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Archeologia del presente: affari e politica

Prime riflessioni sul caso Monte dei Paschi di Siena

di Luca Michelini

1. Stiamo vivendo i giorni convulsi dello scandalo del Monte dei Paschi di Siena. La cronaca è destinata a sorprenderci, temo; come sempre avvenuto, del resto, perché ciò che il potere effettivamente fa, nelle sue manifestazioni politiche ed economiche, è ben lungi dall’essere nell’immaginazione dei critici o anche soltanto degli osservatori, addirittura delle sue vittime. Nonostante questo, vale forse la pena proporre alcune considerazioni di carattere generale, per cercare di orientarsi nel prossimo futuro.

2. L’operazione “Monti-Bond”, come è evidente a tutti, tranne che alla stragrande maggioranza della “opinione pubblica” italiana che si distingue per povertà e omertà d’analisi, ha un solo significato: si tratta di un salvataggio operato dallo Stato (e nell’analisi prescindo dai salvataggi operati dalla Bce). Come ogni salvataggio, esso non può che implicare il controllo da parte dello Stato: insomma, siamo di fronte all’oggettività di una nazionalizzazione. Naturalmente, come in Italia è accaduto per ogni forma di salvataggio, dalla fine dell’Ottocento ai giorni nostri, esso è presentato o invocato come “provvisorio”, come fase di passaggio per una futura privatizzazione, frutto di accurato e oculato “risanamento” e via discorrendo, secondo l’usuale frasario politico corrente. Come ogni crisi bancaria che si rispetti e che il nostro Paese ha conosciuto, essa mostra quanto profondo e perverso sia il legame tra “politica ed affari”.

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MPS è solo la punta dell’iceberg

Una nuova crisi bancaria è alle porte dell’Europa

Checchino Antonini intervista Emiliano Brancaccio

«Trovo maldestro, al limite del comico, il tentativo di certi media di valutare il caso del Montepaschi come un effetto di ingerenze politiche nella gestione bancaria. Sergio Rizzo, sul Corsera, ha addirittura candidamente affermato che il problema chiave sarebbe la dipendenza della banca senese dal potere politico. A suo avviso, quindi, per risolvere i problemi di MPS è sufficiente che la politica faccia un passo indietro e lasci la banca alle logiche del mercato. Ma qualsiasi osservatore che non abbia il prosciutto dell’ideologia liberista sugli occhi sa bene che questa è una interpretazione fuorviante e manichea dei fatti. La verità è un’altra: la crisi di MPS è soltanto il segno precoce e più evidente di una crisi bancaria di carattere sistemico, che ha le sue radici nell’onda speculativa che ci ha portato al tracollo dell’ottobre 2008 e dei cui danni si stanno facendo carico sempre di più i bilanci pubblici e i contribuenti».


L’economista Emiliano Brancaccio non conosce le banche semplicemente alla luce dei suoi studi sul “capitale finanziario” di Rudolf Hilferding, ma parla per conoscenza diretta dei fatti. Nel 2006 era stato chiamato in Banca Toscana per contribuire al risanamento del piccolo istituto di credito territoriale, di proprietà del Monte dei Paschi di Siena. Due anni dopo, nonostante i progressi di gestione, Banca Toscana venne improvvisamente chiusa e incorporata nel Monte.

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Finanza e capitalismo. Che cosa è cambiato

di Claudio Gnesutta

Gli intrecci della finanza con la produzione, il potere economico e il consenso sociale sono essenziali per capire la crisi di oggi. Il peso che ha ora la finanza è diventato insostenibile per l’economia e la società. O si ridimensiona la finanza, o si riduce lo spazio per la democrazia e i diritti sociali

La crisi, manifestatasi inizialmente sui mercati finanziari e immobiliare statunitense, si è rapidamente propagata a livello mondiale assumendo via via contorni diversi, tanto da presentarsi, specie in Europa, prima come caduta della produzione e dell’occupazione e successivamente, anche per effetto della recessione, come una crisi della finanza pubblica, il cui superamento non è stato certamente favorito dalle politiche di austerità adottate per contrastarla.

