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Il “governo del cambiamento”: cambiare tutto per non cambiare niente
di coniarerivolta
Dopo giorni concitati e continui ribaltamenti di fronte, la crisi di governo si è risolta in un governo Cinque Stelle – Lega. Nel giro di poche settimane è accaduto di tutto e non è accaduto nulla. Il teatrino a cui abbiamo assistito potrebbe essere riassunto in un titolo: storia di una normalizzazione. Le forze politiche intenzionate a formare un governo insieme avevano inserito nella lista dei ministri un nome, quello di Paolo Savona, in passato associato a un fantomatico “piano B”, un piano per l’uscita dell’Italia dall’Euro. Il piano B, più che essere applicato alla lettera, doveva servire, nelle intenzioni degli autori, come strumento di contrattazione per ottenere un ampliamento dei margini di manovra dei governi nazionali rispetto agli stringenti vincoli dei Trattati europei. Si è ben presto capito che anche la semplice minaccia dell’uscita dall’euro come strumento di leverage nei confronti della Commissione e delle altre istituzioni europee era ostativa alla formazione di un governo. Alla fine, pur di ottenere l’incarico, Cinque Stelle e Lega si sono piegati agli ordini di Mattarella, delle Istituzioni europee e dei mercati. Una manifestazione di forza dei guardiani dello status quo e di debolezza dei finti ribelli giallo-verdi, ma anche la conferma che la messa in discussione dei dogmi dell’austerità è ciò che i primi temono di più. Questo il punto dal quale partire per costruire una vera alternativa alla stagnazione e alla precarietà che l’Europa ci impone.
Al di là dei toni da farsa, la telenovela politica messa in scena nei giorni scorsi lascia emergere una serie di nodi sostanziali che vale la pena sciogliere per aver chiara la trama di quanto accaduto e di quanto potrà accadere da qui al futuro prossimo:
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Governo di cambiamento o governo di attesa?
di Piotr
Difficilmente sarà un governo che farà rimpiangere quelli a guida PD o a guida FI, ma sarà un governo vulnerabile
In un post che ho scritto il 30 maggio e ho inviato solo a pochi corrispondenti personali prendevo in considerazione la possibilità di un rientro in gioco di Conte ma lo ritenevo un evento un po' farraginoso.
Ad ogni modo, sia che fosse andato in porto un tentativo numero due di Conte, o che si fosse andati a nuove elezioni, traevo la conclusione che Di Maio, che non ha esperienza degli intrighi e dei giochi di Palazzo e non ha dietro di sé un partito ma un qualcosa di difficilmente definibile, si era fatto prendere per i fondelli dalla vecchia volpe Salvini che aveva usufruito dell'assist di Mattarella (che infatti Salvini ha subito difeso dall'attacco, un bel po' maldestro, dei 5 Stelle).
Salvini sembrava voler puntare dritto alle elezioni in settembre, sapendo che fino ad allora avrebbe avuto il vento in poppa e sarebbe uscito dalle urne come padrone del Centrodestra e forse con una percentuale di voti pari se non superiore a quella del M5S. A quel punto si sarebbero aperti vari scenari, di cui però per adesso non ha senso parlare.
Ma, a quanto pare, il leader della Lega ha giudicato troppo rischioso politicamente rifiutare il rilancio di un governo Lega-M5S che Di Maio ha proposto una volta che si è reso conto del suo errore. Da una parte sarebbe stato un rifiuto poco giustificabile, dall'altro le difficoltà sperimentate dal M5S nei due giorni seguiti all'uscita di scena di Conte permettevano a Salvini di pensare ad un governo a “trazione” leghista.
Il leader leghista potrebbe così fin da subito imprimere al governo quella “cifra” securitaria (praticamente a costo zero) che sta a cuore a buona parte del suo elettorato. E' facile a quel punto prevedere polemiche e reazioni a non finire che metterebbero in ulteriore difficoltà Di Maio col suo elettorato e si creerebbe una situazione difficile per l'attuazione di quanto di sensato il M5S ha voluto mettere nel programma.
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4 marzo - 1 giugno 2018: un primo bilancio
di Leonardo Mazzei
Dunque il governo gialloverde ha visto la luce. Frutto di un voto e di una spinta popolare, le èlite non hanno certo rinunciato a condizionarlo. Di più: il Quirinale ha tentato perfino di impedirne la nascita, fino a cacciarsi in un vicolo cieco che ha poi imposto il successivo compromesso. Che bilancio trarre dalle vicende degli ultimi tre mesi? Cosa aspettarsi adesso? Quale iniziativa per le forze della sinistra patriottica?
Onde non disperdersi troppo nei meandri di una crisi politico-istituzionale senza precedenti, procediamo per punti.
1. Dal voto del 4 marzo al giuramento del 1° giugno - Può piacere, oppure no, ma bisogna prendere atto che la spinta popolare espressasi nel voto del 4 marzo una via per consolidarsi, per farsi governo, alla fine l'ha trovata. Ha avuto dunque ragione P101 nello scommettere su questa ipotesi già a metà marzo. Certo, si è trattato di un percorso accidentato e controverso, con una conclusione pasticciata assai, ma l'esito è questo a dispetto del parere di tanti. Chi si aspettava una qualche riedizione delle "larghe intese", cioè di un governo imperniato sulle forze sistemiche battute nelle urne (Pd e Forza Italia) allargato ad una pattuglia di "responsabili" (cioè di quei parlamentari voltagabbana che hanno caratterizzato le ultime legislature) è rimasto deluso. Idem chi vedeva all'orizzonte un governo "tecnico" al servizio dei desideri di Bruxelles, Berlino e Francoforte. E sbaglia ora chi ritiene che il governo Conte non si discosterà dalla politica di quelli precedenti, che esso sia già stato normalizzato dal sistema. Che se così fosse non si capirebbe la violenta campagna anti-governativa dell'intero sistema mediatico in corso in questi giorni.
