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La Francia di Macron
Un primo tentativo di approcciare in modo non ideologico il fenomeno-Macron
di Sebastiano Isaia
Non mi convince affatto la chiave di lettura che ci presenta il nuovo Presidente francese nei panni dell’ennesima creatura tecnocratica creata a tavolino dai soliti “poteri forti mondialisti” generati dal Finanzcapitalismo. Burattino e burattinai, insomma. Per Massimo Franco «Macron è il prodotto di un esperimento tecnocratico della banca d’affari Rotschild, [è] figlio dell’élite tecnocratica [che] incarna una strategia europeista e centrista che ha fatto tabula rasa sia del gollismo, sia della sinistra» (Il Corriere della Sera): troppo semplice per i miei gusti. Questo senza nulla togliere alla forte connotazione tecnocratica e “finanzcapitalistica” del nuovo inquilino dell’Eliseo, matrice che sono ben lungi dal negare. Anche l’interpretazione di Macron (cioè delle politiche “neoliberiste” che egli incarnerebbe alla perfezione) come la vera causa del successo che comunque il Front National ottiene nell’elettorato di estrazione operaia e proletaria (per cui chi ha votato per il candidato della «cupola finanziaria mondialista» di fatto avrebbe portato acqua al mulino della “destra populista”) mi appare troppo riduttiva e semplicistica, e in ogni caso essa non coglie tutta la complessità della crisi sistemica che ormai da anni travaglia in profondità la società francese.
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“L’intero segreto della concezione critica”
Sul lavoro in Lukács e Marx
di Matteo Gargani
I. Nel gennaio 1868, armato della consueta mordacità, Marx confessa al sodale di sempre Friedrich Engels come il «Kerl» di turno, Privatdozent di filosofia ed economia politica a Berlino Eugen Dühring, abbia mancato il senso del I libro de Il Capitale. L’«intero segreto della concezione critica» – scrive Marx riferendosi proprio alla sua «Critica dell’economia politica» – sta nel fatto che «se la merce ha il doppio carattere di valore d’uso e valore di scambio, allora anche il lavoro rappresentato nella merce deve avere carattere doppio». Centrale è quindi la distinzione tra «lavoro astratto» e «lavoro concreto», sfuggita non solo a Dühring, ma secondo Marx anche agli stessi fondatori dell’economia politica: «la semplice analisi fondata sul lavoro sans phrase come in Smith, Ricardo ecc. deve sempre andare a sbattere in questioni inesplicabili»1. Ricorrendo alla nota immagine della rivoluzione copernicana, possiamo dire che Marx individua quella da lui operata nel campo dell’economia politica nella fondamentale distinzione tra «lavoro astratto» e «lavoro concreto», pendant soggettivo della doppia natura del valore già incorporata nella merce. È proprio sul «concetto di lavoro» nell’intera opera di uno tra i più celebri filosofi del xx secolo che si concentra Individuo, lavoro, storia. Il concetto di lavoro in Lukács di Antonino Infranca.
Il testo in questione, tuttavia, si colloca su un terreno diverso rispetto al piano «critico» evocato da Marx nella lettera a Engels.
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Vogliono ammazzarci tutti?
di Rodolfo Ricci
Ci propongono un olocausto grauale, una “morte lenta”: bisogna cacciarli via nel migliore dei modi possibili
L’11 Aprile ultimo scorso, un dispaccio dell’FMI ha chiarito, oltre alla certificazione della recessione e a vari ammonimenti sull’instabilità globale, che la vera spada di Damocle che pende sulla testa del mondo è costituita dall’eccessiva longevità degli anziani nell’Occidente sviluppato. In pratica, l’età media della popolazione, europea in particolare, sta mettendo a serio rischio la sostenibilità del welfare (quindi dei conti pubblici, quindi della finanza mondiale) e dunque bisogna correre ai ripari: non, come il buon senso ci indurrebbe a pensare, reperendo nuove risorse per il rafforzamento dei modelli di welfare, ma, al contrario, legiferando misure che riducano le prestazioni sociali; in tal modo, l’allungamento della vita nell’occidente, sarebbe contrastato con l’allontanamento progressivo dell’età pensionabile, con la diminuzione degli importi pensionistici, insomma con tutta una serie di norme che, strada facendo, consentano di riportare la vita media sotto standard accettabili: assolutamente non oltre gli 80 anni, così pare di capire.
Ho ascoltato la notizia per radio, mentre tornavo dal lavoro, all’interno di una trasmissione radiofonica della sera, “Tornando a casa”, diretta da una cortese conduttrice, Enrica Bonaccorti, ben nota al pubblico italiano, la quale, complice il suo avvicinarsi alla terza età, non ha resistito e ha sbottato: “Ma che vogliono? ammazzarci tutti?”
In effetti le argomentazioni fornite dall’ FMI, a prescindere dallo scontato suggerimento “tecnico” di demandare la protezione sociale sempre più i “mercati” e sempre meno al pubblico (parte sostanziale del suo ricettario già fallito miseramente dall’Argentina agli USA e che ha lasciato sul lastrico decine di milioni di pensionati), stimola ben altre riflessioni: gli anziani, come i bambini, gli handicappati, i malati cronici, insomma tutti coloro che sono fuori o ai margini dell’attività lavorativa, costituiscono un vero e proprio peso, la cui sostenibilità, all’interno dei parametri del pensiero unico, è in contraddizione, anzi in opposizione, con gli elementi di competitività e profitto sistemico.
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E noi faremo come Schroeder
Sergio Cesaratto
In un impegnativo discorso in un meeting al Lingotto svoltosi gli scorsi giorni Walter Veltroni affronta anche alcune tematiche economiche su cui può valere la pena riflettere.
L’asse principale della proposta di Veltroni è di “fare come la Germania”, ovvero “un’Agenda 2020 per l’Italia” a imitazione di quella del governo Schroeder-Fischer (1998-2002) che ha gettato le basi del successo tedesco sino alla crisi, ma a quanto pare anche dopo. Tale modello, com’è noto, aveva come base la moderazione salariale e la flessibilità, concertata con le organizzazioni sindacali, nell’utilizzo della forza lavoro. Ad esso si è accompagnato il sostegno delle attività di innovazione tecnologica. Tale politica ha consentito il rilancio del modello tedesco basato su disciplina interna, qualità tecnologica e sviluppo delle esportazioni – via obbligata quest’ultima data la compressione dei consumi interni. Tale modello, che abbiamo altrove definito “ordo-mercantilista”, è stato in realtà favorito dalla contemporanea creazione dell’Unione Monetaria Europea (UME). Si deve anzi ritenere che la Germania abbia reagito con perfetto tempismo all’occasione che le veniva servita su un piatto d’argento dai suoi concorrenti di rilanciare il modello basato sulle esportazioni che si era appannato in seguito alla riunificazione tedesca.[1] Non v’è neppure dubbio che tale disposto combinato di un rafforzamento e indebolimento strutturale, rispettivamente, del centro e della periferia europei, sia alla base della crisi corrente di questa regione.
