialismo statunitense, il successo riportato dal rampollo della dinastia Bush sui suoi rivali ha consentito per una certa fase la quasi completa affermazione della sfera dei bisogni e dell’opzione politico-materiale di alcune frazioni del monopolio statunitense operanti nel settore energetico e degli armamenti, tanto da consentire allo scrittore statunitense G. Vidal di affermare che “l’ex presidente Bush Senior rappresenta il Carlyle Group: petrolio. L’attuale presidente, George W. Bush, rappresenta la Harken Oil, che ha legami con l’Arabia Saudita. La bellissima Condoleeza Rice è stata per dieci anni una dirigente della Chevron: petrolio. Il ministro della Difesa Rumsfield, Occidental Oil: petrolio. Questi sono i grandi rappresentanti del governo” (Manifesto, dicembre 2002).

Detto in altri termini, tra il 2001 ed il 2008 i mandatari politici delle grandi multinazionali petrolifere e del complesso militare-industriale del paese hanno occupato le posizioni centrali della stanza dei bottoni di Washington, spostando con più decisione che in passato il baricentro politico dell’imperialismo USA a sostegno di posizioni iperaggressive rispetto ad aree “calde” ed importanti del pianeta quali l’Asia centrale, il Golfo Persico e l’Europa orientale, dando vita ed alimento alle guerre scatenate contro l’Afghanistan e l’Iraq nel periodo compreso tra il 2001 e il 2003 ed ottenendo dal loro successo politico enormi dividendi materiali per i loro diretti mandanti sociali: ad esempio la Lockeed Martin ha visto aumentare le sue vendite di armi al Pentagono più del 30% nel periodo compreso tra il 2001 ed il 2004.

In modo sostanzialmente corretto Norman Birnbaum, docente all’Università di Georgetown di Washington, ha focalizzato l’attenzione sul cardine centrale dell’ideologia e della pratica politica di G. W. Bush e del suo clan, in cui la distinzione tra politica ed affari sostanzialmente svanisce, anche sotto l’aspetto formale e propagandistico.

«I democratici ridono del suo nepotismo, l’accusano di considerare la politica un business. Ma, in realtà, il giovane Bush ha capito un aspetto fondamentale del capitalismo: la sottomissione della sfera pubblica al mercato. I suoi soci in affari, esattamente come suo padre, sono presenti nel commercio delle armi, nei servizi finanziari, della petrolchimica e dell’alta tecnologia. E i loro rappresentanti sono stati quindi piazzati alla testa delle istituzioni e dei dipartimenti federali».

Bush padre, Bush figlio, Silvio Berlusconi e Donald Trump costituiscono del resto quattro esempi concretissimi e ipermoderni di controllo e occupazione, diretta e plateale, del potere politico da parte di grandi miliardari e di sezioni, più o meno consistenti, dell’alta borghesia occidentale legate e connesse al quartetto in oggetto, il quale ha compreso perfettamente il ruolo giocato dalla “leva di Wallerstein”.

L’importanza di avere propri uomini e propri amici, ben “piazzati” nei gangli centrali degli apparati statali, risulta del resto perfettamente conosciuta dalla borghesia e si è manifestata chiaramente anche nei frequenti scontri creatisi tra i monopoli della stessa nazione o di diversa provenienza statale, lotte che hanno spesso segnato nell’ultimo secolo i processi economici all’interno delle metropoli del capitalismo di stato post-moderno e contemporaneo. Quando l’economista S. Cingolani ha analizzato minuziosamente le “guerre dei mercati” e le alleanze che hanno contraddistinto la storia delle multinazionali mondiali del settore dell’auto, dell’elettronica, delle finanze e dell’energia, dell’aviazione e dell’alimentazione a partire dall’inizio della seconda guerra mondiale e fino al 2000, sintetizzando i risultati complessivi del suo lavoro lo studioso italiano ha espresso un’interessante valutazione sul ruolo determinante giocato dalla sfera politica nelle guerre di mercato, con particolare riferimento al ventennio 1980-2000.

«Nel ventennio in cui lo stato ha mollato il ruolo di produttore di ricchezza, ha ridimensionato la sua funzione redistributrice (soprattutto di fronte all’esplodere dei mercati finanziari), ma molto spesso ha rinunciato anche a scendere in campo come arbitro, si sono verificate pesanti intromissioni dei governi nelle guerre di mercato per sostenere imprese (è avvenuto nella battaglia Boeing-Airbus) o interessi di gruppi organizzati (come i contadini in Europa e i produttori di auto negli Stati Uniti), operare salvataggi non tutti economicamente giustificati (l’acciaio in Europa, la Chrysler e le casse di risparmio negli USA). In modo diretto e indiretto il potere politico è sempre rimasto attivo, come abbiamo visto. Persino la Coca-Cola deve il suo primato al sostegno ottenuto dell’esercito americano durante la seconda guerra mondiale. Il dibattito sul ruolo del pubblico contrapposto al privato, dunque, dovrebbe tenere presente molto di più il concreto svolgimento del conflitto concorrenziale».

Il ruolo del settore pubblico ha esercitato un enorme peso sia nel caso politico-giudiziario che ha coinvolto la Microsoft di Bill Gates nel 1997-2001 che nel processo di sostegno finanziario statale costantemente offerto, per decenni, al monopolio torinese della FIAT, passando negli ultimi decenni dalla vendita-regalo dell’Alfa Romeo fino agli aiuti economici forniti dai governi Prodi e Berlusconi alla famiglia Agnelli per “contrastare la concorrenza internazionale”: gli esempi si potrebbero facilmente moltiplicare proprio partendo dall’area italiana, visto che un certo Silvio Berlusconi è sicuramente a conoscenza da molti decenni del ruolo decisivo svolto dalla sfera politico-sociale nell’assicurare il successo/insuccesso economico di certi capitalisti, di determinati monopoli e di particolari tendenze politico-sociali della borghesia monopolistica, rispetto ai loro concorrenti economici ed avversari politici.

Un’ulteriore massa di prove empiriche a sostegno dell’importanza assunta ancora oggi, proprio nell’era post-moderna, dai processi di occupazione – totale/parziale – degli apparati statali e della sfera politica da parte delle diverse frazioni che compongono l’insieme dei gruppi sociali privilegiati proviene dalle concrete esperienze moderne e post moderne vissute da tutte quelle potenti “minoranze economicamente dominanti” nei loro stati di appartenenza, abitati in larga maggioranza da popolazioni di etnia/religione/lingua diversa dalla loro, le quali risultano di regola particolarmente vulnerabili ad attacchi politico-economici da parte dei loro concittadini, ivi comprese le lobby economiche più ricche e potenti di questi ultimi.

La studiosa americana Amy Choua ha notato correttamente che, tra il 1945 ed il 2002, «in tutti i paesi del Sud e del Sud-Est asiatico, dell’Africa, dei Caraibi e delle Indie occidentali, in quasi tutta l’America Latina e in alcune zone dell’Europa orientale e della ex Unione Sovietica, il libero mercato ha determinato una rapida accumulazione di ricchezze, tanto consistenti da risultare spesso sconvolgenti, nelle mani di una minoranza etnica “estranea” o “alloctona”»: secondo Choua tali minoranze dominanti sul piano economico si distinguono sia «per le loro origini, per il colore della pelle, per la religione, per la lingua o per legami di sangue dalle masse impoverite o dalle altre sezioni dei ceti benestanti che li circondano e che li considerano appartenenti a una diversa etnia o a un gruppo differente», che per il loro interesse vitale al mantenimento/acquisizione di un grado sufficiente di controllo sulla sfera politica e gli apparati statali.

Sempre secondo la studiosa «il dato di fondo è questo: la democrazia» (di matrice occidentale e liberal parlamentare) «può risultare avversa agli interessi delle minoranze economicamente dominanti. Gli indiani del Kenya e i bianchi del Sudafrica, dello Zimbabwe e degli Stati Uniti del Sud che per generazioni hanno opposto resistenza alla democratizzazione avevano ottime ragioni per farlo: le minoranze economicamente dominanti non aspirano mai alla democrazia, almeno non quando rischiano che il loro destino sia deciso da un vero governo di maggioranza.

Alcuni lettori solleveranno di certo molte obiezioni. Spesso sembra che diverse minoranze economicamente dominanti – i cinesi in Malaysia, tanto per fare un esempio, o gli ebrei in Russia e gli statunitensi in tutto il mondo – rappresentino i più accesi fautori della democrazia. Ma il concetto di “democrazia” è notoriamente controverso, e il suo significato varia secondo l’uso.

Quando una minoranza imprenditoriale ma politicamente vulnerabile, come i cinesi del Sud-Est asiatico, gli indiani dell’Africa orientale o gli ebrei russi, auspica la democrazia, quello che ha in mente è un sistema costituzionale di garanzia dei diritti umani e di tutela della proprietà delle minoranze. In altri termini, quando questi gruppi “estranei” rivendicano la democrazia, richiedono una protezione dalla “tirannia della maggioranza”.»

In altre parole, tali “gruppi estranei” richiedono almeno un controllo parziale sulla politica economica degli stati in cui operano, ed un’occupazione parziale del potere politico.

«In modo analogo, quando le élite di sangue europeo della Bolivia, dell’Ecuador o del Venezuela parlano di democratizzazione, fanno invariabilmente riferimento allo “Stato di diritto”. Ciò che di sicuro queste élite non vogliono dalla democrazia è che il diritto di proprietà e la politica economica finiscano improvvisamente nelle mani della maggioranza di sangue indio del paese, impoverita e scarsamente istruita. (Ne siano testimonianza l’orrore provato dall’élite venezuelana quando il leader populista Hugo Chavez è asceso al potere e i conseguenti tentativi di spodestarlo)».

Tirando le conclusioni, ha acquisito un valore generale per tutte le società classiste (asiatiche, schiavistiche, ecc.) la tesi espressa dallo storico I. Wallerstein in riferimento al rapporto continuamente riprodottosi, negli ultimi secoli, tra potere politico ed interessi di classe/frazioni di classe della borghesia.

