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La barricata mobile delle resistenze urbane
di Fabio Ciabatti
Il campo di battaglia urbano. Trasformazioni e conflitti dentro, contro e oltre la metropoli, a cura del Laboratorio Crash, Red Star Press 2019, pp. 297, € 17,00
“Il cittadino e l’abitante della città sono stati dissociati”, sostiene Henri Lefebvre in uno dei suoi ultimi scritti. Di fronte a questo fenomeno bisogna rilanciare il diritto alla città e cioè una “concezione rivoluzionaria della cittadinanza politica”. Sebbene le analisi di Lefebvre rimangano imprescindibili per comprendere il nostro presente, possiamo ancora oggi fare nostra la sua prospettiva di un nuovo incontro tra cittadino e abitante urbano o dobbiamo fare un passo oltre? Si può partire da questa domanda per esporre i contenuti del libro Il campo di battaglia urbano, volume che presenta una selezione di testi, compreso l’articolo da cui abbiamo tratto le citazioni di Lefebvre1 e un’intervista a David Harvey, emersi da un percorso di elaborazione teorica sull’urbano articolato in convegni, dibattiti e produzione di scritti, promosso tra il 2017 e il 2018 dal Laboratorio Crash di Bologna.
Come possiamo concettualizzare le dinamiche che investono oggi la città? Secondo il Laboratorio Crash il territorio non va ridotto a un ambiente ostile alle classi subalterne come se esso fosse meramente funzionale alla produzione capitalistica e alla vita degli abitanti più ricchi. Allo stesso tempo nelle città facciamo fatica a trovare ancora i vecchi quartieri proletari, solidali e pronti alla lotta, perché in assenza di intervento politico spesso prevalgono l’anomia, la solitudine, la disgregazione, la rabbia cieca. Prodotto di una relazione antagonistica il territorio non esiste come forma predefinita e unitaria: non è un background ma un battleground.
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Il capitalismo delle piattaforme1
di Antonio Savino
Dal capitalismo immanente, quello delle ciminiere, delle sirene che chiamano al lavoro migliaia di persone, si è passati al capitalismo trascendentale, un capitalismo simil-finanziario, che trae profitto creando centri (monopolisti) di servizi e “miners”, relazioni, collegamenti e estrazione di dati: sono le nuove piattaforme che internet e le nuove tecnologie digitali consentono; il loro core business è tanto la prestazione di un servizio (spesso retribuita, ma non sempre), quanto l’estrazione di valore dalle interazioni sociali che ne derivano.
Le piattaforme fino a ieri erano delle strutture piane e resistenti che servivano come base di appoggio per un trasbordo di merci e rendono possibili dei passaggi. Le recenti piattaforme digitali sono un agglomerato di hardware e software (con uso di intelligenza artificiale e big data) che si collocano in modo tendenzialmente monopolista, tra due entità fisiche come produttori e consumatori (es. Amazon), tra parlanti e riceventi (es. Facebook) o tra macchine e operatori (es. Siemens, GE) che permettono di svolgere determinate operazioni. Sono dispositivi con strutture e norme che regolano flussi, passaggi, spostamenti ed operazioni varie di informazioni e merci.
Fin qui tutto sembra normale, le piattaforme più o meno tecnologiche ci sono sempre state, svolgevano un servizio spesso legale e “utili” (il virgolettato del dubbio) come la grande distribuzione, notai, ecc, altre volte meno legali come i sistemi mafiosi, i quali ponendosi da monopolisti tra produttori e consumatori (nei settori droga, ortofrutta, caporalato, costruzioni, ecc.) traggono profitto dalla transazione.
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La crisi capitalistica e la voliera della Sinistra
Commento a un articolo di Contropiano sul colpo di stato in Bolivia
di Michele Castaldo
In un momento di grandi sconvolgimenti degli assetti capitalistici mondiali la Sinistra somiglia a una voliera dove molte specie di volatili danno vita a un coro polifonico in cui è difficile distinguere i vari cinguettii. Segno dei tempi e delle nostre difficoltà. Una di queste voci che prendiamo a esaminare, separandola dal contesto della voliera, è quella di , una rivista e una organizzazione che fino ad oggi ha difeso strenuamente i governi di sinistra di alcuni paesi dell’America latina. Onore al merito, ci sentiamo di aggiungere.
Dopo il colpo di stato ordito dalle potenze occidentali, in primis dagli Usa, e le dimissioni forzate di Morales in Bolivia, c’è una novità in quello che scrive Luciano Vasapollo, conoscitore dei paesi latino americani e dirigente storico di quella rivista. Citiamo alcuni passaggi di un articolo comparso in rete muovendo alcune osservazioni di merito in quello che viene espresso.
Scrive Vasapollo:
«E’ assolutamente evidente che gli Stati Uniti, in ritirata in altre zone del mondo, stanno cercando di riprendersi il “cortile di casa” eliminando le esperienze alternative, dal Venezuela al Nicaragua, dal Brasile all’Ecuador e ora in Bolivia»
«E’ […questa la conseguenza di] un errore abbastanza comune, quello di credere che la conquista del governo politico coincida con la conquista del potere reale. Ma se non si mette mano alla modifica sostanziale del sistema economico, ossia se non si fa prevalere l’autodeterminazione sul come e cosa produrre e ci si limita soltanto alle politiche di redistribuzione sociale, non si modificano le modalità di riproduzione delle parti reazionarie e benestanti della società».
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Marx e la maternità surrogata
di Gabriele Pastrello
Condivido completamente questo articolo dell’amico Gabriele Pastrello, docente universitario e rigoroso studioso e intellettuale marxista.
Mi permetto solo una sola ma importante nota. Gabriele analizza (e stigmatizza) giustamente la pratica della “maternità surrogata” (leggi utero in affitto) e l’ideologia (capitalista), cioè il processo di mercificazione ideologica e pratica che gli sta alle spalle. La sua analisi si concentra però “solo” sugli effetti subiti dalle donne, sulla mercificazione (di fatto spesso coatta) del loro corpo e delle loro vite.
Non fa cenno però delle altre vittime di tale processo, e cioè i figli concepiti con tale pratica, di fatto ridotti a oggetti che possono essere venduti e comprati, con tutti i (devastanti) risvolti psicologici e umani che tutto ciò comporterà sulle loro vite.
Ma sono certo che non si tratti di una omissione e che Gabriele sia ben consapevole della questione che sicuramente non tarderà ad affrontare. [Fabrizio Marchi]
1) Premessa (un ripasso di Marx)
Ovviamente Marx non si è mai sognato di scriverne. Né negli scritti filosofici giovanili (anche se qualche eco di quegli scritti risuonerà qui sotto), né tantomeno in quell’opera il cui titolo potrebbe farlo sospettare: La Sacra Famiglia. Ma un ripassino di Marx può aiutare.