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La ricostruzione di una ipotesi comunista per la società del XXI secolo
di Laboratorio 21
1. La sinistra radicale e i comunisti stanno vivendo quello che, in Europa e soprattutto in Italia, è il periodo peggiore della loro storia. Ciò appare paradossale se pensiamo alla profonda crisi strutturale del modo di produzione capitalistico in atto, che dovrebbe fornire argomenti alla sua critica. La verità è che la stessa identità comunista ha necessità di essere ridefinita: cosa vuol dire essere comunisti oggi e soprattutto cosa è il comunismo? La risposta a queste domande e la ripresa del movimento comunista richiedono tempo e soprattutto non possono avvenire mediante scorciatoie politicistiche o ideologico-dogmatiche. Si può risalire la china solo con un lungo e radicale lavoro di rielaborazione della storia del comunismo novecentesco e di comprensione del modo di produzione capitalistico e della società che vi sorge sopra.
2. Quella della sinistra radicale e dei comunisti è una profonda crisi, inserita all’interno di una fase di grande trasformazione dell’economia e della società dell’Italia e dell’Europa a sua volta inserita in una grande trasformazione del capitalismo a livello globale. I cambiamenti in atto nella struttura socio-economica hanno avuto conseguenze sulla sovrastruttura politica, determinando la crisi del bipolarismo tra centro-destra e centro sinistra – che in Italia si basava su coalizioni ruotanti attorno a Forza Italia-Partito delle libertà e al Pds-Ds-Pd. Nello stesso tempo lo spazio un tempo occupato dai partiti “centrali” è stato occupato, da una parte, da forze cosiddette populiste come il M5s e la Lega, che hanno drenato gran parte del voto della sinistra radicale e comunista e soprattutto di ampi settori di classe lavoratrice, e, dall’altra parte, dall’astensionismo di massa.
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Dal Russiagate al Russiaflop e all'arresto di Assange
Era la stampa, bellezza. Si è uccisa
di Fulvio Grimaldi
“L’arresto di Julian Assange, il dissidente che ha segnato a livello planetario un’epoca nuova nella tensione fra lo scrutinio democratico delle decisioni dei poteri di governo e la Ragion di Stato, pone un problema drammatico alla coscienza politica di tutto l’Occidente”. (I parlamentari del Movimento 5 Stelle)
Un giornalista. Vero.
Dopo un accusa svedese di molestie sessuali, mossa da due collaboratrici Cia e poi archiviata, sul modello Brizzi e Argento; dopo sette anni di reclusione nell’ambasciata londinese dell’Ecuador, prima da rifugiato, grazie a un presidente ecuadoriano perbene, Correa, e, poi, da ostaggio e prigioniero, per servilismo agli Usa di un presidente fellone, Moreno, Julian Assange, eroe e martire della libertà d’informazione, è stato arrestato da Scotland Yard. Lo aspetta l’estradizione negli Usa e un processo in base ad accuse segrete, formulate da un Gran Giurì segreto, che prospettano la condanna a morte.
Per essersi rifiutata di testimoniare contro Assange davanti al Gran Giurì segreto, Chelsea Manning, che fornì a Wikileaks i documenti attestanti i crimini di guerra e contro l’umanità commessi dagli Usa in Iraq e Afghanistan e si è fatta 7 anni di carcere, è stata di nuovo imprigionata e posta in isolamento. Assange e Manning sono i disvelatori e comunicatori di ciò che il potere fa di nascosto e ai danni dell’umanità. Sono ciò che dovrebbero essere i giornalisti e che nell’era della globalizzazione, cioè della presa di possesso di tutto, non esiste più. Salvo in qualche angolo della rete.
Gli unici, tra giornalisti e politici che hanno avuto la primordiale decenza di marchiare a fuoco la persecuzione di Assange, senza se e senza ma, sono stati i 5 Stelle, con Di Battista, Di Manlio, Morra. I migliori. Grazie e onore a loro.
Come va? Da noi tutto bene.
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L’Italia e lo scherno tedesco
di Von Thomas Steinfeld
Il 16 giugno scorso la Suddeutsche Zeitung, un giornale tedesco di qualità secondo solo alla FAZ, ha pubblicato un articolo sull'Italia che cita Chi non rispetta le regole? L'articolo è molto confuso e ci tratta comunque da sconfitti, anche se sul finale mostra qualche apertura. Anche la citazione del libro non sembra coglierne il senso
L’Italia si sta autodistruggendo? Dal punto di vista tedesco, a molti sembrerebbe di si. Ma non per gli italiani.
Che ci sia un “Europa dei Vinti”, e’ chiaro dall’inizio della cosiddetta crisi finanziaria, cioe’ da circa 10 anni. Da allora, la ricchezza dei paesi che si sono uniti nella comune moneta europea (euro) cresce poco, almeno se confrontata con quella della Cina o degli Stati Uniti.
Prima questo era diverso: fino a quando c’era stata una crescita degna di questo nome, ogni singolo stato della comunita’ aveva potuto crescere, qualcuno di piu’, qualcuno di meno. Ma da quando non cresce quasi piu’ niente, vince solamente colui che lo fa a spese degli altri. Vinti e vincitori divergono palesemente e questo e’ tanto piu’ evidente quanto piu’ rigide sono le regole della competizione alle quali gli uni e gli altri si sono impegnati a sottostare. E quando un paese appartiene ai vinti, anno dopo anno: come possiamo dirci veramente sorpresi, se questo paese non vuole piu’ impegnarsi a rispettare le regole, o addirittura sogna di abbandonare la competizione? Questa e’ la condizione in cui si trova, dopo le ultime elezioni, la terza economia dell’Unione Europea: l’Italia.
Il paese ha trascurato “dieci anni di competitivita’ ” ha sostenuto di recente Hans Werner Sinn, uno dei piu’ famosi economisti tedeschi. Dal punto di vista italiano, le ragioni del fallimento sono altre. Perche’ là (in Italia) la storia del paese, dopo la seconda guerra mondiale, viene presentata come una catena di enormi sforzi collettivi, e cioe’ l’aver acquisito quella capacita’ di essere competitivi – che si misura (compete) con i successi dei paesi del nord e della Germania in particolare.
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Mezzogiorno senza reddito e senza cittadinanza
di Salvatore Perri
La proposta di istituire in Italia un reddito di cittadinanza, proposto come disegno di legge, dal movimento 5 stelle, e largamente utilizzato nella campagna elettorale, ha l’indubbio merito di aver rilanciato il dibattito sul reddito di base. Purtroppo la struttura della proposta, la confusione metodologica e tecnica da cui scaturisce, unita alle peculiari condizioni strutturali dell’economia del sud in particolare, potrebbe determinarne una sostanziale inefficacia, se l’obiettivo (non dichiarato) fosse quello di ridurre il divario strutturale fra nord e sud.