«In che modo la gente, i gruppi di persone hanno condotto le loro politiche nel capitalismo storico? La politica consiste nel cambiare i rapporti di potere in una direzione più favorevole agli interessi di qualcuno, e nel riorientare per conseguenza i processi sociali. Perseguirla con successo vuole dire trovare leve per il cambiamento che consentano il massimo vantaggio con il minimo sforzo… Non è un caso, perciò, che il controllo del potere statale (o la sua conquista, quando era necessario) sia stato l’obiettivo strategico fondamentale di tutti i principali attori nella scena politica, lungo l’intero arco del capitalismo moderno».

“Controllo del potere statale” come “obiettivo strategico”, per “conseguire il massimo vantaggio” (economico, materiale) con “il minimo sforzo”: la “leva di Wallerstein” illumina la profonda matrice e il pesante ruolo socioproduttivo svolto dalla sfera politica borghese nell’ultimo millennio.


Bibliografia
I. Wallerstein, “Il capitalismo storico”, p. 34
P. Johnson, “Storia degli ebrei”, p. 314, ed. TEA
P. Phillips e Project Censored, “Censura 2007″, p. 339, ed. Nuovi Mondi Media
N. Birnbaum, “Le Monde Diplomatique”, ottobre 2002
S. Cingolani, “Guerre di mercato”, p. 461, ed. Laterza e W. Reymond, “Coca-Cola. L’inchiesta proibita”, p. 296, ed. Anteprima
Amy Chua, “L’età dell’odio”, pp. 31/285, ed. Carocci
I. Wallerstein, “Il capitalismo storico”, p. 34, ed. Einaudi

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Daniele Burgio
Thursday, 06 February 2020 11:37
Per favorire il dibattito e il processo di chiarificazione a livello teorico, pubblico altre sezioni del nuovo libro intitolato “Politica-struttura, espressione concentrata dell’economia”.



Giappone: l’accumulazione originaria, la grande privatizzazione e Zaybatsu

Nel Giappone del primo periodo Meiji, dal 1868 al 1890, i nuclei dei dirigenti politici e gli apparati statali nipponici produssero prima un gigantesco processo di industrializzazione statale, e subito dopo innescarono un altrettanto gigantesca dinamica di svendita e di privatizzazione propria dei mezzi di produzione creati attraverso le risorse pubbliche.
Se in Gran Bretagna la rivoluzione industriale era stata infatti avviata dalle imprese private, invece in Giappone fu essenzialmente la progettazione-praxis dei governi che, dal 1868 per circa quindici anni, innescò nella società nipponica l’accumulazione originaria e “modernizzò il sistema produttivo, investì capitali nelle infrastrutture, nei servizi, nell’educazione, nei trasporti, nelle comunicazioni…
Il governo capì che alcune delle industrie essenziali (ferro, cemento, tessili, miniere, navi, armamenti) non potevano essere supportate dai privati, che non avrebbero rischiato i loro capitali per gli scarsi profitti iniziali, quindi fu proprio il governo a finanziare gli inizi di queste industrie. Fu così che il Giappone si impegnò in grandi iniziative, non esenti da crisi (1880), ma gli imprenditori risposero quando lo Stato decise di privatizzare le industrie e i servizi. I compratori furono uomini, spesso collegati al governo, che seppero riconoscere i vantaggi di investimenti a lungo termine. Le imprese non furono subito redditizie, ma quando cominciarono a dare profitti fu soltanto un piccolo gruppo di persone ad avere il controllo del mondo economico e finanziario del paese.
Si formarono così le zaibatsu, combinazione di forti gruppi economici e finanziari. La Mitsui e la Mitsubishi, per citare le più importanti, seppero approfittare delle nuove opportunità offerte dal governo…”.
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Daniele Burgio
Wednesday, 05 February 2020 08:28
Per favorire il dibattito e il processo di chiarificazione a livello teorico, pubblico altre sezioni del nuovo libro intitolato “Politica-struttura, espressione concentrata dell’economia”.


Condizioni materiali della produzione e politica-struttura

Cosa sarebbe rimasto del segmento più avanzato nel processo di produzione agricolo, partendo dagli Ubaid collettivistici del 4500 a.C. e dal modo di produzione asiatico dei Sumeri del 3700 a.C., senza controllo delle acque e dighe, senza opere di irrigazione e drenaggio? Controllo delle acque e irrigazione nelle quali la politica, intesa come espressione concentrata dell’economia, giocò in passato e svolge tuttora un ruolo socioproduttivo come minimo importante, e molto spesso decisivo.
Senza i porti, a loro volta sempre diretta emanazione della sfera politica, sarebbe stato forse pensabile il traffico marittimo di prodotti su vasta scala, dai Sumeri per giungere alle ipermoderne megastrutture portuali di New York e Amsterdam?
E le ferrovie, a partire dal 1860 in poi, a che livello sarebbero rimaste senza l’intervento materiale dei diversi apparati statali e del potere politico, visto la grande quantità di “mezzi di produzione e mezzi di sussistenza” (Marx, Capitale, libro secondo, cap. sedicesimo, par. terzo) che costa il loro processo di creazione e manutenzione?
Un discorso analogo può essere effettuato anche per i “ponti e tunnel”: e cioè per altre condizioni materiali della produzione citate espressamente da Marx nel decimo capitolo del libro del Capitale (“ferrovie, ponti, tunnel, ecc.”), oltre che strutture connesse quasi sempre con l’azione della sfera politica.
Considerazioni molto simili valgono anche per i moderni aeroporti, strade e autostrade, satelliti e mezzi di telecomunicazione: in pratica l’intero comparto della logistica ipermoderna risulta quasi impensabile senza la presenza indispensabile della praxis materiale e socioproduttiva del potere politico, nella sua ampia sezione avente per oggetto “l’espressione concentrata dell’economia”.
A proposito di porti, logistica, infrastrutture e container lo studioso Moritz Altenried ha riportato “un'interessante osservazione di Thomas Reifer, secondo la quale oggi Marx comincerebbe Il Capitale sottolineando come la ricchezza delle nazioni contemporanee appaia sempre più come un'immensa collezione di container (Reifer, 2007). Anche se si può obiettare che un container ed una merce fanno parte di due categorie concettuali diverse, questa affermazione provocatoria è molto rivelatrice in quanto evidenzia l'importanza della logistica non solo in quanto industria ma in quanto prospettiva per comprendere il capitalismo contemporaneo.
Di conseguenza, propongo di differenziare tre significati del termine "logistica". In primo luogo, la logistica è un settore industriale o di mercato specializzato nello spostamento di cose che è cresciuta in importanza e che costituisce in quanto tale un oggetto di ricerca affascinante. In secondo luogo, la logistica è diventata in qualche modo una logica - o un dispositivo in senso foucaltiano - che è andata oltre il suo settore in senso stretto e che fonda il capitalismo contemporaneo. Per cui, quest'ultimo può essere compreso come un capitalismo di "catena di distribuzione", per riprendere l'espressione di Anna Tsing (Tsing, 2009). Se ciò è vero, allora la logistica, in terzo luogo, diviene una prospettiva di ricerca. Intendo difendere l'idea che la logistica può servire come una sorta di prisma che ci aiuta a comprendere in maniera critica la trasformazione in corso nel capitalismo globale. Questo senza tuttavia affermare che essa costituisca - o dovrebbe costituire - l'unica prospettiva possibile.
Ai fini del presente articolo, intendo mobilitare questa prospettiva basandomi su due tecnologie che hanno drasticamente cambiato sia la logistica che, come ho premesso, il capitalismo globale: il container e l'algoritmo.
Gli sviluppi della logistica o del trasporto dopo la seconda guerra mondiale sono stati spesso denominati "rivoluzione logistica", "la rivoluzione più sotto-studiata del XX secolo", come sostiene Deborah Cowen (Cowen, 2014, p.33). L'espressione "rivoluzione logistica" vuole descrivere il modo in cui il settore è drammaticamente cambiato dopo la seconda guerra mondiale, diventando a tutti gli effetti il centro di un nuovo regime di accumulazione globalizzata.
Ci sono molti modi di raccontare la storia della rivoluzione logistica - per esempio, a partire dal modo in cui il pensiero manageriale, concentrato soprattutto sulla produzione, abbia evoluto verso la gestione di tutta la catena di approvvigionamento, ivi incluso la progettazione ed il controllo, il trasporto e lo stoccaggio, le vendite, la riprogettazione ed il nuovo comando, oppure illustrando il modo in cui la logistica si è allo stesso tempo trasformata in una disciplina accademica. Ma ora vorrei concentrarmi su un oggetto tecnologico che incarna forse meglio di ogni altro l'avvento della logistica moderna: il container.
L'attuale sistema di container ha le sue origini negli Stati Uniti. Nell'ottobre del 1957, il primo porta-container salpa dal porto di Newark, New Jersey, diretto a sud di Miami, carico di grosse scatole d'acciaio standardizzate ai fini del trasporto intermodale e sviluppate da due imprenditori logistici, Malcom Mc Lean e Roy Fruehauf. Era da più di cent'anni che esistevano dei sistemi di contenitori e che venivano fatti dei tentativi di standardizzazione, ma fu il sistema di Mc Lean e Fruehauf che mise radici, se non altro in ragione del fatto che venne adottato dall'esercito americano al fine di rispondere alle necessità logistiche della guerra del Vietnam. Il loro modello di contenitore si riduceva ad una scatola di acciaio impilabile che poteva essere trasferita, per mezzo di speciali gru, dai treni o dai camion sulle navi. Questa scatola diede però inizio ad un cambiamento spettacolare: permise non solo di economizzare molto tempo e molto spazio, richiesti per caricare e scaricare in ciascun porto, ma consentì anche di fare a meno di un enorme numero di lavoratori portuali. In tutto il mondo, i sindacati tentarono di opporsi a questo processo; nel 1980, il Sindacato internazionale degli scaricatori difese davanti alla Corte Suprema ciò che considerava come un suo diritto: scaricare merci sulle banchine. Naturalmente, non ci riuscì.
Oggi, la circolazione globale delle merci si basa sul container marittimo standardizzato. Il 90% delle merci d'esportazione circola in container. L'unità standard è l'EVP (equivalente a 6,096 metri). Wal-Mart importa circa 700mila EVP ogni anno, ovvero, detto in altri termini, circa 30mila tonnellate al giorno (Bonacich & Wilson, 2008, p. 25). Un grande porto come Amburgo o Rotterdam gestisce ogni giorno più di 25mila di questi container.
Quest'industria genera degli enormi profitti, ad esempio un porto come Amburgo nel 2014 ha prodotto un valore aggiunto lordo di 20miliardi di euro. L'impresa di contenitori danese Maersk rappresenta da sola circa il 20% del PIL della Danimarca. Maersk opera con più di 600 navi per una capacità totale di 2,6 milioni di EVP, e dispone di uffici in più di 100 paesi utilizzando un numero enorme di dipendenti. Malgrado il suo statuto di gigantesca impresa multinazionale, rimane sconosciuta, come lo sono molte delle imprese logistiche. Nonostante il fatto che coprano numerosi spazi, le operazioni e le infrastrutture logistiche sono molto raramente note alla maggior parte delle persone (anche se una volta che si conosce il nome Maersk, allora ci si accorge che i suoi container sono dappertutto). La logistica può quindi essere considerata, prendendo in prestito un concetto di Nigel Thrift (Thrift, 2005, p. 213), come una parte dello "inconscio politico" del capitalismo globale”.
Ancora una volta emerge come sfera politica ed economica vadano in tandem e abbiano un particolare rapporto di simbiosi tra loro, non privo di tensioni e contraddizioni.
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Daniele Burgio
Tuesday, 04 February 2020 19:39
Per favorire il dibattito e il processo di chiarificazione a livello teorico, pubblico altre sezioni del nuovo libro intitolato “Politica-struttura, espressione concentrata dell’economia”.


