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Vincolo esterno, classi dirigenti e cultura politica
di Lorenzo Mesini
Nell’anno 1900, mentre era impegnato a tracciare un bilancio dello Stato unitario italiano dopo i suoi primi decenni di vita, Antonio Labriola si poneva la seguente domanda: «Quante garanzie di Stato moderno offre ora l’Italia in quanto a mantenere un posto di utile ed efficace concorrente nella gara internazionale? […] La vecchia nazione italiana componendosi a Stato moderno di quanto si è trovata adattabile e di quanto si è trovata difettiva di fronte alle condizioni della politica mondiale in genere?»[1]. Nel momento in cui scriveva, Labriola guardava all’esperienza politica, ormai conclusa, di Francesco Crispi e al suo tentativo, fondato su presupposti inadeguati, di collocare l’Italia nel concerto delle grandi potenze europee[2]. Il ‘prosaico quesito’ posto da Labriola sulla soglia del Novecento non ha perso la sua pregnanza per chiunque si interessi alle sorti dell’Italia di oggi. Quale posizione e ruolo può ricoprire il Paese sulla scena politica europea e mondiale? Come declinare la sua azione entro i rapporti di forza e le dinamiche che caratterizzano la scena globale?
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Considerazioni su Potere al popolo dopo la votazione sugli statuti
di Enzo Gamba
Il progetto politico mantiene la sua validità ma rimane il rischio di perdere, per l’ennesima (forse l’ultima?) volta, una grande occasione
In questo ultimo anno, complici le iniziative fiorite e sfiorite al Brancaccio, si è dibattuto molto sul problema di quale dovesse essere il progetto politico dell’immediato futuro per la sinistra di classe e per i comunisti in particolare. Era necessario ragionare e discutere per chiarire ciò che si dovesse fare, al fine di invertire l’andamento della lotta di classe - ormai agìta quasi sostanzialmente solo dal capitale - di ricompattare la classe dei lavoratori salariati e subordinati (gli sfruttati) e dei loro possibili alleati sociali, per cominciare a cambiare e risalire la china.
Si era fatta strada tra molti compagni l’idea che dovessimo pensare ad una ipotesi politica che individuasse in un “movimento politico organizzato” il soggetto politico unitario che, sulla base di un “programma minimo”, di fase, agisse e si muovesse sulla scena politica della lotta di classe nel nostro paese; movimento politico dove i comunisti avrebbero potuto nuovamente riprendere il legame con la classe e riattivare nel contempo il loro patrimonio teorico politico. Né quindi un nuovo partito ideologico dei comunisti, né l’ennesimo tentativo di “intergruppi” sotto l’etichetta delle “sinistre unite”, né una federazione associativa di vari e diversi movimenti perlopiù monotematici. L’avvio di un percorso unitario con la nuova proposta di Potere al Popolo! sembrava rispondere non solo a queste esigenze, ma rappresentava una concreta articolazione di tale progetto politico. Il Manifesto fondativo di PaP era lì a dimostrarlo e anche le principali organizzazioni comuniste avevano dato il loro fattivo assenso.
Ciò che però è successo in PaP in questi ultimi tempi impone, oggettivamente, di entrare nuovamente nel merito della questione, non tanto delle posizioni che si sono confrontate, ma degli elementi e aspetti peculiari del progetto politico che, a nostro avviso, avrebbero dovuto e dovrebbero sostanziare PaP e che sotto traccia hanno condizionato in modo negativo il confronto.
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Il gran rifiuto del Presidente e la Repubblica a sovranità limitata
di Angelo d’Orsi
Ed eccoci qui, divisi nei due partiti: Pro e contra Mattarella, pro e contra Savona, pro e contra l’euro, pro e contra Salvini, pro e contra Di Maio. Possibile che non si possa uscire dall’angustia delle contrapposizioni semplicistiche? Certo, la situazione, inedita e inquietante, presenta tanti e tali risvolti da rendere difficoltose le analisi, ma proprio per questo esse sono indispensabili, fuori dal coro dei sostenitori dell’uno e dell’altro “partito”.
La prima osservazione, che non mi pare di avere colto nei commenti di questi giorni agitati, riguarda il dettato stesso costituzionale: “noi che abbiamo detto no” (come recita un gruppo su Facebook), non volteremo certo le spalle alla Costituzione, che abbiamo difeso e che difenderemo a spada tratta, in ogni modo. L’abbiamo difesa contro la sciaguratissima e goffa manomissione tentata dalla banda Renzi-Boschi, con il loro corteo di mediocrissimi supporters. E abbiamo vinto quella battaglia epocale. Questo non deve impedirci di guardare anche con occhio smagato, sia pure carico di passione civile, come si conviene, alla nostra Suprema Carta, chiedendoci se essa non contenga qualcosa che si presti, in determinate condizioni, a interpretazioni ambigue, come in effetti emerge dal dibattito fra i costituzionalisti (ma si legga l’odierno comunicato, del tutto condivisibile, dell’Associazione Nazionale Giuristi Democratici).