Reddito di base o Super-sussidio?
In primo luogo il reddito di cittadinanza proposto (RDC) non è un reddito di cittadinanza, la questione non è semantica[1]. Facendo riferimento al DDL proposto al Senato dal M5S è prevista la perdita del diritto a riceverlo nel caso non si accettino 3 proposte di lavoro “congrue” o si receda 2 volte da un lavoro. La possibilità di perderlo non lo configura come reddito incondizionato, bensì come un reddito erogabile a determinate condizioni economiche, all’accettazione delle proposte di lavoro a determinati percorsi formativi/lavorativi. Più precisamente, Tridico, infatti parla di Reddito Minimo Condizionato[2] (RMC). Di fatto questa proposta finisce per essere un’estensione del sussidio di disoccupazione aumentato fino a 780 euro mensili. Obiettivo dichiarato del provvedimento, “riattivare gli inattivi”[3], ovvero far partecipare al mercato del lavoro coloro che ne sono esclusi, sostenendo il loro reddito nel periodo transitorio.
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Ma gli androidi ‘pensano’ pecore elettriche?
Intelligenza Artificiale, Biomorfismo e Automazione Cognitiva
di Fabio Iapaolo
Il gioco [dell’imitazione] può forse essere criticato sulla base del fatto che le possibilità sono troppo nettamente a sfavore della macchina. Se l’uomo dovesse cercare di fingere di essere una macchina, farebbe certamente una pessima figura. Sarebbe tradito immediatamente dalla sua lentezza e imprecisione nell’aritmetica. Non possono forse le macchine comportarsi in qualche maniera che dovrebbe essere descritta come pensiero, ma che è molto differente da quanto fa un uomo?
(A. M. Turing, 1950)
In Blade Runner[1] Rick Deckard sottopone i suoi interrogati al test di Voight-Kampff, così da poter discriminare tra umani e replicanti: i secondi pressoché identici ai primi e tuttavia incapaci di provare emozioni analoghe a quelle dell’uomo.
Il test di Voight-Kampff, per analogia di scopo,[2] è simile al test di Turing, introdotto dallo stesso Alan Turing nel suo pioneristico saggio sull’intelligenza macchinica[3] del 1950 che, in maniera provocatoria, si apre con la domanda: le macchine sono in grado di pensare?[4] Turing suggerisce di riformulare questo dilemma sotto forma di un test comportamentale, detto ‘gioco dell’imitazione’, a cui partecipano tre soggetti, due umani e un computer. Il gioco, in breve: un esaminatore umano sottopone una serie di domande scritte a un altro essere umano e a un computer, entrambi separati fisicamente dal primo di modo che questi non possa sapere da chi provengano le risposte. Un computer supera il test di Turing – e gli viene dunque riconosciuta la capacità di simulare un comportamento intelligente – se l’interrogatore si dimostra incapace di stabilire con certezza chi sia di volta in volta a rispondere alle sue domande.
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Per comprendere la natura dello Stato Sociale e la sua crisi
di Giovanni Mazzetti
Quaderno Nr. 1/2017
Formazione online - Periodico di formazione on line a cura del centro studi e iniziative per la riduzione del tempo individuale di lavoro e per la redistribuzione del lavoro sociale complessivo
Abbiamo più volte sottolineato, nei nostri precedenti quaderni, che stiamo attraversando una situazione nella quale prevale uno stato di confusione sociale generale. La maggior parte di noi non sa infatti che cosa sta succedendo, e anche quando ripete continuamente che “siamo in crisi”, ne ha un’idea vaga, come quelle dei nostri lontani antenati sui terremoti e sulle epidemie. Né possiamo far affidamento sui responsabili della cosa pubblica che, spesso in coro con i loro stessi oppositori, si ostinano a ripetere vecchi luoghi comuni validi in passato . In molti rinunciano così a cercare un senso della situazione, o si appoggiano sull’ipotesi opportunistica che tutto dipenda da comportamenti devianti di individui malvagi, che, cercando il loro tornaconto, causano un danno agli altri.
Tuttavia questa interpretazione costituisce l’ingenua reazione di chi non sa nulla di come intervengono normalmente le trasformazioni sociali. Coltivando l’erronea convinzione che gli esseri umani sovrastino strutturalmente la propria realtà, credono che normalmente sussista il potere di determinarne l’evoluzione, conformandola alla propria volontà. E se la loro azione non produce gli effetti sperati, ciò può accadere solo perché la volontà di qualcun altro imprime alle cose quella tendenza di cui si soffre. Ora, la volontà è senz’altro una condizione del cambiamento.
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Tasse e welfare, lo scambio ineguale
di Marco Bascetta
Alla vigilia di ogni legge di stabilità il dibattito sulla pressione fiscale ritrova un suo asfittico momento di vita. Difficilmente si spinge però oltre una materia buona per demagoghi e commercialisti. Un pensiero forte sulla fiscalità sembra fermo da decenni e, soprattutto, saldamente ancorato a una destra che sa bene quello che vuole. Gli si oppone da sinistra, con spirito egualitario e scarso ascolto politico, la denuncia della «regressività» del sistema fiscale e la proposta di un suo rivoluzionamento portate avanti da Landais, Piketty e Saez1.
Sul fronte opposto, per quanto detestabili, i nipotini di Hayek, hanno saputo dimostrare un certo rigore e insediarsi stabilmente nell’orientamento di politiche governative impegnate nella competizione per la migliore offerta di vantaggi fiscali. Il loro totem, la celebre «curva di Laffer» nella quale si dimostra che oltre un certo limite di imposizione fiscale il gettito decresce perché decrescerebbe l’imponibile più rapidamente dell’aumento dell’imposta, sta ancora in piedi, sia pure in virtù di brutali rapporti di forza. Anche se l’ipotesi paradossale da cui muove, secondo cui una imposizione del 100% corrisponderebbe alla disincentivazione di qualsiasi attività è banalmente incontrovertibile, almeno in una economia di mercato.
Da qui discende, per vie non proprio limpide, l’avversione per qualsivoglia progressività fiscale, la difesa dei patrimoni e delle rendite, il dirottamento dell’imposizione verso i consumi, il concetto che il welfare se lo devono pagare soprattutto quelli che ne usufruiscono (e dunque non i più ricchi).
Insomma la destra, sul fisco, ha le idee assai chiare.
