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Tsipras ed Unione Europea: per un bilancio politico
di Fosco Giannini*
La Grecia è di nuovo sotto il torchio. Il popolo greco è per l’ennesima volta in pochi anni sotto la mannaia liberista dell’Unione Europea. Martedì 2 maggio, ultimo scorso, il governo greco ha firmato un altro pre-accordo con i creditori internazionali, volto a dimostrare quanto la Grecia abbia “ben lavorato”, quanti nuovi tagli sociali abbia fatto negli ultimi venti mesi ( come richiesto dalla BCE e dal FMI) al fine di ottenere un possibile taglio del debito.
Il testo del pre-accordo dovrà essere valutato, ed eventualmente ratificato, il prossimo 22 maggio dall’Eurogruppo, previa – tuttavia – approvazione del Parlamento greco. E qui potrebbe esserci la prima sorpresa, la concretizzazione del paradosso: l’opposizione di destra al governo Tsipras, non unendosi, ma assommandosi oggettivamente alle lotte sociali, sindacali ( uno sciopero generale è previsto per il 17 maggio) e del Partito Comunista di Grecia ( KKE), potrebbe avere la forza di ostacolare il pacchetto liberista che il governo ellenico ha approntato per l’Eurogruppo. Pacchetto che, tuttavia, passerà.
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Un nuovo approccio galileiano per la resurrezione della sinistra e della democrazia
Raffaele D’Agata
Premessa...
Da che mondo è mondo, coloro che hanno interesse a difendere e a perpetuare l’esistente, hanno mistificato il dato storico identificandolo con la legge naturale. Il conservatore Aristotele sostenne che la schiavitù era, appunto, perfettamente conforme a natura; con ancor minore buonafede, la borghesia ottocentesca considerò normale far lavorare in fabbrica anche donne e bambini per orari spropositati. Nel tempo attuale – come messo in chiaro da Raffaele D’Agata nell’articolo che segue – i responsabili della catastrofe prodotta da tre decenni di politiche sfrenatamente neo-liberiste pretendono di sacralizzarne le “leggi” come regolatrici assolute ed eterne della vita economica e sociale. Esemplare, in proposito, la nota lettera estiva di Trichet e Draghi (riportata integralmente qui in calce). A nostro avviso, l’articolo merita un’attenta lettura punto per punto, per la chiarezza con cui prospetta una possibile e realisticamente rivoluzionaria via alternativa. Certo, è difficile vedere dove siano oggi le forze di sinistra capaci di condurre una battaglia politica di tale portata; ma le idee giuste – ebbe a dire qualcuno che di critica al sistema vigente se ne intendeva – “hanno mani e piedi”.
L’ordine tolemaico e le sue varianti
Politiche che perseguono e producono una forte contrazione della domanda globale (e particolarmente un’ ulteriore contrazione di tassi di occupazione e di livelli di salario reale già in corso di costante diminuzione ormai da più di tre decenni) rappresentano tuttora le sole reazioni alla peggiore crisi che il sistema capitalistico abbia mai conosciuto, se si fa eccezione per quella degli anni trenta del Novecento; e sono anche le sole politiche attualmente prevedibili.
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Le pensioni di Alesina
Sergio Cesaratto
Con frequenza ossessiva dalle colonne de Il Sole 24 Ore il tridente Tabellini, Perotti e Alesina attribuisce molti mali del paese alla troppo bassa età di pensionamento, tesi ripetuta da Alberto Alesina nel suo editoriale del 14 marzo. Beninteso, il benaltrismo è un vizio odioso, ma lo è altrettanto il riduzionismo che sfocia nel semplicismo. “Le donne italiane al lavoro tra i 55 e i 64 anni – argomenta il docente di Harvard – sono circa il 23% del totale. In Svezia il 70% delle donne di quell’età lavora, negli Stati Uniti il 50%. La media europea (Ue-15) è di circa il 41%. Per gli uomini nella stessa fascia di età le quote sono 46% in Italia, 76% in Svezia, 58% nella media Ue e 70% negli Stati Uniti (dati Ocse 2007)”. Ineccepibile, così come il fatto che ciò accade per tutte le altre fasce d’età, con la sola eccezione dei maschi della fascia d’età centrale. Il tasso di occupazione fra i 15 e i 54 anni (occupati 15-54 su popolazione con più di 15 anni) nel 2007 è 69% per l’Italia (donne 57%) contro 76% (71%) della Francia, 79% (74%) della Germania, 77% (68%) della Spagna, 81% (79%) della Svezia (dati di fonte Ilo). Quindi il problema di cui parla Alesina ha un carattere ben più generale. Le donne, in particolare, lavorano in poche in tutte le fasce d’età e Alesina usa inappropriaamente i dati nell’attribuire alla “bassa” età pensionistica i bassi tassi di occupazione femminili per le over-55 (come mi ha prontamente segnalato Antonella Stirati).
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Un vincolo interno per il vincolo esterno
di Paolo Peluffo
La crisi aumenterà terribilmente il peso del debito, condizionando le nostre scelte strategiche. Carli, Ciampi e la transizione dal controllo geoeconomico americano a quello europeo. Le inutili prediche di Caffè. La decisiva quanto trascurata questione demografica
Devo ringraziare Emidio Diodato per aver avviato il suo viaggio sul vincolo esterno, ovvero sulle ragioni della debolezza italiana, partendo dalla teorizzazione di quel vincolo proposto da Guido Carli nelle memorie che scrisse con me poco prima di morire 1, nei primi mesi del 1993 2. Diversi autori si sono concentrati su quella dichiarazione 3, e sul tragico pessimismo che la innervava, per dimostrare la consapevolezza di Carli, e forse non solo sua, del passo terribile che l’Italia stava per compiere con l’adesione alla moneta unica. Anzi, per esprimersi più correttamente, con l’adesione a un trattato sulla base del quale avrebbe potuto fare quel passo, non farlo, o farlo in un momento successivo agli altri contraenti, ma che costituiva una impalcatura per tutti i paesi europei basata su un vincolo esterno che si presentava irreversibile.
Tra l’altro quel passo del libro Carli lo aveva scritto prima del resto, in un dattiloscritto che aveva denominato «asterischi» e che mi aveva consegnato nei primi giorni della nostra collaborazione, anche perché derivava da un precedente volumetto di testi raccolti. Escludo quindi che fosse un moto dell’animo sfuggito per caso. Ho avuto tra le mani la copia di una raccolta con i suoi discorsi da parlamentare 4 che regalò a Carlo Azeglio Ciampi nel dicembre 1988 con questa dedica: «A Carlo Ciampi, il governatore che porterà la Banca d’Italia a integrarsi nella Banca centrale europea». La data è importante perché significa che già nel dicembre 1988 l’obiettivo di costruire un sistema europeo di banche centrali era ben definito.