Già prima del Capitale Marx insiste sul fatto che la propria novità teorica rispetto agli economisti Classici (Smith e Ricardo) consiste nella scoperta che il lavoratore non vende ‘lavoro’ come si diceva e si dice, superficialmente, ancora oggi, bensì vende ‘forza-lavoro’. Nel linguaggio corrente, e anche di molti marxisti, purtroppo, ‘forza-lavoro’ equivale a ‘lavoratore’; abbaglio gigantesco.
Prima del Capitale Marx aveva usato un’altra espressione, ‘capacità-lavorativa’ (Arbeit-Vermögen), per sottolineare che ciò di cui si trattava la vendita era una ‘possibilità’ (Vermögen, δυναμις: capacità). Poi, dopo, forse temendo che l’espressione Arbeit-Vermögen fosse troppo filosofica (idealistica?), o forse non di comprensione immediata, la cambiò in Arbeit-Kraft (forza-lavoro).
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Dalle piazze alle urne. Lotte di classe in Spagna
di Militant
I risultati delle elezioni generali spagnole del 10 novembre 2019, la quarta convocazione elettorale per elezioni politiche negli ultimi quattro anni, a solo sette mesi dalla precedente votazione, celebrata ad aprile, confermano un panorama politico-elettorale bloccato, in cui rimangono irrisolti tutti i principali nodi della crisi multilivello che sta interessando il Paese iberico nell’ultimo decennio.
Nella precedente, brevissima legislatura Pedro Sánchez, il segretario del Partito Socialista, ha rifiutato le proposte di formare un governo di coalizione provenienti da Unidas Podemos. Un accordo che avrebbe comportato sia la necessità di realizzare politiche sociali in controtendenza rispetto alle politiche di austerity portate avanti anche dai governi a guida socialista negli ultimi anni, sia un netto cambiamento di atteggiamento verso l’indipendentismo catalano da parte di Sánchez e dei socialisti, con l’apertura di un tavolo di negoziato sulla riforma delle autonomie e/o il riconoscimento del diritto di autodeterminazione, e la fine della criminalizzazione e giudiziarizzazione del conflitto politico catalano. Sánchez e la dirigenza socialista hanno deciso invece di convocare elezioni anticipate, puntando ad aumentare i consensi elettorali e i seggi in parlamento, per poter poi formare un governo, sebbene di minoranza, ma con basi più solide e negoziare accordi puntuali da una posizione di maggiore forza. Alla fine, però, a Sánchez, come si dice in lingua castigliana, le salió el tiro por la culata, cioè il colpo, invece di uscire dalla canna del fucile, gli è uscito dal calcio, rimanendone così vittima.
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Il bisogno di un’eresia
di Diego Sarri
In un precedente articolo intitolato “Sulla necessità di teoria attuale”, abbiamo già detto come per quanto riguardi gli anni ‘60/’70 non si possa non riconoscere l’emergere sia di produzione teorica che di pratiche fortemente contaminate, sincretistiche, ad un netto “rimescolamento di carte”. Sebbene tendenze del genere spesso siano testimonianze esteriori di crisi sostanziali, ed il periodo possa essere interpretato dunque come un periodo di crisi del politico, è vero anche che questi stessi periodi si possono rivelare molto produttivi, grazie anche all’apporto di soluzioni teoriche nuove ed innovative.
Come si dice in gergo, ogni crisi nasconde un’opportunità. C’è chi ha studiato l’andamento delle grandi rivoluzioni teoriche, come Kuhn e prima ancora il francese Bachelard, di cui infatti parleremo più avanti. Sono questi autori che analizzano l’andamento, il dinamismo interno e la capacità di rottura di alcune grandi rivoluzioni scientifiche.
Come abbiamo scritto nel succitato articolo le necessità di innovazione sperimentate negli anni ’70 si ripresentano oggi, magari sotto veste diversa, con declinazioni differenti ma con un isomorfismo, un’identità formale almeno in un punto, tra i due contesti storici: senza scadere negli eclettismi, c’è bisogno di pratiche e teorie che aggiornino fortemente la nostra agenda politica.
Da un punto di vista storico, è forse nel secondo dopoguerra che certa tradizione rivoluzionaria marxista entra in crisi, almeno la sua anima più tradizionale ed ortodossa. Cerchiamo di individuarne degli indici storici: non c’è paese in Occidente che non possieda, all’indomani della seconda guerra mondiale, un partito comunista forte. Ora, il PCI italiano di questo periodo non è niente di rivoluzionario, è una grande socialdemocrazia, premessa storica perfetta per l’attuale PD.
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Bolivia, chi, come, perchè
Internazionale fascista e Quarto Potere
di Fulvio Grimaldi
Quelli che gridano “al lupo fasciorazzista” e non lo vedono quando c’è
“Una stampa cinica, mercenaria, demagogica produrrà nel corso del tempo una società altrettanto spregevole”. (Joseph Pulitzer)
“Coloro che sono contro il fascismo senza essere contro il capitalismo, sono come quelli che vorrebbero mangiare vitello senza uccidere il vitello” (Berthold Brecht)
Lo strabismo autoindotto dei media
La manipolazione-mistificazione-falsificazione dei media di regime, che ciarlano, a proposito di Bolivia, di un paese rivoltatosi in nome della democrazia contro il caudillo che non vuole mollare il potere, è scontata. Come lo è la demagogia e retorica progressisto-cerchiobottista che celebra la Bolivia di Evo Morales, ma con la riserva che era estrattivista e lui si ostinava a fare il presidente a vita. Sono gli stessi sedicenti progressisti che rimpiangono gli Usa multilateralisti di Obama e Hillary. Che poi sarebbero i due protagonisti delle sette guerre di sterminio, dei colpi di Stato in Honduras, Paraguay e Ucraina e di varie rivoluzioni colorate. Tra l’altro utilizzando le stesse manovalanze: terroristi islamici o pseudo-islamici in Oriente, ancora quelli, più lo squadrismo neonazista, in Europa, squadristi fascisti in America Latina dove islamisti non ce ne sono. Con la particolarità asiatica degli squadristi neocolonialisti, fascioteppisti quanto altri mai, sotto le bandiere britannica e statunitense a Hong Kong. E dunque amati dal “manifesto”.