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La "buona volontà" del sociologo riluttante
Note critiche a cura di Deborah Ardilli e Gabriele Donato
«Attese un poco sul viale, quindi rientrò in casa a correggere le sue bozze e a escogitare qualche espediente per nascondere la verità»: con questa istantaea scattata sulla borghesia inglese dell’età edoardiana si conclude l’opera postuma di E. M. Forster, ultimata nel 1914 e pubblicata soltanto nel 1971. Che l’«anno migliore» a cui il romanzo è dedicato sia ancora di là da venire, almeno per quanto riguarda la disponibilità dei ceti medi riflessivi a fare i conti con gli aspetti più scandalosi del reale, è dimostrato dal fatto che la frase in questione potrebbe valere come epigrafe per almeno tre quarti della cultura accademica contemporanea: la quale sembra non volersi fare carico di altro mandato oltre a quello di far dimenticare l’esistenza di una società divisa, «in ultima istanza», in sfruttati e sfruttatori.
Escogitare espedienti per nascondere la verità comporta programmare nel tempo gli effetti di un discorso e, quindi, prevederne la circolazione sociale: obiettivo centrato, fino a prova contraria, dalla selettività inespressiva e livellante (soggetti e interessi) del vocabolario «tecnico» che entra in funzione non appena si tratta di giustificare «responsabilmente» la necessità politica di sacrifici umani.
A questa caduta verticale di problematicità tenta di reagire quella parte della cultura accademica che, a differenza della frazione egemone, la verità vorrebbe dirla tutta intera e senza sconti: ma con discrezione professionale, senza compromettersi, mantenendosi a rigorosa distanza di sicurezza dal proprio oggetto; esponendosi, dunque, alla paralisi dovuta alla coabitazione forzata di queste spinte contraddittorie.
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One (labour) market, one money
di Alberto Bagnai
(sempre per la serie ce l’avevano detto, e per l’altra serie “pe’ malati c’è la china...”)
Vi ricordate Pantegana? Il mio più tragico fallimento didattico? Il piddino che mi sono covato in seno? Dai, non è proprio così... Non siamo mai più tornati sul suo discorso, c’erano tante e tante cose da dire, ma in fondo l’idea del ripristino del Glass-Steagall, per esempio, non è mica cattiva. E poi, quando parlavo di fallimento didattico, io scherzavo, va da sé. Fosse stato vero, avrei preferito tacere: i fallimenti, di solito, si tende ad occultarli. Invece io so che lui ha imparato molto da me, e anch’io ho imparato molto da lui. Per esempio, l’uso dell’accordo di settima di quarta specie (ma anche di quello di nona), non preparato, a scopo di rimorchio. Pensa, Panty, che poi, quando ho preso il mio secondo diploma, ho fatto una gran bella figura con l’insegnante di lettura della partitura grazie a te, perché tu mi avevi insegnato che in questa musica decadente che piace a voi un accordo dissonante può avere funzione di tonica. Quattro note (ma giuste) e da cembalista puoi riciclarti pianista jazz (si fa per dire)... Che poi, volendo parlare a molti (come pochi mi chiedono) indubbiamente sarebbe una strategia vincente. Mi scuserai, Panty, se non ho ancora trovato tempo di far tesoro dei tuoi insegnamenti: ormai temo sia tardi.
In compenso tu hai fatto tesoro dei miei, e non sai quanto sono fiero di te.
Ecco che ricevo quindi dalle cloache della finanza un altro sms del buon Panty, che sottopongo alla vostra attenzione, perché si pone una domanda che credo qualcun altro si ponga (certamente l’amico del tornese, ma, ne sono certo anche molti altri).
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La sfida eurasiatica all’egemonia degli Stati Uniti
di Alberto Prina Cerai
Questo articolo è il primo di una serie di contributi per approfondire il tema della sfida tra Stati Uniti e Cina per l’ordine mondiale. In seguito alle recenti dichiarazioni riguardo ad una possibile adesione dell’Italia alla Belt and Road Initiative – la cosiddetta nuova Via della Seta –, abbiamo deciso di dedicare una serie di articoli alle prospettive strategiche relative alla fase che stiamo vivendo e al possibile ruolo del nostro Paese, che merita un approfondimento di più ampio respiro. Questo primo articolo si propone di fare luce di come e perché la BRI rappresenti una sfida all’egemonia americana. Nei successivi si tenterà di capire come l’Italia possa essere un benchmark per gli equilibri geopolitici tra Washington e Pechino
Sin dal 1945 il cuore pulsante della politica estera statunitense è stato preservare «un ordine internazionale aperto e stabile, basato sul libero movimento di beni, capitali e persone» basato su un «balance of power in favore della libertà». Queste iniziative, secondo lo storico Hal Brands, hanno costituito un «impegno bipartisan di lunga data» volto a sostenere «la leadership americana e preservare l’ordine internazionale liberale che il potere americano ha tradizionalmente promosso»[1]. Per chi vede queste continuità, al netto dei grandi cambiamenti che hanno fortemente messo alla prova la tenuta della Pax Americana, la natura e le radici dell’egemonia globale degli Stati Uniti si possono identificare nella lettura esplicita di Henry Kissinger:
«Geopoliticamente l’America è un’isola al largo del grande continente eurasiatico. Il predominio da parte di una sola potenza di una delle due sfere principali dell’Eurasia […] costituisce una buona definizione di pericolo strategico per gli Stati Uniti, guerra fredda o meno. Quel pericolo dovrebbe essere sventato anche se quella potenza non mostrasse intenzioni aggressive, poiché, se queste dovessero diventare tali in seguito, l’America si troverebbe con una capacità di resistenza efficace molto diminuita e un’incapacità crescente di condizionare gli avvenimenti»[2]
La geopolitica del secondo dopoguerra è rimasta fortemente ancorata a questa visione e più in generale all’eredità imperiale degli impegni globali degli Stati Uniti. Harry Truman agli esordi della guerra fredda aveva recuperato l’immagine del paese come grande erede «della Persia di Dario I, la Grecia di Alessandro, la Roma di Adriano, la Gran Bretagna vittoriana […] Nessuna nazione ha avuto le nostre responsabilità»[3].
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L’anti-colonialismo di Karl Marx
di Thierry Drapeau
Dopo l'incontro con il movimento cartista e il poeta Ernest Jones, il filosofo tedesco maturò la convinzione dell'importanza delle caratteristiche multirazziali della classe e delle lotte contro la schiavitù, per combattere il capitalismo
Nel suo film Il giovane Marx, il regista Raoul Peck include una scena in cui un francese di discendenze africane fa un accorato intervento a uno dei discorsi parigini di Pierre-Joseph Proudhon. In contrasto con la folla di lavoratori radunata lì davanti, un elegante gentleman nero, vestito di tutto punto, interrompe il famoso oratore per incalzarlo a parlare anche della libertà di proletari e sottoproletari – “muratori, meccanici, fonditori!” – oltreché di quella degli artigiani, il cui lavoro era minacciato dalla crescita dell’industria. Marx e la sua partner di vita e militanza, Jenny, siedono proprio accanto al citoyen de couleur, e sembrano entrambi deliziati dalla critica che questi ha mosso al padre dell’anarchismo francese.