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Caos Italia, ovvero la rivolta del ceto medio
di Michele Castaldo
Con pazienza cerchiamo di spiegare le cause e i possibili sbocchi dell’attuale caos. Lo facciamo partendo dall’interrogativo che si poneva Boccia, presidente della Confindustria, all’Assemblea annuale di quella potente associazione: «possiamo hic et nunc vincere la sfida della competitività con i nostri partner/concorrenti […] con un blocco sociale sul quale poggia la stessa idea della modernità italiana. Il guaio è che», recita il salernitano don Vincenzo, «questa constitiency dell’impresa e del lavoro, nonostante valga almeno 15-16 milioni di voti, si scopre fragile». Come a dire: perché quello che può essere non è? E’ la classica domanda dell’impotenza dell’individuo che non vuol capire le ragioni vere, cioè le cause dei fenomeni e cerca di rincorrere i propri desideri.
Ora, i 15-16 milioni di voti del bacino cui Boccia fa riferimento è rappresentato da un ipotetico blocco sociale comprendente grosso modo la grande borghesia industriale e tutto il ceto medio. Ma, si domanda la Confindustria, cosa sta succedendo, perché quell’unità che dovrebbe essere del tutto naturale evapora piuttosto che condensarsi e addirittura si presenta in blocchi contrapposti? Perché avanza il populismo di un ceto medio ribelle che mette a rischio le residue forze del nostro capitalismo nazionale? La grande industria ed i poteri forti, cioè le banche, i finanzieri interni e internazionali, quei famosi “mercati”, i pescecani della speculazione finanziaria che vanno in giro a prestar soldi vivendo di usura, non accettano di essere messi a rischio dalle rivendicazioni democratiche di settori cresciuti all’ombra di uno sviluppo dell’accumulazione di una fase che ormai abbiamo definitivamente alle spalle.
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Mattarella, la Costituzione e il vincolo esterno
di Luigi Sica
L’affidabilità finanziaria dello Stato ed i vincoli all’indirizzo politico governativo nella crisi del compromesso democratico-sociale. Perché la vicenda della mancata nomina del professor Savona a Ministro dell’Economia e delle Finanze ci dice di più sulla forma di Stato che sulla forma di Governo
Dopo il giuramento del Governo Conte si può dire che c’è mancato veramente poco che la XVII legislatura si concludesse senza essersi sostanzialmente mai aperta, con un conflitto istituzionale dirompente in atto e con delle elezioni anticipate che avrebbero avviato il paese verso una ristrutturazione forse inevitabile del quadro politico.
Nella serata di domenica 26 maggio il Presidente del Consiglio incaricato era arrivato a rimettere nelle mani del Capo dello Stato il mandato che gli era stato assegnato quattro giorni prima, avanti all’indisponibilità del Quirinale a nominare Paolo Savona, già ministro del Governo Ciampi, autore in passato di alcune riflessioni tecniche possibiliste rispetto ad una uscita dell’Italia dall’euro, alla carica – ormai cruciale – di Ministro dell’economia e delle finanze. La presenza alla guida del ministero di Via XX Settembre di Paolo Savona era stata fino ad allora prospettata come irrinunciabile dalla Lega, influentissimo partner di minoranza della nascente coalizione governativa. Il Presidente della Repubblica aveva considerato – come poi risultato chiaro nel breve intervento avanti agli organi di stampa – la semplice nomina di un Ministro che si era espresso in passato in maniera possibilista rispetto all’uscita dell’Italia dall’euro, come suscettibile di compromettere la affidabilità finanziaria dello Stato. Questa compromissione veniva in quella sede considerata già un elemento di violazione dei principi costituzionali riguardanti l’equilibrio di bilancio, la partecipazione italiana alla moneta unica e all’Unione europea, la tutela del risparmio.
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Donne, razza e classe
Ginestra Bacchio intervista Cinzia Arruzza
In occasione della recente uscita in Italia di un classico del femminismo contemporaneo come Donne, razza e classe di Angela Davis (trad. it. di M. Moïsee A. Prunetti, a cura di C. Arruzza, Edizioni Alegre, Roma 2018, 304 pp.) abbiamo colto l’opportunità di porre alcune domande sul libro alla curatrice dell’edizione italiana, prof.ssa Cinzia Arruzza, attualmente Associate Professor of Philosophy presso la New School for Social Research di New York.
* * * *
D: Il testo di Angela Davis da lei recentemente curato in edizione italiana, Donne, razza e classe, è stato pubblicato per la prima volta in America nel 1981. Come lei stessa attesta nell’Introduzione, il suo nucleo programmatico era già contenuto e in parte delineato nell’omonimo articolo che la Davis scrisse durante la sua prigionia nei primissimi anni ’70. Il periodo storico in cui quest’opera è stata elaborata è quindi, non solo temporalmente, estremamente distante da quello odierno. Secondo lei è corretto rapportarsi a quest’opera esclusivamente come importante documento storico femminista o in esso è ancora possibile ritrovare delle linee guida per interpretare un contesto storico e sociale come il nostro?
R: Il libro di Angela Davis ha rappresentato uno dei testi fondativi del femminismo nero e, a partire dagli anni ’90, del femminismo dell’intersezionalità. In questo volume Davis offre una ricostruzione storica e un’interpretazione della nascita e dello sviluppo del femminismo statunitense, a partire dall’emergere del movimento suffragista e dei suoi rapporti con l’abolizionismo. All’interno di questa ricostruzione Davis analizza alcuni momenti chiave che determinarono frizioni e rotture tra il movimento femminista e il movimento Nero di liberazione e, soprattutto, tra un certo femminismo liberale bianco e gli interessi e i bisogni della grande maggioranza delle donne di colore e di classe lavoratrice.