Di queste manovalanze il nostro paese sa tutto, sulla base di dati processuali e d’inchiesta, fin da De Lorenzo, paragolpe Borghese, Piazza Fontana, terrorismo mafiostatale. Sa anche tutto, ma alla Pasolini, sui relativi mandanti, interni ed esteri.
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Lenin, “L’imperialismo fase suprema del capitalismo”
di Alessandro Visalli
Il libro di Lenin fu scritto tra la fine del 1915 e l’inizio del 1916 e pubblicato nel 1917. Siamo esattamente sull’orlo degli eventi che cambieranno il mondo. Da Berna, dove Lenin era in esilio in quell’anno straordinario assistette alla prima rivoluzione di febbraio[1], seguita il 7 novembre dalla rivoluzione di ottobre[2], che rovesciò il governo Kerenski.
Siamo dunque un anno prima di questi eventi.
Ma, come detto si era al secondo anno di una guerra terribile[3] seguita ad anni di scontri economici, commerciali, finanziari e coloniali tra le grandi potenze europee. Lo scopo del libro è quindi di mettere ordine alle idee circa la sostanza economica dell’imperialismo, causa ultima della guerra in corso. Inoltre di combattere la battaglia ideologica con la componente riformista della socialdemocrazia europea (e russa), rappresentata dalle posizioni di Kautsky e di Martov, ma anche, in parte dello stesso Hilferding.
Le due fonti sono Hilferdinfg[4] e Hobson[5], ma rispetto a questi Lenin ritiene con più coerenza del primo, che è marxista, che il fenomeno dipenda dal funzionamento essenziale del meccanismo di accumulazione. E che non dipenda da qualcosa di esterno a questo (come nella ipotesi coeva della Rosa Luxemburg[6]). Il meccanismo cui risale la spiegazione è la semplice tendenza del capitale all’autovalorizzazione unitamente al suo carattere plurale. Oltre a questo semplice modello, ma potente, viene sottolineato che la tendenza all’autovalorizzazione ed alla concentrazione[7] porta al monopolio e questo alla fusione del capitale finanziario con quello industriale. È questa fusione quella dalla quale scaturisce l’immane livello della competizione intercapitalista e quindi l’imperialismo. Alla fine si ha la guerra.
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Un passaggio essenziale nella teoria di Marx
di Gianfranco La Grassa
Si tratta di un brano, un semplice e solo brano delle migliaia di pagine scritte da Marx e spesso pubblicate dai suo successori, magari con aggiunte non sempre messe in evidenza nella loro non stesura (o almeno non completa e letterale) fatta proprio da lui. Ma non m’interessa nulla di tutto questo. L’importante è fissare le parti salienti di una teoria scientifica e mostrarne la rilevanza ancora attuale e, ancor più, laddove essa va rielaborata alla luce dell’esperienza storica di un secolo e mezzo! Riporto quindi un brano tratto dal III Libro de “Il Capitale”, cap. XVII.
«Trasformazione del capitalista realmente operante in semplice dirigente, amministratore di capitale altrui, e dei proprietari di capitale in puri e semplici proprietari, puri e semplici capitalisti monetari. Anche quando i dividendi che essi ricevono comprendono l’interesse e il guadagno d’imprenditore, ossia il profitto totale (poiché lo stipendio del dirigente è o dovrebbe essere semplice salario di un certo tipo di lavoro qualificato, il cui prezzo sul mercato è regolato come quello di qualsiasi altro lavoro), questo profitto totale è intascato unicamente a titolo d’interesse, ossia un semplice indennizzo della proprietà del capitale, proprietà che ora è, nel reale processo di riproduzione, così separata dalla funzione del capitale come, nella persona del dirigente, questa funzione è separata dalla proprietà del capitale. In queste condizioni il profitto (e non più soltanto quella parte del profitto, l’interesse, che trae la sua giustificazione dal profitto di chi prende a prestito) si presenta come semplice appropriazione di plusvalore altrui, risultante dalla trasformazione dei mezzi di produzione in capitale, ossia dalla loro estraniazione rispetto ai produttori effettivi, dal loro contrapporsi come proprietà altrui a tutti gli individui REALMENTE ATTIVI NELLA PRODUZIONE, DAL DIRIGENTE ALL’ULTIMO GIORNALIERO [maiuscolo mio].
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Per Costanzo Preve
di Salvatore Bravo
Ci lascia un'importante eredità morale e filosofica: cercare verità, complessità, libertà dalle conventicole. La filosofia non ha il compito di rassicurare, ma di porre domande, rinunciando alle facili risposte
Il 23 Novembre del 2013 è venuto a mancare Costanzo Preve. Non l’ho conosciuto personalmente, ma attraverso i suoi scritti ed i video in cui continuava a diffondere le proprie idee. Per me è stato un incontro importante. Le modalità con cui si può entrare in relazione con una persona sono plurime, i testi scritti ed i video sono il modo in cui è avvenuto quest’incontro. Costanzo Preve “mi ha parlato” in un momento storico dominato dalla chiacchiera e da un conformismo meno che mediocre; “mi ha comunicato” un messaggio. Ha ravvivato in me la passione per la verità e per la Filosofia. Non che non vi fosse, ma un pensatore che ha il coraggio della radicalità della filosofia, ha la forza morale ed intellettuale di far sentire a casa coloro che cercano la verità, o che si confrontano con essa. Normalmente la passione per la verità nella nostra epoca causa un senso profondo di estraneità, di distanza, per cui si ha la sensazione di essere sospinti in una indefinibile periferia a cui si giunge incalzati da una realtà sociale che sdembra abbia rinunciato ad ogni possibile ricerca della verità. È un’immensa palude in cui tutto si omologa, in cui diventa la verità l’irrilevanza, sostanza che tutto muove senza che nulla muti.
Costanzo Preve si è tratto fuori dalla palude dell’irrilevanza, ed ha vissuto nella sua carne dolente la coerenza della filosofia che propugnava con le parole, con le argomentazioni logiche, con la scelta di vivere e testimoniare la sua posizione filosofica distante dalle accademie, dai luoghi in cui il pensiero diventa arte del meretricio. “Lo scandalo Preve” è consistito nel riaffermare la centralità della verità senza la quale la filosofia è solo una disciplina che si confonde con una serie di discipline altre. La verità è stata la sua trasgressione all’ordine costituito, trasgressione non priva di speranza, perché – come amava ripetere – l’essere umano per natura non può che pensare la verità. Pertanto gli innumerevoli “filosofi” della morte della verità e dell’osanna al capitalismo non sono che l’effetto di una congiuntura epocale. Le mode passeranno, mentre la verità degli uomini e delle donne non potrà fermare il proprio cammino.