La scena è certamente significativa, poiché non è Marx ma un nero – probabilmente legato, direttamente o indirettamente, a un passato di colonialismo e schiavitù – che esorta Proudhon ad avere una visione della working class inclusiva del proletariato industriale. Nella scena la discussione non tocca mai direttamente la questione dei proletari schiavizzati e razzializzati del mondo coloniale. Implicitamente, tuttavia, lo fa. Attraverso questo personaggio nero Peck ci ricorda che Marx viveva e pensava dal cuore dell’impero coloniale, con possedimenti oltreoceano ancora dominati dalla schiavitù razziale, e che tale contesto più ampio plasmava inesorabilmente anche la composizione della working class metropolitana.
Eppure, nel film come nella storia, il Marx parigino non era ancora interessato, intellettualmente e politicamente, al colonialismo e alla schiavitù. È per questo che Peck non fa parlare il suo Marx con l’interlocutore nero, del quale condivide chiaramente la prospettiva, ma con Proudhon, con cui era fortemente critico. Questo punto cieco di natura colonialista che il regista haitiano sottolinea nel pensiero del giovane Marx non è una semplice idiosincrasia personale. Rispecchia la visione politica della working class che Marx stesso aveva avuto modo di scoprire e con cui era entrato in contatto nei caffè, nei salotti e nei banchetti della Ville Lumière tra il 1843 e il 1845.
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Che fine ha fatto il Mediterraneo?*
di Spartaco A. Puttini
Il Mediterraneo, come ricorda lo stesso nome, è sempre stato un “mare tra le terre”, un luogo di intersezione e incontro tra culture, popoli, storie diversi. Nel corso dei secoli l’incontro è stato, ovviamente, spesso scontro, ma anche in questi frangenti il ruolo cardinale di ponte tra popoli e culture, tipico del Mediterraneo, non è mai venuto meno. Centro privilegiato di scambi di merci e di idee fin dalle epoche più remote della storia umana, è stato fino ad oggi, attraverso varie peripezie, un luogo su cui si affacciavano diversità fortemente imparentate tra loro a causa della geografia, del clima, dei suoni e dei colori del suo “sistema”, della sua storia. Questo suo particolare carattere unitario e plurale permette di parlare dello spazio geopolitico mediterraneo come di un continente liquido.
Il punto più alto di integrazione del bacino mediterraneo fu trovato con l’unità, anche politica, dovuta alle conquiste di Roma antica. Ma la rottura di quella unità non è ascrivibile, contrariamente a quanto a prima vista si sarebbe indotti a pensare sulla scia di martellanti vulgate, all’espansione islamica del VII secolo d.c., con buona pace di Pirenne[1].
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Grecia, la necessità di un Piano B
Meglio un salto nel vuoto che uno nel nulla
di Marco Bertorello
Trascorso del tempo dall'accordo tra Troika e Grecia si può provare a trarre qualche considerazione di più ampio respiro, provando a uscire dalla logica manichea traditore versus eroe popolare, capitolazione versus vittoria. Senza fare/farci sconti per capire cosa comporta quell'accordo e, in particolare, per considerare cosa fare per poter cambiare qui e ora. Questa terribile vicenda, infatti, pone seri problemi per una prospettiva di trasformazione. Dopo anni di marginalità su scala internazionale il cambiamento è parso alla portata nel piccolo paese ellenico, o, perlomeno, si è posta la concreta possibilità di iniziare un processo di controtendenza, rimettendo in discussione debito e austerità, cioè i pilastri della costituzione materiale del neoliberismo sul piano europeo. Le conseguenze di ciò che è accaduto, dunque, ricadono sull'agire politico di molteplici paesi.
Il piano B e le sue banalizzazioni
Con tutte le cautele del caso e la consapevolezza di non poter impartire lezioni ai greci, penso che nell'estenuante trattativa di luglio fosse necessario prevedere un piano B. Prima di spiegare perché fosse necessario preferisco concentrarmi sulle difficoltà di una sua realizzazione. Non mi convince, infatti, come da diverse parti esso sia stato banalizzato.
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Craxi, Berlusconi, Renzi. Tre autori del disastro
Eddytoriale 163
Edoardo Salzano
Inseriamo questa volta come eddytoriale il contributo del direttore di eddyburg al prezioso libro, Rottama Italia, inventato e curato da Tomaso Montanari e Sergio Staino, e gratuitamente edito e distribuito da Altreconomia. Rispetto al testo riportato nel libro abbiamo aggiunto alcune note a pie' di pagina
Tutti gli elementi nefasti della controriforma iniziata trent’anni fa sono presenti nel decreto Sblocca Italia. Ho parlato di una controriforma iniziata trent’anni fa. Infatti Matteo Renzi è il prolungatore e completatore di un processo iniziato in Italia tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta. Non è casuale la coincidenza temporale tra quel processo e l’affermazione del dominio di quello che chiamiamo “neoliberismo”, e che Luciano Gallino ha definito “Finanzcapitalismo”. Mentre in Gran Bretagna e negli USA trionfano Margaret Thacher e Donald Regan, mentre Milton Friedman e i Chicago Boys diventano, dopo l’esperienza cilena, i consiglieri dei governi del Primo mondo, in Italia sale al potere Bettino Craxi. E’ l’inizio dell’affermazione di un’ ideologia e una prassi che si riveleranno vincenti. “Meno stato e più mercato”, “via lacci e lacciuoli” , “privato è bello” ne sono gli slogan, proclamati non solo dai “modernizzatori” craxiani ma anche nella sinistra[1].
Tra gli strumenti principali della prassi craxiana ecco apparire, e presto dominare, l’”urbanistica contrattata” (cioè l’assunzione degli interessi immobiliari come motori delle scelte sull’uso del territorio), e la deroga sempre più ampia degli interventi sul territorio dalla logica e dalle regole della pianificazione.
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Il potere di generare crisi
di Guglielmo Forges Davanzati
Sul piano della politica economica, il bilancio del governo Monti non è particolarmente entusiasmante. Tre dati possono essere sufficienti per attestarlo: circa centomila individui hanno perso lavoro nel corso dell’ultimo mese, come rilevato nell’ultimo Rapporto ISTAT, con un tasso di disoccupazione giovanile (superiore al 30%) che ha raggiunto, in Italia, il suo massimo storico; è notevolmente aumentato il numero di fallimenti di imprese, con oltre cento crisi industriali in atto; il rapporto debito/PIL è aumentato di 6 punti percentuali nel corso dell’ultimo anno. In altri termini, appare sempre più evidente che ciò che viene definita “crisi” è oggi niente altro che l’inevitabile effetto di politiche fiscali restrittive attuate in un contesto di calo della domanda aggregata; politiche che questo Governo, più del precedente, ha perseguito con la massima tenacia.