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Il franco tiratore
Bellocchio: intellettuali e riviste della sinistra eterodossa
di Giuseppe Muraca
Esce oggi nelle librerie, per le edizioni ombre corte, Piergiorgio Bellocchio e i suoi amici. Intellettuali e riviste della sinistra eterodossa, di Giuseppe Muraca. Ne anticipiamo qui un estratto. Piergiorgio Bellocchio fa parte di una generazione di intellettuali che si sono formati nel corso degli anni Cinquanta e che nei decenni successivi hanno offerto un contributo determinante al rinnovamento della sinistra italiana e della cultura contemporanea. Ha fondato e diretto le riviste «Quaderni piacentini» (1962-1984) e «Diario» (1985-1993), e ha pubblicato vari libri, tra cui Dalla parte del torto (1989), L’astuzia delle passioni (1995) e Al di sotto della mischia (2007)
Quando alla fine degli anni ottanta Piergiorgio Bellocchio ha pubblicato Dalla parte del torto (Einaudi, Torino 1989) per molti è stata una sorpresa, una rivelazione: ad esempio, tra i giovani lettori del libro quanti conoscevano la singolare esperienza politico-culturale dei «Quaderni piacentini», la rivista che lui insieme a Grazia Cherchi aveva fondato nel 1962 e che era diventata nel giro di pochi anni il principale punto di riferimento della nuova sinistra italiana? Nel ’66 Bellocchio aveva sì pubblicato il volume di racconti I piacevoli servi, però quello era rimasto per più di vent’anni il suo unico libro, e chi lo conosceva e lo aveva frequentato si era abituato a questa lunga pausa.
Se ciò a prima vista può destare meraviglia in realtà si giustifica col fatto che lo scrittore di Piacenza ha ben poco del tipico intellettuale alla moda, delle vedettes della cultura che fanno a gomitate per farsi notare e affollano le giurie dei premi letterari, le redazioni radiotelevisive, dei giornali e delle case editrici. In fin dei conti ancora oggi lui ama considerarsi un dilettante, un «testimone secondario» (secondo una calzante definizione di Cesare Cases che ha fatto sua), e non per semplice vezzo bensì per un desiderio congenito di tenersi lontano dalle risse e dal blà blà, di lavorare ai margini o fuori dai grandi circuiti culturali.
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Governo del cambiamento? Solo se avrà il coraggio di scontrarsi con l’Ue
Giacomo Russo Spena intervista Sergio Cesaratto
L’economista ha un giudizio interlocutorio, ma anche preoccupato, sul nuovo esecutivo: “C’è un problema di coperture finanziarie, fare sia la flat tax che il reddito di cittadinanza, oltre alla riforma della Fornero, sarà impossibile”. E per farlo, nel caso, è necessario battere i pugni a Bruxelles: “Manca una visione macroeconomica, non ci si può limitare all’alternativa secca che o si obbedisce ai vincoli europei o si rompe con l’Ue. Bisogna articolare una proposta di mezzo per rinegoziare il quadro”. Infine, come Piano B, crede non si possa morire per l’Europa: “Come extrema ratio sono per il recupero della piena sovranità monetaria, ciò ha a che fare con la nostra democrazia”.
“Non è certamente un governo progressista però sono curioso di capire se andrà a scontrarsi con Bruxelles. È lì che si gioca la partita”. In questi anni Sergio Cesaratto, economista e professore all’università di Siena, ha scritto libri, interventi e relazioni contro l’attuale assetto dell’Unione Europea. Adesso ha un giudizio interlocutorio, ma anche preoccupato, sul nuovo esecutivo. Se pensa che la cancellazione della riforma Fornero sulle pensioni sia giusta, dall’altra critica la flat tax: “È una redistribuzione del reddito dal basso verso l’alto: una misura che accresce l’ingiustizia sociale e, persino, la crisi finanziaria perché penalizza la domanda interna”. In sospeso rimane poi la battaglia cardine, quella con l’Europa.
* * * *
Professore, partiamo dal contratto di governo siglato tra Salvini e Di Maio. Sono state fatte varie promesse ma, secondo lei, esistono le coperture finanziarie?
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Taylorismo digitale e lavoratori della conoscenza
di Lorenzo Cattani
Verso la fine degli anni Cinquanta, Peter Drucker introdusse per la prima volta il termine “lavoratore della conoscenza”[1]. Drucker riteneva che nel futuro sarebbe stata l’informazione a determinare i più grandi cambiamenti della società e di conseguenza il gruppo più importante, per numero e rilevanza, all’interno della forza lavoro sarebbero stati proprio i lavoratori della conoscenza. In un libro successivo, Drucker arrivava ad affermare che, all’interno di una data organizzazione, ogni lavoratore avrebbe potuto essere un dirigente, qualora, in virtù della sua posizione o conoscenza, fosse stato responsabile di fornire un contributo che potesse influenzare la performance dell’organizzazione, nonché la capacità della stessa di raggiungere gli obiettivi[2].
Negli ultimi decenni i lavoratori della conoscenza sono stati riconosciuti come un attore chiave all’interno del mercato del lavoro e, anche nel dibattito pubblico, l’interesse attorno a questa categoria di lavoratori è indubbiamente aumentato. La gestione dei lavoratori della conoscenza è quindi un passaggio fondamentale nella vita di un’azienda, specialmente in questa fase storica in cui le imprese si preparano ad affrontare la “quarta rivoluzione industriale”.
Il punto fondamentale sta nella scelta di quale principio adottare per gestire questi lavoratori e, ad oggi, questa scelta oscilla sostanzialmente fra due poli. Da una parte vi è la strategia di dare più autonomia ai lavoratori della conoscenza, dall’altra vi è invece la possibilità di “strutturare” il loro lavoro “esternamente”, determinando a priori le modalità con cui dovrebbero svolgere i loro compiti, opzione che va nella direzione opposta rispetto a quella di una maggiore autonomia. Thomas Davenport ha definito questi due approcci alla gestione strategica dei lavoratori della conoscenza come il free-access approach e lo structured approach[3].
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Memoria. Tre sessantottini
di Ennio Abate
Pubblico le riflessioni che Paolo Rabissi e Franco Romanò hanno fatto leggendo il racconto del mio ’68 ( qui ). [E. A.]