Il fatto che finanza e produzione, finanza privata e finanza pubblica risultino strettamente intrecciate rende manifesto il carattere sistemico di questi rapporti e induce a una loro analisi più attenta per comprendere i processi in atto e qualificare la critica all’attuale modo di produzione, qualificato correntemente come capitalismo finanziario.

È di particolare stimolo a questo riguardo l’analisi del volume di Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini Il film della crisi. La mutazione del capitalismo (Einaudi, 2012, www.sbilanciamoci.info/Sezioni/capitali/Come-la-finanza-ha-rotto-il-compromesso-tra-capitalismo-e-democrazia-15842) che inserisce l’attuale fase all’interno di un processo di lungo periodo, così lungo da comprendere almeno tre cicli storici e l’intero ventesimo secolo, dello sviluppo del capitalismo mondiale.

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tempesta perfetta

La netta separazione fra moneta e credito

di Piero Valerio

Parte I: il Piano di Chicago rivisitato

 Il Piano di Chicago Rivisitato è a mio avviso, e secondo molti altri più autorevoli analisti, uno dei documenti economici e finanziari più importanti pubblicati nell’ultimo periodo. Un vero caso mondiale, che sta diventando un testo di riferimento per gli studiosi della materia e un’opera divulgativa di culto per tutti gli appassionati. Non vi nascondo che anche io ho letto il documento con molto interesse e stupore, non tanto per i contenuti che nella maggior parte dei casi mi erano già noti (si veda a tal proposito l’ampia trattazione già pubblicata sul movimento economico e culturale Positive Money) ma per il tempismo e le circostanze che ne hanno decretato il successo. Il documento è stato scritto da due economisti americani che lavorano come consulenti per il Fondo Monetario Internazionale FMI: Jaromir Benes e Michael Kumhof. Il committente di questa opera è stato appunto il FMI, che a scanso di equivoci, in calce al documento ha riportato (come spesso accade con i suoi working papers) le testuali parole:

“Questo documento non deve essere inteso come rappresentativo del punto di vista del FMI. Le opinioni espresse in questo documento sono quelle degli autori e non rappresentano necessariamente quelli del FMI o della politica del FMI. I documenti descrivono in genere le ricerche in corso degli autori e vengono pubblicati per suscitare commenti e ulteriori dibattiti”.


E il dibattito in effetti si è acceso abbastanza rapidamente e vivacemente in tutto il mondo.

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A proposito di costituzione e capitale finanziario

di Antonio Negri

Organizzerò il mio intervento su tre punti fondamentali. Cercherò innanzitutto di definire la convenzione finanziaria che oggi ci domina e come essa abbia modificato il rapporto tra privato e pubblico. In secondo luogo cercherò di analizzare come il privato e il pubblico siano stati fissati nella costituzione del 1948, ma soprattutto come essi si presentino nel farsi della costituzione europea. Infine, cercherò di capire come, in nome del comune, possa essere rotta la convenzione costituzionale che ci lega, opponendo dispositivi antagonisti all’esercizio del potere finanziario, costruendo una “moneta del comune” – insomma, che cosa significa, dentro/contro l’attuale convenzione finanziaria europea, procedere nella costruzione del comune?
 

1.1 

La convenzione collettiva che oggi domina il rapporto costituzionale è una convenzione finanziaria. Laddove una volta era posto il valore-lavoro come norma regolatrice e misura delle attività sociali e produttive, ora è stata eletta la regola finanziaria.

Analizziamo quindi la relazione capitale finanziario / costituzione materiale. Il capitale finanziario, nella situazione attuale, si pone come autorità legitimante la costituzione effettiva della società postindustriale.

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La morale del debito e il tempo rubato

Agnes Rousseaux intervista Maurizio Lazzarato

Prestiti, crediti, creditori, debitori, deficit, debito e tasso di rimborso, "fiscal compact" ... Il debito è ovunque, ha invaso la nostra vita. Ma il debito non è solo economico, il debito è soprattutto un’opera della politica.

Non è una sfortunata conseguenza della crisi, è al centro del progetto neoliberista e permette di rafforzare il controllo degli individui e delle società. "Il rimborso del debito è una appropriazione del tempo. E il tempo è la vita", spiega il sociologo e filosofo Maurizio Lazzarato (La Fabbrica dell'uomo indebitato).