Soprattutto, forse occorre rendersi conto che la nostra non è una Repubblica parlamentare, tout court, né una Repubblica presidenziale, bensì una sorta di Stato misto, che affida al Presidente una serie di funzioni che possono o no essere tradotte in poteri: egli è posto a capo della Magistratura (come presidente del Consiglio Superiore), delle Forze armate (presiede il Consiglio di Difesa), può sciogliere il Parlamento, a suo piacimento, e può indire elezioni, può dichiarare guerra, anche se sulla base di un parere parlamentare, e su indicazione del governo, può firmare o respingere le leggi, e non è responsabile degli atti che compie, che vanno controfirmati dai governi. Infine, può esprimere parere contrario sui ministri designati dal presidente del Consiglio incaricato.
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Smart and nice: dopo l’attacco alla Siria nulla sarà come prima
di Augusto Illuminati
I missili vispi, nuovi e astuti di Trump sono partiti contro obbiettivi selezionati della Siria e per ora l’attacco sembra essere più intimidatorio e simbolico che devastante. E neppure tanto efficace, se un terzo degli ordigni è stato intercettato. Ma potrebbe essere solo l’inizio
Esultiamo, insieme a destra e sinistra sono pure sparite le aggressioni imperialistiche, sostituite da “avvertimenti” simbolici con generazioni di missili intelligenti (certo più di chi li ha armati e tuittati), sempre al nobile fine di salvare la pace e impedire l’orrido uso di armi chimiche. Sul fatto che ci fossero, le opinioni poi divergono: i pragmatici inglesi si limitano a ritenerlo “probabile”, sulla scia del precedente e non proprio trasparente caso Skripal, i cartesiani francesi affermano di averne prove certe, di carattere ontologico più che empirico, gli americani applicano su scala internazionale il metodo che usano con neri e ispanici: prima spari e poi accerti se era pericoloso. Il nostro governo prende per buone le prove dell’attacco chimico, ma si dissocia dalle risposte armate e cerca di sottrarre le basi italiane da ogni coinvolgimento attivo, limitandolo ai voli di ricognizione da Sigonella. Di Maio giura sul Trattato Atlantico, Salvini sulle dichiarazioni di Putin, gli aventiniani del fu Pd, complessivamente filo-atlantici, si dividono in varie posizioni studiando i contraccolpi che il bombardamento potrebbe avere sull’assemblea del 21 aprile. Ci lamentavamo dello scarso peso che la dimensione internazionale aveva avuto nella campagna elettorale e nelle vicende immediatamente successive, Ahinoi, quando se ne occupano i nostri partiti è ancora peggio.
Sul piano internazionale non ci sono più destra e sinistra, cioè rimane solo la destra, coloniale e bombardiera, bugiarda e razzista. Per uscire dai loro problemi interni alcuni leader occidentali, di cui almeno uno visibilmente alterato, in combutta con Turchia, Israele e sauditi, attaccano Russia, Cina e asse sciita (che NON sono la sinistra, ma seri concorrenti imperialistici regionali o globali degli Usa), per fortuna incontrando resistenze ben maggiori che nelle precedenti avventure irakena e libica.
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Tra moltitudini e populismi1
di Salvatore Muscolino
Un’altra tipologia di critiche nei confronti del liberalismo e del capitalismo è quella propria di quegli autori i quali, con strategie e punti di riferimento diversi, hanno provato a rovesciare la logica liberale dominante in favore di una critica sociale che parta dal basso e che valorizza l’attivismo, la creatività, l’autenticità dei “popoli” o delle “moltitudini” in ordine alla rottura o, meglio, alla resistenza nei confronti del paradigma liberale dominante. Nel corso del Novecento è possibile distinguere, per linee generali due varianti di questa sensibilità antiliberale, una di destra e una di sinistra. Inoltre, è giusto ricordare che vari regimi politici antiliberali hanno talvolta trovato un alleato in settori interni al mondo cristiano i quali, seppur con finalità e motivazioni diverse, nutrivano un’analoga ostilità nei confronti dei nuovi valori capitalistici e liberali.
Pertanto, nei prossimi sottoparagrafi proverò a fornire un quadro sintetico, ma spero esaustivo sul piano concettuale, di queste varie forme di critiche “dal basso” della tradizione liberale e capitalistica.
1. Fascismi, populismi di destra e cattolicesimo antiliberale
L’esperienza storica del nazismo e del fascismo rappresenta una lotta radicale, dagli esiti tragici, contro l’affermazione dei valori liberal-democratici.
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Informazioni di Parte
Carlo Formenti
Dopo aver pubblicato il contributo di SIlvano Cacciari, continuiamo la trascrizione del ciclo di incontri "Informazioni di Parte. Per un nuovo mediattivismo tra disordine globale e narrazioni insorgenti", tenutisi lo scorso maggio presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Bologna. È questa volta il turno dell'intervento di Carlo Formenti, docente di Scienza della comunicazione all'università di Lecce ed autore di testi importantissimi per una lettura critica dei mutamenti economici, sociologici e politici avvenuti a partire dall’emersione di internet come terreno di produzione immateriale e conflitto, quali "Mercanti di Futuro"," Cybersoviet", "Se Questa è Democrazia" ed il suo ultimo “Felici e sfruttati”.