Il mio '68 era cominciato nel '66
di Paolo Rabissi
Caro Ennio
non sono uno dei vecchi cui poter passare le tue domande così cariche di problemi, non ho capito meglio di te il significato di quell’anno. Di più, io festeggio il ’68 tutti gli anni il 7 dicembre non perché a S. Ambrogio in quell’anno Capanna strigliava i compagni poliziotti davanti a La Scala ma perché più o meno nella stessa piazza (c’era un Motta) io e Adriana facevamo un piccolo rinfresco dopo il matrimonio della mattina. Non voglio essere irriverente, è che se riuscirò a parlare di quegli anni ( mi sono un po’ arenato nei miei biograffiti) come fai tu (apprezzo il tono che dai alla tua narrazione) verrà sicuramente fuori 1) che il mio ’68 era cominciato nel ’66 (perché ho cominciato a insegnare da studente e che non aveva una lira in tasca, perché ho conosciuto Adriana, perché ho conosciuto quelli di ‘Classe operaia’) e 2) che in realtà per me non è mai finito. Anche a me interesserebbe un po’ di più interloquire con un giovane, precario e disoccupato se proprio vuoi. Ma neanche tanto. Quando arrivano in casa i giovani di Amazon o di altri servizi, postali e non, mi confessano che amano il loro lavoro, durissimo ma pagato abbastanza e non si preoccupano per niente di futuri e di pensioni e di cassa malattia. Tutti a dire poveretti come sono sfruttati e c’è un po’ di miserabilismo intorno a loro e invece poi scopri che fanno lotte non da poco. Ma un amico della logistica ci sta dentro bene, lavora come nessun operaio fordista avrebbe accettato di fare. Però nella logistica fanno lotte non da poco e scoprono daccapo il mutuo soccorso, la solidarietà di un tempo.
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Elezioni in Turchia, tamam o devam?
di Fabio Salomoni
“Sfregiare il carisma” è un’espressione dello slang della lingua turca per indicare un episodio, un inciampo imprevisto che all’improvviso incrina l’aura di una persona rivelandone la fragilità. Lo scorso 8 maggio Twitter ha annunciato che il trend più popolare della giornata rilanciato da più di un milione di utenti era una parola turca, TAMAM. Una parola comunissima, una di quelle che anche il turista mordi e fuggi impara velocemente, che serve generalmente ad esprimere accordo oppure in alcuni casi per dichiarare di averne abbastanza – Basta così. Proprio Il giorno prima il presidente Erdoǧan in un discorso pubblico aveva pronunciato questa parola apparentemente per rassicurare gli avversari che lo sospettavano di non avere nessuna intenzione di lasciare il suo posto: “Se il popolo dovesse dire basta così, tamam, noi ci faremo da parte”. Immediatamente questa parola dal suono così innocente si è velocemente trasformata in un boomerang diventando la parola d’ordine dei suoi oppositori nella campagna elettorale in vista delle elezioni presidenziali del prossimo 24 giugno. A nulla sono valsi i tentativi di rimediare all’incidente accusando i twittatori di essere simpatizzanti del terrorismo, che fosse quello del golpista Fethullah Gülen oppure quello dell’immancabile PKK. Goffo anche il tentativo di rilanciare un’altra parola d’ordine, devam – si continua. Tutto inutile, il danno ormai era fatto e appunto il carisma personale del Presidente sfregiato. Il carisma, secondo Max Weber, è costituito dal (presunto) possesso da parte di una persona di qualità eccezionali. E queste qualità per diventare carisma devono essere poi riconosciute come tali da un pubblico che finisce così per riconoscere in quella persona un leader. È indubbio che il carisma personale di Erdoǧan rappresenti una delle chiavi di lettura principali per leggere la sua straordinaria parabola politica, fin dalla sua ormai lontana elezione a sindaco di Istanbul nel 1994.
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Le origini dell’ondata populista in Italia
di Aldo Giannuli
Questo articolo è tratto da un mio intervento ad un convegno del marzo 2013 presso l’Università Guglielmo Marconi sul populismo. Buona lettura
Il recente successo della lista del Movimento 5 stelle è stato variamente interpretato, ma, nel complesso, si è registrata una vasta convergenza nella sua definizione come movimento populista, il che, peraltro ha un fondamento, dato che lo stesso movimento ha fatto sua questa definizione, un po’ riconoscendosi in essa, un po’ per ritorsione polemica.
Ovviamente si tratterebbe di un “populismo sui generis”, che meriterebbe un’analisi particolareggiata, che, a sua volta, richiederebbe una soddisfacente definizione della categoria “populismo”.
Come è noto, tale qualifica, nel tempo, è stata attribuita a movimenti fra loro molto diversi: dal peronismo alla Cause du Peuple, dal petainismo al gaullismo, dal poujadismo a Lotta Continua, da Getulio Vargas a Mogen Glistrup, da Lazaro Cardenas a Fidel Castro ed anche in tempi recenti la qualifica è riferita ai personaggi come Charles De Gaulle, Ronald Reagan, Ross Perrot e, via via, Collor de Mello, Jordi Pujol, Bernard Tapie, Fujimori, Stanislaw Tyminski, Pym Fortuyn o Jorg Haider.
Un insieme di movimenti, personaggi, fenomeni, talmente eterogeneo, da rendere del tutto sfuggente la categoria. Tutto questo è stato determinato da un uso polemico e spesso improprio del termine spesso attribuito a movimenti che non si riconoscevano affatto come tali. In realtà a definirsi tali ed ad aver elaborato una teoria politica coerentemente populista furono i narodniki (appunto: populisti) russi, dopo la qualifica venne estesa per analogia ai movimenti anarchici (peraltro Bakunin proveniva dal proto-movimento populista) e, via via ad altri fenomeni sempre più diversi.