Lei dice che l’Homo debitor è il nuovo volto dell’Homo economicus. Quali sono le caratteristiche di questo "uomo nuovo"?


    Molti servizi sociali come l'istruzione e la salute, sono stati trasformati in assicurazioni individuali o in privilegi. Il modello di sviluppo neo liberista è basato su credito e indebitamento. Questa situazione si è aggravata con la crisi dei mutui subprime del 2007. Un esempio? L'istruzione negli Stati uniti: la FED, la banca centrale, ha recentemente stimato che l'importo totale dei prestiti effettuati agli studenti [1] è arrivato alla cifra astronomica di 1000 miliardi di euro! Si tratta di una cifra enorme. Per accedere ai servizi, l’istruzione, si deve pagare tutto con i propri soldi. Si diventa subito debitori. Imprenditori della propria vita, del proprio "capitale umano".

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Rendita e biopotere

Summer School

di Stefano Lucarelli

Il tema della rendita e del biopotere è stato immediatamente declinato da Christian Marazzi come un problema che risponde a una domanda che credo si possa formulare nel modo seguente: di che moneta ha bisogno la soggettività costituente per non essere assoggettata?

I passaggi logici che vanno dai concetti di rendita e di biopotere fino ad una domanda del genere li do per scontati. Ricordo solo che quando ci riferiamo alla rendita lo facciamo a un certo livello dello sviluppo capitalistico – che abbiamo definito capitalismo cognitivo e finanziarizzato. Essa va dunque compresa tenendo conto del fenomeno del divenire rendita del profitto. Il biopotere è un’espressione presente in Foucault che chiama tutti in causa, poiché rinvia alla dicotomia soggettività/assoggettamento, quella dicotomia che caratterizza una forma della sovranità a questo stadio di sviluppo del capitalismo, che sempre Foucault ha chiamato governamentalità. Intendo qui la governamentalità come una peculiare evoluzione della sovranità che cerca di imbrigliare le soggettività, lasciando le briglie in talune circostanze, per valutare e conoscere la produttività, la creatività, che si può dare al di fuori delle forme tradizionali del comando, per poi ritirare le briglie. In tal senso la governamentalità partecipa di una certa forma di libertà, che presuppone che noi (in quanto soggettività costituenti) ci liberiamo da questa modalità di partecipazione ad una forma non autentica (cioè capitalistica poiché funzionale al regime di accumulazione contemporaneo) di libertà.

Di che moneta ha bisogno la soggettività costituente per non essere assoggettata, per non limitarsi ad una libertà non autentica?

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La moneta del comune

Summer school

di Christian Marazzi

A me sta il compito di tentare di inquadrare la situazione così come si è venuta a determinare recentemente fino alle ultime decisioni prese dalla BCE. Quando si seguono le vicende monetarie e finanziarie si viene travolti dal divenire della situazione e molto spesso non si riesce a riflettere oltre queste stesse questioni finanziarie. La colonizzazione finanziaria della mente è qualcosa di reale, ma credo che almeno su tre cose sia importante soffermarsi:

- la prima questione è come si è arrivati a queste ultime misure prese dalla BCE in questi giorni e con gli effetti euforici che hanno provocato sui mercati;

- la seconda ha a che fare con il rompicapo della moneta unica. Come ci posizioniamo noi di fronte al dilemma relativo alla sopravvivenza dell’Unione Monetaria Europea?;

- il terzo punto credo che sia un inizio di riflessione su questa categoria che abbiamo buttato lì, ma che mi sembra potenzialmente interessante per lo meno sotto un profilo politico, la moneta del Comune.

Come si è arrivati a queste misure in sede BCE, prese quasi all’unanimità ma con l’opposizione della Bundesbank, di intervenire in modo illimitato sul mercato secondario dei titoli pubblici al massimo a tre anni, con una serie di misure collaterali. Questa decisione era già circolata tra la fine del mese di Luglio e il 2 di Agosto, al vertice di Bruxelles. Per arrivare a questo compromesso all’interno del Board della BCE, era stato necessario, per lo meno per Draghi, cedere sulla questione delle condizionalità aggiuntive da accompagnare a qualsiasi forma di aiuto ai Paesi che ne hanno bisogno, l’Italia e la Spagna.