Le privatizzazioni, dalle enclosures fino a Hitler e alla Thatcher

I variegati e multiformi processi di privatizzazione di mezzi di produzione, beni e risorse pubbliche vanno considerati anche come una forma particolare di politica economica e di politica-struttura, tra l’altro molto usata all’interno del mondo occidentale durante gli ultimi decenni, anche se la primogenitura durante il Ventesimo secolo va attribuita al genocida regime nazista.
Un saggio dello storico Germà Bel intitolato “Contro le interpretazioni correnti: le privatizzazioni dei nazionalsocialisti nella Germania degli anni Trenta” risulta particolarmente interessante in questa materia, perché al suo interno si raffrontano i provvedimenti e le misure politiche hitleriane di privatizzazione “di aziende ed imprese, già nazionalizzate durante la Repubblica di Weimar o dai governi ancora precedenti, messe in atto dal Partito Nazionalsocialista tra il 1934 e il 1938 con le privatizzazioni operate nell’ambito della comunità europea tra il 1997 e il 2000.
Mentre gran parte degli studi successivi sembra aver sottolineato la centralizzazione economica messa in atto dallo stato tedesco tra l’ascesa di Hitler e la sua caduta, il saggio di Bel riporta significativamente alla luce il fatto che quasi tutti i settori dell’economia nazionale furono interessati da tali privatizzazioni. Ferrovie, industrie dell’acciaio, miniere, banche, cantieri navali, linee di navigazione, trasporti e servizi locali o correlati al lavoro e anche i servizi sociali furono tutti interessati dalle politiche di privatizzazione.
Le privatizzazioni se da un lato costituirono una fonte importante di entrate per il Tesoro tedesco e contemporaneamente una forma di alleggerimento fiscale per lo stesso, dall’altro furono indirizzate nello specifico a favorire industriali e gruppi finanziari che avevano sostenuto il partito nazionalsocialista già da prima della sua salita al potere. Tra questi Fritz Thyssen, che manteneva una posizione di leader nel trust delle Acciaierie Unite e la cui posizione all’interno del trust fu notevolmente rafforzata dalla loro riorganizzazione finanziaria che, immediatamente dopo la presa del potere da parte di Hitler, vide la quota di proprietà del governo scendere dal 52% al 25%, quota che, secondo la legislazione tedesca, non era più sufficiente a garantire al governo alcuna priorità sul controllo della società”.
Ma neanche Hitler risulta il patriarca dei privatizzatori occidentali delle risorse pubbliche, visto che fu in Inghilterra a partire dal 1480 che iniziò il famigerato processo delle enclosures, ossia la recinzione e l’espropriazione delle terre comuni dei villaggi contadini da parte dei grandi latifondisti appoggiati dal potere regio” (Marx) e dagli apparati statali: dinamica plurisecolare descritta e denunciata con forza proprio da Karl Marx, nello splendido ventiquattresimo capitolo del primo libro del Capitale. (K. Marx, “Il Capitale”, libro primo, cap. 24, par. 2).
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Daniele Burgio
Sunday, 02 February 2020 09:17
Per favorire il dibattito e il processo di chiarificazione a livello teorico, pubblico altre sezioni del nuovo libro intitolato “Politica-struttura, espressione concentrata dell’economia”.


Moneta e apparati statali

A differenza del denaro, la moneta intesa come valuta costituisce un mezzo di pagamento in ultima analisi emesso dallo stato, oltre che garantito dagli apparati pubblici come valido denaro circolante di fronte ai suoi effettivi possessori materiali: dunque essa rappresenta un plurimillenario e diffusissimo strumento di natura politica ed economica allo stesso tempo, vera e propria politica considerata come “espressione concentrata dell’economia” (Lenin, 1921).
Moneta e politica: un binomio indissolubile visto che chi parla di moneta (metallica, oppure cartacea) discute simultaneamente anche di apparati statali e parastatali (le banche centrali), mentre una moneta senza stato e garanzie pubbliche alle sue spalle si trasforma per l’appunto nel primordiale e originario denaro, non collegato a un processo di emissione proprio da parte dell’amministrazione pubblica.
Le prime forme di coniazione statali della moneta nel mondo occidentale avvennero in Lidia e nelle città greche del Mar Egeo durante il sesto secolo a.C., ma “la pratica di coniare monete si diffuse rapidamente dalla Lidia nel Vicino Oriente e nelle città greche. Le monete coniate nell’impero persiano presentavano sempre lo stesso disegno che rappresentava il re come un arciere in corsa.
In Grecia l’iconografia era molto più varia: ogni città stato scelse un’immagine rappresentativa che caratterizzava la moneta come il prodotto dell’autorità della città. Le immagini adottate erano prevalentemente figure di animali.
Alcune città iscrivevano il proprio nome sulle monete.
Queste monete “arcaiche” venivano prodotte colpendo con un martello il metallo prezioso posto su uno stampo con una pressa. Fu un’innovazione greca quella di incidere la superficie della pressa con un secondo disegno che si imprimeva così sul retro (verso) della moneta. Nasceva così la moneta moderna: un disco rotondo con i due lati decorati.
Nelle prime monete a due facce il verso, colpito dalla pressa, è leggermente concavo come si può vedere dall’immagine che riporta il verso di una moneta dell’Ellade della metà del secolo IV a C. su cui è impressa l’aquila di Giove. Accanto, una testa della ninfa Aretusa fra i delfini, moneta siracusana dell’inizio del V sec. a C.
A Roma, durante il periodo dei sette re (750-510), il mezzo di scambio era il bestiame (pecus da cui deriva pecunia, “denaro”). Quando si passò dallo scambio di bestiame a un primo rozzo sistema monetario, fu ancora sulla base del bestiame che si fissò l’unità di misura della moneta: le leggi delle XII Tavole (ca 450 a. C.) stabilirono infatti il quantitativo di rame pesato corrispondente a una pecora e a un bue.
Da questo momento le transazioni commerciali ebbero luogo sulla base di metalli di peso e valore stabiliti, per i quali, prima di giungere alla vera moneta coniata, si passò attraverso due fasi. In un primo tempo il metallo usato fu il rame, grezzo e informe ma puro (aes rude, nella foto in alto).
Successivamente si passò al bronzo in mattonelle e in verghe.
Per le esigenze del mercato interno lo Stato romano si serviva della moneta di bronzo, l’aes librale, per il mercato esterno si coniò invece una moneta in argento. All’inizio del III sec. l’argento cominciò ad essere richiesto anche dal mercato esterno ed ebbe inizio allora in Roma un sistema bimetallico, in cui l’argento era destinato alla circolazione in città e il bronzo serviva alle esigenze della campagna.
Le prime monete d’oro apparvero a Roma durante la seconda guerra punica (218-201 a C.) per la necessità di pagare con metallo pregiato le forniture degli alleati”.
Sovranità monetaria con diritto di emettere moneta da parte dello stato, assieme alle ricadute di quest’ultima rispetto al processo produttivo: politica quindi, anche in questo caso, intesa come “espressione concentrata dell’economia”.
Si pensi solamente, per rimanere alla dinamica storica degli ultimi cinque decenni, a quella decisione politica presa il 15 agosto del 1971 dal presidente statunitense Richard Nixon, con la quale si pose fine alla convertibilità in oro dei dollari americani detenuti all’estero, oltre che al lungo processo di creazione dell’euro, avvenuto per via politica (sempre da intendersi come “espressione concentrata dell’economia”) dal 1978 al 2000: l’elenco può essere allungato a dismisura, fino ad arrivare ai nostri giorni.
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Daniele Burgio
Friday, 31 January 2020 08:28
Per favorire il dibattito e il processo di chiarificazione a livello teorico, pubblico altre sezioni del nuovo libro intitolato “Politica-struttura, espressione concentrata dell’economia”.