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La questione tedesca
di Giacomo Gabellini
Ci sono le opinioni e poi le ricostruzioni inoppugnabili come quelle di Giacomo Gabellini: lo scenario geopolitico della crisi della UE
L’1 settembre del 1994, durante il semestre di presidenza tedesca dell’Unione Europea (Ue), il presidente del gruppo parlamentare Wolfgang Schäuble, che sarebbe poi assurto a onnipotente ministro delle Finanze di Berlino, presentò al Bundestag, a nome del partito Cdu, un documento redatto assieme a Karl Lamers dal titolo Riflessioni sulla politica europea. All’interno del testo, i due politici tedeschi denunciavano come dopo la caduta del blocco sovietico e la riunificazione tedesca, lo sviluppo del processo di costruzione dell’Europa e di allargamento dell’Ue verso Est fosse entrato in una fase critica, al punto che:
«se entro due-quattro anni non si trova una soluzione alle cause di tale inquietante evoluzione, anziché indirizzarsi verso la maggiore convergenza prevista dal Trattato di Maastricht, l’Unione rischia di imboccare inesorabilmente la via di una formazione più debole, limitata essenzialmente ad alcuni aspetti economici e composta da diversi sottogruppi. Tale zona di libero scambio “migliorata” non potrebbe consentire alla società europea di superare i problemi vitali e le sfide esterne che si trova ad affrontare».
I provvedimenti istituzionali e politici che Schäuble e Lamers raccomandavano di adottare per prevenire questa deriva riguardavano innanzitutto il rafforzamento istituzionale dell’Unione Europea, la cui capacità di azione su base democratica dovevano essere irrobustite adottando una struttura modellata sulla falsariga dello Stato federale ed ispirata al principio di sussidiarietà.
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Capitalismo, capitalismi...
di Bernard Drevon
Se il capitalismo dell'era fordista è davvero morto, come si può fare a comprendere il nuovo «capitalismo finanziario»? Svolto a partire soprattutto dall'opera di Polanyi, questo prezioso contributo di Bernard Drevon, economista e presidente della Société des Amis de Veblen, offre una riflessione, densa e pedagogica, sul ruolo della finanza nell'evoluzione del capitalismo e sulle contraddizioni
La nostra riflessione si concentrerà sui principali sviluppi del capitalismo e delle relazioni sociali che lo caratterizzano. Per cui verranno lasciati fuori dal suo campo di studi, gli altri elementi della storia e delle nostre società contemporanee altrettanto importanti, rifiutando di porli in una prospettiva deterministica nella quale in ultima analisi l'economia sarebbe decisiva. Inoltre, per limitare l'ampiezza dell'argomento, tenteremo di isolare, senza voler essere esaustivi, con grande prudenza di fronte alla complessità della realtà, alcune tendenze importanti... Uno dei fili conduttori è costituito dalla riflessione sullo status della finanza nell'evoluzione del capitalismo, le sue funzioni e le sue contraddizioni, di cui la finanziarizzazione è portatrice.
La finanza al servizio dell'accumulazione,
nel primo capitalismo industriale
Secondo la definizione di Karl Polanyi, un sistema economico è un «processo istituzionalizzato di interazione fra l'uomo ed il suo ambiente, che si traduce nella fornitura continua di mezzi materiali che permettono la soddisfazione dei bisogni» [*1]. Il sistema capitalistico è solo un modo particolare di istituzionalizzazione del processo di produzione, quello della proprietà privata dei mezzi di produzione. In questo sistema, l'iniziativa della produzione spetta agli attori privati, individui e imprese, guidati dalla ricerca del profitto. In un secondo tempo, questi individui ed imprese validano socialmente la loro produzione, soddisfacendo la domanda dei consumatori che si esprime sul mercato [*2].
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Non ci sono vie di mezzo
Ugo Boghetta, Carlo Formenti, Mimmo Porcaro
1
Mentre scriviamo si sta insediando un governo che è espressione di una coalizione sociale instabile e che è destinato a sua volta a generare instabilità. La coalizione sociale va dalle medie e piccole imprese ai professionisti, dagli operai ai disoccupati e precari. L’egemonia spetta allo strato superiore, quello più direttamente favorito dalla flat tax. Ma questo strato, per recuperare quanto perduto a seguito della globalizzazione, deve necessariamente appoggiarsi allo strato inferiore e quindi abbozzare una redistribuzione di ricchezza. Da ciò nasce un programma che è un mix di reaganismo (taglio delle tasse) e di politica espansiva, una politica che, anche se non può affatto dirsi keynesiana (il deficit serve in gran parte a compensare il minore introito fiscale, l’occupazione è pensata come effetto indiretto della detassazione e degli incentivi alle imprese…) è comunque sufficiente a mettere in allarme la Commissione europea. Quanto maggiore sarà la redistribuzione verso il basso, tanto maggiore sarà l’urto con l’Unione europea. Al contrario, più il governo sarà accomodante con Bruxelles, più entrerà in conflitto coi suoi elettori: e non sarà sufficiente, a quel punto, dirottare la rabbia verso gli immigrati e verso tutte le altre “classi pericolose”. Il dominio incontrastato della borghesia transnazionale ha subito una battuta d’arresto: domani forse riuscirà ad assorbire la defezione della borghesia nazionale, ma per adesso l’acuta sofferenza degli strati popolari e delle piccole imprese fa sì che il governo debba accentuare l’instabilità e mettere sul tavolo, finalmente, le vere questioni. In prospettiva a pesare non sarà tanto quanto scritto nel programma ma l’andamento reale delle contraddizioni e l’emergere della vera natura dei soggetti della coalizione.
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Terza Repubblica e “coscienza di classe” dei ceti medi
di Giorgio Gattei, Gianmarco Oro
1. Quando un partito di centrosinistra, come il Pd, esce da sette anni di larghe intese nel nome delle riforme e dell’austerità, forse ci si sarebbe aspettato un messaggio di speranza che parlasse di lavoro e di protezione sociale (entrambi in crisi già da diversi anni) che da parte di una socialdemocrazia europea sarebbe quantomeno augurabile. Ebbene, a questi livelli di disoccupazione, con i molteplici fallimenti delle imprese e una disuguaglianza distributiva sempre più accentuata, a chi si è rivolto il Pd quando ha parlato di aver fatto “cose buone” citando un Pil in crescita e un rapporto debito/Pil leggermente in discesa? A nessuno. Perché perdere le elezioni il 4 marzo, dopo aver fatto a suo dire “cose buone”, è un’aggravante e non una scusante, perché significa che si è perso sul campo più importante, cioè quello della rappresentanza politica.