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L'autonomia del socialismo
di Michele Prospero
È stato da poco ripubblicato, per opera della casa editrice Bordeaux, il terzo dei saggi che inaugura il percorso marxista di Galvano Della Volpe, La libertà comunista (1946). Per riconsiderare il significato dell'iniziativa teorico-politica di Della Volpe, pubblichiamo, per gentile concessione della casa editrice e dell'autore, il quarto paragrafo dell'introduzione al testo di Michele Prospero
Colpisce il tono anche aspro della riflessione etico-politica che è posta al centro della Libertà comunista. L’affondo portato contro i tentativi di annacquare la specificità e l’autonomia (anche filosofica) del marxismo è radicale. Il bersaglio, che viene centrato su molteplici aspetti, è l’eclettismo contemporaneo cioè la disinvoltura concettuale mostrata da teorici che cercano di gettare un ponte tra liberalismo e socialismo precipitando così in un acritico tentativo di “conciliazione”. Prendere un po’ di questo filone di pensiero e recuperare un po’ di quell’altra corrente per tentare una loro fusione estrinseca, che in Italia è il ritrovato sintetico proposto dalle correnti di Croce, Calogero, potrebbe minare l’autonomia culturale di un progetto di pensiero comunista[1]. Ciò che sfugge all’eclettismo contemporaneo è la congiunzione necessaria tra critica dell’economia (particolare) e istanza etica (universale). Solo questo intreccio degli eterogenei renderebbe possibile una soluzione coerente e su questa carenza di mediazione poggia la contestazione del sincretismo di chi si dichiara “liberale nell’etica e nella politica, socialista nell’economia” (p. 41). Una tale attitudine conciliatoria postula il divorzio tra valori e interessi, tra idee e bisogni. Nel quadro di una polemica molto accesa, anche nel testo del 1946 della Volpe non negava la rilevanza dei profili liberali dello Stato moderno, ne coglieva però la ripresa e quindi la riformulazione, entro un universo concettuale nuovo come quello di Marx che li trasvalutava mutandone l’assetto problematico-critico. Entro questo arco tematico rimodulato il rapporto tra socialismo e liberalismo appariva a della Volpe “non come uno sviluppo graduale” ma come uno sviluppo che si accompagnava a una “frattura storica” (p. 15).
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Comunismo interiore
di Francesco Pecoraro
[Cento anni fa, nella notte fra il 6 e il 7 novembre 2017, cominciava la Rivoluzione d’Ottobre]
Per molti anni (ancora adesso è così) la Rivoluzione d’Ottobre è stata per me solo un pacchetto dis-articolato di immagini, neanche tanto nutrito, ma molto impressionante, collegato a un pacchetto di parole, frasi, slogan, libri da leggere mai letti, spesso comprati annusati aperti e furiosamente sotto-lineati, magari fino a pagina 15, e poi richiusi per sempre, perché mi sembravano difficili oppure troppo sollecitanti o troppo veri.
Anche la Rivoluzione del ’17 era troppo, troppo di tutto, un troppo inconcepibile, un risultato unico & inaudito & mai più ripetibile: tutto era stato fatto con incredibile fluida semplicità: fare fuori gli avversari interni al partito, fare fuori gli avversari esterni, fucilare lo Zar, porre fine alla guerra e poi, nella mia confusione di allora (e di adesso) diventare gradualmente tutti uguali, nel senso di spartirsi le risorse equamente e secondo giustizia in un processo che avrebbe dovuto condurre una volta per tutte al completamento della Rivoluzione Francese, cioè al regno di Égalité, che però, una volta insediatasi, avrebbe automaticamente comportato la soppressione di Liberté.
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Il circuito del capitale
di Tony Norfield
Questo articolo si basa su un saggio scritto ormai più di trent’anni fa. Saggio che, con alcune modifiche stilistiche minori, una conclusione rivista e qualche aggiornamento alle note, ripropongo qui come contributo alla comprensione del Capitale di Marx. Le note a piè di pagina sono numerose, in molti casi fanno riferimento sia a pagine specifiche di un’edizione del Capitale che alla collocazione precisa di un passo all’interno di un capitolo. Questo al fine di agevolare il lettore nel rintracciare i riferimenti in altre edizioni e nelle risorse online (specialmente l’ottimo Marxist Internet Archive, [per la traduzione italiana, in riferimento al Capitale, si rimanda al sito CriticaMente, n.d.t.]).
Dei tre libri del Capitale di Marx, il secondo, dedicato al processo di circolazione del capitale, è il più trascurato. Laddove ha riscosso una qualche attenzione, come riguardo all’utilizzo degli schemi di riproduzione per analizzare la “trasformazione” dei valori in prezzi di produzione, è stato spesso frainteso [1]. La prima sezione di questo saggio delinea il rapporto metodologico fra i tre libri del Capitale; la seconda affronta in modo più ampio gli argomenti del secondo libro e la sua relazione col primo.
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Indios veros homines esse
di Il Pedante
L'homme moderne, au lieu de chercher à s'élever à la vérité, prétend la faire descendre à son niveau.
René Guénon
Lebensborn A/R
È certo una buffa coincidenza che a tirar fuori dalla scatola degli orrori storici l'eugenetica, pseudoscienza che postula un nesso tra selezione genetica e progresso sociale, sia un signore che di nome fa Eugenio. Così scriveva su L'Espresso il 7 agosto scorso:
Si profila come fenomeno positivo, il meticciato, la tendenza alla nascita di un popolo unico, che ha una ricchezza media, una cultura media, un sangue integrato. Questo è un futuro che dovrà realizzarsi entro due o tre generazioni e che va politicamente effettuato dall’Europa. E questo deve essere il compito della sinistra europea e in particolare di quella italiana.
Il tema non gli è nuovo. A sentir lui, di «meticciato» avrebbe già discusso l'anno scorso nientemeno che con il Santo Padre, ricevendone la seguente previsione: «dopo due, tre, quattro generazioni, quei popoli si integrano e la loro diversità tende a scomparire del tutto». Dopo una seconda udienza nell'estate di quest'anno, ci assicurava che:
La tesi del Papa è che il meticciato è inevitabile e va anzi favorito dall'Europa. Ringiovanisce la nostra popolazione, favorisce l'integrazione delle razze, delle religioni, della cultura.
Manca giusto dire che rende il pelo più lucido.
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Il rischio del "frontismo" e una svolta nella comunicazione politica
Intervista a Carlo Formenti sul voto Usa
Abbiamo intervistato Carlo Formenti, sociologo, giornalista, scrittore e militante della sinistra radicale, sulle prospettive che derivano dalle recenti elezioni presidenziali USA, soffermandoci su alcune delle particolari tematiche emerse durante il processo elettorale: dai cambiamenti nel rapporto tra comunicazione e comportamento elettorale, alla questione del populismo in salsa Trump, passando per la fase di messa in discussione dell'appeal del concetto di "stabilità" e della divaricazione tra democrazia e capitalismo sempre più affermata a livello sociale nel mondo occidentale. Buona lettura.
