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essere comunisti

La repressione burocratica del dissenso

Intervista a Dino Greco

sciopero atesiaAbbiamo chiesto a Dino Greco di commentare la due giorni del direttivo nazionale della Cgil.

Gli abbiamo chiesto un commento articolato, che toccasse cioè i tre aspetti a nostro giudizio più significativi di quella riunione. Da un lato il merito di un documento finale che, approvato con 82 voti favorevoli, 31 contrari e un astenuto, nella sostanza valuta positivamente l’esperienza referendaria realizzata al fine di approvare il protocollo firmato a luglio con il governo.
Dall’altro lato la democrazia interna. È chiaro a tutti che nel sindacato si è ormai aperto un processo contro la Fiom e la sinistra interna. Lo stesso documento contiene infatti l’impegno ad aprire «un percorso di autovalutazione interna al sindacato» che, di fatto – come bene ha affermato Gianni Rinaldini -, mette sul banco degli imputati il voto sul protocollo del comitato centrale della Fiom e l’atteggiamento della sinistra interna.

Infine, un giudizio sulla reazione che queste realtà (Fiom e sinistra interna) devono contrapporre all’atteggiamento del gruppo dirigente Cgil.

Ecco quello che ci ha detto Dino Greco.

La prima osservazione è che il comitato direttivo si è caratterizzato, sin dalle prime battute, e cioè dalla relazione di Epifani, come un attacco frontale al dissenso interno. L’esito del referendum è stato infatti brandito come una clava contro coloro che avevano sostenuto il no all’accordo sul protocollo. Ci è stata chiesta una sostanziale autocritica nel merito e sul metodo, come se i no non appartenessero anch’essi al sindacato. Al centro dell’attacco, al quale hanno preso parte quasi tutti i membri della segreteria confederale, vi è stata la esplicita negazione della possibilità che dentro l’organizzazione, nel rapporto diretto con i lavoratori e le lavoratrici, si possa esprimere effettivamente il pluralismo delle posizioni. Si è voluto, in altre parole, stabilire una sorta di primato risolutivo del voto che si realizza dentro l’organismo dirigente confederale. Un voto che fa premio, una volta per tutte, su ogni diverso giudizio che non è più nella disponibilità delle diverse strutture della Cgil. E’ la perfetta riedizione del centralismo democratico, di una concezione verticistica e gerarchica del sindacato che sancisce il primato della burocrazia e restringe, piuttosto che dilatare e qualificare, gli spazi di democrazia. Quanto all’accusa rivolta alla Fiom di una presunta carenza di “confederalità” nelle scelte dei metalmeccanici, questa è palesemente infondata: è come se la confederalità non vivesse dentro una linea politica dialetticamente costruita, dentro una pratica genuina della rappresentanza, ma fosse una sorta di Verbo il cui copyright è di esclusiva proprietà del gruppo dirigente confederale. Per cui, ad esempio, la stessa consultazione referendaria, che ha evidenziato una discrepanza, in alcune aree del Paese anche clamorosa, tra il voto operaio e quello dei pensionati, non istilla il benché minimo sospetto di un deficit di confederalità e di compiutezza inclusiva della rappresentanza. E questo perché le scelte, in realtà, sono state compiute a priori.


E qual è questa valutazione a priori che, a monte appunto, agisce?


È molto semplice. Si pensa che l’equilibrio, sempre più instabile, della maggioranza di centrosinistra in Parlamento impone al sindacato di ridimensionare il progetto definito al congresso. Un progetto ambizioso che ora rischia di essere archiviato al pari del programma elettorale dell’Unione. E’ quanto è stato detto senza veli nelle stesse conclusioni del segretario. Come se il sindacato dovesse vivere in simbiosi con uno schieramento politico con il quale fu stretto un patto di legislatura che è stato completamente disatteso. Solo che anziché rimuovere l’impasse ricorrendo alla sola risorsa disponibile, la mobilitazione dei lavoratori, la Cgil ha fatto l’opposto, introiettando un freno gravissimo alla propria iniziativa. Il sindacato ha reinscritto il proprio progetto entro i vincoli imposti da una parte della maggioranza di governo, scontando una pesante caduta di autonomia.


E sul piano dei contenuti?


Ovviamente questo ragionamento ha il suo reciproco sul piano immediatamente politico. La Cgil ha ridefinito sul campo la propria linea in sintonia con le scelte del costituendo partito democratico. Un pezzo consistente della segreteria confederale della Cgil agisce ormai in evidente contiguità e relazione programmatica con questo processo e reclama su tutti i temi della politica economica e sociale un adeguamento del posizionamento della Cgil. Questa ridislocazione è esplicita e dichiarata, per esempio, sui temi della legge 30, del debito, della politica dei redditi. Si è ripristinata quella cinghia di trasmissione che riconosce alle forze politiche di riferimento un primato assoluto, ricollocando il sindacato in una posizione gregaria.