Dall’inizio dell’esperienza repubblicana tutte le forze politiche, sia di destra che di sinistra, si sono contese l’egemonia della sovrastruttura statale mediando gli interessi economici di quella parte della popolazione che nella composizione sociale, se letta en marxiste, si pone tra la borghesia e il proletariato e che costituisce il cosiddetto ceto medio: impiegati privati e pubblici, liberi professionisti, lavoratori autonomi e piccoli imprenditori, artigiani e commercianti. Per lungo tempo visto a sinistra come l’arma, niente affatto scarica, che la borghesia puntava contro il proletariato per tenere in mano l’equilibrio della distribuzione del reddito in una economia capitalistica, il ceto medio ha approssimato il suo credo politico agli ideali della classe sociale che mostrava di essere la migliore rappresentante dei suoi interessi, condividendo quindi per lungo tempo con la borghesia le aspettative di benessere economico e la coscienza d’elevazione sociale e culturale, sia pure subendo, come il proletariato, lo stato di sottomissione agli stessi rapporti di lavoro coercitivi validi in un mercato concorrenziale.
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Bankitalia, Europa e mainstream
di Carlo Clericetti
Nei due anni scorsi le Considerazioni finali del governatore Ignazio Visco erano state fortemente critiche nei confronti delle scelte europee. Specie in quelle del 2017 era ricordato un nutrito elenco delle misure che avevano danneggiato l’Italia. Di questo, stavolta, non si trova traccia, e anzi alla conclusione del discorso, dove pure si ricorda che molti cambiamenti sarebbero necessari, Visco si esprime in modo categorico: “Il destino dell’Italia è quello dell’Europa. Siamo parte di una grande area economica profondamente integrata, il cui sviluppo determina il nostro e allo stesso tempo ne dipende. È importante che la voce dell’Italia sia autorevole nei contesti dove si deciderà il futuro dell’Unione europea”. E su questo, capitolo chiuso, è una scelta che non si discute.
Il paragrafo sull’economia italiana, dove il governatore oltre all’analisi della situazione (piuttosto ottimistica) traccia il programma delle cose da fare, conferma una volta di più che l’orientamento di Visco non si sposta di una virgola da quella impostazione mainstream che ha dominato il pensiero economico negli ultimi 40 anni.
Il primo problema ad essere citato è quello del debito pubblico:
“Scoraggia gli investimenti aumentandone i costi di finanziamento e alimentando l’incertezza; accresce il ricorso a forme di tassazione distorsiva, con effetti negativi sulla capacità di generare reddito, risparmiare e investire; comprime i margini disponibili per politiche sociali e di stabilizzazione macroeconomica. Espone a crisi di fiducia, particolarmente pericolose quando, oltre a coprire il fabbisogno dell’anno, si devono rifinanziare ingenti importi di titoli in scadenza: in Italia si tratta complessivamente di circa 400 miliardi all’anno”.
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La dinamica immanente del capitalismo vista come ossessione per la produttività
Processo innovativo, sovrapprofitto e crisi
di Palim Psao
«Ma la contraddizione di questo modo di produzione
capitalistico risiede proprio nella sua tendenza a
sviluppare assolutamente le forze produttive,
che entrano costantemente in conflitto con le
condizioni specifiche di produzione, nelle quali
si muove il capitale, le uniche in cui può muoversi»
(Karl Marx, Il Capitale, Libro III)
1. Il capitale come «contraddizione in processo»
Il processo fondamentale di crisi non è affatto iniziato con la crisi economica e finanziaria del 2007-2008, ma ha avuto origine in una contraddizione insolubile inerente alla relazione capitalista. Alla fine, ciò che rende insostenibile il modo di produzione capitalista, è il conflitto esistente fra lo sviluppo delle forze produttive e la finalità limitata che consiste nella moltiplicazione della ricchezza astratta. Per questo motivo, Marx parla della relazione di capitale come di una «contraddizione in processo».
Più volte, Marx si riferisce ad una contraddizione in processo fra lo sviluppo delle forze produttive e le condizioni della produzione, una contraddizione che non è quella delle classi e dei loro rapporti di forza.
«La contraddizione, esposta in termini generali, consiste in questo: la produzione capitalistica racchiude una tendenza verso lo sviluppo assoluto delle forze produttive, indipendentemente dal valore e dal plusvalore in esso contenuto, indipendentemente anche dalle condizioni sociali nelle quali essa funziona; ma nello stesso tempo tale produzione ha come scopo la conservazione del valore-capitale esistente e la sua massima valorizzazione {vale a dire l’accrescimento accelerato di questo valore).» (Karl Marx, Il Capitale Libro III cap.15).
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Quei trattati immodificabili che creano squilibri
Un “piano B” serve a tutti
di Claudio Conti
Non è facile capire come funziona il nostro angolo di mondo ascoltando i telegiornali o dando retta alla triade Repubblica-Corriere-Stampa. Da queste fonti, infatti, “l’Europa” viene descritta come il paradiso delle virtù e il nostro paese come la sentina di tutti i vizi; solo dosi a salire di austerità e sacrifici potrebbero correggere un “carattere nazionale” davvero scadente.
Sui vizi italiani si può facilmente concordare – e qui cascano di solito molti asini “di sinistra” – ma l’Unione Europea (una costruzione tecnoburocratica strutturata da trattati non modificabili, se non all’unanimità) è ben lontana dall’essere una casa di vetro.
Per capirne di più bisogna provare a leggere fonti diverse, che diano conto di quel che matura dentro l’establishment tedesco (il vero e unico “motore” della Ue) e soprattutto di quale sia la situazione economica complessiva, con tutte le distorsioni che da qui non si vedono e che i media mainstream si guardano bene dall’illuminare.
Il formarsi di un governo grillin-leghista, con un programma teoricamente “indipendentista” rispetto alla Ue, è stato accompagnato da alti allarmi (registrati anche dai “mercati”), ma con una serie di considerazioni che qui vengono considerate pura follia, mentre altrove sono normale dibattito su cosa può avvenire a seconda dell’evoluzione di alcune variabili.