* * * *
Infoaut: Si è ormai tutti d'accordo nel descrivere le recenti elezioni Usa come contraddistinte da un voto di classe, espresso all'interno di una campagna elettorale dove Clinton e Trump hanno di fatto giocato il ruolo di portavoce delle classi avvantaggiate e svantaggiate dalla globalizzazione. Il giudizio sui costi e i benefici di quest'ultima ha quindi giocato un ruolo decisivo per l'esito del voto. Quanto però secondo te questo voto è stato percepito anche in relazione ad una specifica forma di globalizzazione, quella neoliberista attuale, e ai suoi effetti di lungo periodo sulla popolazione scaturiti negli ultimi quarant'anni?
Per quanto ci siano state diverse analisi sui dati, basate sui numeri relativi oppure sui numeri assoluti, con le valutazioni che possono essere molteplici a seconda dei diversi criteri usati, io credo che se guardato nella sua articolazione per Stati ci sia un dato incontestabile.
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Bossi, ascesa e declino
Un ciarlatano che ha impartito severe lezioni alle sinistre e ai movimenti
nique la police
Se Umberto Bossi non fosse uno dei classici dell’avanspettacolo della politica italiana si potrebbe commentare il suo declino politico con le parole di Jonathan Swift. L’autore dei viaggi di Gulliver, che è un classico dell’antropologia politica piuttosto che una favola, usava parole dure nei confronti della carriera pubblica del moralista. Si comincia la carriera politica come moralista, scriveva Swift, scagliandosi contro le razzie di chi è al potere, si va al governo, ci si appropria indebitamente di quanto possibile e poi si spera nell’amnistia per “potersi ritirare satolli delle spoglie del paese”. Swift va però benissimo a ciò che si adatta, nella politica italiana dell’ultimo quarto di secolo, ai giudizi sulla politica inglese nei decenni che stanno a cavallo della seconda metà del seicento e della prima metà del settecento.
E’ evidente che Bossi sfugge ampiamente a questi schemi ridisegnando una tipologia di moralista politico (contro i ladri, contro le tasse) che ha rimpiazzato quella del moralista severo per attingere a piene mani dai comportamenti da avanspettacolo. E l’ormai ex segretario della Lega si candida, piuttosto che a rappresentare solo il vintage anni ’90, ad essere il primo di una serie di figure (che emergono dal “basso”, a differenza di Berlusconi) destinate a marcare, nell’apparenza ridicola, la tragica sostanza del populismo italiano a venire.
Di certo c’è che sui tg quando, per ripercorrere un ventennio e oltre di protagonismo politico di Bossi, scorrono le immagini di repertorio del segretario del carroccio che urla “la Lega ce l’ha duro” anche fotografia e montaggio rimandano immediatamente ai filmati di youtube dove si vedono spezzoni di Abatantuono, Mario Brega, Bombolo, Tognazzi.
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È vero che la Germania può fare deficit e noi no?
di Thomas Fazi
Benvenuti a una nuova puntata della nostra rubrica “Le fake news economiche di Luigi Marattin”. In questi giorni i liberisti de’ noantri si stanno dando da fare per spiegarci perché la Germania – a differenza di noi – si può permettere lo stimolo fiscale da 50 miliardi recentemente annunciato dal governo tedesco. Ovviamente non poteva mancare un contributo del nostro economista preferito.
In un suo post, Marattin ci spiega che la ragione per cui la Germania può – e noi no – è che «la Germania ha “risparmiato” in tempi di ciclo favorevole (portando il debito al 60 per cento del PIL e conseguendo addirittura un avanzo di bilancio), al fine di poter spendere – e spendere tanto – in tempi di ciclo meno favorevole». Prosegue poi Marattin: «Per poter utilizzare la “politica fiscale controciclica” in sicurezza» – si dice anticiclica ma vabbè – «occorre aver fatto anche l’altro pezzo: tenere i conti in ordine quando le cose vanno meglio». Lezione che, secondo Marattin, sarebbe rimasta «sempre inattuata in Italia».
Quanto c’è di vero nell’analisi di Marattin? Ben poco, come vedremo. Tanto per cominciare, come abbiamo visto nelle prime due puntate (qui e qui), in un paese che emette la propria valuta non c’è alcuna relazione tra rapporto debito/PIL – e dunque sull’aver “tenuto i conti in ordine” in passato – e lo “spazio fiscale”, cioè la possibilità o meno di fare deficit; altrimenti non si capirebbe come faccia il Giappone, con un rapporto debito/PIL del 250 per cento, il doppio di quello italiano, a mantenere da più di vent’anni un disavanzo primario – cioè uno stimolo fiscale – permanente nell’ordine del 4-5 per cento del PIL. Altro discorso per i paesi dell’eurozona, che sono sottoposti al ricatto permanente dei mercati e alle decisioni arbitrarie della BCE, ma questo a prescindere dall’entità del loro debito pubblico.
Ciò detto, è vero che la Germania in passato ha avuto un comportamento fiscale più virtuoso del nostro, “risparmiando” più dell’Italia in tempi di ciclo favorevole?
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Le illusioni del postmodernismo
di Alessandra Ciattini
C’è sicuramente un legame tra il postmodernismo e il tardo capitalismo. Vediamo insieme quale
Sicuramente il lavoro che cercherò di esporre è qualcosa più grande di me, nonostante mi sia avvalsa del brillante pamphlet di Eagleton (Le illusioni del postmodernismo, 1998); ma senza sfide non si avanza né si migliora.
Molti hanno sottolineato la complessità del pensiero di Marx, mettendo in evidenza che è nello stesso tempo un economista, un filosofo, uno storico, dotato di grande vigore letterario e in questo senso un artista, oltre a richiamarsi a principi di carattere etico-politico, anche se ovviamente non ha parlato in maniera sistematica di etica. Questo suo ultimo aspetto è stato ferocemente criticato da quelli autori che, sulla scia di Max Weber, hanno identificato la scienza con il pensiero avalutativo e che hanno considerato il marxismo per il suo messaggio emancipatorio e per il costante richiamo all’impegno militante una forma di messianismo o di religione.
Con i miei grandi limiti e forse con una certa dose di ingenuo avventurismo ho cercato di ispirarmi a questa impostazione di Marx, che ne fa un autore straordinario, cercando i vari aspetti della fase storica che stiamo vivendo, in alcuni casi certamente da incompetente, ma tentando di sollecitare il vostro contributo ai temi presentati.
Prima di avanzare nel ragionamento vorrei sottolineare alcuni temi e sono sollecitata a questo dalle questioni poste dal nostro dibattito. Primo: la mia impostazione non è quella di affermare come stanno effettivamente le cose, ma quella di descrivere un problema teorico, indicando le varie posizioni per arrivare attraverso argomentazioni a delle conclusioni valide, che facciano luce sull’esistente. Il presupposto di partenza, che cercherò di dimostrare, sta nel fatto che il postmodernismo, corrente culturale trasversale, e l’attuale fase capitalistica sono tra loro connessi, e che il primo, radicato nella rivisitazione di tematiche antiche, nasce dai caratteri propri di quest’ultima.