Politica-struttura del Ventunesimo: secolo e imposte dirette e indirette


All’inizio del terzo millennio quanto pesa concretamente la sfera politica, rispetto al processo globale di produzione di beni e servizi da parte dei paesi capitalistici più avanzati?
A tal proposito abbiamo a disposizione un ottimo criterio oggettivo di valutazione e comparazione.
Secondo le statistiche fornite dall’insospettabile OCSE, infatti, nel 2017 la media del peso assunto dal fisco (imposte dirette e indirette) rispetto al prodotto interno lordo dei principali paesi occidentali risultava pari al 34,2 percento: ossia il carico fiscale incideva per più di un terzo del PIL nelle nazioni in esame, tra l’altro in via di lieve aumento rispetto al 34 percento del 2016.
Persino nei presunti “liberisti” USA il rapporto in oggetto si rivelava equivalente al 27,1% salendo via via fino al 46,2% della primatista Francia, contro invece il 37,5% espresso in questo settore dalla Germania e il 42,4% italiano, sempre per l’anno di riferimento 2017.
Siamo in presenza di cifre significative e che diventano ancora più interessanti se collegate e connesse con la “pietra di paragone” italiana.
Analizzando la situazione fiscale dell’Iran nel 2018, infatti, si assiste a un sorprendente rapporto tra gettito fiscale totale e PIL persiano equivalente solo al 6,1%, più di cinque volte in meno della media occidentale sopracitate: e il tutto in una nazione asiatica di medio livello di sviluppo e importante su scala mondiale, per tutta una serie di fattori
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Daniele Burgio
Thursday, 30 January 2020 08:37
Per favorire il dibattito e il processo di chiarificazione a livello teorico, pubblico altre sezioni del nuovo libro intitolato “Politica-struttura, espressione concentrata dell’economia”.

L'impatto delle aliquote fiscali sui redditi delle classi sociali.


La politica-struttura e la sua dinamica concreta hanno determinato via via negli ultimi decenni uno storico "sorpasso" da parte di miliardari statunitensi ai danni dei lavoratori dipendenti americani, fenomeno emerso in tutta evidenza nel corso del 2018.
Giacomo Gabellini ha infatti evidenziato come “nel 2018, per la prima volta nella storia, la fascia più elitaria della società statunitense, quella che raggruppa l’élite dei multi-miliardari composta da poco più di 400 famiglie, ha pagato un’aliquota fiscale effettiva – calcolata sommando le tasse federali a quelle statali e a quelle locali – pari al 23%, a fronte del 24,2% versato dalla categoria dei lavoratori semplici. Più di un punto percentuale di differenza.
È quanto emerge dalle ricerche condotte dagli economisti Gabriel Zucman e Emmanuel Saez dell’Università di Berkeley e condensate nel volume The triumph on injustice, da poco uscito nelle librerie.
Nel dettaglio, il saggio prende in esame la variazione storica delle aliquote effettive a carico delle varie fasce sociali statunitensi, nell’ambito di uno sforzo ricostruttivo che trova ben pochi precedenti nella pubblicistica economica occidentale. Il quale getta una luce sinistra su di un processo fortemente involutivo che, a partire dal secondo dopoguerra, ha visto gli Stati Uniti sprofondare in un progressivo incremento della disuguaglianza fiscale.
In precedenza, sotto il governo guidato da Franklin D. Roosevelt, gli Usa avevano attuato un rovesciamento dell’architettura tributaria messa in piedi nel periodo antecedente allo scoppio della crisi del 1929 dall’amministrazione Coolidge, e in particolare dal suo segretario al Tesoro Andrew Mellon. Dietro sue indicazioni, il presidente Calvin Coolidge introdusse un pesante aumento delle tasse nei confronti delle fasce sociali meno abbienti necessario a compensare il taglio delle imposte che era stato decretato nei confronti del segmento più ricco della popolazione, con l’obiettivo dichiarato di liberare risorse per gli investimenti produttivi, i quali avrebbero portato vantaggi a tutta la nazione. Nei fatti, la riforma elaborata da Mellon non fece che accrescere il potere dei grandi imperi industriali e finanziarie, con l’1% più ricco della popolazione che nel 1929 arrivò a detenere un reddito pari al 42% più povero. La battaglia contro la Grande Depressione contribuì ad abbattere questo modello e far sì che, ancora negli anni ’50, le 400 famiglie più ricche pagassero un’aliquota del 70%. Nel decennio successivo, la percentuale scese al 56% e rimase sostanzialmente stabile fino al 1980, quando l’élite aveva ancora a carico un’aliquota del 47%.
Fu sotto l’amministrazione Reagan che lo scenario cominciò a mutare radicalmente. Il suo Economic Recovery Tax Act conteneva infatti generosissimi sgravi fiscali su alcuni investimenti speculativi focalizzati nel settore immobiliare, nell’ambito di un abbassamento generalizzato delle tasse sui redditi e sui profitti aziendali che fece passare l’aliquota legale dell’imposta societaria dal 47 al 34%, pari a 5 punti percentuali in meno rispetto alla media Ocse, mentre la percentuale pagata dalla metà più povera della popolazione rimaneva praticamente invariata. «Quell’infausta legge – nota l’autorevole storico Kevin Phillips – consentiva alle aziende che non potevano utilizzare direttamente le esorbitanti forme di ammortamento e gli enormi crediti d’imposta sugli investimenti di rivenderli ad altre aziende. La General Electric […] rivelò di aver utilizzato quel provvedimento non solo per minimizzare l’imponibile fiscale del 1981, ma anche per ottenere 110 milioni di dollari di rimborsi fiscali relativi agli esercizi precedenti. Per il periodo 1982-87, l’azienda espose un ammortamento complessivo pari all’incredibile cifra di 1.650 miliardi di dollari».
Per giustificare l’entrata in vigore di una simile ricetta, l’amministrazione Reagan sdoganò il concetto del trickle down (“gocciolamento”), secondo cui i vantaggi fiscali concessi alle fasce più abbienti sarebbero ricaduti sulla società nel suo complesso, compresi i ceti più deboli. I promotori della teoria che ne scaturì, dotata di molti punti di contatto con quella messa a punto da Mellon prima dello scoppio della crisi, sostenevano che l’applicazione di un regime tributario più leggero avrebbe consentito alle grandi imprese di liberare risorse per gli investimenti produttivi, con conseguente creazione di quei nuovi posti di lavoro necessari ad alimentare la crescita del reddito delle famiglie e, a ricasco, dei consumi. Una soluzione, insomma, in grado di coniugare crescita economica e produttività lavorativa – come suggerito dalla curva di Laffer. In realtà, si trattava di una radicale inversione di tendenza rispetto al periodo rooseveltiano, durante il quale la tassa sul reddito era stata trasformata in «un’imposta personale progressiva di massa per finanziare la guerra e, successivamente, il cosiddetto “big government”. Quarant’anni dopo Reagan cambia rotta: abbassa drasticamente le tasse personali in modo da far impennare i consumi e, quindi, il Pil. Vuole dare una spinta immediata, è l’era dell’edonismo reaganiano».
Nel corso degli anni successivi, e quindi sotto le amministrazioni Bush sr., Clinton, Bush jr. e Obama, l’aliquota a carico della categoria dei super-ricchi ha altalenato costantemente ma seguendo comunque una traiettoria tendenzialmente discendente.
La vera e propria esplosione delle disuguaglianze fiscali si è tuttavia verificata per effetto delle misure adottate dall’amministrazione Trump, e in particolare con il Tax Cuts and Jobs Act (Tcja) del 2017, una riforma fiscale paragonabile a quella introdotta da Reagan nel 1981 che implica sgravi netti per 1.500 miliardi di dollari entro un decennio e riduzioni generalizzate delle imposte sia alle aziende che alle famiglie, sia ai super-ricchi che a quel che resta della middle-class.
In concreto, il Tcja prevede il taglio dell’aliquota sul reddito d’impresa dal 35 al 21% e una sostanziale limitazione alle spese deducibili (tranne che per le piccole aziende e le società immobiliari), in specie per quanto riguarda le retribuzioni dei dirigenti superiori al milione di dollari. Per le aziende statunitensi ad alta redditività controllate da società straniere è contemplata un’imposta minima del 10%, in conformità a quell’approccio territoriale alla tassazione di cui Trump aveva sottolineato con forza la necessità in campagna elettorale. La riforma elaborata a suo tempo dall’amministrazione Bush jr. rendeva i redditi generati all’estero tassabili soltanto a rimpatrio avvenuto, e ciò rappresentò un notevole incentivo per le imprese continuare a parcheggiare i propri utili all’estero. Quella introdotta dall’amministrazione Trump abolisce invece questo sistema (worldwide) rendendo molto meno conveniente per le aziende lasciare i propri utili all’estero, grazie anche a uno scudo fiscale assai blando che prevede un’aliquota tra il 15,5 e l’8%.
Lo studio di Zucman e Saez rimarca con forza gli effetti distruttivi della riforma fiscale trumpiana, e offre ulteriori argomenti a chi, come la storica esponente liberal del Partito Democratico Elizabeth Warren, invoca l’introduzione di una tassa patrimoniale modellata sul calco di quella promossa dal Massachusetts di inizio ‘800, rivolta cioè a reperire le risorse necessarie a finanziarie misure che attenuino le disparità sociali”.
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Daniele Burgio
Wednesday, 22 January 2020 11:00
Per favorire il dibattito e il processo di chiarificazione a livello teorico, pubblico altre sezioni del nuovo libro intitolato “Politica-struttura, espressione concentrata dell’economia”.


Tasse e politica-struttura.