L’argomento utilizzato dal Governo e dai suoi sostenitori del “cosa poteva accadere se” [non ci fosse stato Monti] è non dimostrato né probabilmente dimostrabile e, sebbene al prof. Monti vada riconosciuta un’autorevolezza incomparabilmente maggiore di quella del suo predecessore, non è dato riscontrare nessuna correlazione significativa fra “credibilità” di un Governo ed esposizione del Paese al rischio di fallimento. L’argomento del “ce lo chiede l’Europa” [di mettere in atto politiche di austerità] vale, al più, per delegittimare l’Unione Europea, non certo per accreditare la presunta necessità di ridurre drasticamente la spesa pubblica e di aumentare ancor più drasticamente l’imposizione fiscale.
Il fallimento delle politiche economiche messe in atto da questo Governo è anche il fallimento delle teorie economiche che le hanno sostenute sul piano “scientifico”, e che possono schematicamente essere ricondotte a due proposizioni.
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Il falso mito del banchiere eroe
“Basta con la retorica sul whatever it takes: Draghi alla Bce strozzò la Grecia per salvare le banche tedesche”
Enrico Mingori intervista Emiliano Brancaccio
Intervista all'economista Emiliano Brancaccio: "La verità è che con il whatever it takes Draghi smentì se stesso e le teorie liberiste di cui era ed è portatore. Il premier è un tecnocrate di destra. Sul blocco dei licenziamenti deve essersi perso tutti gli studi empirici che dimostrano come la flessibilità ostacoli l'occupazione. Sul Fisco non farà mai quella riforma in senso progressivo che ha promesso e vi spiego anche perché. Il Recovery? Scordatevi i 209 miliardi, saranno al massimo 60. E saranno usati più per incentivi che per investimenti. Intanto in Europa si stanno già preparando al ritorno dell'austerity"
L’austerity? Chi la crede morta e sepolta si sbaglia. I falchi del rigore sono stati costretti dalla pandemia a prendersi una pausa, ma sono già pronti a tornare. L’avvertimento arriva dall’economista Emiliano Brancaccio, professore di Politica economica all’Università del Sannio, che in questa intervista a TPI boccia sonoramente le politiche economiche del “tecnocrate” Mario Draghi e smonta la retorica del “whatever it takes”: con quella frase, dice, “Draghi, in realtà, smentì se stesso”.
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Professore, durante un recente dibattito con il suo collega Daron Acemoglu del Mit di Boston, lei ha esibito una serie di ricerche empiriche secondo cui la flessibilità del lavoro non favorisce la crescita dell’occupazione ma al contrario la ostacola. Le chiedo: il blocco dei licenziamenti negli ultimi 15 mesi è servito a contenere l’emorragia di posti di lavoro oppure – come dicono Draghi, Confindustria e l’Ue – ha inquinato il mercato favorendo i garantiti a scapito dei precari?
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"Siamo in una tempesta perfetta. L'Europa non ha risposte ad uno shock esterno come una pandemia"
Intervista a Domenico Moro
L'economista autore de 'La gabbia dell'euro': "La speranza, anzi l’obiettivo di una forza politica di nuova sinistra dovrebbe essere quello di sfruttare l’occasione che si presenta inserendosi in queste incrinature e far saltare il sistema della Ue e dell’euro."
All'emergenza sanitaria seguirà il difficile, difficilissimo momento della ricostruzione economica. Se questa crisi sarà un'oppportunità per rottamare per sempre un sistema, un modello e una propaganda fallita e fallimentare impostasi negli ultimi trent'anni, dipenderà anche dalla mobilitazione popolare e dell'opinione pubblica da subito.
Come AntiDiplomatico vi proporremo un percorso di interviste per iniziare a delineare la situazione attuale, immaginare i prossimi scenari e sensibilizzare il più possibile sui fallimenti del passato da non ripetere più in futuro.
Qui di seguito il preziosissimo contributo dell'economista Domenico Moro* (intervista esclusiva per l'Antidiplomatico).
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La Spagna requisisce la sanità privata, la Francia annuncia nazionalizzazioni di imprese in crisi e la Germania prepara un bazooka da 550 milioni per salvare le sue aziende. Le misure del governo italiano sono state invece molto più contenute e rispettose delle regole europee: non è che l'Italia è rimasta la sola a cercare una via condivisa di uscita dalla crisi?
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La bolla di Mario Draghi
Sergio Bruno
Le nuove misure espansive annunciate dalla BCE sono un implicito riconoscimento che il QE non funziona e che la politica monetaria finanzia soprattutto l’inflazione dei valori finanziari
Nella sua conferenza stampa del 10 marzo scorso (<http://www.soldionline.it/notizie/economia-politica/diretta-discorso-draghi-bce-10marzo2016 <) il Presidente della BCE ha preannunciato una lunga stagione di tassi di interesse negativi per le banche, il rafforzamento del Quantitative Easing (QE) attraverso l’aumento degli acquisti di titoli, l’estensione della gamma dei titoli oggetto di acquisto alle obbligazioni non bancarie “investment grade”, l’istituzione di nuovi T-ltro (Targeted long term refinancing operations) miranti a premiare le banche che fanno più prestiti a soggetti privati per finanziare la loro domanda (sia per consumi che per investimenti, si immagina).
C’è da essere ammirati dalle capacità retoriche di Draghi e al contempo agghiacciati per quello che è sembrato un clima da ultima spiaggia. Difficile non leggere, nelle parole del Presidente, qualcosa che assomiglia molto al riconoscimento di un sostanziale fallimento del QE, appena mascherato dal riferimento al fatto (ovvio) che senza il QE la situazione sarebbe stata peggiore e dalla ostentata generosità verbale nelle risposte ai giornalisti.
Esistevano, in effetti, solo due alternative, dopo il riconoscimento – appena velato – che la terapia non ha sortito l’effetto desiderato:
– attribuire il fallimento al dosaggio insufficiente;
– riconoscere che le politiche monetarie sono inadeguate, quanto meno senza associarle ad un finanziamento di deficit di bilancio, vuoi di un rilanciato “bilancio federale europeo”, vuoi dei singoli stati.
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Il secolo breve che sembra infinito
di Alberto Burgio
Esistono legami sotterranei tra quanto di più sinistro accade sotto i nostri occhi in queste ore sulla scena politica mondiale, dalla brutale stretta repressiva in Egitto ai venti di guerra sull’Ucraina, alla proliferazione di ultranazionalismi fascisti in tutta Europa?