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Chi sorveglia i guardiani?
La sorveglianza globale e il diritto alla privacy nell’era del digitale
di Gian Piero Siroli e Domenico Bochicchio
L’invasione della privacy è un male forse necessario ed inevitabile, almeno entro certi limiti, per circoscrivere gli abusi che derivano inevitabilmente dall’anonimato completo. Ma questa concessione deve essere regolamentata in modo coerente ed efficace. Se ciò non avviene, come hanno dimostrato la vicenda Snowden e tanti altri casi emersi dopo, questa dinamica si può trasformare in un rischioso strumento di manipolazione e controllo politico, sociale ed economico, con derive molto preoccupanti
Giugno 2013: gli scoop pubblicati sul Washington Post1 e sul The Guardian2 rendono nota per la prima volta l’esistenza di un ampio programma di sorveglianza cibernetica statunitense di nome PRISM, grazie alle rivelazioni di un certo Edward Snowden, esperto di sicurezza informatica ed ex-consulente della National Security Agency (NSA) statunitense fino ad allora sconosciuto. Attività e procedure della NSA nel contesto dello spazio digitale sono così rese di pubblico dominio, evidenziando capacità di intercettazione e raccolta dati fino a quel momento insospettate e svelando un esteso sistema di intercettazione, massiva e prolungata nel tempo, di numerosi leader politici ed alte cariche statali in tutto il mondo, incluse quelle di paesi amici ed alleati; unico esempio per tutti, Angela Merkel, primo ministro tedesco, le cui comunicazioni erano già state messe sotto controllo fin dal 20023, quindi ancor prima che diventasse cancelliere, e che in seguito mostrerà decisamente di non apprezzare questa particolare attenzione nei suoi confronti. Secondo successivi articoli di Der Spiegel4 la vastità delle intercettazioni si estende ad organizzazioni internazionali come l’ONU e l’Unione Europea, a grandi reti di telecomunicazione e network protetti e sensibili, con una attitudine estremamente aggressiva di penetrazione su numerosissimi obiettivi in svariate dozzine di nazioni in tutto il mondo.
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Analisi (semiseria) del voto
Sebastiano Isaia
Mi fanno scompisciare dal ridere tutti quegli insulsi sinistrorsi che in queste ore di sgomento e di dolore post-elettorale («Hanno vinto due buffoni!») stanno cercando di dimostrare ai «grillini in buona fede» che Grillo e Casaleggio, «due ricchi sessantenni provenienti dalle industrie dell’entertainment e del marketing» (Wu Ming), non intendono in alcun modo porsi alla testa di un processo rivoluzionario anticapitalista, né di un movimento di protesta sociale autenticamente progressista, se non proprio rivoluzionario. È ora che la base del M 5 S capisca che i «due guru miliardari» hanno ricevuto dagli oscuri poteri della conservazione l’incarico di sabotare una possibile soluzione rivoluzionaria della crisi italiana. Nientemeno!
«Nonostante le apparenze e le retoriche rivoluzionarie … il movimento 5 stelle ha difeso il sistema … Noi crediamo che negli ultimi anni Grillo, nolente o volente, abbia garantito la tenuta del sistema» (Wu Ming, Internazionale, 26 febbraio 2013). Domanda nient’affatto pignola: a quale rivoluzione, ancorché apparente e retorica, si allude? A quale sistema si fa riferimento?
«In questo Paese abbiamo messo all’ordine del giorno la legalità». «Da oggi non mi vergogno più di essere un italiano». «L’onestà andrà di moda». «Noi appoggeremo tutte le buone proposte, da qualunque parte esse arriveranno. Il nostro è un movimento che non ha nulla a che fare con le vecchie ideologie: per noi destra e sinistra pari sono.
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Incredibile! C'è luce a sinistra!
di Sara Gandini
Avrei potuto scriverli io questi 14 punti, fin dall'inizio della pandemia. E qualcosa ho fatto, tanto da essere tacciata da personaggi che si definiscono di sinistra (per quel poco che questa parola oramai significa) e dal mondo femminista di essere pro-confindustria
Che a distanza di un anno e mezzo qualche riflessione in più ora si possa fare?
Io continuo a sperare.
Il seguente testo è di Mike Haynes e secondo me vale la pena di leggerlo attentamente perché non rinuncia a pensare tenendo conto della mia amata medicina che si basa sulle evidenze scientifiche (Evidence Based Medicine) in ambito di salute pubblica.
Come lui sono convinta che le scelte fatte durante la pandemia siano state prese su criteri ben lontani da quelli che si radicano sulla EBM e che questo non abbia fatto bene al paese a nessun livello. E a distanza di un anno e mezzo dall'inizio della pandemia è ancora così (scusate per la brutta traduzione).
* * * *
Covid-19 e la sinistra in 14 punti
di Mike Haynes
Faccio parte di quello che Owen Jones ha definito "il meraviglioso e strano mondo estremamente di nicchia degli scettici sul lockdown di sinistra". Non credo che Bill Gates sia al centro di una cospirazione globale né seguo Piers Corbyn. La mia nicchia è quella di pensare che abbiamo bisogno di una seria analisi socialista di quello che sta succedendo.
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Per la critica del capitalismo globale: un progetto “marxiano”?
di Sandro Mezzadra
Intervento al convegno internazionale “200 Marx. Il futuro di Karl”, Roma, 14 dicembre 2018
Intervenire a un convegno su Marx (o meglio sul suo “futuro”) in una sessione intitolata “Per la critica del capitalismo globale” comporta qualche esitazione. Di che cosa siamo chiamati a parlare? Della critica del nostro presente facendo tesoro della lezione di Karl? O piuttosto della critica che quest’ultimo ha articolato nel corso della sua vita, in un tempo ormai lontano, di un modo di produzione capitalistico fin dalla sua origine “globale”? Non è per me una domanda retorica. Trascorsa l’epoca della damnatio memoriae, quando la semplice menzione di Marx (in particolare in Italia) determinava commiserazione o alzate di ciglia, è bene resistere alla tentazione di applicare linearmente all’analisi del presente le categorie da lui elaborate. Profondamente “intempestivo”, secondo l’azzeccata definizione di Daniel Bensaïd, Marx ha intrattenuto un rapporto complesso – di adesione e di scarto, di appropriazione e di sottrazione – con il proprio tempo. Il suo pensiero ne è fortemente segnato: leggere (o rileggere) oggi le sue opere significa esporsi a questa intempestività.