Un intervento, il cui portato è di un'attualità scottante, all'interno del quale vengono presi in esame ed esplorati i terreni di scontro su cui oggi si stanno giocando i processi di costruzione dell'egemonia nelle loro diverse sfaccettature (mediale, finanziaria, politica e culturale). Dalle rivolte arabe alle lotte degli operai cinesi, dalla Silicon Valley fino alle fabbriche della Foxconn, Formenti con la consueta lucidità getta uno sguardo d'insieme sulle insorgenze verificatesi nell'ultimo anno, offrendo sponde di riflessione ed affrontando nodi teorici che spetta all'informazione di parte sciogliere nella pratica quotidiana.
Nelle prossime settimane pubblicheremo l'intervento di Federico Montanari, l'ultimo dei tre relatori del ciclo di incontri.
Infofreeflow (@infofreeflow) per Infoaut
*Avvertenza. Il testo che vi presentiamo è stato preso in esame e riletto ma non corretto dall'autore.
Ringrazio Silvano per questa stimolante chiacchierata che mi permette di aggiungere una dimensione di riflessione al mio intervento rispetto a quella che avevo pensato di affrontare. Vorrei però fare alcuni incisi che mi vengono spontaneamente dopo averlo ascoltato.
Primo. Pur potendo sembrare paradossale, la componente operaista degli anni '70 era più togliattiana che vittoriniana.
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“Gli americani a Falluja hanno usato armi vietate e sconosciute”
di Andrea Bertaglio
A rivelarlo una ricerca scientifica: attraverso l’analisi dei capelli della popolazione civile residente nella città irachena rasa al suolo nel 2004, sono state trovate tracce di uranio arricchito, lo stesso materiale usato per le bombe atomiche. L’Onu: “Migliaia i casi di cancri e malformazioni infantili”
Aborti, deformazioni congenite, disfunzioni al sistema nervoso. Effetti collaterali del dramma diFalluja, la città irachena devastata dai bombardamenti Usa del 2004: non solo per via dell’uso di armi proibite, come fosforo bianco e uranio impoverito, ma addirittura a causa dell’uranio arricchito. Lo rivela una sconvolgente ricerca curata dal professorChristopher Busby, dell’Università di Ulster, e pubblicata in Conflict and Health. L’analisi dei capelli dei genitori di molti bambini nati con gravi deformazioni o già malati di tumore sembra provare l’impatto devastante delle bombe americane: una scoperta stupefacente, con “molte implicazioni a livello globale” a carico dell’esercito a stelle e strisce, reo di avere utilizzato nella distruzione della cittadina armi non solo vietate, ma addirittura sconosciute alla letteratura scientifica. Entro la fine di quest’anno l’esercito Usa lascerà l’Iraq . Ma il Paese dovrà fare i conti con la pesante eredità della guerra. Soprattutto Falluja, che grazie all’utilizzo di questi armamenti anche contro la popolazione civile, è alle prese con aborti, deformazioni congenite, disfunzioni al sistema nervoso. Impressionanti i numeri della catastrofe sanitaria che ha colpito i bambini: secondo i dati di un recente rapporto dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, “nel 2006 si sono verificati 5.928 nuovi casi di malattie fino ad allora inesistenti a Falluja, delle quali circa il 70 per cento sono cancri e malformazioni in bambini minori di 12 anni”. Nei primi sei mesi del 2007, invece, i nuovi casi sono stati 2.447, “di cui più del 50% riguardanti i bambini”.
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Prove di quarta sponda
di Augusto Illuminati
Nella purtroppo vana attesa che una brigata internazionale africana venga a liberare il nostro Paese dal sottosviluppo e dalla dittatura di Ubu-papi, il ceto politico italiota sta elaborando il lutto della declinante intesa con Gheddafi e preparando una qualche mossa per tutelare le fonti energetiche e interdire la partenza dei migranti dalle sponde africane. Le probabili esagerazioni sul numero dei morti (stranamente mai mostrati in foto, neppure in zone da giorni ormai liberate) e le sparate allarmistiche sul numero dei migranti (anch’essi finora mai visti approdare) sembrano configurare un viluppo di pretesti con cui giustificare un’operazione “umanitaria”, in stile Haiti, se non Irak o Jugoslavia. Varianti più o meno dure di una shock doctrine, una politica dell’invenzione e gestione dei disastri, secondo la terminologia di Naomi Klein, delega alle ex-potenze coloniali per conto degli Usa, sempre più interessati a riprendere in mano direttamente (Egitto) o indirettamente il Nord Africa, sottraendolo ai cinesi e usandolo per riguadagnare influenza sull’intrattabile Israele. La ricattabilissima Italia di Berlusconi e Frattini sarebbe l’ideale per togliere la castagne dal fuoco, affamata com’è di gas e petrolio, compromessa con il trattato di amicizia, autostrada costiera e bunga bunga...