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La svendita del nostro patrimonio

di Piero Bevilacqua

E’ già accaduto che l’Italia si sia trovata in condizioni di gravi difficoltà finanziarie, gravata da un considerevole debito pubblico. Anzi, si può dire che il nostro Stato-nazione sorge, nel 1861, su una montagna di debiti contratti per sostenere le nostre guerre d’indipendenza. L’Italia, dunque, nasce indebitata, ma per  ragioni  ben diverse da quelle dei nostri anni. E tuttavia, allora come oggi, i gruppi dirigenti pensarono di trovare una soluzione mettendo in vendita il nostro patrimonio: in quel caso il vasto complesso dei demani ereditati dai vari Stati regionali. Si trattava di  un immenso complesso di terreni ed annessi  che si pensò di vendere ai privati per risanare le esauste casse del pubblico erario.

Come ha ricordato una giovane storica, Roberta Biasillo, sulle pagine del manifesto (3 aprile 2012 ) contro questa scelta si levò la voce di un  giuristadell’Italia liberale, Antonio  Del Bon, che in un “manifesto“ del 1867 elencava con grande saggezza e competenza  le ragioni che sconsigliavano la vendita del nostro patrimonio immobiliare. Egli consigliava, al contrario, di offrire ai privati le terre demaniali con un contratto di fitto venticinqunnale, così da non prosciugare i capitali di chi investiva, stimolando al contrario l’utilizzo produttivo dei terreni e lasciare tuttavia  i demani in proprietà dello Stato, quale « Tesoro della Nazione… un tesoro produttivo indefinitivamente .>>  da conservare anche per le future generazioni.

Ora, a consigliare di non vendere i nostri beni pubblici, ma di utilizzarli in altro modo per abbassare il livello del nostro debito, concorrono più ragioni che è bene non dimenticare.

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C’era una volta la crescita, reale

di Maurizio Donato



Se uno guarda il grafico contenuto nel World Economic Outlook del Fondo Monetario Internazionale [1] pensa: dopo il capitombolo del 2008-9, l’economia mondiale si è ripresa, nell’ultimo anno ha fatto registrare una crescita media del prodotto interno lordo del 3,8%, e allora le cose non vanno così male. Non che la crisi sia finita, ma almeno il peggio è passato: dopo tutto il sistema cresce ancora, i tassi sono positivi, anche se l’ultima parte della curva va presa con beneficio di inventario perché si tratta di previsioni.

Ma ha senso trarre conclusioni o anche solo indicazioni da dati riferiti all’ultimo quinquennio, e dunque fortemente influenzati dalle oscillazioni cicliche?

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Prima o poi un crollo della finanza busserà alla porta

di Paul Craig Roberts

Fin dall'inizio della crisi finanziaria e della contrazione dei consumi, la domanda che ci siamo posti è stata: “Come può la Federal Reserve mantenere a zero i tassi di interesse per le banche e applicare tassi reali negativi per i risparmiatori e gli obbligazionisti mentre il debito pubblico degli Stati Uniti aumenta di 1.500 miliardi dollari ogni anno per il suo deficit di bilancio?”

Non molto tempo fa la Fed ha annunciato che avrebbe continuato questa politica per altri due o tre anni. Ma la Fed è vincolata alla politica e se non tenesse artificiosamente bassi i tassi di interesse, il costo degli interessi sul debito pubblico sarebbe così alto che ci si dovrebbe fare domande sul rating di credito che gode il Tesoro degli Stati Uniti e sulla vitalità del dollaro.

Allora si che verrebbero a galla tutti i problemi sulle migliaia di miliardi di dollari di interest rate swap e di tutti i derivati.