Certo, alla fine del secondo decennio del XXI secolo così come negli anni Sessanta del Novecento vale la grande lezione dell’operaismo italiano: la nostra ricerca “deve mettere Marx a confronto non con il suo tempo, ma con il nostro tempo. Il Capitale deve essere giudicato sulla base del capitalismo di oggi”1. Ma sarà opportuno aggiungere una postilla: affinché questo sia possibile, è essenziale comprendere e apprezzare la storicità specifica delle categorie marxiane, non tanto per liberarle dalle incrostazioni di un’epoca ormai trascorsa quanto per riattivare quell’urto contro i limiti del suo tempo (e del suo stesso pensiero) che le costituisce. C’è qui per me un principio di metodo: l’“attualità di Marx” non coincide necessariamente con l’attualità del suo sistema; risiede nei vuoti oltre che nei pieni del suo pensiero, nei suoi scacchi così come nei suoi trionfi “scientifici” – nei problemi che ci aiuta a pensare e non soltanto nelle soluzioni che ci propone. La nostra interpretazione di Marx, in altri termini, deve essere da un lato filologicamente rigorosa, dall’altro “trasformativa”, come ha scritto di recente Étienne Balibar.
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Che fine ha fatto la “questione catalana”?
di Pungolo Rosso
Oltre la Brexit, e il crescente caos che sta producendo nel Regno Unito, senza ovviamente che i lavoratori ne traggano il minimissimo beneficio, un altro tema è pressoché scomparso dai siti “sovranisti” di sinistra, ed è la questione catalana. E anche in questo caso, ci sono ottime ragioni perché coloro che vollero caricare l’opzione indipendentista di significati progressisti, antifascisti, anticapitalisti o addirittura socialisti, per non dire rivoluzionari, stiano in rigoroso silenzio. Infatti a quasi un anno dal referendum, alla confusione dominante a Madrid dove è nato un governo di minoranza in sostituzione del defunto governo Rajoy, fa da corrispettivo altrettanta confusione dentro il Junts per Cat, il partito di Puigdemont, dove si fronteggiano gli indipendentisti a tutti i costi e coloro che pensano invece a soluzioni di compromesso (per lo stesso Puigdemont l’indipendenza “non è l’unica soluzione”) con Madrid e il nuovo, fragilissimo premier Sanchez, già sconfitto sulla legge di bilancio (redatta in sostanziale continuità con la politica anti-operaia di Rajoy). In tanta impressionante confusione, la sola cosa certa è che alla guida delle istituzioni catalane si è insediato Joachim Torra, esponente della componente più conservatrice e razzista dell’indipendentismo, colui che è arrivato a definire i castellanohablantes – quelli che parlano spagnolo – “bestie in forma umana”; sulla scia, del resto, del suo ben più famoso predecessore Jordi Pujol che gratificò gli andalusi, che spesso sono proletari immigrati in Catalogna, come “individui anarchici che vivono in uno stato di ignoranza e miseria culturale”. Insomma: sciovinismo catalano a tutto campo!
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Note filosofiche sulla politica
di Mario Quaranta
Una recensione di Mario Quaranta. L’avvincente lettura del libro «Scritti con la mano sinistra» di Mario Vegetti che, per sostenere l’attualità del discorso filosofico, mette in campo alcune cruciali questioni
Mario Vegetti ha pubblicato in questo breve volume i suoi scritti di politica nel senso che egli attribuisce al termine: scritti marginali rispetto alla sua attività professionale, e “a sinistra” per indicare la sua collocazione politico-culturale, fondata sulla sua “convinzione di un futuro possibile alternativo alla barbarie che attraversa i nostro tempo e ne minaccia l’orizzonte”. Nella prima parte – Tra filosofia e politica (1981) –, sono selezionati scritti su problemi filosofici che scaturiscono dalla politica: nell’intervento Per un lavoro filosofico, Vegetti si sofferma sulla discussione dell’eclissi delle ideologie, della crisi della ragione, ritenute non più in grado di fornire “sistemi unitari di spiegazione del mondo”. Attraverso di esse, al vecchio razionalismo si è sostituito il “pluralismo dei segmenti della ragione”, che necessariamente sono locali, strumentali. Alla radice di queste posizioni c’è, secondo Vegetti, l’idea di una fine del marxismo e della tradizione hegeliana e, più in generale, della fine o addirittura dell’impensabilità di una rivoluzione capace di compiere un rinnovamento radicale del mondo.
Di fronte alla crisi della ragione, i filosofi si sono perlopiù dedicati alle diverse pratiche di indagini specialistiche come la sociologia, la politologia, la psicologia e via dicendo. In questo modo, però, per Vegetti la filosofia rischia di diventare un residuo storico, specie nel momento in cui prevale la razionalità scientifica come modello esplicativo della realtà. A suo giudizio, invece, occorre riconoscere che ci sono problemi che richiamano la radicalità d’indagine e la globalità di risposte che può dare solo la filosofia.
Per sostenere l’attualità del discorso filosofico, Vegetti mette in campo alcune cruciali questioni attraverso l’analisi del lessico filosofico che adoperiamo. È il caso delle categorie di sviluppo e di lavoro, presenti in vari ambiti di pensiero, come nel marxismo. La prima categoria ha prodotto una forte giustificazione del mutamento come fine in sé, consentendo di connettere scienza, tecnica, economia, società, e gli stessi valori in un plesso unitario.
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A che punto è la notte
di Alessandro Leogrande
È un dato di fatto acquisito. Ormai, e da tempo, parliamo di Berlusconi non solo come presidente del consiglio, ma utilizziamo i termini “berlusconiano” e “berlusconismo” come aggettivo e come sostantivo per definire l’Italia di oggi, o almeno una sua parte consistente. Quanti presidenti del consiglio nella storia italiana sono diventati un aggettivo (o un “-ismo”) per definire un preciso periodo storico? A partire dall’Unità non sono stati molti. Anzi sono decisamente pochi: Crispi, Giolitti, Mussolini, Andreotti, Craxi… e poi c’è Berlusconi. De Gasperi è stato un grande personaggio politico, ma pochissimi utilizzano l’espressione Italia degasperiana, e decisamente nessuno l’espressione Italia togliattiana, Italia nenniana, Italia berlingueriana – a parte il fatto che questi ultimi tre non sono mai stati presidenti del consiglio.
Insomma, qui abbiamo un dato linguistico molto forte. Berlusconi è quindi un fenomeno politico che diventa categoria a sé, e definisce un’epoca storica. Questo non è successo molte volte nella storia del paese, ma, quando è successo, il paese si è ritrovato sistematicamente peggio di quando ciò non è accaduto. Come ha detto intelligentemente Cafagna, questo è un paese che non è andato avanti nei momenti di grandi tragedie o in presenza di grandi figure titaniche, bensì quando ci sono stati dei compromessi, i più avanzati possibili. È un’idea non nuova. Anche Giuseppe De Rita una volta, intervistato su questa rivista, ha sostenuto che gli unici momenti nella breve storia unitaria in cui si è cercato di governare questo paese sfasciato, come nel caso del primo centrosinistra, si è trattato di periodi in cui era evidente il maturare di un rapporto dialettico tra correnti, tra partiti diversi o tra figure diverse all’interno dello stesso partito. Nessuno può definire quei governi come la piena realizzazione della democrazia o come il paradiso in terra, ma erano sicuramente degli esperimenti politici che non si potevano identificare con l’uomo forte tout court.