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Redistribuire: i soldi ci sono, basta andare a prenderli
di coniarerivolta
Potere al Popolo! ha lanciato una mobilitazione sul tema della redistribuzione della ricchezza, con iniziative di sensibilizzazione che avranno luogo in tutta Italia nella giornata di sabato 16 novembre. Di seguito il nostro contributo all’iniziativa
In una delle scene cult di Pulp Fiction, la nota coppia di gangster si ritrova davanti ad un increscioso problema: sui sedili posteriori della loro auto un ragazzo ha appena ricevuto un colpo di pistola alla testa, c’è sangue dappertutto e la macchina è zeppa di brandelli di materia grigia. I due malviventi devono assolutamente ripulire l’auto e liberarsi quanto prima di ciò che resta di quel corpo. Presi dal panico, si rivolgono ad un famigerato problem solver, il signor Wolf, che si presenta sul luogo del misfatto e aiuta i due criminali ad uscire da quella situazione complicata.
L’esplosione delle disuguaglianze che si sta verificando nei principali paesi avanzati ricorda molto questa scena di Tarantino. Ma la sempre maggiore concentrazione della ricchezza in poche mani rappresenta un increscioso problema solo per lavoratori e disoccupati, perché non siamo tutti sulla stessa barca e, quando le disuguaglianze si allargano, i lavoratori perdono reddito in favore di profitti e rendite. Solo una parte della società, dunque, avrebbe davvero bisogno dell’intervento di un Mr. Wolf.
In Italia i lavoratori riescono ad appropriarsi oggi del 65% del prodotto sociale, mentre negli anni Settanta i salari si aggiudicavano circa il 75% della torta. Abbiamo così assistito ad una redistribuzione del reddito dai salari ai profitti di 10 punti percentuali che si spiega solo in base ad un progressivo spostamento dei rapporti di forza in favore del capitale: indebolimento del sindacato, costante riduzione dello stato sociale, flessibilizzazione del mercato del lavoro con annessa proliferazione dei contratti precari e dei part-time involontari e, non ultimo, disoccupazione di massa hanno messo in ginocchio i lavoratori, consentendo al capitale di riprendersi quelle quote di reddito che una lunga e durissima stagione di lotte aveva assicurato ai salari.
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La filosofia come «Kampfplatz» e l’intervento di Lenin nella “crisi delle scienze”1
di Eros Barone
Neppure una parola di nemmeno uno di questi professori – capaci di produrre le opere più preziose in campi particolari della chimica, della storia, della fisica – può essere creduta quando si passa alla filosofia. Perché? Per la stessa ragione per la quale neppure una parola di nemmeno uno dei professori di economia politica- capaci di produrre le opere più preziose nel campo delle indagini particolari condotte sui fatti – può essere creduta quando si passa alla teoria generale dell’economia politica. Poiché quest’ultima, nella società contemporanea, è una scienza di parte, come la gnoseologia.
V.I. Lenin, Materialismo ed empiriocriticismo, Editori Riuniti, Roma 1970, pp. 336-337.
Il libro di Lenin contro l’empiriocriticismo è, secondo me, davvero eccellente.
K.R. Popper, Alla ricerca di un mondo migliore, Armando Editore, Roma 2002, p. 104.
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La lotta teorica marxista in una congiuntura storica controrivoluzionaria
Materialismo ed empiriocriticismo fu scritto da Lenin nel 1908, in esilio, dopo la sconfitta della rivoluzione del 1905-1907. Sotto l’imperversare del terrore controrivoluzionario, in condizioni estremamente dure, i bolscevichi lottavano per dare ordine alla ritirata, per indietreggiare senza panico e sbandamento, per conservare i quadri, raggruppare le forze, ricostituire le file. Allora, nel momento in cui, battuta la rivoluzione, maggiore era la disgregazione tra i ‘compagni di strada’ della classe operaia e più profondi l’abbattimento e la confusione tra gli intellettuali, l’offensiva controrivoluzionaria venne sferrata anche sul fronte teorico e ideologico. Nel giro di poco tempo si moltiplicarono i tentativi di revisione del marxismo e la ‘critica’ del materialismo dialettico divenne un fatto alla moda.
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Le repubbliche monarchiche
di Carlo Galli
«Non è certo un bene se si è molti al comando; uno sia il capo, uno soltanto il re, a cui dette il figlio di Crono scettro e leggi, perché regni sugli altri». Così, con le parole di Odisseo in assemblea, l’Iliade legittima la figura di Agamennone, re dell’Argolide e per l’occasione re dei re, comandante in capo dei Greci davanti a Troia. La figura del re appare già collegata da una parte a una identità collettiva, e dall’altra alla divinità; inoltre, emerge qui un’altra caratteristica dei re: il loro compito è di esercitare la giustizia, garantire le leggi. Ma, benché sia pastore di popoli, Agamennone non gode di un pieno potere politico. Anche questa è una caratteristica della regalità, la cui essenza sta nella funzione «pontificale» di unione fra l’umano e il divino. Una funzione che ha una connotazione religiosa prima che direttamente politica.
Le principali culture – quelle storiche e quelle «primitive», di Europa, Asia, Africa, America – presentano, in modi diversi, questa costante: il re apre un gruppo umano alla trascendenza, lo sottrae alla contingenza, ai pericoli, alla rovina; funziona (lo ha spiegato René Guénon) come un asse, un albero della vita che unisce cielo e terra, attorno al quale ruota una civiltà. Il re è interno ed esterno alla città, alla tribù, all’Impero: li incorpora in sé e li porta fuori di sé, li apre a leggi cosmiche, e così garantisce che le cose terrene procedano allo stesso ritmo delle cose celesti; grazie al re la giustizia è assicurata, i mostri del caos sono respinti sotto terra, i campi sono fecondi. Come ha scoperto Georges Dumézil, vi è una corrispondenza fra ordine celeste tripartito (gli dèi regnanti, gli dèi guerrieri, gli dèi della fecondità) e tripartizione mondana fra re-sacerdoti, custodi, produttori: il posto del re è il vertice, sporgente verso il cielo, di una società gerarchica, organizzata secondo ritmi naturali e divini di cui egli è il custode.
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Berlino, 30 anni dopo
di Claudio Conti
In calce l'editoriale di Guido Salerno Aletta
Se i maestri sono in crisi, proprio mentre celebrano la storica vittoria sull’avversario numero uno (il socialismo, seppure nella sua versione più grigia, quella “reale”), è bene guardare con occhio clinico alle ragioni della sua crisi.
Che sono poi, nell’insieme, il suo normale modo di funzionare.