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Sciopero del capitale, austerità e bassi salari
Guglielmo Forges Davanzati
Stando alle ultime stime OCSE, esistono, nei Paesi industrializzati, quasi cinquanta milioni di disoccupati, un livello mai raggiunto dagli anni immediatamente successivi al secondo dopoguerra. Sarebbe davvero arduo sostenere che ciò sia imputabile a eccessive ‘rigidità’ del mercato del lavoro, essendo ben noto – e certificato dagli ultimi rapporti OCSE – che un ventennio di politiche di ‘flessibilità del lavoro’ non ha generato altro se non una consistente riduzione della quota dei salari sul PIL in tutti i Paesi industrializzati e comunque non ha accresciuto l’occupazione. Dopo la brevissima stagione, lo scorso anno, nella quale alcuni Governi (USA in primis) hanno messo in atto politiche di rilancio della domanda aggregata mediante aumenti della spesa pubblica, prevale oggi una linea di ‘austerità’, stando alla quale si ritiene che – ferma restando la ‘flessibilità’ del lavoro – la disoccupazione sia imputabile al modesto tasso di crescita delle economie dei Paesi industrializzati, e che, per far fronte al problema, siano necessarie politiche di riduzione della spesa pubblica[1].
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Il cigno nero
di Redazione
«Mi dicono tu vuoi uscire dall'euro? Badate che potremmo trovarci in situazioni in cui sono altri a decidere. La mia posizione è di essere pronti a ogni evenienza. (...) Una delle mie case, Banca d’Italia mi ha insegnato a essere pronti non ad affrontare la normalità ma il cigno nero, lo choc straordinario».
Queste parole di buon senso pronunciate ieri da Paolo Savona alle Commissioni riunite di Camera e Senato, hanno scatenato un putiferio. Un coro salmodiante di economisti e politici strillano e seminano il panico. Il colmo è stato raggiunto questa mattina dal deputato piddino Gianfraco Librandi, che sta «valutando l’ipotesi di depositare alla Procura della Repubblica un esposto per verificare se le allusive affermazioni del ministro Paolo Savona costituiscano procurato allarme ai sensi dell’art. 658 del codice penale». Il segno che l'élite eurista, previa campagna di allarmismo e satanizzazione del governo, è pronta a "scatenenare l'inferno".
Sorvoliamo (ci torneremo) sulle specifiche proposte di Savona per far fronte "ad ogni evenienza" — in particolare se la Bce possa davvero "svolgere le funzioni di lender of last resort" (come ogni vera Banca centrale fungere da prestatore di ultima istanza) nel caso di un shock finanziario che farebbe esplodere una crisi di debito.
Il putiferio contro Savona riconferma tre cose in un colpo solo. Primo: mentre all'estero, soprattutto i Germania, si discute senza tabù del "Piano B", in Italia non possiamo farlo, segno evidente che non siamo un Paese sovrano. Secondo: che l'élite nostrana si faccia garante di questo stato di sudditanza mostra fino a che punto è asservita a poteri oligarchici esterni e sia opposta all'interesse nazionale. Terzo: poteri eurocratici ed élite nostrana, saldi nella loro alleanza, si preparano a scatenare l'inferno contro il governo giallo-verde.
Qui sotto l'intervento di Savona, pubblicato in anteprima ieri da SCENARI ECONOMICI.
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Sull’intervista del capo della polizia Franco Gabrielli
di Turi Palidda
“C’è un quadro di Paul Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova unangelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa losguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovesciaai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti ericomporre l’infranto. Ma una tempesta che spira dal paradiso si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta”.
Così Walter Benjamin interpreta la celebra tela del pittore Paul Klee.
“L’attesa perpetuamente insoddisfatta della salvezza … un’attesa in cui l’essere umano è trascinato dal tempo e dal progresso, lasciando alle spalle le tragedie e gli orrori di cui i dominanti sono stati capaci, seminando morte e distruzione ovunque. Redimere questi orrori, cioè dare senso e rendere giustizia alle vittime, non è un compito che viene assunto e garantito dalla divinità o dalla storia dell’umanità. Le macerie della storia restano mute, non trovanogiustificazione … la storia dell’umanità è rimasta storia di sangue e morte. Così l’Angelo di Klee guarda angosciato il passato, mentre il vento (il tempo) lo spinge via, quando vorrebbe restare tra quelle vittime per tenerle strette asé, per garantire ad esse un significato di qualche tipo[1].
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Ripartiamo da un populismo democratico, non dalla sinistra
di Stefano Bartolini, Paolo Gerbaudo e Samuele Mazzolini*
L’establishment utilizza il termine “populismo” per bollare qualsiasi protesta del basso contro l’alto. Ma oltre al significato reazionario in salsa lepenista, può essere uno strumento politico per unificare le istanze insoddisfatte provenienti da una società frammentata. E per dar vita a nuovo senso di comunità ed appartenenza. La soluzione non passa più quindi per quella sinistra che ha perso ormai contatto con gli strati sociali più deboli.
