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Monopoli privati e diritti sociali: il conflitto inevitabile

di Militant

Tra i diritti fondamentali sanciti in Costituzione c’è quello alla mobilità: «Ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale». E’ una delle tipiche formulazioni di compromesso presenti nella nostra Costituzione. Dal punto di vista liberale, il diritto consente la semplice libertà formale di potersi spostare per il paese senza limitazioni giudiziarie. Dal punto di vista sociale, ogni diritto di questo tipo dovrebbe essere collegato all’articolo 3, secondo il quale «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che…» eccetera. La Repubblica non dovrebbe solo «consentire», ma promuovere attivamente la reale godibilità dei diritti proclamati.

Negli anni della Prima Repubblica, forti del compromesso costituzionale, tutta la serie di diritti espressi nella prima parte della Costituzione, in buona sostanza fino all’articolo 54, avevano una ricaduta materiale nell’organizzazione sociale dello Stato. Riguardo alla mobilità, lo Stato non si limitava a non perseguire chi decideva di viaggiare, ma ne consentiva gli spostamenti attraverso l’accesso calmierato ai mezzi di trasporto di massa, in particolare riguardo alla mobilità urbana (metro, bus, tram) ed extraurbana (ferrovie, traghetti, autostrade). La torsione liberista ha smantellato quel compromesso sociale su cui si fondavano i diritti costituzionali.

Illuminanti, a questo proposito, le parole del Ceo di Atlantia Giovanni Castellucci: «Con Abertis e Hochtief saremo presenti in paesi come Australia, Stati Uniti, Germania e Canada dove si segnalano le occasioni più interessanti. Sto parlando di una gestione che dà all’utente un migliore servizio a fronte di pedaggi più elevati». Fino ad oggi, nonostante la secretazione delle concessioni autostradali, l’alzamento annuale dei pedaggi veniva giustificato attraverso la consueta fraseologia di maniera riguardante la manutenzione delle infrastrutture. Da oggi Atlantia, cioè Benetton, cioè – con la fusione con Abertis – uno dei più grandi gruppi globali di infrastrutture e mobilità – dichiara l’obiettivo primario senza remore: offrire un servizio d’élite attraverso il pagamento di tariffe anch’esse elitarie.

Poco male – all’interno di logiche capitalistiche – se questo servizio concorre insieme allo Stato al soddisfacimento dei vari bisogni sociali, in questo caso alla concreta possibilità di spostarsi della popolazione: ognuno è libero di scegliere in base alle proprie tasche. Perverso, invece, quando il servizio è in uso esclusivo al privato, che considera la cittadinanza, nel suo complesso, come «utenza». Si entra così in un conflitto inevitabile tra Costituzione ed economia di mercato completamente privatizzata e senza concorrenza pubblica. La stessa sorte avvenuta coi treni (ogni linea extra regionale è affidata di fatto all’Alta velocità, con costi d’accesso che escludono il godimento del diritto di mobilità per le fasce di popolazione meno ricche). Da tempo è così anche per le autostrade. Ma la libertà con cui il Ceo di Atlantia descrive il proprio monopolio naturale ci racconta dei clamorosi passi indietro compiuti nel nostro paese. Il problema non è avere un “servizio migliore”, ma il più largamente accessibile. Eppure questa, che è un’ovvietà, di fatto scompare dai radar del culturalmente plausibile. E chi non può permettersi i «pedaggi più elevati»? Rimane confinato nel proprio quartiere, frantumando così l’idea stessa di servizio pubblico per cui, è sempre bene ricordarlo, l’«utente» paga già profumate tasse all’origine. Perché dentro questo circuito perverso ordo-liberale i servizi pubblici tendono a diradarsi, ma i trasferimenti fiscali dai cittadini verso lo Stato tendono a rimanere stabili. Quanto può reggere, effettivamente, un cortocircuito di questo tipo? Non a caso, la “risposta populista” à la Trump (a cui guarda anche il “centrodestra” con la flat tax), quella cioè di tagliare drasticamente ogni forma di tassazione, trova consensi soprattutto in chi avrebbe più bisogno di un’economia sociale a forte presenza pubblica tale da riequilibrare la disparità reddituale. L’ennesimo paradosso all’interno del groviglio inestricabile su cui si sta incartando il capitalismo del XXI secolo.

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