Ancora una volta vi proponiamo un fulminante editoriale di Guido Salerno Aletta su Milano Finanza, che impietosamente affonda il bisturi nel modello mercantilista tedesco. Un dispositivo di rapina all’interno (verso i propri lavoratori) e all’esterno (verso i paesi-partner dell’Unione Europea, e ovviamente verso i loro lavoratori) che va in crisi per aver avuto troppo successo.
Che non vuol dire aver avuto ragione, ma semplicemente di essersi potuto “finalmente” sviluppare senza avversari; né come classe contrapposta (i lavoratori, appunto), né come “sistema economico e di valori” (il socialismo).
Chi mastica di dialettica capisce senza sforzi che il momento migliore dell’economia tedesca ed europea – perché di questo sostanzialmente si parla – coincida con il periodo pre-caduta del Muro. Quando, insomma, welfare e salari furono elargiti con generosità, magari anche a scapito dei profitti, che “furono ridotti, sì, negli anni Cinquanta e Sessanta, ma solo per paura del Comunismo”.
Il capitalismo, insomma, rende meglio quando è sottoposto a una non volontaria “cura dimagrante”, a una condivisione degli utili che è poi diventata bestemmia dopo l’89. Ma anche in quelle condizioni non funzionava benissimo…
Dopo l’Anschluss della Ddr e la facile imposizione a tutta l’Unione Europea delle regole più vantaggiose per sé, non troppo paradossalmente, quel meccanismo si è inceppato.
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Nick Srnicek, “Capitalismo digitale”
di Alessandro Visalli
Il libro del 2017 di Nick Srnicek, autore con Alex Williams una quindicina di anni prima del “Manifesto accelerazionista”[1], svolge un’analisi della nuova economia del web, le cui potenzialità erano state esaltate implicitamente nel manifesto.
Anche ora, quattordici anni dopo, mentre l’accelerazione non è più citata (dati i fraintendimenti ricevuti) l’era di trasformazione in corso è vista come qualcosa di potenzialmente positivo pervertito dal capitalismo. Si tratta di condivisione, flessibilità, imprenditorialità, liberazione dei lavoratori dalle costrizioni e dalle gerarchie, interconnessione e on-demand per i consumatori. O, almeno, potrebbe, perché tutto ciò nasce dentro una logica di generazione di profitti ed ampliamento della concorrenza che è tipica del capitalismo. La tesi del libro è che, “a causa di un lungo declino della redditività del settore manifatturiero, il capitalismo abbia iniziato a occuparsi dei dati come un mezzo per mantenere crescita economica e vitalità in presenza di un settore produttivo altrimenti pigro”. I dati, cioè, hanno assunto un ruolo sempre più centrale per le aziende ed i loro rapporti.
La lettura che viene compiuta tenta quindi di “storicizzare le tecnologie emergenti come risultato di più profonde tendenze del capitalismo, mostrando come esse siano parte di un sistema di sfruttamento, esclusione e concorrenza”. Ovvero, che, in qualche misura sono l’opposto di ciò che dicono di essere o, in altri termini, l’opposto di ciò che potrebbero essere.
Per capite l’emergenza della “economia delle piattaforme”[2] bisogna quindi inquadrarla negli eventi globali del sistema economico, almeno nella risposta alla recessione degli anni settanta, al boom e successiva piccola recessione degli anni novanta, ed alla risposta alla crisi del 2008. Questi movimenti hanno creato le condizioni per la nuova economia digitale e hanno determinato i modi in cui essa si è sviluppata.
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Il sogno di Achille
Cosa resterà di questi anni ottanta
di Figure
Ciò che dà spinta al mondo non è il crollo ma il sorgere ovunque di realtà nuove. Tutto nasce dal muro di Berlino. Dietro quell’evento reale e simbolico si intravede il movimento della storia, ad Est come ad Ovest, che è destinato a cambiare gli assetti mondiali e il modo stesso di fare politica
Avvertenza: Tutte le parti scritte in corsivo sono parole di Achille Occhetto tratte variamente da: il Comitato Centrale del PCI tenutosi tra il 20 e il 24 Novembre 1989 a Roma, il XIX Congresso straordinario del PCI tenutosi tra il 7 e il 11 Marzo 1990 a Roma e il XX Congresso del PCI – PDS tenutosi tra il 31 Gennaio e il 3 Febbraio 1991 a Rimini
Il 9 Novembre 1989 cade il Muro di Berlino. Tre giorni dopo, il 12 Novembre, a Bologna il segretario del Partito Comunista Italiano, Achille Occhetto, dichiara di voler proporre al partito – e di fatto con quel gesto propone – di concludere l’esperienza del PCI e costituire una nuova forza politica. Il 3 Febbraio 1991 a Rimini si scioglie il PCI e nasce il Partito Democratico della Sinistra; qualche mese dopo, il 12 Dicembre, i contrari alla liquidazione del PCI fondano il Partito della Rifondazione Comunista. Il 26 Dicembre dello stesso anno ufficialmente l’Unione Sovietica smette di esistere. Un mondo l’ordine delle cose per come era stato conosciuto dopo la fine della seconda guerra mondiale finisce. La configurazione internazionale definita al tavolo di Jalta da Churchill, Stalin e Roosevelt e caratterizzata dalla divisione del globo in due blocchi ideologicamente contrapposti, finisce. Finisce la conformazione del sistema politico italiano per come si era stabilizzata dopo la costituente a rispecchiamento della situazione internazionale: un governo a trainante democristiana di volta in volta appoggiato dal centro sinistra o dalla destra, e il PCI all’opposizione. Non è solo una questione di alte sfere della politica, in Italia sono le identità individuali di almeno tre generazioni di comunisti cresciuti tra le braccia del partito che vedono la realtà e la loro posizione in questa diventare incomprensibili; e non è solo una questione di comunisti: sull’anticomunismo sulla paura dei rossi e della loro incapacità a governare la DC ha costruito durante tutta la Prima Repubblica la sua legittimità, malgrado il marcio e gli scandali, malgrado le bombe, i tentativi di golpe e la mafia; malgrado tutto. È la fine di un mondo e, come al solito, l’inizio di uno nuovo.
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La classe operaia è tramontata?
di Maria Grazia Meriggi*
Da alcuni decenni ormai nella discussione pubblica si è affermata un’idea che non ha permeato solo la discussione politica ma anche il discorso sociologico e ha influenzato la ricerca storica: il tramonto della classe operaia. Di recente il perdurare della crisi iniziata alla fine del 2006 negli Usa e che ha influenzato profondamente mercati del lavoro e modelli produttivi e l’insorgere elettorale e sociale dei populismi1hanno rimesso all’ordine del giorno delle agende politiche l’importanza del lavoro come fonte di reddito e di integrazione sociale ma non certo la centralità dei lavoratori e dei loro conflitti.