Nel settembre scorso The Guardian ha pubblicato un articolo di John Harris – tradotto da Internazionale nel N. 23/2016 – dove con molta chiarezza viene illustrata la spaccatura culturale che separa quella che oggi si definisce sinistra dalla gente comune. Per l’autore la sinistra è ormai un fenomeno metropolitano estraneo al mondo degli strati popolari, incapace di comprenderli, che si balocca nel suo cosmopolitismo e vede solo le opportunità della globalizzazione, arrivando a disprezzare quella che però al tempo stesso ancora considera la sua base elettorale perché non riesce a comprendere la fondatezza delle sue argomentazioni.
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Berlino 2016: another brick in the wall?
Con questo articolo, una testimonianza di viaggio che riflette sullo scenario politico e economico della Germania e di Berlino, riprendono, dopo la pausa estiva, le pubblicazioni di Palermograd. Le elezioni in Meclemburgo-Pomerania registrano l’avanzata di Alternative für Deutschland che supera la CDU, il partito della cancelliera tedesca Angela Merkel. A due settimane dal voto del 18 Settembre di Berlino è difficile pensare che non potranno esserci ripercussioni sul quadro nazionale governato dalla Große Koalition
“Härte allein hilft nicht in der Rigaer Straße”, titolava il 13 luglio scorso il quotidiano tedesco Tagesspiegel: “a Rigaer Straße il solo uso della forza non aiuta”. Questa estate mi sono imbattuto, un po’ per caso e un po’ per necessità, nel corso delle ormai consuete vacanze a Berlino, nel distretto di Friedrichshain, nella vicenda della vertenza di Rigaer Straße 94. Avevo già letto della rivolta dei linksautonomen a Berlino-Est su Il Manifesto (18.07.2016): a fine Giugno scontri tra attivisti politici e polizia, feriti e arresti, per difendere dallo sgombero delle forze dell’ordine lo stabile occupato di Rigaer Straße, Hausprojekt in der R.S.94. E oggi la vertenza relativa alle questioni abitative è diventata uno dei temi più scottanti della campagna elettorale che si chiuderà il 18 Settembre con l’elezione della Camera dei Deputati e delle assemblee municipali della città-Stato di Berlino. Il punto è che il test elettorale non potrà non avere riflessi e ricadute più generali sull’attuale Große Koalition di Merkel e Schäuble.
Berlino ha fin dai primi anni ’70 del secolo scorso un’interessantissima storia, per altro a me quasi del tutto sconosciuta, relativa allo squatting, all’occupazione da parte di singoli e gruppi politici di immobili non abitati.
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Ritratto di un cacciatore di malware
A prima vista Nex sembra un ragazzo come tanti. Taglio di capelli alla moda, un paio di sneakers sgualcite ai piedi e in tasca uno smartphone che estrae di tanto in tanto per controllare la mail. Ci incontriamo un pomeriggio di luglio a Bologna in un bar che si affaccia su piazza Verdi, nel cuore della zona universitaria. Sono passate poche ore dalla fine di Hackmeeting 2014 – il raduno delle controculture digitali, tenutosi presso il centro sociale XM24 – e i muri dei portici circostanti sono ancora tappezzati delle locandine pubblicitarie dell’evento.
Anche Nex vi ha preso parte, con un talk che ha fatto il tutto esaurito: nel buio della sala, spezzato soltanto da un fascio di luce irradiato da un proiettore, 150 persone si sono accalcate per ascoltare in religioso silenzio i suoi “racconti di sorveglianza digitale”. Due ore densissime, in cui l’hacker ha snocciolato gli episodi più significativi relativi agli ultimi due anni della sua vita. Anni vissuti pericolosamente, in prima linea contro l’industria del malware, ovvero contro quelle aziende private (come la tedesca Gamma International o l’italiana Hacking Team) che producono virus, spyware e software malevoli in grado di infettare qualsiasi dispositivo digitale – dagli smartphone ai personal computer – e metterne sotto controllo le comunicazioni. Una merce, com’è facile immaginare, richiestissima da polizie e servizi segreti di tutto il mondo, interessate a monitorare passo passo le attività di militanti politici e giornalisti non allineati.