Per esempio, riferisce il corrispondente dalla Germania di Italia Oggi, sulla prestigiosa rivista Manager Magazine, uno degli opinionisti più influenti, Daniel Stelter, spara a zero sulla Bce di Mario Draghi:
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La via yankee al sovranismo
di Riccardo Paccosi
Pubblichiamo la riflessione di Riccardo Paccosi (da Facebook) come contributo alla discussione sulle questioni relative alla difesa della sovranità nazionale
Ho iniziato a parlare dell’esistenza di una Via Yankee al Sovranismo, più o meno da quando ho iniziato a identificarmi, da un punto di vista marxista, con tale categoria politica. Dunque, intorno al 2012.
Infatti, dall’avvento dell’austerity del Governo Monti nel 2011, si è immediatamente palesato che, a fronte della rigidità tedesca che indirizzava le posizioni dell’Unione Europea imponendo politiche di macelleria sociale a Grecia e Italia, da parte degli Stati Uniti vi era un atteggiamento decisamente più elastico nei confronti della spesa pubblica e del bilancio statale. La troika che impartiva ordine ai governi euro-mediterranei, in altre parole, risultava essere composta dal “poliziotto buono” FMI e dal “poliziotto cattivo” Commissione Europea.
Così, molte figure pubbliche che in quel periodo e a vario titolo si pronunciavano contro l’austerity – per esempio Paolo Barnard, ma anche Stefano Fassina – enunciavano altresì esplicitamente la necessità di cercare sponda politica negli Stati Uniti e nel Fondo Monetario per uscire dalla trappola mortale del fiscal compact e dal controllo tedesco sulla nostra economia.
Da allora, molta acqua è passata sotto i ponti.
Otto anni di austerity hanno quasi del tutto eroso, presso l’opinione pubblica italiana ed europea, il preesistente sostegno alla prospettiva eurofederalista e hanno portato, quindi, il sovranismo al centro del dibattito politico e reso maggioranza parlamentare quelle forze politiche che, con varia gradazione, alle tematiche sovraniste sostengono di rifarsi.
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Il governo e il gioco dell’Oca
di Militant
E così, alla fine, si ritorna al punto di partenza, con la giostra della politique politicienne che in poche ore ha fatto l’intero giro per tornare dov’era partita, impossibilitata a trovare una via d’uscita da quel “bipopulismo imperfetto” fotografato dalle elezioni del 4 marzo. Ogni attore in commedia potrà finalmente ricominciare a recitare la sua parte laddove l’aveva lasciata: la Lega e i Cinque Stelle potranno tornare a promettere mari e monti facendo i conti senza l’oste di Bruxelles, il Pd potrà riprendere la faida interna che dovrebbe portare alla nascita del nuovo partito à la Macron, Forza Italia potrà continuare lentamente ad estinguersi nella speranza che Berlusconi prima o poi resusciti e la sinistra-sinistra potrà ricominciare ad inveire sui social contro “il governo più di destra dalla caduta del regime fascista” cercando così di esorcizzare la sua scomparsa dalla società reale.
E’ difficile dire cosa abbia determinato la ricomposizione di un quadro istituzionale che solo poche ore fa sembrava avviato a nuove elezioni, ed altrettanto difficile capire chi, con la composizione dell’esecutivo che verrà ufficializzato oggi, abbia portato a casa se non “il risultato”, quantomeno un risultato. Almeno a prima vista Mattarella sembrerebbe riuscito a non perdere completamente la faccia, ottenendo almeno lo spostamento di Savona dal ministero dell’Economia a quello dei rapporti con l’Ue, ma la sensazione però è che si tratta di un palliativo. Se si fosse andati davvero alle elezioni il presidente della Repubblica (per conto dell’unione Europea) si sarebbe trovato con ogni probabilità di fronte ad uno scenario ancora peggiore di quello attuale, con il polo populista che avrebbe fatto il pieno di voti sull’onda del veto della Ue ed il fronte europeista ancora più a pezzi di come si ritrova oggi.
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Germania über alles!
E in Italia neppure si può nominare un piano b per uscire dall’euro
di Enrico Grazzini
Lo spread sta salendo e gli attacchi speculativi sul debito di stato italiano potrebbero causare la crisi di tutta l'eurozona. Balliamo ai bordi di un precipizio. E questo perché? Paradossalmente perché qui in Italia è assolutamente proibito parlare di un Piano B, ovvero di un piano di emergenza in caso di …. crisi dell'eurozona! Per il Presidente della Repubblica Italiana (e per l'establishment e i media dominanti), l'euro è un totem sacro e intoccabile di fronte al quale occorre prostrarsi in religioso silenzio: e quindi per Mattarella non è stato possibile nominare un ministro, come Paolo Savona, che ha presentato un suo piano per evitare la definitiva rovina dell'Italia nel caso che l'eurozona entri in crisi. L'Italia rispetta come un dogma la moneta unica dell'eurozona a guida germanica. Al contrario, per la Germania l'euro non è irreversibile, non fa necessariamente parte del fatale destino comune dei popoli e dei Paesi europei. In Germania oggi si discute apertamente di creare delle nuove regole per fare uscire dall'eurozona chi non si adegua alle norme e ai vincoli dettati da Berlino e da Bruxelles.
“L'eurozona ha bisogno di creare delle procedure per affrontare in maniera ordinata la possibile insolvenza (ovvero il fallimento, ndr) di uno stato e l'eventuale recesso di uno stato dall'eurozona”. Questa frase è contenuta in un documento ufficiale firmato qualche giorno fa da 154 influenti economisti tedeschi contro le proposte di riforma dell'eurozona da parte del presidente francese Emmanuel Macron[1].
Gli economisti - tra cui Hans-Werner Sinn, forse il più influente economista tedesco, apertamente euroscettico - si sono espressi contro le riforme proposte da Macron, che vanno nel senso della creazione di un bilancio comune dell'eurozona. Le 154 personalità della scienza economica teutonica non vogliono che il loro governo accetti qualsiasi soluzione che in futuro possa portare a una condivisione dei debiti, pubblici o bancari.