Questa eclissi ha assunto le forme più svariate. Quella “di sinistra” ritiene che si possa parlare di classe solo in presenza di esplicite manifestazioni di coscienza di classe, espressa politicamente. Per questa concezione, più leninista che marxista, prima l’integrazione nel “ceto medio” poi l’adesione (supposta? reale?) ai populismi avrebbe decretato l’eclissi della classe operaia come soggetto politico e questo compito dovrebbe essere assunto da altri “ultimi del mondo”. Ho scritto più leniniana che marxista – con tutte le semplificazioni che queste definizioni implicano – perché altre tradizioni teorico-politiche attribuiscono centralità anche alle forme immediate del conflitto di classe che si può manifestare nei luoghi di lavoro o nelle mobilitazioni sociali in forme che comportano il silenzio politico: non dimentichiamo che per il giovane Marx una delle prime manifestazioni di classe nella Francia del 1848 è l’insurrezione “elementare”, accusata di essere “bonapartista”, del giugno2. “Maledetto sia il giugno!”, anche se quella sconfitta ha aperto la strada al successo elettorale di un regime autoritario – il bonapartismo – che ha esibito almeno nella propaganda della fine del ’48 alcuni tratti populisti.
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Remo Bodei ha lasciato andare la gomena della vita
di Francesca Rigotti
Ogni tanto lo si incontrava a festival e congressi filosofici un po' ammaccato; una volta zoppicava un po', un'altra aveva un braccio al collo; ognuno sarebbe rimasto a casa, invece Remo no. Se Remo Bodei aveva preso un impegno, lo rispettava fino in fondo, appena possibile: «Sono coriaceo», diceva di sé, da bravo stoico; coriaceo come la suola di una vecchia scarpa. Ma questa volta non ce l'ha fatta neanche lui e se ne è andato e ci ha lasciato tutti orfani, filosofi e no. Soprattutto i non filosofi, perché più di ogni altro Bodei era riuscito a portare la filosofia nelle strade e nelle piazze, come Socrate. E l'aveva fatto con quell'invenzione geniale che fu, anche nel nome, il Festival della Filosofia di Modena, Carpi e Sassuolo, così che dal 2001 strade e piazze e chiese e palazzi di quei luoghi ospitano le migliaia di persone che dedicano anche soltanto un poco del loro tempo alla riflessione filosofica. Viene allora da chiedersi: ma veramente anche tutte quelle persone che sono state sedute su quelle migliaia di sedie di plastica nella piazza Grande di Modena infuocata dal sole, o nella immensa spianata di Carpi in nome di Socrate, Kant e Arendt, opteranno per il verbo pupulista, sovranista, primanostrista, mettendo il loro voto nelle mani dei promotori della chiusura, della discriminazione e dell'odio?
Tra le tante altre aree di interesse, Bodei si è occupato anche delle passioni: passioni calde come l'ira, bollente, furiosa, rossa. E passioni tristi come l'odio, gelido e calcolato, alimentato e accudito costantemente. L'odio fa parte di quelle «passioni tristi» di cui parla Spinoza, il grande filosofo olandese del '600, le quali, insieme all'invidia e all'avarizia, deprimono la nostra voglia di vivere.
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Liberalismo dell'obbligo
di Il Pedante
I tempi di crisi sono tempi di contraddizioni. Non fa eccezione il tempo presente, incatenato a un modello antropologico proiettato verso l'inesistente - il «progresso», il futuro - e perciò condannato a fissare sempre più in alto l'asticella delle sue promesse per giustificare la distruzione che semina nell'esistente. La contraddizione più macroscopica, quella logica, è nello scarto ormai osceno tra gli scopi dichiarati e gli esiti conseguenti. Lì si annida l'arsenale apologetico della colpevolizzazione delle vittime, della coazione a ripetere, dello scadimento di parola e pensiero nel bar-bar degli slogan, delle emozioni a comando, degli appelli all'irrazionalismo onirico delle «visioni» e dei «sogni» e di altri numeri già descritti altrove.
Chi viola la logica viola la realtà. Il principio di non contraddizione non si dimostra né si contesta perché il suo postulato è il dato - ciò che è dato, non ciò che è prodotto o interpretato - dell'esperienza di tutti (sensus communis). E chi viola la realtà, violando tutto ciò che è reale, non può che trovare asilo in un'immaginazione malata perché inconsapevole, nella credenza che le cose, come nella cosmogonia biblica, si creino e si avverino perché ripetute dai giornali, dai manifestanti, dagli hashtag, dai pappagalli dell'accademia e delle istituzioni.
Se il risultato è alienato e contraddittorio, non può non esserlo la teoria a monte, quella in cui si celebra la «libertà» dei tempi moderni e venturi già nell'etimo dei suoi miti corollari: il liberalismo politico, il liberismo economico, le liberalizzazioni dei servizi, la libera circolazione di merci, capitali e persone, la libertà dei costumi e del sesso che deve scardinare ogni cosa, anche i vincoli della biologia, l'Occidente libero, la crociata contro un passato corrotto, provinciale e bigotto dai cui pesi bisogna liberarsi. Per realizzare tutto ciò, detta teoria si traduce nella prassi palingenetica e spavalda delle «riforme» i cui frutti ricadono tutti e senza margini di deroga nel novero... delle limitazioni delle libertà, in ogni variante possibile.
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Golpe in Bolivia!
Di golpe in golpe. La controffensiva neoliberista in America latina
di Carlo Formenti
Il “giro a l’izquierda”, la svolta a sinistra innescata dalle grandi mobilitazioni delle etnie andine (in larga maggioranza contadini) fra la fine dei Novanta e i primi anni del Duemila; dall’insurrezione argentina del 2001; dalla rivoluzione venezuelana guidata da Chavez e da una serie di altri movimenti nel subcontinente latinoamericano, sembrava avere avviato un grande esperimento di trasformazione sociale, politica e culturale in quella importante regione del mondo, immensamente ricca di risorse...
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Il golpe boliviano
di Collettivo “Le Gauche”
Fra la transizione mancata al socialismo e l'imperialismo americano
Il golpe che è avvenuto in Bolivia ci consente di fare molte riflessioni sull’America Latina e l’esperienza del socialismo del XXI secolo.