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La crisi ingravescente del sindacato collaborazionista
di Eros Barone
L'esportazione dei capitali fa realizzare un lucro che si aggira annualmente sugli 8-10 miliardi di franchi, secondo i prezzi prebellici e le statistiche borghesi di anteguerra. Ora esso è senza dubbio incomparabilmente maggiore. Ben si comprende che da questo gigantesco soprapprofitto - così chiamato perché si realizza all'infuori e al di sopra del profitto che i capitalisti estorcono agli operai del "proprio" paese - c'è da trarre quanto basta per corrompere i capi operai e lo strato superiore dell'aristocrazia operaia. E i capitalisti dei paesi "più progrediti" operano così: corrompono questa aristocrazia operaia in mille modi, diretti e indiretti, aperti e mascherati. E questo strato di operai imborghesiti, di "aristocrazia operaia", completamente piccolo-borghese per il suo modo di vita, per i salari percepiti, per la sua filosofia della vita, costituisce ai nostri giorni...il principale puntello sociale (non militare) della borghesia. Questi operai sono veri e propri agenti della borghesia nel movimento operaio, veri e propri commessi della classe capitalista nel campo operaio..., veri propagatori di riformismo e di sciovinismo, che durante la guerra civile del proletariato contro la borghesia si pongono necessariamente, e in numero non esiguo, a lato della borghesia, a lato dei "versagliesi" contro i "comunardi". Se non si comprendono le radici economiche del fenomeno, se non se ne valuta l'importanza politica e sociale, non è possibile fare nemmeno un passo verso la soluzione dei problemi pratici del movimento comunista e della futura rivoluzione sociale.
V. I. Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, dalla Prefazione alle edizioni francese e tedesca, 1920.
Il documento qui riportato è il riassunto della relazione svolta il 19 dicembre del 2019 da Nino Baseotto, segretario confederale della Cgil, al Direttivo nazionale di questo sindacato. Il riassunto, reperibile sul sito web della federazione varesina del Partito comunista italiano, è stato redatto da Cosimo Cerardi, segretario di tale organizzazione politica, presente alla riunione locale in cui la suddetta relazione è stata nuovamente esposta dal suo autore. 1
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Il nemico non è più astratto
di Sandro Chignola
«La guerra d’aggressione come crimine internazionale»: è il libro uscito postumo di Carl Schmitt. Edito in Italia dal Mulino, nasce dal parere che il giurista scrisse su richiesta dell’industriale Flick, uno dei principali esponenti economici del regime nazista
Si dice che solo dal punto di vista di chi sia sconfitto sia dato comprendere i processi di lunga durata. Solo chi abbia perso tutto si volge all’onda che lo ha travolto cercando di scorgerne le profondità e di identificarne i ritmi e le correnti. Non è il respiro breve del vincitore, inebriato del presente della conquista, quello capace di confrontarsi con i tempi dilatati della storia. Reinhart Koselleck, la cui biografia annovera anni di prigionia in Urss dopo lo sbandamento della Wehrmacht, ha scritto pagine importanti a questo proposito.
Uno dei suoi maestri, Carl Schmitt, è nel 1945 uno di questi sconfitti assoluti. Da tempo in rotta con il nazismo, cui imputa di aver approfondito il solco tra legalità e legittimità per aver ridotto il diritto a «un’arma velenosa» nelle mani del Partito, preda di una quotidiantà estremamente difficile – non riceve da mesi lo stipendio, vive in una Berlino devastata dai bombardamenti, subisce un primo arresto da parte dei militari sovietici -, si definisce allora, non senza una certa auto accondiscendenza, «annientato e calpestato» come «lo sconfitto della guerra giusta degli altri». I suoi interessi teorici si sono spostati sul terreno del diritto internazionale. Da mesi sta portando avanti la stesura del Nomos della terra. Rimane comunque un grande professore di diritto.
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Il 14 dicembre e la classe che verrà
di Marco Bascetta e Benedetto Vecchi
Le mobilitazioni degli studenti e dei ricercatori hanno raggiunto in questi giorni una intensità e una estensione che non trovano riscontro in nessuno dei picchi di conflitto toccati nell’ultimo ventennio. Una lunga sedimentazione di analisi, di pratiche, di esperienze sembrano addensarsi oggi in un passaggio manifestamente e direttamente politico che, per la prima volta da molto tempo, si rivela in grado di parlare all’intera società e di farsi pienamente comprendere, di incalzare istituzioni e forze politiche, di incidere sul clima sociale e di far traballare i luoghi comuni e i tabù ideologici che da anni impongono, a destra come a sinistra, l’ordine del discorso e l’orizzonte del possibile.
L’aria, insomma, è decisamente cambiata. Perché in questo cambiamento di fase, la questione dell’Università e della formazione riveste un’importanza tanto cruciale? In primo luogo perché proprio su questo terreno l’ideologia e la pratica del neoliberismo e i relativi dispositivi disciplinari hanno allestito il laboratorio in cui si progettava il futuro, approntato le tecniche e le procedure per il controllo delle nuove forme del lavoro (di forza lavoro), teorizzato e messo diffusamente in pratica il precariato come strumento di ricatto, mascherato dalle retoriche dell’efficienza; (e) della meritocrazia e della competizione internazionale.
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Le classi sociali in Europa e in Italia
di Domenico Moro
La teoria delle classi sociali nel marxismo
L’analisi delle classi sociali è pochissimo trattata. Ciò non può stupire da parte dell’economia e della sociologia mainstream, perché l’interesse a indagare la composizione di classe è considerato poco utile e soprattutto non funzionale. Il pensiero dominante tende, quindi, a rimuovere le classi sociali o a considerare la suddivisione della popolazione in classi solamente in base al livello di reddito o allo status. Sebbene il reddito percepito sia importante ai fini di una analisi delle classi sociali, una analisi delle stesse non può partire da quello, bensì dalla posizione occupata nei rapporti di produzione del capitalismo. Ciò che, invece, stupisce maggiormente è la scarsa considerazione di una analisi della composizione di classe fra la sinistra radicale. In questo caso, il limite è dovuto al frequente concentrarsi sull’immediato, che si traduce in politicismo e tatticismo elettoralista.
