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ideecontroluce

Se non c’è alternativa, non c’è politica

di Alberto Bagnai

Al seminario “A quali condizioni può sopravvivere l’euro” assisteva una convitata di pietra, la signora T.i.n.a. (There is no alternative). All’euro non c’è alternativa, è parso di capire da molti interventi, il che in fondo rendeva superfluo il seminario, e quindi tanto più apprezzabile il tempo impiegato (cioè, nella loro ottica, perso) dai relatori: se non c’è alternativa, non ci sono condizioni non dico da porre, ma nemmeno da analizzare.

Era al tempo stesso paradossale e ovvio che la signora Tina sedesse con noi.

Paradossale, perché il mantra che “non ci sia alternativa” è stato fatto proprio, negli ultimi tre decenni, dall’ideologia neoliberista, un’ideologia in linea di principio deprecata da tutti i partecipanti. Ovvio, perché l’euro è stato il cavallo di Troia usato da questa ideologia per radicarsi nel nostro continente. Questo, ormai, non è più lecito nasconderselo. Fatte salve le sue intenzioni, senz’altro ottime (tant’è che ci stiamo lastricando l’inferno della crisi più grave della nostra storia), per quanto attiene alla politica economica il Trattato di Maastricht è uno scampolo di paccottiglia neoliberista anni ’70: il primato delle regole sulle politiche discrezionali, la fiducia nella capacità del mercato di autoregolarsi, il feticcio della stabilità dei prezzi, articolato sulla concezione scientificamente dubbia dell’inflazione come fenomeno puramente monetario, dalla quale consegue il principio fallimentare e antidemocratico dell’indipendenza della Banca Centrale dal potere esecutivo.

Milton Friedman reloaded.

È stato rivendicato, da alcuni partecipanti, il primato della politica, fra generali cenni di assenso, del tutto comprensibili: mai richiamo fu più appropriato! Negare alternative (cioè prosternarsi alla signora Tina) significa appunto negare la politica, e proprio a questo serve la costruzione europea così come si è andata sviluppando negli ultimi 30 anni. Non è una grande scoperta, sta nei libri di testo (Acocella, 2005) e sta nei lavori degli scienziati politici (Featherstone, 2001): il “vincolo esterno”, prima all’interno dello Sme, poi con l’entrata nell’euro, era lo strumento attraverso il quale i “tecnici” si proponevano di sconfiggere la “partitocrazia”. Questo nobile scopo presuppone uno snodo essenziale: l’esistenza di un optimum tecnico di gestione dell’economia, definibile a monte di qualsiasi dialettica politica (se posso: dialettica di classe), e anzi, da porre sapientemente “al riparo dal processo elettorale”, per usare le parole del premier diventato nel 2011 il simbolo della rivincita politica della sinistra italiana: Mario Monti (1998).

E anche qui, però, il paradosso era flagrante.

Da un lato, infatti, nel seminario il primato della politica è stato invocato per “sollevare le masse” a difesa di un progetto, quello di integrazione monetaria, il cui scopo esplicito è la negazione della politica, come ho appena ricordato e come illustro dettagliatamente in Bagnai (2014). Dall’altro, forse sarebbe il caso di ricordare sommessamente ai politici che il mondo distopico nel quale siamo condannati a vivere è frutto proprio del primato della “politica”: pare che alla sua origine vi sia il desiderio tutto politico di Mitterrand di “ingabbiare” la Germania in una unione monetaria. A che valeva l’avviso di economisti laburisti come Meade (1957) o Kaldor (1971), di economisti keynesiani come Thirlwall (1991) o Godley (1992)! Tutti indicavano che porre l’unione monetaria avanti a quella politica avrebbe compromesso l’integrazione europea. Ma le ragioni superiori della politica dovevano prevalere sulla gretta logica economica.

I risultati sono sotto gli occhi di tutti, e quando dico “tutti” intendo anche gli elettori.

La domanda di D’Antoni, se sia possibile o meno l’esistenza di un partito di sinistra dentro l’euro, si risponde da sola, una volta riformulata in termini espliciti, cosa che l’intervento di Giacché ci rende particolarmente agevole: è possibile un ragionamento “di sinistra” all’interno di un irriformabile progetto di compressione salariale? Negli anni ’70, lo documentano gli atti parlamentari, Spaventa e Napolitano rispondevano di no. Ma facciamo finta che oggi i tempi siano cambiati, e che reprimere i salari sia diventato di sinistra, da quando il compagno Schröder ha deciso di farlo in Germania. Rimane il fatto che comunque questa prassi aggrava la crisi di domanda interna.