Stiamo assistendo alla reazione rabbiosa degli yankee all’erosione della propria egemonia nel vecchio cortile di casa. Le proteste in Cile ed Ecuador, la vittoria dei peronisti di sinistra in Argentina, la liberazione di Lula in Brasile, l’eroica resistenza del Venezuela, di Cuba e del Nicaragua stanno creando non pochi problemi all’Impero.
Dato che il modello neoliberista non ha alcun tipo di fascino ideologico per le masse, se escludiamo il calcolo egoista come esaltato da Ayn Rand, premessa di una società talmente infernale...
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Cosa ci insegna la Bolivia
di Sergio Cararo
Le pessime notizie che arrivano dalla Bolivia ci mettono di fronte alla brutale realtà della lotta di classe, dei suoi risultati e delle sue contraddizioni.
Cominciamo dagli ultimi fatti. Stiamo assistendo ad una feroce caccia all’uomo contro i dirigenti e i militanti del Movimento Al Socialismo e gli esponenti del governo di Evo Morales. Nell’”opposizione” boliviana hanno prevalso sin da subito non i “moderati” di Garcia Meza, ma i falangisti di Camacho e di “quelli di Santa Cruz”.
Si tratta di brutta, bruttissima gente. Molto spesso eredi di ex nazisti fuggiti in Bolivia, che erano abituati a dominare – anche con...
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Ore di rabbia e tristezza per il golpe in Bolivia
di Javier Tolcachier
La cronologia dirà che il 10 novembre 2019, Evo Morales Ayma, presidente costituzionale della Bolivia, ha rassegnato le dimissioni.
La storia raccontata dagli apparati di destra di fabbricazione del buon senso comune, i media privati dominanti, non insisterà sul fatto che Evo ha dovuto lasciare la presidenza per cercare di fermare il massacro che le orde fasciste stavano eseguendo contro funzionari governativi e loro parenti, militanti di partito e donne in abito andino.
Il falso racconto ometterà il fatto che, in realtà, il primo presidente indigeno della Bolivia è stato rovesciato da un colpo di stato...
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Golpe in Bolivia, lo spartiacque per l'antifascismo oggi
di Redazione
Appena ieri nelle convulse ore quando il golpe prendeva forza, l’esercito boliviano attraverso un ambiguo comunicato aveva informato che non sarebbe intervenuto contro la popolazione. In realtà il messaggio era un altro: luce verde per i golpisti liberi così di compiere le violenze più indicibili.
Saccheggiare e devastare la casa di Evo Morales, così come quelle di svariati dirigenti del MAS, il fratello del presidente della Camera preso in ostaggio per costringerlo alle dimissioni in modo da non farlo subentrare a Evo Morales dopo la sua rinuncia; prendere d’assalto la sede della tv e della radio pubblica, con i dipendenti...
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Golpe in Bolivia
di Gennaro Carotenuto
Il GOLPE è consumato. Evo Morales rinuncia alla presidenza in Bolivia per evitare una guerra civile voluta dai bianchi e dai ricchi e da quei poteri internazionali che male hanno digerito che la Bolivia, per la prima volta nella sua storia sia stata in grado di prendere in mano il proprio destino.
Ancora una volta nella Storia “coloro che hanno la forza ma non la ragione”, impongono la loro volontà. Evo deve piegarsi ai diktat dei militari golpisti d’accordo con la OEA. Ma neanche questa ha mai messo in dubbio che Evo abbia stravinto le elezioni per la quarta volta consecutiva.
A questo punto è chiaro che il conteggio dei voti, se Evo avesse vinto di poche migliaia di voti del margine per da evitare il ballottaggio contro Mesa...
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In memoria di Luciano Gallino
Il finanzcapitalismo, l’euro e la moneta come bene pubblico
di Enrico Grazzini
La quasi totalità degli intellettuali italiani ha sepolto nel silenzio la formidabile eredità scientifica, politica e morale di Luciano Gallino, scomparso l’otto novembre di quattro anni fa. Gallino è stato senza alcun dubbio lo scienziato sociale più profondo, coerente e critico della sinistra italiana: ma è rimasto inascoltato – anche presso la stessa sinistra politica (che non a caso in Italia è praticamente scomparsa) e sindacale (che non a caso è in gravissima e crescente difficoltà).
Il problema è che i suoi messaggi, specialmente nell’ultimo periodo della sua vita, erano troppo intellettualmente e politicamente chiari e radicali per la cultura confusa, ambigua, sempre disponibile al compromesso che domina oggi in Italia in (quasi) tutti gli ambiti e in tutte le parti politiche. Le sue proposte sulla moneta, sull’euro, sull’eurozona e l’Unione Europea, sulle riforme monetarie e bancarie necessarie per uscire dalla crisi provocata dal finanzcapitalismo, erano e sono considerate troppo anticonvenzionali e innovative per essere accettate (o almeno discusse) dai timidi e paurosi intellettuali e politici italiani. Ho collaborato con lui e nell’ultimo periodo della sua vita: e posso dire che, nonostante la sua indiscussa autorevolezza, il maggiore studioso della sinistra era rimasto praticamente isolato.
Gallino non si è limitato a studiare come sociologo l’organizzazione industriale del lavoro, il lavoro della conoscenza, gli impatti dell’informatica sul lavoro, le crescenti diseguaglianze, le istituzioni sociali e politiche. L’autore del bellissimo libro su “La scomparsa dell’Italia industriale” negli ultimi anni della sua vita ha analizzato in maniera approfondita la crisi finanziaria, il finanzcapitalismo, la moneta, l’euro ed era arrivato alla conclusione – scandalosa per i paurosi e inconcludenti intellettuali della sinistra italiana – che, per vincere il finanzcapitalismo e superare la grave e crescente crisi nazionale, bisognava riformare alla radice il sistema monetario e trovare tutte le vie possibili per superare i vincoli dell’euro, eventualmente anche a costo di preparare l’uscita da una eurozona perennemente in crisi.
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La fusione FCA-PSA e Marx
di Domenico Moro
La fusione tra Fca e Psa rappresenta in maniera esemplare alcune importanti caratteristiche dell’attuale fase del capitalismo, confermando lo schema interpretativo dell’economia di Marx. Alla fine del capitolo XXV del Terzo libro del Capitale, quello sulle conseguenze della caduta del saggio di profitto, Marx evidenzia tre caratteristiche principali della produzione capitalistica: a) la centralizzazione in poche mani dei mezzi di produzione, b) l’unione della produzione capitalistica con i risultati delle scienze, e c) la creazione del mercato mondiale.