L’analisi della composizione di classe è, invece, necessaria se vogliamo operare in senso strategico, cioè per modificare sulla lunga distanza i rapporti di forza fra le classi e se si vuole radicarsi politicamente negli strati della popolazione che sono più interessati al cambiamento sociale.
L’analisi della composizione di classe fa parte di quel processo analitico di discesa dal modello astratto – rappresentato dal modo di produzione – alla formazione economico-sociale, che rappresenta la concretizzazione storica e spaziale dei rapporti di produzione capitalistici.
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Gli USA: uno Stato-canaglia al servizio della propria economia
di André Chamy*
Improvvisamente, la classe possidente francese diventa consapevole dell’uso economico che gli Stati Uniti fanno del sistema giudiziario. Dal 1993 il Dipartimento per il Commercio ha creato un Trade Promotion Coordinating Committee e un Advocy Center, direttamente collegato alle agenzie d’intelligence. Più di recente, il Dipartimento di Giustizia ha interpretato le leggi statunitensi in modo da estendere il proprio potere all’estero ed esercitarlo, insieme alle altre amministrazioni, nell’interesse delle grandi aziende USA. Di fatto, i processi intentati contro le imprese europee non sono in relazione con le violazioni di cui vengono accusate. Sono processi concepiti per portarle al fallimento o consentirne l’acquisizione da parte di società USA
In pochi mesi, Frédéric Pierucci è passato brutalmente dallo status di presidente della filiale “calderone” di Alstom a quello di detenuto sottoposto alle drastiche condizioni della vita carceraria statunitense…
Ecco riassunto in poche parole il percorso di un dirigente francese in balìa della giustizia USA… Il caso Pierucci consente di fare diverse considerazioni sul piano economico e strategico.
In un libro-testimonianza, intitolato Le piège américain. Otage de la plus grande entreprise de déstabilisation (La trappola americana. Ostaggio della più grande impresa di destabilizzazione), un ex dirigente Alstom svela i retroscena dell’acquisizione del gruppo francese da parte della statunitense General Electric (GE) [1].
Pierucci, un «fantoccio nelle mani della giustizia americana», fu «vittima della strategia» del PDG Patrick Kron. La storia personale di Pierucci illustra la guerra economica degli Stati Uniti contro l’Europa, finalizzata a impadronirsi dei pezzi da novanta dell’industria del Vecchio Continente, usando la giustizia come leva per piegare le imprese, ricorrendo sia a restrizioni fisiche, quali sono le reclusioni abusive, sia a costrizioni finanziarie, usando l’espediente di ammende esorbitanti che farebbero cadere interi Paesi.
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L’orizzonte delle coalizioni sociali
di Alberto De Nicola
Siamo stati abituati, nel tempo, a pensare che le esperienze di conflitto abbiano origini – e producano effetti – che eccedono il territorio, sociale e geografico, nel quale si collocano. Questa idea ci ha spinto ogni volta a forzare le interpretazioni degli episodi di resistenza e di emersione dei movimenti, vedendo in essi espressioni puntuali di più ampi processi di propagazione, risonanza e traduzione. Il problema della «circolazione delle lotte» vanta, insomma, una lunga storia e tradizione. Senza andare troppo indietro nel tempo, così è stato interpretato politicamente il ciclo dei movimenti globali degli inizi degli anni Duemila, quello dei movimenti studenteschi contro il Bologna Process e il ciclo dei movimenti moltitudinari contro le politiche di austerità che, in particolare nell’Europa del Sud, ha toccato la propria massima intensità nell’anno 2011.
Occorre chiedersi quanto, oggi, il principio della «circolazione» possa essere applicato anche alle fratture istituzionali e alle esperienze di governo che si propongono di contrastare le politiche di austerità in Europa.
Sembrerebbe del resto, che proprio la minaccia di una riproduzione di queste rotture in altri paesi, sia attualmente una delle maggiori preoccupazioni per i poteri costituiti nel continente europeo.
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Consigli (o sconsigli) per gli acquisti
Militant
Io cito sempre un episodio, che è stato raccontato in assemblea, di un anziano che si è alzato e ha detto: «io ho settantaquattro anni, oggi ero alla Maddalena, ho tirato due pietre contro le forze dell’ordine; una era la mia e una era di mio fratello, che era ricoverato in ospedale e mi aveva detto: “se vai, devi tirare una pietra anche per me”».