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Populisti ante portas, globalisti nel panico
UE verso il bio-tecno-fascismo
di Fulvio Grimaldi
...e poi dicono che sono i russi a interferire nelle elezioni
Ci si può illudere e nascondere dietro la formula della “crisi sistemica” del capitalismo, prodromo dell’inesorabile quanto follemente deterministica palingenesi dell’umanità. Ci si può consolare con la visione di un tagliateste (Cottarelli) senza maggioranza che poco avrebbe potuto fare prima che nuove elezioni oppongano al golpe morbido un contraltare elettorale dell’80%. Qualcuno ripiegherà verso il “meno peggio”, inteso come superamento del pericolo mortale “fascioleghista e populista”. Lo scambio tra carnefice e vittima (organico ai nostri tempi) gli consente di convivere con il faux pas mattarelliano per cui la poco istituzionale giustificazione adotta per l’annientamento di una maggioranza di governo, espressa dalla sovranità popolare sancita dalla costituzione, sarebbe “l’irritazione dei mercati”. Quelli che, a loro amici, secondo gli eurofeudatari tedeschi dovrebbero insegnare agli italiani a votarsi contro. E guai a irritare Giove. Per placarlo tocca sgozzare qualcuno sull’ara, fossero anche 17 milioni di elettori. E’ la ciambella di salvataggio che lanciano all’uomo di Castellamare del Golfo (ministro della Difesa che bombardò Belgrado) i progressisti delle varie squalificazioni: dai “comunisti “ sorosiani del manifesto, ai Liberi e Uguali sottopancia del PD, ai benemeriti Cia di tutta quanta la democratica stampa coloniale.
No Tap e capisci tutto
Era domenica sera a Melendugno, cittadina a cui il gasdotto mafio-amerikano TAP vorrebbe squarciare San Foca, la più bella spiaggia del Salento, prima di sradicare, in combutta con un falso batterio ulivicida, migliaia di ulivi, ossa, pelle e anima della Puglia, per risalire la penisola lungo la faglia sismica che ha raso al suolo il Centroitalia e sistemare miliardi di tonnellate di gas sottoterra nella bassa padana, in una concentrazione demenziale di stoccaggi, a sollecitazione di altre potenzialità sismiche. Gas che serve al Nordeuropa (noi ne siamo saturi) e ai vari tangentari lungo il percorso dall’Azerbaijan.
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Italia più povera con questo euro
di Andrea Mazzalai
Ecco il testo integrale del mio articolo uscito ieri sul quotidiano L’Adige che ringrazio per l’ospitalità, una sintesi del mio pensiero all’interno del dibattito sul futuro dell’Europa e dell’euro.
Prima però vi propongo in originale un estratto della recente intervista del giornale tedesco Süddeutschen Zeitung, a Van Rompuy attuale presidente del Consiglio Europeo, il quale ha dichiarato…
Das sei heute anders, entgegnet die SZ. Van Rompuy:
„Ja, Europa verändert unseren Alltag. Und natürlich spielt das Europäische Parlament eine wichtige Rolle, spätestens seitdem der Lissabon-Vertrag gilt. Aber die Bürger wissen auch, dass die großen Entscheidungen nicht nur im Parlament fallen, sondern auch woanders.“EU-Ratspräsident im Gespräch – Van Rompuy wirft Parteien …
…ovvero che le decisioni che ci riguardano vengono prese anche altrove non solo in Parlamento, ma questo per noi non è una novità!
* * * *
Recentemente il professor Stefano Zamagni ricordando il nostro Alcide De Gasperi, ha ricordato che disoccupazione strutturale e povertà estrema furono sin da subito i suoi principali cavalli di battaglia insieme alla lotta agli interessi costituiti che quando danno vita a forti coalizioni distributive, rappresentano la più grave minaccia alla crescita.
In questi giorni è uscito un rapporto pubblicato da Corporate Europe Observatory, un gruppo di ricerca indipendente che vuole far conoscere e sfidare l’accesso privilegiato e l’influenza che godono i gruppi di pressione nel processo decisionale europeo, un esercito di 1.700 lobbisti con a disposizione un fatturato annuo di oltre 120 milioni di euro, forniti da banche e altre imprese del settore per sostenerne le attività.
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Che enorme patrimonio di nuove conoscenze è ora disponibile!
Volker Külow intervista Rolf Hecker*
Conversazione con Rolf Hecker: i 200 anni di Karl Marx, il significato del suo lavoro oggi e lo stato attuale della seconda edizione completa delle opere di Marx ed Engels (MEGA)
Volker Külow: In occasione dei suoi 200 anni, Karl Marx viene celebrato in tutto il mondo?
Rolf Hecker: Si tratta di un fenomeno soprattutto occidentale, in quanto Marx era prima di tutto europeo e la sua teoria affonda le radici nell’Illuminismo europeo. Ci sono però in tutto il mondo suoi estimatori ed estimatrici e le sue opere vengono studiate ed edite dal Brasile all’India fino alla Cina.
VK: Secondo lei qual è il numero delle sue pubblicazioni al mondo? In quali paesi e in quali lingue viene pubblicato maggiormente?
RH: Se si considerano le pubblicazioni su Marx e sulla sua teoria oggi, sono sicuramente tante, soprattutto in lingue europee, ma anche in cinese e giapponese. Tuttavia, ciò che ritengo di maggior rilievo è la pubblicazione degli scritti di Marx. Proprio nel 2017 – il primo volume de “Il capitale” venne pubblicato nel 1867 - abbiamo constatato che in alcune lingue, per esempio in italiano, in greco e in cinese, sono comparse nuove traduzioni che prendono a riferimento la nuova edizione MEGA. Di grande rilievo è anche la nuova edizione tedesca di Thomas Kuczynski.
VK: A questo punto presumibilmente anche le persone più esperte perdono la visione di insieme. C’è un’opera che secondo lei è da considerare particolarmente innovativa e stimolante per il nostro rapporto con Marx nel 21simo secolo?
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