Il primo aspetto, quello della centralizzazione della proprietà in poche mani, è trattato da Marx anche nel capitolo XXIII del Primo libro, quello sulla legge generale dell’accumulazione. Qui Marx evidenza come il processo capitalistico dia luogo a una accumulazione di capitale sotto forma di mezzi di produzione sempre maggiore, mediante il progressivo reinvestimento del plusvalore prodotto nel processo produttivo. Questo processo viene definito da Marx concentrazione del capitale. Tuttavia, accanto alla concentrazione mediante ingrandimento progressivo di uno stesso capitale, Marx evidenzia l’esistenza di un altro metodo per l’accrescimento del capitale investito, la centralizzazione. La centralizzazione è l’ingrandimento del capitale investito mediante acquisizione o fusione di capitali diversi. Quindi, a differenza della concentrazione, la centralizzazione permette l’ingrandimento mediante l’accorpamento di capitali/imprese già esistenti, e non mediante il processo di crescita (accumulazione) di un singolo capitale/impresa.
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Riflessioni intorno a “Le nuove melanconie” di Massimo Recalcati
di Paolo Bartolini
Nel confrontarci con l’ultimo libro di Massimo Recalcati, “Le nuove melanconie. Destini del desiderio nel tempo ipermoderno” (Raffaello Cortina, 2019, € 19,00), non neghiamo di aver avvertito in principio alcune resistenze. L’autore è molto noto e la sua marcata esposizione mediatica può elicitare reazioni automatiche (di ammirazione o di diffidenza) che rischiano di invalidare un esame equilibrato dei contenuti trattati nell’opera. Inoltre, visti i risvolti sociali del tema in questione, non è stato facile mettere tra parentesi lo scarto che esiste tra le nostre rispettive posizioni politiche. Ecco perché abbiamo preso tra le mani il suo nuovo lavoro con un misto di eccitazione e titubanza. Va detto, a scanso di equivoci, che Recalcati, prima ancora di essere una star della cultura italiana, è un ottimo scrittore e uno studioso capace di comunicare in maniera coinvolgente, anche a un pubblico generalista, i concetti chiave della psicoanalisi (soprattutto di taglio lacaniano). Le antipatie che ha saputo suscitare in certi ambienti “critici” forse non sono del tutto innocenti e risentono di una polarizzazione istintiva che si genera ogni qual volta un intellettuale conquista in maniera indiscutibile le luci della ribalta. Il volume di cui stiamo per parlare è profondo e ispirato, un libro necessario che arricchisce la letteratura, non proprio fiorente, sugli intrecci tra psiche e storia, inconscio e politica. Qui offriamo modestamente le nostre prime impressioni, delle riflessioni a caldo su un testo che segnerà probabilmente il dibattito contemporaneo sulla sofferenza mentale ed esistenziale ai tempi del capitalismo finanziario e dei sovranismi populisti. Abbiamo scelto, comunque, di mettere in tensione il discorso dell’autore, evidenziandone lacune e potenzialità degne di ripresa e ulteriori sviluppi.
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Golpe in Bolivia. Forza e debolezze delle alternative sociali al neoliberismo
di Redazione Contropiano - Luciano Vasapollo
Il golpe in Bolivia ha rovesciato una democrazia che era stata appena confermata il libere elezioni, in cui nemmeno gli osservatori stranieri meno benevoli erano riusciti a vedere irregolarità nel voto.
E’ assolutamente evidente che gli Stati Uniti, in ritirata in altre zone del mondo, stanno cercando di riprendersi il “cortile di casa” eliminando le esperienze alternative, dal Venezuela al Nicaragua, dal Brasile all’Ecuador e ora in Bolivia.
Un tentativo prepotente, che ottiene risultati alterni (le elezioni in Argentina hanno certo “deluso” Washington, e la liberazione di Lula può diventare la premessa per la caduta di Bolsonaro), ma va avanti perché non vede altre possibilità di mantenere l’egemonia almeno sul continente americano.
A noi sembra evidente, che questo attacco a tutto campo, condotto senza rispettare nessuno dei “valori” strombazzati tramite media, coglie i punti di debolezza dei vari tentativi di sottrarsi alla morsa yankee con metodi democratici.
La reazione imperialista organizza in modo militare quei settori sociali che sono stati democraticamente espulsi dalla gestione del potere politico ma hanno mantenuto pressoché intatto il proprio ruolo economico.E mobilita tutte le funzioni chiave che aveva provveduto a “istruire” ai tempi del dominio assoluto (dalle forze militari ai “giudici” catechizzati al ritmo di “mani pulite”, come l’attuale ministro di Bolsonaro, Sergio Moro).
E’ questa la conseguenza di un errore abbastanza comune, quello di credere che la conquista del governo politico coincida con la conquista del potere reale. Ma se non si mette mano alla modifica sostanziale del sistema economico, ossia se non si fa prevalere l’autodeterminazione sul come e cosa produrre e ci si limita soltanto alle politiche di redistribuzione sociale, non si modificano le modalità di riproduzione delle parti reazionarie e benestanti della società.
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Il gioco dei tre Conte
di Valeria Turra
Il risultato delle elezioni regionali in Umbria va sicuramente interpretato nella sua valenza specificamente locale come una insofferenza profonda a un malgoverno che verrà giudicato compiutamente nelle aule di più di un tribunale, ma acquisisce, per il quadro in cui de facto esse si situano, un valore politico generale, di formidabile vaglio collettivo di una scelta (quella assunta dal presidente della Repubblica, di non sciogliere le Camere dopo la crisi di governo innescata da Salvini, proprio perché il risultato atteso da una nuova consultazione non era quello desiderato dall’Ue e dal Vaticano, alla cui voce Mattarella è tutt’altro che sordo); di un’alleanza (quella fra due partititi prima avversari acerrimi, il Pd e il M5S), e di un tentativo finora riuscito di radicamento al potere (quello di “Giuseppi” Conte, figura di grottesco “doppio” euripideo rivisitato, con il suo voler essere sosia diverso di se stesso nel passaggio da Conte 1 a Conte 2 -che qualcuno non dica bis, rimarcando una continuità!: al 2 non essendo però legittimato che da quella prima esperienza di governo come “avvocato del popolo” con la Lega di Salvini, forse con troppa fretta accantonata). Dato che negli ultimi giorni di campagna elettorale alleanza e tentato radicamento hanno sfilato in Umbria, presumere di escludere la portata nazionale da queste elezioni sarà un tentativo tanto scontato quanto infelice, legittimato solo dalla prassi ormai consolidataci dalla permanenza in Europa, quella di non dare più peso alcuno allo scollamento fra volontà popolare ed eletti.
Cosa ci dice dunque questo voto? Almeno tre cose.
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