Tornando a dove eravamo partiti: qual è la relazione tra questa svolta di linea politica e la gestione del rapporto con la Fiom e la minoranza?


Una torsione di linea come quella che ho descritto deve, per potere completarsi, essere accompagnata da una speculare torsione autoritaria della gestione dei rapporti interni e, precisamente, dalla repressione del dissenso interno. Essa è consustanziale al cambiamento di linea politica. Lo scatenamento dei quadri intermedi nel comitato direttivo, i quali hanno detto cose che non avevano e non avrebbero mai detto se non avessero compreso il segnale inequivoco provenuto da una segreteria scesa compattamente nell’arena, è diventato in certi momenti imbarazzanti la gara a chi la sparava più grossa contro la Fiom e il dissenso interno. Tutto questo sta liberando gli istinti peggiori: il tardivo tentativo del segretario di moderare, nelle conclusioni, almeno i toni dell’attacco è stato totalmente vanificato dal documento conclusivo. Si è avviato un vero e proprio processo che, per i prossimi due mesi, si dovrebbe tenere in ogni piega dell’organizzazione. E se il dibattito svolto in questi due giorni nel direttivo è il buon giorno che si vede dal mattino, quello che si capisce è che nelle articolazioni periferiche del sindacato, nella vulgata, avremo una vera e propria caccia all’untore. L’affermazione della regola ferrea per la quale una categoria, una singola struttura, un’area programmatica non può pronunciarsi in modo differente da quanto stabilito dagli organismi dirigenti e dalle direttive confederali, nel nome dell’unicità della Cgil, pena la denuncia agli organi statutariamente preposti, rischia di scatenare fra le nostre fine un neo-maccartismo nostrano foriero di gravi degenerazioni autoritarie. La vicenda della circolare inviata dal dipartimento d’organizzazione della Cgil -a ridosso della manifestazione del 20 ottobre- che esibiva un decalogo di divieti (ad usare i simboli della confederazione su striscioni, pettorine, carta intestata, ecc., dentro e fuori dell’organizzazione) parla da sé.
Quello che intende fare il gruppo dirigente della Cgil è ridefinire le regole della vita interna dell’organizzazione, in un contesto nel quale l’obbedienza diviene la virtù suprema. E la più premiata.


Il documento afferma però di voler aprire un confronto dentro l’organizzazione…


Epifani ha detto – “dobbiamo aprire una discussione e governarla”. Ma alla luce del documento conclusivo, questa affermazione, decriptata, significa: predeterminarne l’esito. E’ un pò come la messa in scena di una pièce teatrale nella quale ad ogni istante un virtuale suggeritore in buca è lì ad indicare la battuta agli attori che smarrissero pezzi dello spartito. L’esito della discussione è predefinito: bollata di corporativismo la Fiom, il dissenso si può esprimere solo nel chiuso delle stanze. Al di là di quelle non ha più quindi diritto di vivere pubblicamente.


E la Fiom? La sinistra interna? Come reagiscono?


Intanto, la Fiom è impegnata in un difficilissimo rinnovo del contratto al cui esito , più di altre volte, sono legate le speranze e le prospettive di tanti lavoratori,. non solo metalmeccanici: una prova che il processo intentato in Cgil contro di essa e il suo gruppo dirigente rende ancora più difficile. Non comprenderlo o, peggio, comprenderlo ed ugualmente incalzare nell’attacco, è fra gli aspetti più inquietanti dell’esito del Comitato direttivo. A conclusione della riunione, Gianni Rinaldini, Nicola Nicolosi, io stesso abbiamo dichiarato e argomentato il nostro dissenso. Mirto Bassoli, segretario della Cgil di Reggio Emilia, si è astenuto con toni e motivazioni di chiara contrarietà. Ma vi sono stati anche altri significativi interventi di compagni e compagne di importanti territori, i quali pur non esplicitandola attraverso il voto, hanno contestato l’inadeguatezza di una risposta “amministrativa” a problemi politici assai seri che vengono invece rimossi. Ovviamente parteciperemo alla discussione che si aprirà in queste settimane evitando di farci mettere sotto processo. Quello che non si può concedere è che si apra e si chiuda in due mesi una discussione di portata congressuale surrettiziamente aperta attraverso un sommario rito disciplinare.

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