Rispondere non è semplice, forse è azzardato. Una prospettiva che consideri unitariamente fenomeni radicati in contesti differenti non è falsificabile: siamo quindi nel regno dell’opinabile, se non delle impressioni. Inoltre, molto, se non tutto, dipende dalle dimensioni del quadro storico di riferimento, definite con qualche rischio di arbitrarietà. Resta il fatto. Minacciosi segnali di tensione investono non soltanto quelli che nella guerra fredda erano blocchi contrapposti, ma anche (si pensi al diffondersi nell’eurozona di un sordo rancore anti-tedesco) gli stessi stati europei che hanno vissuto questi sessant’anni in pace.
E a tali segnali si accompagna la ricomparsa dei più cupi fantasmi (nazionalismo e populismo, xenofobia e razzismo) della modernità «avanzata». La storia del Novecento sembra ripresentarsi in blocco sulla scena, come per un brusco ritorno del rimosso. E se è naturalmente un caso che ciò avvenga a cent’anni esatti dallo scoppio della prima guerra mondiale, è vero anche che gli anniversari offrono spesso spunti istruttivi. Proviamo a vedere che cosa suggerisce questa non fausta ricorrenza.
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Governo eurista? Finanziaria recessiva
di Leonardo Mazzei
Liberarsi dalla gabbia dell'euro e dell'Ue è la vera emergenza: la Legge di Bilancio 2020 è lì a dimostrarlo
Sabato scorso abbiamo manifestato a Roma per liberare l'Italia dalla gabbia eurista. Ieri, invece, il governo ha diligentemente inviato a Bruxelles il DPB (Documento Programmatico di Bilancio), che anticipa ai signori dell'Ue quel che i parlamentari italiani dovranno approvare nel dettaglio nella Legge di Bilancio vera e propria.
Quale sia il legame tra questi due eventi è facile da capirsi. Senza rompere la gabbia eurista l'Italia non ha futuro. E la Finanziaria del Conte-bis (chiamiamola così, all'antica, che ci capiamo meglio) è lì a ricordarcelo. Tutti sanno che con l'attuale crescita zero, che annuncia una probabile recessione alle porte, sarebbe stato necessario rilanciare gli investimenti, la spesa pubblica ed i i consumi. Avviene invece l'esatto contrario: gli investimenti (peraltro del tutto insufficienti) sono rinviati ad un non meglio precisato futuro, la spesa pubblica subirà nuovi tagli, mentre le nuove tasse peseranno per circa 13 miliardi (md) di euro. Auguri vivissimi agli italiani, al popolo lavoratore in primo luogo, ma è chiaro che questa politica non solo non contrasta la recessione, al contrario la alimenta.
Come naturale, nella manovra firmata Gualtieri non mancano, qua e là, misure sensate ed approvabili, come l'abolizione del super ticket o quella del cosiddetto "bonus facciate" per le ristrutturazioni condominiali. Ma si tratta appunto di cose di facciata. Piccole caramelle inserite nella solita legge-monstre che, spaziando quest'anno dai 23 md dell'IVA alla tassa sulle bibite zuccherate, consente ad ognuna delle forze di governo di intestarsi questa o quella misura, lasciando ovviamente quelle più impopolari - la stragrande maggioranza - senza padri né madri.
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Il lavoro, quello sconosciuto
di Claudio Gnesutta
Sbilanciamo le elezioni/Al di là dei periodici sussulti alla presentazione dei dati statistici sull’occupazione il progressivo deterioramento delle condizioni di lavoro in atto nel paese non sembra scuotere la nostra classe politica
Sembrerebbe una questione importante per la politica italiana se si considerano i periodici sussulti alla presentazione dei dati statistici sull’occupazione in cui i pochi decimi percentuali di variazione del tasso di disoccupazione o la crescita di qualche migliaio di occupati a tempo determinato sollevano entusiasmi o scoramenti per l’avvicinarsi o l’allontanarsi del mitico milione di nuovi posti di lavoro dell’era berlusconiana. Eppure, molto più contenute e generiche sono le riflessioni della nostra classe dirigente alle altre numerose indicazioni (anche statistiche) che denunciano il persistente deterioramento che, da lunga data, subisce il “lavoro” – inteso sia come condizione per la sopravvivenza economica, ma anche come strumento di inclusione civile –, processo strettamente legato all’estendersi delle disuguaglianze sociali e all’ampliarsi delle povertà.
Eppure le informazioni al riguardo sono molte, le situazioni deplorate, le implicazioni temute; ma al di là del loro formale riconoscimento, non sembrano scuotere la nostra classe politica. Anzi, il fatto che il tasso di occupazione e quello di disoccupazione stiano recuperando i livelli di dieci anni fa è cantato come il superamento della lunga recessione e qualcuno si azzarda anche a menarne vanto. Ma se un’occupazione retribuita ha senso solo se offre una prospettiva di reddito in grado di garantire nel tempo condizioni di esistenza dignitose, non sono certamente questi dati a confortarci.
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A Napoli è cambiata la narrazione
di Paolo Mossetti
Quando, due o tre anni fa, la rivista napoletana d’inchiesta Monitor iniziò a segnalare, con il consueto rigore, le falle nel rapporto tra il sindaco di Napoli e i movimenti, il baratro che separa i proclami rivoluzionari dalla realtà quotidiana, i miraggi di palingenesi coltivati da molti militanti e i limiti di quello che sarebbe diventato il populismo in salsa partenopea, la reazione più diffusa a sinistra fu un mix di malcelato fastidio e zeppate rancorose. Uno degli articoli più contestati, ad esempio, fu una garbata riflessione sull’alleanza in chiave ideologica ed elettorale tra primo cittadino e centri sociali (vecchi e nuovi), le che frasi che circolavano nell’aria appartenevano più a riflessi pseudo-polizieschi che alla dialettica hegeliana: “Ma questi chi sono?”, “Sì, ma cosa fanno loro per cambiare le cose?”; addirittura un “Perché non li firmano gli articoli?” – che ovviamente vale solo per i rompicoglioni e mai per gli amici, che possono nascondersi dietro nickname improbabili e nomi collettivi -, e l’immancabile “E allora ditelo, che volete il ritorno di Bassolino e del Pd!” i
Sono passati 18 mesi da allora, ma sembrano cinque anni: la durata di un’intera legislatura. Questo perché, non appena De Magistris fu rieletto nella primavera del 2016, l’atmosfera era ancora molto diversa.