Una delle più antiche concretizzazioni ed epifanie della politica-struttura all’interno delle società classiste viene costituita dall’apparato fiscale statale, partendo dalla genesi della società teocratica sumera durante il periodo di Uruk, dal 3700 al 3200 a.C. e quindi quasi sei millenni or sono, per arrivare via via senza soluzione di continuità fino ai nostri giorni e all’inizio del terzo millennio, con i suoi multiformi sistemi di tassazione diretta o indiretta, benzina in testa.
Rispetto alla proteiforme e al processo plurimillenario di sviluppo di quella struttura variegata e cangiante di “esazione fiscale” (Marx, Capitale, libro primo, cap. 24) che rappresenta un anello importante della sfera della politica, intesa come “espressione concentrata dell’economia” (Lenin, 1921, Ancora sui sindacati), si può notare che prima del 600 a.C. la tassa veniva intesa principalmente “come una prestazione d’opera, tale da potersi appunto sostituire al denaro (che infatti ancora non esisteva). Nell’antica Mesopotamia per esempio, si iniziò presto a tassare i raccolti della terra e quel che veniva prodotto dal bestiame. Non sono molte le informazioni presenti, ma sui testi storici raccontano “che a quel tempo esistevano anche delle imposizioni tributarie sui funerali. Erano sicuramente obblighi soggetti ad ingiuste presunzioni e le tasse venivano imposte al popolo senza alcun tipo di giustizia sociale. I contadini venivano infatti tassati sul raccolto presunto e non su quello effettivo: questo accadeva qualche tempo dopo per esempio in Egitto, allorché l’acqua mancante dei cosiddetti Milometri (pozzi di approvvigionamento), veniva usata per misurarne l’uso e da qui la pretesa di un raggiunto raccolto.
Durante i vari regni dei faraoni d’Egitto gli esattori delle tasse erano conosciuti come “scribi”, cioè coloro che annotavano le tasse. Durante uno di quei periodi gli scribi imposero una tassa sull’olio per cucinare. Per assicurarsi che la popolazione rispettasse il pagamento di questa tassa gli scribi interrogavano le famiglie spingendole a utilizzare una appropriata quantità di olio e che non venissero usate altre sostanze per “evadere” la tassa.
In Grecia ad Atene, nei periodi di guerra la città imponeva una tassa chiamata Eisphora. Nessuno era esente da questa tassa utilizzata per pagare i costi bellici. Tuttavia i greci erano tra le poche civiltà che, finita l’emergenza, levavano anche la tassa. Addirittura se arrivava qualche bottino di guerra la tassa veniva restituita. Gli ateniesi imposero anche una tassa di soggiorno agli stranieri, persone che non avevano almeno uno dei genitori ateniesi. Questa tassa era chiamata Metoikion.
Dall’Europa, all’Africa, all’Asia, la storia sembra aver avuto un solo comune denominatore: l’imposizione fiscale. In Cina, la prova arriva dall’antico testo cinese del Tao Te Ching, che la tradizione attribuisce essere stato scritto da Lao Tzu intorno al VI secolo a.C.: in esso già si parlava di tasse ed ingiusta imposizione (“il popolo è affamato a causa delle tasse che vanno ad arricchire i potenti?”). Nell’antica Roma le tasse erano ugualmente e ingiustamente pretese. Tuttavia, già affiorava un elemento distintivo: più che pagate venivano infatti anche evase. In effetti, le tasse arrivavano puntuali ad aggravare l’ingiustizia sociale e venivano imposte senza controllo alcuno. Si pensi per esempio ai famosi vespasiani, le latrine pubbliche usate dalla popolazione (solo i ricchi patrizi ne possedeva una in casa). La popolazione si serviva anche delle latrine private attraverso il pagamento di una tassa chiamata centesima venalium, la quale veniva applicata dall’imperatore ai gestori delle latrine e quindi indirettamente agli utilizzatori delle stesse. In effetti la tassa di per se non era proprio applicata sui vespasiani, ma era ad essi collegata in quanto misurata in base a quest’ultima prodotta (per accrescere il proprio guadagno i privati vendevano l’urina ai conciatori di pelli per ricavarne ammoniaca). Altri tempi certo, ma si consideri che con questa tassa l’imperatore poté migliorare la res publica, indebolita dalle precedenti necessità e sperperi finanziari, dando avvio alle grandi costruzioni (il Colosseo, iniziato da Vespasiano nel 72 d.C.). A Vespasiano si deve inoltre anche un’altra particolare tassa, quella del fiscus iudaicus, imposta agli ebrei subito dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme, i cui proventi andarono infatti alla ricostruzione del tempio di Giove, nell’allora Campidoglio. Quanti tiranni e re poco illuminati hanno imposto tributi più o meno ingiusti e anomali lungo la storia? Sicuramente non pochi. Quella della pipì in effetti non è l’unica tassa anomala, certo era la più conosciuta di quanto si pensi, visto che la tradizione popolare ne ha parlato per secoli e secoli. Lo sapevano i cantastorie siciliani nel primo periodo del regno d’Italia che raccontavano al popolo lo scampato pericolo: governu italianu ti ringraziu, ca pi pisciari non si paga daziu”.
I cantastorie siciliani avevano compreso l’intreccio continuo tra politica ed economia meglio di gran parte del marxisti, del passato e del presente.
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Daniele Burgio
Tuesday, 21 January 2020 10:37
Per favorire il dibattito e il processo di chiarificazione a livello teorico, pubblico altre sezioni del nuovo libro intitolato “Politica-struttura, espressione concentrata dell’economia”.


Il banco di San Giorgio e la politica-struttura

Un altro caso importante e plurisecolare di politica-struttura venne rappresentato dalla “Casa delle compere e dei banchi di San Giorgio”, sviluppatasi a Genova dal 1407 al 1797 e in seguito trasformatasi nel Banco di San Giorgio.
Le lontane origini della “Casa delle compere” risalgono addirittura al lontanissimo biennio 1148-1149, con il primo prestito di stato contratto (a carissimo prezzo) dalla Repubblica di Genova dopo un conflitto bellico. Per pagare i costi della guerra, infatti, i dirigenti politici (i “consoli”) del comune di Genova cedettero in esclusiva e per quindici anni l’introito di alcune tasse a una società privata composta da diciotto ricchi borghesi, in cambio di un grosso prestito: lo stato genovese impegnò e destinò inoltre una sua parte dei suoi introiti per la rata annuale del capitale prestato, fino alla sua totale restituzione.
L’operazione finanziaria creatasi tre creditori-borghesi e Repubblica di Genova venne ripetuta molte volte nei due secoli successivi, fino al salto di qualità decisivo del 1407.
In quell’anno venne infatti costituita, con un provvedimento statale del 27 aprile 1407, la Casa delle compere e dei Banchi di San Giorgio, per fare fronte al dissesto finanziario di Genova causato dalle guerre contro la concorrente Venezia: con il decreto statale vennero riuniti tutti i precedenti creditori del comune genovese in un unico ente e in una sola banca, allo stesso tempo privata e pubblica.
La Casa di San Giorgio ottenne infatti proprio dagli apparati statali cittadini il potere di riscuotere le tasse e le gabelle al posto e per conto della Repubblica genovese, sostituendo quest’ultima non solo nell’amministrazione del debito pubblico ma anche nella gestione del monopolio di vendita dei beni fondamentali quali il sale, il grano, le carni, l’olio e il vino; inoltre la potentissima banca acquisì dalla Repubblica genovese anche il possesso della Corsica, a partire dal 1453 e fino al 1562, di alcuni comuni liguri entrati nella sfera d’influenza genovese (Lerici, Sarzana, Ventimiglia) e di colonie acquisite della città nel Mediterraneo, come Cipro.
Stiamo dunque analizzando un esempio spettacolare di simbiosi tra sfera politica e sfera economica, generatosi e riprodottosi per via squisitamente politica e per decisione degli apparati statali genovesi: un caso che va affiancato a quello sopracitato all’Arsenale di Venezia.
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Daniele Burgio
Sunday, 19 January 2020 08:53
Per favorire il dibattito e il processo di chiarificazione a livello teorico, pubblico altre sezioni del nuovo libro intitolato “Politica-struttura, espressione concentrata dell’economia”.



L’Arsenale di Venezia e la genesi del capitalismo di stato occidentale



A partire dalla metà del 1100 venne costituito dallo stato veneziano l’Arsenale, in prossimità del bacino di San Marco: all’inizio esso rappresentava un complesso edilizio cinto da mura merlate e composta da due file di cantieri coperti, comunicanti con il bacino di San Marco attraverso uno stretto canale, ma a partire dal 1289 esso conobbe un grande sviluppo con l’avvio della costruzione di grandi navi (le galee) e delle infrastrutture necessarie: le corderie (dal 1305), le fonderie e le officine.
Sul piano dei rapporti di produzione l’Arsenale era di proprietà pubblica, ma buona parte delle sue attività venivano concesse e appaltate dai rappresentanti del governo veneziano anche a imprese e corporazioni private, formando pertanto una sorta di matrice originaria per il capitalismo di stato occidentale, oltre che un’ennesima conferma della teoria della politica-struttura.
“L’Arsenale di Venezia, ma anche gli altri complessi manifatturieri o industriali destinati alla produzione degli armamenti di terra e di mare e di una certa tipologia navale, attivi nel periodo che va dal 15° al 20° sec., hanno mantenuto un carattere prevalentemente pubblico, vincolato e sottoposto all’autorità politica; inoltre, nel passato, l’Arsenale era gestito direttamente da un organo istituzionale denominato Reggimento dell’Arsenale.
Gran parte degli arsenali, dal 16° al 19° sec., hanno continuato a concentrare le loro attività tecniche nella stessa struttura produttiva opportunamente modificata e adattata alle esigenze navali e belliche che di volta in volta si presentavano, sempre, però, nel solco di una tradizione che favoriva rapporti episodici e saltuari e comunque svincolati da ogni forma di dipendenza dall’esterno.
Gli arsenali pubblici del passato provvedevano alla fornitura di materie prime, semilavorati e lavorati (legnami, metalli e tutti gli altri prodotti necessari all’armamento delle navi militari), con il sistema accentrato della commessa e dell’approvvigionamento diretto anche qualora fossero risultati particolarmente onerosi.
Sotto questo profilo è esemplare la gestione dell’Arsenale veneziano in antico regime, periodo in cui vigeva un rigido controllo e un’oculata gestione della ‘cassa’, confermando una tendenza che proseguirà, per motivi di bilancio, anche nella prima fase del periodo postunitario quando s’avviò l’attività industriale.
L’antico impianto pubblico chiamato Casa dell’Arsenale, sin dalle sue origini fu adibito a cantiere per la costruzione delle pubbliche navi; a fabbrica e deposito delle armi; a luogo di stoccaggio delle materie prime; a sede deputata ad attività stagionali di rimessaggio della flotta, alla produzione delle corde, dei velami e dei remi.
Nei documenti ufficiali questa espressione è frequente e allude al significato emblematico e al contempo reale di luogo cui è demandata la sicurezza e la salvaguardia del bene comune: lo Stato. Sull’importanza dell’Arsenale veneziano per la vita dello Stato veneto basti citare il celebre lavoro di Bernardo Lodoli (Il cuore veneto legale formato dalla compilazione delle leggi decreti terminationi […], 1703) che gli attribuisce la funzione di «cuore» nevralgico della vita politica, economica e non solo militare della Serenissima Repubblica.
Il predominante interesse per l’aspetto architettonico del complesso è giustificato dall’imponente e articolata fabbrica, risultato di aggiunte sedimentatesi nell’arco di sei secoli; essa si sviluppa su una vasta superficie che, con le aggiunte più recenti, misura circa 478.000 m2 di cui 136.380 m2 di aree coperte, 224.620 di aree scoperte e 117.000 m2 di spazi acquei”.
Politica ed economia connesse tra loro, fin dal 1150 d.C.
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Daniele Burgio
Saturday, 18 January 2020 14:27
Per favorire il dibattito e il processo di chiarificazione a livello teorico, pubblico altre sezioni del nuovo libro intitolato “Politica-struttura, espressione concentrata dell’economia”.