In altre parole, la deregolamentazione finanziaria ha permesso a Wall Street di giocare d'azzardo. La decisione del governo degli Stati Uniti di salvare le banche per farle sopravvivere e la Federal Reserve con la sua politica di zero tassi di interesse ha messo il futuro economico degli Stati Uniti, e la sua moneta, in una posizione insostenibile e pericolosa. Non sarà possibile continuare a inondare i mercati obbligazionari con 1.500 miliardi dollari in nuove emissioni ogni anno se il tasso di interesse sulle obbligazioni sarà inferiore al tasso dell’inflazione. Chiunque acquistasse un Treasury Bond comprerebbe un bene che si deprezza. Per di più è un rischio molto alto investire in titoli del Tesoro. Un tasso di interesse basso significa che il prezzo pagato per una obbligazione è molto alto. Un aumento dei tassi di interesse, che deve venire prima o poi, farà crollare il prezzo delle obbligazioni e infliggerà perdite in conto capitale a tutti i detentori di obbligazioni, sia nazionali che estere.

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Signoraggio FAQ

Ovvero come ho imparato a non preoccuparmi del Complotto e a odiare il Capitale

di Mauro Vanetti e Luca Lombardi


È vero quello che ho letto sul signoraggio?

Probabilmente no. Questo è un tema su cui si fa molta disinformazione; le fonti di questa disinformazione sono gruppi fascisti o rossobruni (cioè fascisti camuffati da comunisti), teorici del complotto e moltissima gente in buona fede che si è convinta che queste teorie spieghino come le banche e il capitalismo ci schiavizzino. Chiameremo quelli che diffondono bufale sul signoraggio “signoraggisti”.


Le banche e il capitalismo ci schiavizzano?

Sì. Ma la teoria del signoraggio non ci aiuta a capire come, né come fare a rompere questa schiavitù.


Che cos'è il signoraggio?

Il signoraggio è il guadagno realizzato dall'emissione di moneta. Se l'emissione di moneta ha un costo (per esempio, nel caso delle monete metalliche, il costo del metallo e i costi di funzionamento della zecca), il signoraggio è la differenza tra il valore nominale della moneta e il suo costo di produzione.


Chi ci guadagna dal signoraggio?

Lo Stato o la banca centrale, a seconda dei casi. Anche quando a guadagnarci è la banca centrale, gran parte o la totalità degli utili della banca vanno comunque per legge allo Stato.


Chi ci perde dal signoraggio?

Tutti quelli che posseggono denaro denominato nella valuta che viene emessa, perché si svaluta – ovvero, si alzano i prezzi e peggiora il cambio con valute straniere.

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David Cameron, il nuovo protagonista dello shakespeariano servo Oswald

di Riccardo Achilli

Spiace doverlo dire ai tanti euro-fanatici, che affollano le borghesie macellaie dei Paesi europei, ma la scelta di Cameron di bocciare l'idea di una Tobin Tax è del tutto logica e coerente con una strategia resa esplicita già da mesi, da quando cioè il governo britannico si oppose al tentativo di regolamentazione dei mercati finanziari europei portato avanti dalla Commissione, e successivamente rigettò la proposta di revisione dei trattati europei, rompendo proprio sul rifiuto di vedersi imporre nuove regole restrittive sui servizi finanziari. La strategia di Cameron, o meglio dei poteri finanziari che gli stanno dietro, e che oramai reggono le sorti dell'economia britannica, fra le più finanziarizzate del mondo, è quella di affondare sistematicamente ogni tentativo di imbrigliare i movimenti finanziari, ivi compresi quelli speculativi ed over the counter. Poiché la City rappresenta, per capitalizzazione, il quarto più grande operatore borsistico mondiale ed il più grande in Europa, è chiaro che l'opposizione del suo governo a qualsiasi ipotesi di regolamentazione o fiscalizzazione delle transazioni finanziarie diventa determinante.
D'altra parte, in questo caso Cameron ha anche ragioni tecniche da vendere: non ha senso imporre la Tobin Tax soltanto sui mercati finanziari europei, perché ciò non farebbe altro che spostare le transazioni finanziarie meramente speculative, cioè sganciate da qualsiasi attività produttiva o reale, verso altre piazze offshore che non abbiano tale tassa. Mentre penalizzerebbe le transazioni finanziarie a destinazione produttiva (aumenti di capitale effettuati da imprese industriali sui mercati borsistici e finalizzati a maggiori investimenti, utilizzo di strumenti derivati per finalità meramente protettive di investimenti produttivi o transazioni commerciali di beni) ampliando il gap competitivo delle imprese europee rispetto a quelle extra europee.