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Il post-Covid e la riforma dello Stato
di Emilio Carnevali
La pandemia di Coronavirus può essere l’occasione per ripensare radicalmente i compiti e gli obiettivi delle istituzioni pubbliche. Ma perché tale occasione non vada sprecata, occorre uno Stato che “funzioni davvero”. Qualche buon esempio (e qualcuno meno buono) dall’esperienza del Regno Unito
We shall meet again: è stato con un diretto riferimento alle vicende della guerra che la regina Elisabetta ha voluto sostenere il morale dei suoi sudditi durante i giorni più bui del lockdown nel Regno Unito. We shall meet again – “Ci rincontreremo” – cantava infatti la mitica Vera Lynn visitando i soldati al fronte, mentre le bombe della Luftwaffe riducevano in macerie le città inglesi.
Nell’epoca del coronavirus il ricorso a paragoni con le vicende belliche è stato assai diffuso. Si è cercato così di dare riconoscimento alla gravità degli eventi in corso, ma anche di trasmettere il senso della speranza in un “dopo”, nella ricostruzione che inevitabilmente seguirà.
Il secondo dopoguerra ha visto la nascita dello stato sociale nella sua accezione moderna. Fu proprio la straordinaria mobilitazione collettiva innescata dallo sforzo bellico a gettare le basi per un nuovo patto sociale che attribuiva a stati e governi compiti estremamente più ambiziosi che in passato: ad esempio, il celebre Rapporto Beveridge – o, come da titolo originale, il Report on Social Insurance and Allied Services – fu pubblicato in Inghilterra quando le sorti della guerra erano ancora molto incerte (1942).
Oggi molti auspicano che la ricostruzione “post-Covid” possa essere l’occasione per un analogo salto di qualità della nostra convivenza civile, soprattutto per quanto concerne la “riconversione ecologica” dei nostri sistemi produttivi.
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Una nuova uni-multiversità complessa?
di Pierluigi Fagan
Articolo pubblicato sul sito del Festival della Complessità (qui) che quest’anno giungerà alla sua Xa edizione. Alla versione on line sul sito del festival, qui si aggiungono alcune considerazioni più specifiche (in corsivo)
Nei due articoli precedenti sul –– ed il successivo che tornava sulla annosa , abbiamo indagato l’impostazione del nostro sistema delle conoscenze. Già avevamo introdotto a premessa l’intero argomento. Pare a noi evidente che un mondo sempre più complesso quindi “intrecciato assieme”, chiami una profonda revisione del nostro sistema delle conoscenze, sistema che ereditiamo dal moderno, un periodo alla fine del suo ciclo storico e culturale. A sua volta, il sistema moderno andava a rimpiazzare il sistema delle conoscenze medioevali, il (latino, retorica e filosofia) e (aritmetica, geometria, astronomia e musica) impostati da Marziano Capella già nel V secolo. Se ogni epoca si rispecchia in un sistema di conoscenze, potremmo interrogarci su quali potrebbero esser le condizioni necessarie per riformare l’attuale sistema in tempi di nuova complessità.
La riflessione anglosassone su i sistemi di educazione e formazione va avanti già da tempo. Si sta verificando che il sistema delle iper-specializzazioni votate alla formazione -tra l’altro non di futuri cittadini, ma di futuri professionisti-, ha tre problemi. Il primo è che il mondo del lavoro richiederebbe in realtà un misto di saperi pratico-teorici, quando le scuole sono semmai prodighe dei soli saperi teorici. Il concetto stesso di specializzazione è ambiguo dato l’alto tasso di odierna evoluzione delle forme economiche che sembrano chiamare certe conoscenze per un qualche periodo di tempo, poi altre per il periodo successivo. Il secondo è che, più in generale, la formazione teorico-specialistica sembra produrre tecnici che si trovano a loro agio solo nell’applicazione di procedure e modelli, totalmente smarriti quando si tratta di improvvisare, innovare, inventare. Data la richiesta di un alto tasso di novità crescenti e data l’alta interconnessione che c’è nei sistemi complessi e dato che tutti i principali sistemi della nostra vita associata stanno diventando sistemi molto complessi, si sta venendo a creare una sorta di disadattamento cognitivo per il quale si formano esperti di procedure laddove si incontrano ogni giorno di più terre incognite che di loro natura non sono ancora mappate, né tantomeno hanno procedure indicative sul come affrontarle.
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Democrazia?
di Daniele Ventre
Un recente saggio dell’Economist (1) indaga l’evoluzione e la diffusione dei sistemi politici democratici nel mondo, durante il XX secolo e il primo quindicennio del XXI. Lo scenario che viene delineato è estremamente interessante, e inquietante per le sue conseguenze. Ciò che lascia non poco a desiderare è la diagnosi del male profondo e la debolezza delle soluzioni proposte.
Nello scenario delineato dal saggio in questione le democrazie nel secolo scorso hanno vissuto il tempo del loro trionfo. Fra le due guerre, con l’implosione degli Stati liberali in Europa, i Paesi a ordinamento democratico erano ridotti a una ristretta minoranza, rispetto ai regimi autoritari di tipo populista: isole assediate che ben presto furono travolte dalla barbarie che avrebbe condotto al secondo conflitto mondiale. L’esito di quest’ultimo, tuttavia, segnò una netta inversione di tendenza e la divisione del mondo in due blocchi. La fine della guerra fredda segnerebbe una nuova fase della diffusione della democrazia, con il collasso dei regimi del socialismo reale. Dagli anni ’90 del secolo scorso, però, le cose si sono rivelate un po’ più complesse. Di fronte allo stress economico della crisi finanziaria, le sperequazioni sociali e le situazioni criminogene si accrescono.
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Come ottenere consenso politico in Italia?
Nicolò Bellanca*
Se guardiamo al dipanarsi delle esperienze storiche di riforme radicali, oppure di transizione da un assetto sociale ad un altro, constatiamo che una loro dimensione ricorrente risiede nella capacità degli innovatori istituzionali di catturare consenso politico attorno ad una strategia di discontinuità[1]. In queste occasioni, la formazione del consenso non si verifica cumulando singole adesioni fino alla maggioranza, semplice o qualificata. Al contrario, il consenso è un percorso egemonico lungo il quale si ottiene la collaborazione di alcuni gruppi e il contrasto di altri. Non di rado, passaggi simbolici drammatici – in cui qualche gruppo viene esplicitamente sconfitto – appaiono cruciali momenti di non-ritorno, oltre cui è la vicenda di un’intera collettività a mutare direzione[2].