Politica-struttura e la tratta degli schiavi nella liberale Gran Bretagna




Un altro tremendo esempio di politica-struttura, e cioè di simbiosi tra sfera economica (capitalistica) e sfera politica (dei mandatari politici della borghesia) è costituita dalla tratta degli schiavi sviluppatosi all’interno della “libera” Gran Bretagna del 1688-1805: tratta consolidatasi e aumentata in modo esponenziale in forza di quel trattato internazionale di Utrech del 1713 nel quale venne stabilito, per via politico-economica, l’asiento, ossia il monopolio a vantaggio dei borghesi inglesi del traffico di schiavi, dalle coste atlantiche dell’Africa fino alle colonie spagnole.
Come ha sottolineato M. A. Galdi nella sua tesi “L’Illuminismo e la tratta degli schiavi”, “i primi europei ad occuparsi del commercio degli schiavi, a metà XVI secolo furono i portoghesi, seguiti dagli spagnoli nel 1479, dagli olandesi nel 1562, dagli inglesi nel Nord America nel 1619, dai francesi nel 1642, dagli svedesi nel 1647, dai danesi nel 1697.
Ma fu l'Inghilterra, più di ogni altra nazione europea, a trarre maggiori vantaggi dallo sviluppo degli scambi atlantici. Infatti nel 1713, con il trattato di Utrecht, gli inglesi ottennero il monopolio del commercio degli schiavi nelle colonie spagnole, il cosiddetto asiento.
La Gran Bretagna doveva la sua supremazia, innanzitutto, alla fiducia nel suo mercato finanziario, già da allora guidato dalla Banca d’Inghilterra; disponeva, inoltre, di una valuta stabile e di bassi tassi d'interesse, oltre che di un sistema finanziario moderno che promosse il libero mercato. La crescita dei consumi interni di tè, caffè, zucchero, cotone, spezie e di altre materie prime, costituì il principale sostegno dell'economia britannica nel corso del Settecento.
A partire dal 1713, quindi, la tratta crebbe vertiginosamente. Durante il XVIII secolo si trasportarono in America soltanto 70 mila negri in media all'anno. Nel 1771 la sola Liverpool contava 105 navi negriere che trasportavano ventotto mila schiavi.
Dalla fine del ‘600 in poi le colonie inglesi in Nord America conobbero un rapido popolamento in quanto i coloni britannici speravano di trovare nel Nuovo Mondo, se non la ricchezza, quanto meno l’agiatezza che in Europa ha loro preclusa.
La costa atlantica del Nord America costituì dunque l’area privilegiata del commercio inglese nel XVIII secolo: il commercio verso le Antille per ottenere lo zucchero e il caffè; e quello volto all’importazione del tabacco.
Il primo prodotto d’importazione, con un valore pari a 2,4 milioni di sterline, divenne lo zucchero, seguito dal tabacco. Nel 1775 il traffico del tabacco raggiunse il culmine del suo sviluppo”.
La “trasformazione dell’Africa in una sorta di parco commerciale per il reperimento di pelli nere” (Marx, Capitale) e per il traffico legale di schiavi, appoggiato fin dall’inizio dallo stato britannico rappresentò dunque una forma plurisecolare e importante non solo di “accumulazione originaria” del capitalismo ma, simultaneamente, anche una modalità di esistenza di lunga durata della politica-struttura e della combinazione dialettica tra sfera politica ed economia” in terra inglese.
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Daniele Burgio
Friday, 17 January 2020 08:24
Un altro articolo, sempre per favorire il dibattito e il processo di chiarificazione a livello teorico, pubblico altre sezioni del nuovo libro intitolato “Politica-struttura, espressione concentrata dell’economia”.


I contratti di appalto statali e la tratta degli schiavi


All’interno del gigantesco impero coloniale spagnolo, di matrice semifeudale e che si estese per secoli dall’America Latina alle Filippine, a partire dagli inizi del Sedicesimo secolo venne introdotto un orrendo strumento statale, di natura politico-economica e che rientra a pieno titolo nella categoria teorica di politica-struttura.
Nel 1518 venne infatti creato l’asiento de negros, ossia un contratto di appalto di diritto pubblico mediante il quale si concedeva il controllo delle licenze di tratta degli schiavi africani ai privati e ai capitalisti-negrieri, in cambio dei pagamenti di una tassa e di un tributo alla corona spagnola.
Come ha notato R. Bodei, un altro introito fiscale “derivante dal traffico di schiavi, fu rappresentato dalla tassa regia di due ducati per ogni schiavo che veniva spedito in una determinata colonia.
Peraltro, i guadagni di ogni spedizione erano oculatamente amministrati da un controllore finanziario (contador), che prelevava la quinta parte del bottino per il re (el quinto del rey).
L’affare più consistente per la monarchia spagnola si ebbe, a questo proposito, nel 1592, ad un secolo esatto dalla scoperta dell’America, quando un certo Gomes Reynald pagò quasi un milione di ducati” (allo stato spagnolo) “per l’importazione in nove anni di 38.250 schiavi da consegnare al ritmo di 4.250 all’anno, di cui almeno 3.500 dovevano arrivare vivi…”.
Sangue degli schiavi e lucrosi affari; tasse statali sulle vite umane dell’Africa e paralleli, giganteschi profitti per i negrieri-capitalisti; politica-struttura, in estrema sintesi…
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Paolo Selmi
Thursday, 16 January 2020 16:32
Cari Daniele, Massimo e Roberto,
grazie per l'incoraggiamento! Al momento, sto cercando di terminare il V capitolo (con cui supererò la metà del lavoro di traduzione) di un testo di un economista sovietico sulla pianificazione: i primi 4 capitoli li potete sono stati pubblicati a puntate qui e li potete trovare in una forma un po' più agevole qui
https://www.academia.edu/40396441/La_semina_e_il_raccolto._Ricerche_analisi_e_traduzione_integrale_di_Pianificabilit%C3%A0_pianificazione_piano_di_Ivan_Michajlovi%C4%8D_Syroe%C5%BEin_II_parte_IV_capitolo
e qui
https://www.academia.edu/38614456/La_semina_e_il_raccolto._Ricerche_analisi_e_traduzione_integrale_di_Pianificabilit%C3%A0_pianificazione_piano_di_Ivan_Michajlovi%C4%8D_Syroe%C5%BEin_I_parte

In pratica, a me ora preme concentrare le mie (poche) energie (1 ora al giorno quando va bene) su un esperimento che, se riuscisse, potrebbe essere di interesse e stimolo a tutti i compagni interessati alle tematiche relative al modo socialistico di produzione e a una possibile transizione in tale senso / costruzione di strutture socialistiche su un retroterra tanto variegato nelle sue sfaccettature quanto saldamente ancorato sull'attuale modo capitalistico di produzione.

Traducendo un lavoro di 40 anni fa, non mi limito a dare il mio personale contributo al ripristino di una ricerca economica e politica da troppo tempo interrotta o, peggio, liquidata con formule tanto stereotipate quanto superficiali . Lo scopo più ambizioso è parlare all'oggi. Ma per parlare all'oggi, per andare oltre il testo, per passare - con una frase straabusata - dal testo al contesto o, meglio, dalla teoria alla prassi, e viceversa, occorre uno sforzo collettivo in questa direzione. Uno sforzo che vada ben oltre la capacità del singolo, anche qualora il singolo non fossi io ma uno con capacità e risorse ben maggiori delle mie. Mi fermo qui.

Un grosso in bocca al lupo per tutto!
Paolo
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Daniele Burgio
Thursday, 16 January 2020 11:29
Per favorire il dibattito e il processo di chiarificazione a livello teorico, pubblico altre sezioni del nuovo libro intitolato “Politica-struttura, espressione concentrata dell’economia”.


Vaticano: la politica-struttura e l’“intreccio di interessi, denaro e potere”.