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Nessuno capisce che cos’è il debito

di Guido Carandini e Paolo Leon

Il premio Nobel Paul Krugman, ha scritto sul New York Times un articolo intitolato "Nessuno capisce cos'è il debito". Intendeva nessun economista della scuola preferita dai conservatori, e il debito cui si riferiva è quello pubblico generato dal disavanzo della spesa statale. Per dimostrarlo ha fatto il seguente esempio. Coloro che aborriscono i disavanzi statali ritengono che possano causare un futuro in cui i cittadini saranno impoveriti dal dover rimborsare il denaro preso a prestito. Quindi paragonano gli Stati Uniti a una famiglia che abbia contratto un mutuo tanto oneroso da condannarla a soffrire gravi difficoltà nel pagamento delle rate mensili. Ma, dice Krugman, si tratta di una analogia falsa per due motivi.

Il primo: le famiglie devono rimborsare il debito contratto ma non i governi, ai quali si impone solo che il debito cresca meno della base fiscale. L'enorme debito contratto durante la seconda guerra mondiale non è mai stato rimborsato ma è diventato progressivamente irrilevante man mano che l'economia Usa cresceva e con essa i redditi soggetti a tassazione.

Il secondo: una famiglia oberata dai debiti deve del denaro a qualcun'altro, mentre il debito degli Usa è in larga parte denaro che è dovuto ai suoi stessi cittadini. È vero che a causa del debito contratto per vincere la seconda guerra mondiale i contribuenti sono stati colpiti da un onere che, in rapporto al reddito nazionale, era assai maggiore di quello attuale. Ma quel debito era anche posseduto dai contribuenti che avevano acquistato i titoli del Tesoro americano e quindi non rese più poveri gli americani del dopoguerra i quali, anzi, godettero del più marcato aumento dei redditi e degli standard di vita mai avvenuto nella storia degli Stati Uniti. Krugman sostiene dunque che, in determinate situazioni, politiche governative dirette a stimolare la crescita e l'occupazione possono rendere sopportabili aumenti del debito assai superiori a quelli che la saggezza convenzionale ritiene accettabili.

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Finanza e banditi a Basilea

Giulietto Chiesa

Accadde a luglio del 2011, alla vigilia del vertice del G-20. Il mondo del mainstream, istruito per farci vedere il varieté, ci raccontò gl’incontri dei grandi e dei meno grandi, ma non ci disse niente in prima pagina sul posto dove quelle loro - si fa per dire - decisioni erano state prese, prima che costoro si riunissero.  

Soprattutto si è guardato bene dal dirci “chi” erano quelli che le avevano prese, e poi, opportunamente confezionate, le avevano fatte servire agl’ignari abitanti di Matrix.

Il luogo fu Basilea, la città cui è toccato di scandire, con la precisione degli orologi svizzeri, il cambio d’epoca cui siamo forzati ad assistere. Si chiamano “Basilea 1”, “Basilea 2”, “Basilea 3” (in fieri) , le tappe in cui i regolamenti finanziari sono stati definiti negli scorsi anni. Basilea non per un capriccio del destino, ma perché è la sede della Bank for International Settlements, cioè la superbanca delle superbanche, il luogo dove si decidono le regole delle banche, cioè ormai degli Stati (dal momento che questi ultimi sono dei nani al servizio dei ciclopi); il tempio dove si stabilisce il grado di libertà che le superbanche intendono riservarsi nel loro agire.

A luglio 2010 non si tenne una “Basilea 3” definitiva, ma di sicuro quella riunione resterà nella storia del capitalismo finanziario mondiale, perché fu là che si misurarono i rapporti di forza tra i potenti del pianeta, per meglio dire tra i potenti dell’Occidente, perché fu tra di loro che si regolarono - provvisoriamente - i conti. Erano sei mesi fa e, a occhio e croce, si può dire che quella partita è già finita e se ne stanno aprendo altre, probabilmente assi più dure di quella.