Per capire meglio l’esigenza di una simile strategia di discontinuità, ricordiamo due tra le più autorevoli e dibattute letture del nostro sistema politico: quella di Sartori-Farneti e quella di Pizzorno. Secondo Giovanni Sartori[3], la stortura del caso italiano nasce dal “pluralismo polarizzato”. Fino agli anni settanta dello scorso secolo, vi fu la presenza di importanti partiti antisistema: quello comunista e quello neofascista. Di fronte ad opposizioni mutuamente esclusive e caratterizzate da posizioni estreme, il partito moderato, la Democrazia cristiana (DC), fu “costretto” a restare al governo.
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Sul concetto di formazione economico-sociale in Marx
Parte I. Il dibattito marxista fino agli anni '50
di Bollettino Culturale
Sfortunatamente Marx non espose formalmente cosa intendeva con il concetto di formazione economico-sociale. Marx utilizza alcune derivazioni per questa nozione, come la formazione sociale, la formazione della società, le forme economiche, ecc., derivazioni che seguono il processo di maturazione della teoria di Marx. Tuttavia, in due occasioni, secondo Sereni, Marx utilizza il concetto di formazione economica della società (Ökonomische Gesellschaftsformation), la cui nozione si avvicina alla concezione attribuita successivamente dagli autori marxisti alla formazione economico-sociale. Dovrebbe essere chiaro che l'obiettivo di questo scritto non è ricomporre il concetto di formazione economico-sociale in Marx, ma piuttosto rivedere il dibattito più recente attorno a questo concetto. A questo punto, è interessante evidenziare in Marx i due contesti in cui sono stati utilizzati tali concetti preliminari, lasciando così una base per il dibattito che svilupperemo intorno all'obiettivo che proponiamo.
Nella Prefazione per la critica dell'economia politica, pubblicata originariamente nel gennaio 1859, Marx fa una retrospettiva della sua formazione politico-intellettuale dove espone il risultato generale dei suoi studi in una sintesi chiara e astratta di dialettica dei rapporti di produzione e sviluppo delle forze produttive dalla concezione materialistica della storia. Dopo aver distinto, nella trasformazione materiale del processo storico, il movimento delle condizioni economiche di produzione dalle forme ideologiche, Marx sviluppa dialetticamente questo movimento, esponendone le implicazioni per società specifiche, dove sottolinea:
“Una formazione sociale non perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso; nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza.
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Primavera silenziosa
di Resistenze al nanomondo
È ragionevole descrivere
una sorta di imprigionamento per mezzo di un altro
quanto descrivere qualsiasi cosa
che esiste
realmente
per mezzo di un’altra che non esiste affatto
Daniel Defoe
Perché dovremmo sopportare una dieta di veleni non del tutto nocivi, una casa in sobborghi non del tutto squallidi, una cerchia di conoscenze non del tutto ostili, il frastuono di motori non così eccessivo da renderci pazzi?
Chi dunque vorrebbe vivere in un mondo non del tutto mortale?
Rachel Carson, Primavera silenziosa
Negli anni ’60 Rachel Carson, biologa e ambientalista americana simbolo del movimento ambientalista internazionale, con il libro Primavera silenziosa lanciava una forte denuncia e un grido di allarme nei confronti dell’avvelenamento del pianeta causato dall’uso dei pesticidi e in particolare del DDT, al tempo prodotto e usato su vasta scala.
Una nocività di larghissimo uso come il DDT, usato ancora oggi anche se in forme più subdole, aveva portato a silenziare le campagne dai canti primaverili degli uccelli. Oggi, in tempi di Coronavirus, le nocività, oltre ovviamente i pesticidi, non solo sono aumentate, ma si sono trasformate in un intero sistema malato che quotidianamente quando non mette a rischio la sopravvivenza degli organismi viventi li condanna a vivere in un’esistenza tossica e sempre più sterile di biodiversità. La verità è molto semplice: noi stiamo soltanto cominciando a subire massicciamente l’effetto ritardato dell’avvelenamento chimico-nucleare-biologico-elettromagnetico cumulativo del pianeta, avvelenamento che accresce qualitativamente e quantitativamente ogni anno.
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Una stima degli effetti della manovra e delle alternative possibili
Stima degli effetti della manovra economica e simulazione di manovre alternative
di Riccardo Realfonzo e Angelantonio Viscione
Stima Manovra Economica. Con diverse tecniche di stima dei moltiplicatori degli stimoli fiscali mostriamo che la manovra economica del governo per il 2019 ha un impatto molto modesto sulla crescita perché trascura gli investimenti, non presenta un disegno di politica industriale e non muta le condizioni del lavoro. Al contrario, una diversa composizione della manovra, anche a saldi invariati ma con risorse dimezzate sulle misure-simbolo e corrispondenti maggiori investimenti, avrebbe raddoppiato l’impatto positivo sulla crescita. Inoltre, portando il deficit al 2,4% e spostando le risorse aggiuntive sugli investimenti, tutte le stime mostrano che l’impatto espansivo sarebbe addirittura triplicato
La necessità di una manovra espansiva
Nella seconda metà del 2018, le medesime tensioni internazionali che hanno determinato un rallentamento della crescita in Germania e Francia hanno spinto l’Italia nella recessione, complici i gravi deficit di competitività dell’apparato produttivo e infrastrutturale del Paese, il cronico sottofinanziamento degli investimenti pubblici e privati nonché la crescente precarizzazione del lavoro che contribuisce al ristagno dei consumi. In questo scenario, monta la preoccupazione che la manovra economica del governo possa avere un profilo espansivo insufficiente. Per cominciare, la manovra economica non ha impresso un cambiamento di direzione significativo alla politica delle finanze pubbliche rispetto agli anni dell’austerità. A riguardo, il governo sembra avere scontato un deficit di capacità politica in Europa e in particolare nel confronto con la Commissione Europea. Infatti, anziché proporre una manovra incentrata sul rilancio degli investimenti pubblici e sulle politiche industriali, che avrebbe potuto riscuotere consensi in altri Paesi e registrato minori resistenze presso la Commissione Europea, il governo ha presentato una manovra caratterizzata da un deficit incrementato al 2,4% del pil e finalizzato a un aumento della spesa corrente e dei trasferimenti. Successivamente, per evitare la procedura sanzionatoria, il governo ha dovuto ridurre il deficit al 2,04% del pil, riportando i valori della finanza pubblica pressoché in linea con quelli registrati nel 2018.