Nessuno può dubitare ragionevolmente che quasi subito dopo l’editto di Milano del 313 e quindi per diciassette secoli, senza soluzione di continuità, all’interno del mondo occidentale la chiesa cattolica rappresenti un potere politico di lunga durata, cristallizzatosi sia nel microstato del Vaticano sia nell’influenza variabile che le alte gerarchie ecclesiastiche esercitano sugli affari comuni di molte nazioni del nostro pianeta; altresì non si può certo negare la simultanea e parallela potenza economica ormai acquisita da quasi due millenni dalla chiesa romana su scala mondiale, potere basato su un processo plurisecolare e variegato di accumulazione di terreni e immobili prima, di azioni e banche a partire dal 1929 in poi.
A partire dal quinto secolo la chiesa cattolica – ivi compresi i suoi vari svariati ordini ecclesiastici – diventò il plurisecolare e principale proprietario di edifici e terreni all’interno del mondo occidentale tanto che nel 2012 il patrimonio mondiale era “fatto di quasi un milione di complessi immobiliari composto da edifici, fabbricati e terreni di ogni tipo, con un valore che prudenzialmente superava i 2 mila miliardi di euro.
Può contare sullo stesso numero di ospedali, università e scuole di un gigante come gli Stati Uniti. Ha oltre 1,2 milioni di “dipendenti” e quasi un miliardo e duecento milioni di “cittadini”.
Inoltre dopo il giugno 1929 il “banchiere di Dio” Bernardino Nogaro innescò un processo in base al quale agli inizi del terzo millennio ormai "il Vaticano possiede enormi investimenti presso gli istituti Rothschild di Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti, la Banca Hambros, il Credit Suisse di Londra e Zurigo. Negli Stati Uniti ha ingenti investimenti presso la Morgan Bank, la Chase-Manhattan Bank, la First National Bank di New York, la Bankers Trust Company e presso altri istituti di credito. Il Vaticano possiede miliardi di quote delle più potenti multinazionali, come Gulf Oil, Shell, General Motors, Bethlehem Steel, General Electric, International Business Machines, T.W.A. etc. Facendo una stima prudenziale, nei soli Stati Uniti tali quote ammontano ad oltre 500 milioni di dollari.
In un documento pubblicato come parte integrante di un prospetto informativo relativo ad investimenti obbligazionari, l'arcidiocesi di Boston ha stimato le sue risorse in seicentotrentacinque milioni di dollari ($ 635,891,004), vale a dire 9.9 volte le sue passività. Questo significa un valore netto di cinquecentosettantuno milioni di dollari ($ 571,704,953). Non è quindi difficile risalire alla stupefacente ricchezza della Chiesa, una volta che aggiungiamo gli introiti delle vent’otto arcidiocesi e delle 122 diocesi degli U.S.A., alcune delle quali sono anche più doviziose di quella di Boston".
La Chiesa di Roma, una volta sommati i suoi patrimoni, è il maggior agente di cambio del mondo. Il Vaticano, indipendentemente dai vari papi di passaggio, si è sempre di più orientato verso gli USA. Il Wall Street Journal ha affermato che le transazioni finanziarie del Vaticano nei soli Stati Uniti sono state così importanti che spesso riguardavano la compravendita di oro per lotti da uno o più milioni di dollari alla volta.
Quindi quasi subito dopo l’editto di Milano del 313 e per diciassette secoli, senza soluzione di continuità, all’interno del mondo occidentale la chiesa cattolica costituisce un caso esemplare di “politica-struttura”, ossia di simbiosi e intreccio (sotto vesti e finalità religiose) di interessi materiali, denaro e potere politico.
A tal proposito Gianluigi Nuzzi, nella prefazione del suo interessante e ben documentato libro intitolato “Giudizio Universale”, ha affermato dati concreti alla mano che all’interno delle alte sfere cattoliche e del piccolo stato del Vaticano “il denaro è per taluni più importante delle anime. In realtà la curia romana, al di là delle buone intenzioni dei papi del secolo scorso e di questo inizio millennio, una riforma vera non l’ha mai attuata. Ogni tentativo è stato anestetizzato, bloccato, sabotato. Questo libro aiuta a farsi un’idea precisa degli intrecci d’interessi, denaro e potere che animano taluni cardinali e monsignori, svelando per la prima volta la fitta rete di conti correnti, operazioni finanziarie e speculazioni che attanaglia il Vaticano.
Un mondo sommerso governa i sacri palazzi e accende guerre di potere, indifferenze al crack che si prospetta all’orizzonte, sordo ai richiami del papa che del piccolo stato, oltre a essere il leader religioso, è anche il monarca assoluto” (G. Nuzzi, p. 10, “Giudizio Universale”, ed. Chiarelettere).
Un libro, quello di Nuzzi, che vale la pena di leggere non solo per la previsione di un crollo finanziario della chiesa cattolica entro il 2025, ma anche per il clamoroso tandem “politica-affari” che emerge con forza al suo interno in base a numerosi fatti testardi.
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Daniele Burgio
Thursday, 16 January 2020 11:27
Caro Paolo, le tue acute osservazioni sul legame ormai creatosi da decenni nel mondo occidentale tra apparati statali, grande criminalità organizzata e “poteri forti” legali risultano a nostro avviso molto stimolanti: ti invitiamo quindi a sviluppare l’analisi su questo settore nascosto e sanguinoso, da noi non ancora preso in considerazione, del variegato e proteiforme continente della politica-struttura.
Daniele Burgio, Massimo Leoni e Roberto Sidoli.
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Paolo Selmi
Thursday, 16 January 2020 08:28
Cari compagni,

c'è un filone di ricerca che avete aperto, indirettamente, con questo lavoro, ma non involontariamente perché ne costituisce la sua logica conseguenza, il passaggio successivo.

Due punti per tracciarlo:
1. Il quadro generale, che a mio avviso è MOLTO più tragico di quanto descrivete, specialmente in certe realtà. Una battuta, quasi un aforisma, di Paolo Rossi e vecchia quarant'anni recita: "Lo Stato c'è! E si è insinuato come un cancro dentro alla mafia..." Cosa intendo dire, è chiaro: il "paradosso rossiano" di uno Stato talmente liquido e inconsistente da essere lui, e non il viceversa, la parte debole nei rapporti di forza con la criminalità organizzata, può essere esteso alle realtà economico-finanziarie "legali" che avete descritto.
Il parallelo, inoltre può essere spinto oltre il paradosso rossiano. Perché lo Stato non solo è debole, ma esiste un settore deviato dello Stato che si oppone alla lotta che esso ufficialmente conduce per "insinuarsi come un cancro nella mafia". Quindi, vogliamo portare all'estremo l'allegoria? La "mafia" del paradosso rossiano va dal dottore e non solo il dottore le dice che la "malattia" è circoscritta, è "benigna", ma sta trovando gli "anticorpi" dentro la malattia stessa per debellarla definitivamente. Fuor di metafora, si vada a vedere l'ultima operazione coordinata da Gratteri, la seconda in ordine di importanza dopo quella del maxiprocesso storico, si vadano a vedere di chi sono le teste degli ingabbiati, e fra esse troveremo molti "servitori dello Stato": politici, funzionari, ufficiali, ecc. Ricalchiamo questo schema, nel senso che eseguiamo un calco sulle realtà da voi descritte e vediamo che, con gli opportuni accorgimenti e le necessarie modifiche, non andiamo molto lontano. E veniamo così al secondo punto.

2. Sono comunista e, di fronte a questo quadro, il riflesso pavloviano che, purtroppo, non sono ancora riuscito a togliermi del tutto è l'immediata domanda che mi picchia in testa: "Che fare?" La prima risposta, sempre d'acchito, che mi viene in mente è: "rafforzare il ruolo dello Stato". Altra questione immediata: "Si, ma QUALE Stato?" E qui il pensiero si affaccia, nuovamente, sul baratro aperto dall'operazione di Gratteri, tre anni di duro lavoro e migliaia di uomini dello Stato coinvolti per combattere criminali comuni e "gente perbene", anzi, altri "servitori dello Stato" fino ad allora.

Con l'operazione di Gratteri, infatti lo Stato, quello "buono", dà una mazzata sia a quello "cattivo", sia al sistema di concussione-corruzione-estorsione-sfruttamento-criminalità-inquinamento della vita pubblica e sociale che va sotto il nome di 'ndrangheta, quanto meno, in una zona. Fa terra bruciata, passa col lanciafiamme.

Poi però si ferma. "E' lo Stato borghese, bellezza", mi dice sempre quella vocina che deve per forza fare da bastian contrario e che prima o poi passerò sotto un rimorchio da 13,60. Perché le devo dare ragione: lo Stato, quello "buono", come ci diciamo noi, lì si ferma. Non va oltre. Perché STRUTTURALMENTE non è stato concepito per "andare oltre". Ma anche lo stesso Gratteri deve sentire la stessa mia vocina, o una simile, perché il giorno stesso dell'annuncio della maxi-operazione dice, IMPLORA quasi, a tutti i Don Ciotti e Libera, scout, partiti, associazioni, dopolavoro, e chi più ne ha più ne metta, "ORA OCCUPATE, prendete voi il posto, vi abbiamo fatto tabula rasa, ORA TOCCA A VOI". E molti di loro lo guardano come la mucca vede passare il treno... senza contare il resto. Risultato, prevedibile: una "premiata ditta" come la 'ndrangheta che "fattura" 50 miliardi di euro all'anno assorbe botte anche peggiori di questa, il giorno dopo manda "esperti" a "contare i danni", fa intervenire l'"assicurazione", nel senso che si assicura che non arrivino altre "malattie" e, dal giorno stesso, rioccupa la "tabula rasa" lasciata da quel pezzo di "malattia" che non riesce ANCORA a debellare.

Il passaggio successivo, riportando lo stesso tipo di intervento repressivo, punitivo, fine a sé stesso negli altri settori da voi descritti, è abbastanza immediato: DOBBIAMO BATTERCI per lo STATO, e va bene ma, nel frattempo, dobbiamo LOTTARE PER UN ALTRO MODELLO DI STATO. Uno Stato che, dopo aver fatto terra bruciata, PRENDA L'INIZIATIVA E COSTRUISCA sulle macerie ancora fumanti. Un modello di Stato che, al momento, giace sepolto sotto tre metri di terra in attesa che si riprenda a elaborarne i contorni per una possibile transizione, trasformazione dello stato esistente in quella direzione.

Ed è a questo maggiore, più impegnativo sforzo di elaborazione teorica e mobilitazione pratica che siamo tutti chiamati a lavorare, "da ciascuno secondo le sue capacità", partendo anche dalla vostra riflessione per proseguire su questo cammino lasciato, per troppo tempo, interrotto.