Detto in altri termini, e messe in disparte le geometrie politiche (visto che il sistema non ci consente un vero ragionamento politico), la questione si pone nei seguenti termini: se resterà al potere, nel giro di alcuni mesi l’attuale partito di maggioranza relativa dovrà scegliere fra gestire il default sul debito pubblico italiano (inevitabile conseguenza della spirale deflazionistica alla quale il vincolo monetario ci condanna), o gestire l’uscita dall’euro. Punto.

Sarebbe quindi il caso di analizzare a mente fredda costi e benefici di entrambe le opzioni, rifacendoci alla letteratura scientifica, ed evitando ragionamenti terroristici alla Oscar Giannino (cosa c’entra l’Argentina con l’Italia?). Credo sia questo il senso, assolutamente condivisibile, degli interventi di Fassina e di D’Attorre: un richiamo al principio di realtà e al senso di responsabilità dei politici, che hanno il dovere di mettere l’analisi di tutte le opzioni in campo di fronte al proprio wishful thinking. L’argomento secondo cui “non è mai successo, non si può fare” non solo è un falso storico, ma soprattutto contraddice platealmente l’invocazione del primato della politica. Invochiamola per fare la cosa giusta, cioè per aprire e discutere alternative, non quella sbagliata!

Stiamo vedendo un film già visto, del quale sono noti i due possibili epiloghi. Se la scelta sarà il default, con relativa consegna dell’Italia alla troika, difficilmente il partito al potere sopravviverà. Questo ci dice la letteratura pertinente (Bornsztein e Panizza, 2009).

Viceversa, il comunque inevitabile disfacimento del progetto antistorico nel quale siamo invischiati sarebbe solo l’ennesimo caso di scelta “irreversibile” della quale la Storia fa strame: pensiamo alla fine del gold standard nel 1931, o a quella del sistema di Bretton Woods nel 1971, o a quella dello Sme “credibile” nel 1993. Quante volte abbiamo sentito dire: “non si può, sarà una catastrofe, difenderemo il sistema a qualunque costo!”. Bene. Suggerisco allora ai politici di rileggere con me le parole con le quali Keynes descriveva la fine di uno dei tanti sistemi “irreversibili”:

Sono pochi gli inglesi che non esultano per la rottura delle nostre catene d’oro. Sentiamo di aver finalmente mano libera per fare ciò che è giusto. È finita la fase romantica, e possiamo cominciare a discutere realisticamente di quale sia la politica più opportuna. Può apparire sorprendente che un provvedimento che era stato dipinto come una catastrofe rovinosa sia stato accolto con tanto entusiasmo. Il fatto è che ci si è resi conto rapidamente dei grandi vantaggi per il commercio e per l’industria britannica derivanti dalla cessazione di ogni sforzo artificioso per mantenere la nostra valuta al di sopra del suo valore reale. (Keynes, 1931)

Da anni mi sento dire, nei dibattiti: “Io non sono un economista, ma…”. Permettetemi di ricambiare: io non sono un politico, ma, se lo fossi, preferirei gestire una situazione come quella descritta da Keynes, piuttosto che l’ennesima umiliazione inutile del nostro paese.

Buon lavoro e buona fortuna.

Bibliografia
Acocella N., 2005, La politica economica nell’era della globalizzazione, Carocci, Roma.
Bagnai, A., 2014, L’Italia può farcela – Equità, flessibilità e democrazia: strategie per vivere nella globalizzazione, Il Saggiatore, Milano.
Borensztein, E., Panizza, U., 2009, «The Costs of Sovereign Default»,  in IMF Staff Papers, vol. 56, pp. 683-741.
Featherstone K., 2001, «The Political Dynamics of the Vincolo Esterno: the Emergence of EMU and the Challenge to the European Social Model», Queen’s Papers on Europeanisation, 6, Queens University of Belfast.
Godley, W., 1992, «Maastricht and all that», London Review of Books, 14, pp. 3-4.
Kaldor, N., 1971, «The Dynamic Effects Of The Common Market», in The New Statesman, vol. 12 marzo 1971.
Keynes, J.M., 1931, «The end of the gold standard», ora in Sono un liberale?, a cura di Giorgio La Malfa, Adelphi, Milano, 2010.
Meade J., 1957, «The balance-of-payments problems of a European free-trade area», in Economic Journal, vol. 67, pp. 379-396
Monti M., 1998, Intervista sull’Italia in Europa, a cura di F. Rampini, Laterza, Roma-Bari.
Thirlwall T., 1991, «Emu is no cure for problems with the balance of payments», in Financial Times, 9 ottobre.

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