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Rileggere Roosevelt contro l’inerzia della crisi
di Claudio Gnesutta
Giovanna Leone, Maurizio Franzini, Giuseppe Amari e Adolfo Pepe rileggono, da angolature diverse, il ruolo di Roosevelt nella trasformazione del capitalismo del secondo dopoguerra. Nel confronto sottinteso con l’oggi risalta il suo spirito riformista e umanista
È nota l’argomentazione di Lakoff che i “progressisti” democratici, accettando le modalità di pensiero dei conservatori per paura di dire ciò in cui credono realmente, incontrino difficoltà nel costruire una narrazione persuasiva per i propri elettori e per quelli incerti. Rinunciando a prospettare una visione del mondo realmente alternativa depotenziano il loro linguaggio e l’immaginario ad esso correlato, indebolendo la carica emotiva rispetto allo status quo conservatore.
Non è il caso di Franklin Delano Roosevelt, quando alla Convenzione democratica del 2 luglio 1932 afferma che i “nostri leader repubblicani ci parlano di leggi economiche – sacre, inviolabili, immutabili – che causano situazioni di panico che nessuno può prevenire. Ma mentre essi blaterano di leggi economiche, uomini e donne muoiono di fame. Dobbiamo essere coscienti del fatto che le leggi economiche non sono fatte dalla natura. Sono state fatte da esseri umani”. Si tratta di un rovesciamento radicale delle priorità politiche repubblicane che percorre il suo Looking Forward – la raccolta degli articoli e dei discorsi sviluppati nel corso della sua campagna elettorale per le presidenziali del 1933 – la cui traduzione è apparsa in questi giorni per i tipi della Castelvecchi editore. Il libro, Guardare al futuro. La politica contro l’inerzia della crisi, a cura di Giuseppe Amari e Maria Paola Del Rossi ha un’introduzione di J. K. Galbraith e comprende anche il Discorso di insediamento (4 marzo 1933) e la Prima chiacchierata al caminetto sul bank holiday (12 marzo 1933) dello stesso Roosevelt, le due lettere inviategli da Keynes (del 1934 e del 1938) sul suo New Deal e un articolo su “Il popolo d’Italia” del 1933 nel quale Mussolini rivendica al fascismo l’originalità dell’interventismo rooseveltiano.
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Luoghi pubblici e norme private
di Alessandro Gilioli
Per aver condiviso questa vignetta di Biani sono stato sospeso da Facebook per 24 ore. La vignetta è una parodia di un manifesto fascista e razzista del '44. Non è difficilissima da capire.
Niente di grave, s'intende, il mio ban: e sarà capitato a tutti o quasi quelli che qui mi leggono. Un po' come alle medie, quando la prof ti mandava in corridoio o dietro la lavagna una ventina di minuti per punizione.
Ci trattano come dei ragazzini, i padroni della rete. Sanno che loro sono onnipotenti, noi nelle loro mani. La nostra possibilità di parlare - di diffondere le nostre opinioni - è in mano a un ignoto poliziotto che è allo stesso tempo legislatore e giudice.
Un poliziotto-giudice-legislatore che esercita il suo potere in assoluto e che non sempre è intelligentissimo: quando ho chiamato Facebook, mi hanno risposto che probabilmente il "revisore" (così vengono chiamati, quelli che impongono i ban) che mi ha messo in punizione non parlava italiano e non ha capito.
Questo almeno è quanto mi ha detto l'ufficio stampa di Facebook, a cui come giornalista - quindi "privilegiato" - mi sono rivolto.
Così come mi sono rivolto a Luca Colombo, country manager di Facebook in Italia, insomma il numero uno dell'azienda in questo Paese. Che sostiene di non sapere nulla di ban e sospensioni, lui non se ne occupa, «non so nemmeno se a sospendere sia un algoritmo o una persona».
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Manifesto politico
Collettivo Noi Restiamo
1. Da dove partiamo
Nel mondo in cui viviamo gli eventi e le informazioni viaggiano a una velocità sorprendente e non è sempre facile orientarsi. Guerre, caduta delle quotazioni di borsa, rialzo dello spread, cambi di governo, crisi diplomatiche, riforme del mondo del lavoro, disastri naturali, immigrazione, rallentamento della produzione industriale, aumento della disoccupazione: notizie che ci giungono e spesso ci appaiono come sconnesse fra di loro, in quel caotico vortice che sembra essere il presente. Eppure crediamo che sia possibile “venirne a capo”, innanzitutto individuando alcune domande che vadano nella direzione di trovare l’interconnessione fra tutti questi fenomeni: quale è l’origine la situazione attuale? Come si è generata la crisi? Quali sono i soggetti in campo nella gestione della crisi, e per conto di chi? Che effetti provocano le loro scelte nello scenario globale e nel nostro paese? Si tratta certamente di domande che richiedono risposte articolate che non si possono risolvere in poche pagine, ma dalle quali possiamo estrapolare qualche punto fermo per orientarci se vogliamo agire in direzione di un cambiamento e di alternativa da generazione cresciuta dentro questo nuovo contesto.
1.1 Crisi
Dopo la dissoluzione dell’URSS nell’89-’91, sembrava aprirsi uno scenario privo di conflitti e di rilancio dell’economia capitalista.
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Abbiamo bisogno di altra precarietà?
di Guglielmo Forges Davanzati
Stando alle ultime rilevazioni Eurostat, l’Italia è il primo fra i Paesi europei per numerosità di lavoratori scoraggiati, ovvero di individui che hanno smesso di cercare occupazione: circa il 3.5% della forza-lavoro si trova in questa condizione e, nella gran parte dei casi, si tratta di individui nella fascia d’età compresa fra i 20 e i 30 anni. Il fenomeno è imputabile a due circostanze: in primo luogo, alla bassa probabilità di trovare impiego (o un impiego coerente con le qualifiche acquisite), così che al crescere del tasso di disoccupazione aumenta la platea di lavoratori scoraggiati; in secondo luogo, è imputabile alla possibilità di garantirsi un reddito di sussistenza senza lavorare, possibilità che si determina nel caso in cui i consumi sono garantiti dai risparmi delle famiglie d’origine, o da redditi derivanti da occupazioni irregolari. Si tratta di un fenomeno preoccupante per due ordini di ragioni.
1) L’esistenza di un’ampia platea di lavoratori scoraggiati può segnalare il fatto che è ampia l’occupazione nell’economia sommersa, ovvero che chi smette di cercare lavoro nell’economia regolare lo fa perché ottiene reddito da attività illecite. Si può ritenere che si tratta, in questo caso, di individui con basso reddito e con basso livello di istruzione.
2) I lavoratori scoraggiati traggono risorse per i propri consumi prevalentemente dai risparmi delle loro famiglie. Il che genera progressiva compressione dei risparmi e, nella misura in cui, l’accumulazione di risparmi è una precondizione per il finanziamento degli investimenti, ciò determina riduzione degli investimenti, della domanda aggregata e dell’occupazione. In più, poiché ad alta disoccupazione è associata bassa propensione a cercare occupazione, da ciò segue un ulteriore aumento della quota di lavoratori scoraggiati sul totale della forza-lavoro.
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