Un caro saluto.
Paolo Selmi
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AlsOb
Wednesday, 15 January 2020 14:33
"Il Tarp americano (il cui programma d’intervento, gestito dall’amministrazione Bush prima e da quella Obama poi, ha visto immettere complessivamente 7.700 miliardi di dollari all’interno del sistema bancario) ed i vari piani di salvataggio attuati dalle banche in Europa hanno costituito le premesse per la metamorfosi della crisi finanziaria in crisi del debito sovrano".

Daniele Burgio non ha molto senso quello che scrivi o scrivete, per non esistere alcuna premessa e metamorfosi del tipo.
Lasciando da parte il fatto che il tarp fu l'ovvio e opportuno intervento (il disastroso evento Lehman fu conseguenza di dubbi e tergiversazioni politiche da parte di chi non comprendeva e non comprende la situazione), la specifica crisi europea e dei suoi debiti pubblici è conseguenza da un lato della scontata ripercezione e riclassificazione della quasi moneta da parte degli speculatori e dall'altro e in modo particolare della congenita struttura dell'euro basata sulla segmentazione imperialistica.
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Daniele Burgio
Wednesday, 15 January 2020 08:08
Per favorire il dibattito e il processo di chiarificazione a livello teorico, pubblico altre sezioni del nuovo libro intitolato “Politica-struttura, espressione concentrata dell’economia”.


Federal Reserve e BCE: enti parastatali e politica-struttura

Per precise ragioni ideologiche si tende spesso a nascondere la semplice e cristallina verità in base alla quale le banche centrali delle diverse nazioni costituiscono sicuramente degli organismi politici: e più precisamente degli strumenti di matrice parastatale, anche se dotati di un margine variabile di autonomia riguardo ai nuclei politici via via giunti al potere nelle loro rispettive aree geopolitiche di appartenenza.
Ad esempio chi nomina e seleziona i capi e i responsabili della Federal Reserve e della Banca Centrale Europea, per citare i due casi più importanti su scala mondiale?
Per quanto riguarda la Federal Reserve, a partire dalla sua costituzione nel 1913 il suo organo centrale e il suo presidente sono stati scelti e incaricati proprio dalla più alta carica politica del paese, ossia dal presidente americano al potere al momento della nomina dei responsabili della Federal Reserve, previa approvazione del Senato.
Passando invece alla BCE, fin dal 1998 e dal momento della sua formazione il presidente e i quattro membri del suo Comitato Esecutivo vengono via via nominati, per un periodo di otto anni, non rinnovabile, dal Consiglio dell’Unione Europea: e quest’ultimo costituisce un organo di tipo iperpolitico al pari del presidente USA, essendo composto almeno da un ministro di ciascun stato facente parte dell’Unione Europea.
Viceversa è fuori discussione che tutte le banche centrali rappresentino, a partire dal quel loro lontano antenato costituito dal sopracitato Banco di San Giorgio genovese, un’“espressione concentrata dell’economia” e che svolgono una loro politica economica, essendo ormai diventati da tempo snodi importanti della politica-struttura, ivi compresa la “privatizzazione dei profitti e socializzazione delle perdite”.
A tal proposito basta ricordare che “la socializzazione delle perdite e la privatizzazione della rendita sono stati i due principi attraverso i quali il capitalismo ha riprodotto sé stesso dentro la crisi sistemica ed ha ristrutturato la propria capacità di estrarre valore attraverso i dispositivi finanziari. Questo meccanismo è avvenuto da un lato attraverso la finanziarizzazione del debito privato, espressasi con le grandi bolle speculative sui “titoli tossici” dei risparmiatori (ossia di tutta quella massa di proletari e ceto medio che ha fatto ricorso in maniera massiccia all’indebitamento privato per soddisfare esigenze primarie nel corso degli anni ’80 e ’90, in conseguenza del progressivo arretramento del Welfare State), dall’altro grazie alla trasformazione delle perdite bancarie in debito pubblico.
Il Tarp americano (il cui programma d’intervento, gestito dall’amministrazione Bush prima e da quella Obama poi, ha visto immettere complessivamente 7.700 miliardi di dollari all’interno del sistema bancario) ed i vari piani di salvataggio attuati dalle banche in Europa hanno costituito le premesse per la metamorfosi della crisi finanziaria in crisi del debito sovrano. Una metamorfosi che il capitale ha gestito attraverso gli strumenti coercitivi e fiscali dei singoli Stati, dando vita alla cosiddetta “stagione dell’austerità”, ma che allo stesso tempo ha avuto i punti focali nei principali istituti della governance finanziaria, primo fra tutti la Bce.
“Save people not banks”, uno degli slogan più utilizzati dai movimenti anti-austerity nati in tutto il mondo negli ultimi anni, esprime a fondo la pretesa di milioni di persone di ottenere “giustizia sociale” e di contrastare il più grande depauperamento collettivo che il capitalismo abbia compiuto nel corso della storia.
Parlando delle ultime vicende bancarie che hanno toccato il nostro Paese non è possibile leggere il cosiddetto “decreto Salva-banche”, varato nel Consiglio dei Ministri dello scorso 22 novembre, sganciato da queste considerazioni preliminari. Il decreto in questione, volto a togliere dal baratro della bancarotta quattro istituti di credito (Banca delle Marche, Banca dell’Etruria, Cassa di Risparmio di Ferrara e Cassa di Risparmio di Chieti), prevede lo stanziamento di 3,6 miliardi di euro. Di questi, 1,6 miliardi saranno versati dalla cosiddetta “linea di credito” formata da Unicredit, San Paolo e UBI ed i restanti garantiti dalla Cassa Depositi e Prestiti attraverso fideiussioni. Nonostante il governo ed i vertici della Banca d’Italia affermino l’inesistenza di un piano di salvataggio delle banche attraverso finanziamenti pubblici, di fatto il Fondo di Risoluzione viene garantito dalle casse statali”.
Ancora una volta dunque, politica-struttura e politica intesa come “espressione concentrata dell’economia, per dirla con il Lenin del 1921.
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Daniele Burgio
Tuesday, 14 January 2020 19:15
Per favorire il dibattito e il processo di chiarificazione a livello teorico, pubblico altre sezioni del nuovo libro intitolato “Politica-struttura, espressione concentrata dell’economia”.

Politica e “privatizzazione dei profitti, socializzazione delle perdite”.

Dopo la crisi economica mondiale del 2007-2009 gli ancora numerosi sostenitori delle assurde teorie sulla presunta “fine della politica” e sulla presunta “evaporazione degli stati” sono tornati piano piano a mostrarsi in giro per il mondo, cercando di far dimenticare ciò che nel 2008-2009 era diventato chiaro e lampante a quasi tutti: ossia la carsica ma vitale operatività della regola generale del capitalismo di stato contemporaneo del “privatizzare i profitti e socializzare le perdite”, per via politica, grazie alla mano pubblica e attraverso il gentile aiuto materiale degli apparati statali borghesi, con la sotto-regola e variante del “too big to fail”, troppo grandi (le banche, ecc.) per poter fallire.
A proposito di tale decisivo aspetto della “politica-struttura” del nostro presente Andrea Baranes, già nel settembre del 2018 ha notato giustamente che “rischiamo di tornare al 2008, alla casella di partenza. Al fallimento della Lehman Brothers, momento più emblematico della peggiore crisi della storia recente. A dirlo non sono voci fuori dal coro, ma alcune delle principali istituzioni internazionali.
Prima dell’estate era stato il Fmi a segnalare i crescenti rischi per il sistema finanziario globale. Nei giorni scorsi gli ha fatto eco l’Ocse, lanciando l’allarme per una possibile nuova crisi.
I motivi sono diversi. Il primo e principale è che la finanza non è cambiata.
Rispetto alle promesse fatte dieci anni fa di chiudere una volta per tutte il casinò finanziario, la montagna non ha partorito nemmeno il proverbiale topolino. Non solo nessuno dei responsabili è stato condannato, ma le grandi banche sono oggi ancora più «too big to fail». Ugualmente i derivati e altri strumenti speculativi sono ai massimi, così come le retribuzioni dei top manager.
In Europa non si vede nemmeno l’ombra di una separazione tra banche commerciali e di investimento o di una tassa sulle transazioni finanziarie. Non va meglio negli Usa, dove quel poco che era stato fatto dall’amministrazione Obama è già stato in buona parte smantellato.
Se il sistema finanziario nel suo insieme è sempre più votato alla speculazione e ad orizzonti di brevissimo termine, rispetto al 2008 ci sono almeno due differenze, tutt’altro che positive.
La prima è legata alla montagna di liquidità immessa prima per salvare le banche e poi per fare ripartire l’economia. Oltre 11mila miliardi di dollari dalle banche centrali di Usa, Giappone ed Europa. Risorse in massima parte incastrate in circuiti finanziari se non speculativi, che non arrivano all’economia reale. La seconda differenza è che, malgrado la debole ripresa, conti pubblici ed economia portano ancora le cicatrici dell’ultimo disastro. Basta guardare all’inaccettabile aumento delle diseguaglianze per capire l’insostenibilità della situazione attuale. Eccesso di liquidità e mancanza di regole per la speculazione da una parte, fragilità dell’economia dall’altra, non possono che tradursi in uno scollamento sempre più profondo tra finanza e fondamentali economici, identificandosi nella definizione stessa di una nuova bolla finanziaria. Se possibile, l’aspetto più preoccupante non è però nei numeri, quanto culturale.
È tornata di moda l’idea che solo una finanza libera da lacci e laccioli possa trainare l’economia.
Le lobby finanziarie rialzano la testa e tornano senza vergogna a chiedere l’abbattimento di regole e controlli.”
Il tutto, ovviamente, solo fino a quando, alla prossima crisi, i grandi torneranno a piangere da “mamma-stato” e a reinvocare, per l’ennesima volta, la politicissima “privatizzazione delle perdite, e profitti” a loro vantaggio esclusivo.
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