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Innovazione tecnologica vs progresso sociale
Il dilemma dell’Egemonia digitale nella ricerca di Renato Curcio
di Eros Barone
Dopo L’impero virtuale, pubblicato nel 2015, l’Egemonia digitale a cura di Renato Curcio (Sensibili alle foglie, Roma 2016) è il secondo elemento di un dittico saggistico attraverso il quale l’autore ha descritto ed analizzato le trasformazioni che le TIC (tecnologie dell’informazione e della comunicazione) hanno prodotto all’interno della società e, segnatamente, nel mondo del lavoro. Va subito osservato che il pregio della ricognizione condotta da Curcio non consiste soltanto nel quadro teorico del ‘capitalismo digitale’, che essa contribuisce a delineare, ma anche e soprattutto nell’inchiesta, che sostanzia tale quadro, sulle esperienze vissute dai lavoratori che hanno partecipato agli incontri di ricerca/azione organizzati intorno al tema cruciale che è al centro dell’indagine: l’uso capitalistico delle tecnologie informatiche in funzione dell’egemonia. Ed è, per l’appunto, quest’ultima categoria, di chiara derivazione gramsciana, che permette all’autore di elaborare un modello analitico di quell’intreccio fra dominio e subordinazione che fa della Rete «l’espressione estrema dell’espansione capitalistica, la più pervasiva»1 , laddove l’obiettivo strategico, quindi politico-culturale, cui tende l’egemonia digitale messa in opera dalle classi dirigenti capitalistiche attraverso la Rete e le altre tecnologie che le fanno corona è giustamente individuato nella “colonizzazione dell’immaginario”.
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Secondo round? Non c’è nessun secondo round
La partita è praticamente finita in Ucraina
di Aurelien
Ora che l’Occidente globale sembra finalmente capire che la guerra in Ucraina sta andando malissimo per Kiev, i suoi opinionisti si consolano pensando che questo è solo il primo round e che ci sono ancora cinque o addirittura dieci anni di succose opportunità per abbattere l’Orso russo con ogni sorta di mezzi subdoli e per piantare finalmente la bandiera della NATO sul tetto del Cremlino. Si illudono, ovviamente, ma è utile fare un passo indietro e considerare quanto si illudono e perché.
Non dirò molto sull’attuale “offensiva” ucraina, perché non sono uno specialista militare, e comunque potrebbe essere già in gran parte finita quando leggerete questo articolo. Sembra che le previsioni di una sanguinosa catastrofe fatte dagli esperti prima dell’operazione si stiano probabilmente avverando e che, in pochi giorni o al massimo settimane, a seconda di quanto gli ucraini cercheranno di insistere, la loro capacità militare sarà in gran parte distrutta. Non molti opinionisti occidentali sembrano aver riflettuto sulle conseguenze di ciò, quindi lo faremo noi per loro. Ma nel frattempo la punditocrazia si diverte e si occupa di nuovi scenari che ritiene di poter imporre ai russi, sia in cambio di “concessioni” che la NATO potrebbe fare, sia perché… beh, questa è una domanda interessante: dopotutto sono degli illusi.
Analizziamo quindi la questione in due parti: in primo luogo, ciò che probabilmente accadrà a livello strategico nel resto dell’anno e, in secondo luogo, se c’è qualcosa, per quanto limitato, che la NATO può fare per cambiare il probabile risultato a lungo termine.
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Una democrazia a pezzi
di Alessandro Coppola
La democrazia italiana versa in condizioni catastrofiche, probabilmente le peggiori fra i paesi di quella che un tempo era definita l’Europa occidentale. Le ultime settimane hanno illustrato questa condizione in modo particolarmente persuasivo attraverso le sue varie dimensioni.
Le modalità con le quali si è prodotta la crisi del governo Conte, prima di tutto. Sappiamo che nella crisi non sono mai state pubblicamente formulate da parte di chi l’aveva determinata richieste precise che, soddisfatte le quali, l’avrebbero sventata. Le vere ragioni si sono rivelate in seguito, quando la nascita del governo Draghi è stata rivendicata come l’obiettivo di un’azione che, per l’appunto, non aveva mai posto esplicitamente quell’obiettivo. Questa opacità è resa possibile dalla attesa generalizzata di un intervento presidenziale che, ormai, non è più irrituale ed è diventata un tratto strutturale del nostro sistema. Tanto da permettere ad alcuni attori politici di parassitare le azioni del Presidente. Se Matteo Renzi non avesse avuto la certezza che le camere non sarebbero state sciolte in virtù, per l’appunto, di un intervento presidenziale per un “governo del presidente” non avrebbe potuto aprire una crisi senza mai dichiarare i suoi veri obiettivi, correndo i relativi rischi e trovandosi di fronte ai relativi ostacoli. Renzi è abile e scaltro, ma questa sua abilità è in gran parte prodotta dal contesto di generalizzata deresponsabilizzazione della classe politica e sovra-responsabilizzazione del Quirinale che, per quelli come lui, è diventato ideale.
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Affinità-divergenze tra la compagna Greta e noi
di coniarerivolta
E l’acqua si riempie di schiuma il cielo di fumi
la chimica lebbra distrugge la vita nei fiumi,
uccelli che volano a stento malati di morte
il freddo interesse alla vita ha sbarrato le porte.
Un’isola intera ha trovato nel mare una tomba
il falso progresso ha voluto provare una bomba,
poi pioggia che toglie la sete alla terra che è vita
invece le porta la morte perché è radioattiva.
Pierangelo Bertoli
Nelle ultime settimane si è imposto al centro del dibattito, in forme nuove e inedite, il tema dell’ambientalismo. Ci sono state enormi manifestazioni in tutto il mondo; di particolare rilievo anche quelle che si sono tenute in Italia, soprattutto se si considera la difficoltà di mobilitazione delle masse che attualmente affrontano i vari movimenti politici.
Il movimento ambientalista cova in sé valori e visioni del mondo condivisibili e ricchi di potenzialità. La battaglia per la difesa dell’ambiente è la nostra battaglia e deve essere una priorità per chiunque oggi faccia lo sforzo di provare a immaginare un’alternativa al sistema economico dominante. Al contrario, la particolare sfumatura di ‘radicalismo chiacchierone’, stando alla quale occuparsi dell’ambiente prima di avere abbattuto il capitalismo sarebbe un vezzo borghese, è semplicemente una stupidaggine, buona soltanto per fornire una giustificazione alla propria inutilità e marginalità.
Tuttavia, è importante individuare potenziali elementi contraddittori del movimento che in questi giorni ha riacceso i riflettori su una tematica così importante, elementi che, spesso contro la stessa volontà soggettiva di chi è impegnato in sacrosante battaglie, finiscono per rendere molte istanze pienamente compatibili con gli equilibri dell’ordine socio-economico costituito.
La principale grande contraddizione di alcuni movimenti ambientalisti, una parte dei quali convergenti nelle più recenti mobilitazioni di piazza, è quella di non individuare nel modo di produzione dominante la vera causa dell’inquinamento ambientale, della distruzione degli ecosistemi e dei paesaggi, nonché del fragile equilibrio che esiste tra natura e uomo.
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