(dall’intervista a Giovanni Vighetti, p. 116)
È uscito da qualche settimana per DeriveApprodi A sarà düra. Storie di vita e di militanza no tav, a cura dei compagni e delle compagne del cs Askatasuna. Scopo del volume è quello di presentare una serie di riflessioni ed esperienze di militanti notav, osservando il movimento dall’interno, ragionando sulle sue difficoltà e sulle sue contraddizioni e, contemporaneamente, interrogandosi sul suo futuro e sulle prospettive che può aprire anche ad altre forme di conflitto. Un movimento di massa che ha trasformato e continua a trasformare in profondità la comunità in cui si è consolidato. Un movimento che, giorno dopo giorno, da oltre un decennio propone con sempre maggiore forza l’esempio di un’alternativa possibile al sistema di dominio attuale e che è sempre più convinto di poter vincere. Una sfida di un potere costituente al Potere costituito, «un esercizio di contropotere su un contesto circoscritto, passibile però di generalizzazione oltre gli angusti confini della Val Susa», l’incarnazione della «possibilità di un contro-soggetto (antagonista) collettivo» (p. 240): non è un caso se il ministro Cancellieri lo ha definito «la madre di tutte le preoccupazioni».
Lo diciamo come premessa: come del resto viene affermato anche nell’introduzione del volume (se ne può leggere una parte nella presentazione del volume su infoaut), non si tratta di un libro semplice ma le parti più ostiche e di contenuto più metodologico – per quanto siano, secondo noi, di fondamentale importanza – possono venire saltate. Si tratta, infatti, di un libro così importante sul conflitto notav – e sul conflitto sociale in generale – che abbandonarlo per le difficoltà di lettura incontrate nelle prime pagine sarebbe davvero un’occasione sprecata.
Il libro è diviso in quattro parti. La prima è una vera e propria introduzione metodologica, debitrice alle riflessioni e agli insegnamenti di Romano Alquati, a cui infatti è dedicato il libro. Scopo del volume è quello di costruire una «conoscenza nostra, di parte, da utilizzare immediatamente e concretamente nelle lotte, per lo sviluppo e l’allargamento dl movimento» (p. 10).
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Il colpo di stato monetario nel cuore dell'Europa
Avanti tutta e tutti zitti
Domani Mario Draghi, governatore della Banca D'Italia osannato dalla destra e dalla sinistra social liberista come possibile capo della BCE, riunirà il Financial Stability Forum per cercare di trovare una quadra rispetto all'annunciato processo di riforma delle regole di mercato che dovrà discutere il prossimo G 20 che si terrà a Toronto. Le ultime riunioni del G 20 si sono concluse con un inno lanciato proprio dall'Italia alla correttezza, alla trasparenza, alla integrità. Chiaramente, il fatto che un governo come il nostro si faccia promotore di questi valori per definire un nuovo capitalismo etico è tutto dire. La settimana scorsa ha fatto molto discutere la lettera di Francia e Germania alla commissione europea che tra le righe veniva accusata di immobilismo rispetto alla speculazione ( l'asse franco tedesco ha chiesto lo stop della vendita di titoli allo scoperto). La lettera ha suscitato una reazione stizzita da parte della commissione che ha fatto sapere ai due governi che su questo punto non c'è accordo fra gli stati in Europa, quindi - per la gioia degli speculatori - tutto è rimandato. I governi europei hanno impiegato una nottata per concordare politiche di rigore e salvare le banche con i nostri soldi, ma non trovano un accordo per bloccare la speculazione, questa è la verità. Pensare poi che gli stessi uomini e centri d'interesse che non vogliono impedire la speculazione andranno a discutere al G 20 di come riformare il capitalismo è tutto dire. Ma non vogliamo polemizzare oltre su questo aspetto.
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Filosofia prêt à porter
Un pensiero che non vuole più essere inattuale
di Carlo Formenti
«Polemos (la guerra) è il padre di tutte le cose» recitava Eraclito, non a caso fra i filosofi più amati da Marx. Ma mentre Marx inquadrava il detto nella cornice del pensiero dialettico, pensando alla guerra di classe, più che alla guerra in generale, il pensiero ermeneutico ricama su questo frammento presocratico (come su molti altri) per estrarne tutt’altro, dal momento che il conflitto antagonistico è stato espulso dall’orizzonte dei temi “politicamente corretti”. E dal catalogo della correttezza politica è stata espulsa anche la vocazione alla inattualità del pensiero, visto che gli autori inattuali tendono a coltivare visioni utopistiche che oggi vengono automaticamente associate ai campi di sterminio.
In un bell’articolo pubblicato sul sito di Micromega http://ilrasoiodioccam-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2020/07/30/filosofia-del-ritiro-ritiro-della-filosofia/?fbclid=IwAR2pbt022V8vXY5SxTtSlzWp-zFjTa-qNXfOxvLxhwZAUoPALcNsHxGwN-o Yuri Di Liberto utilizza, per definire questa svolta antipolitica che accomuna larga parte del pensiero contemporaneo, la categoria di "filosofia del ritiro": «non si tratta di un progetto filosofico univoco, ma di una linea di tendenza della filosofia occidentale che, sulla base dell’equazione potere=totalitarismo, ha forgiato una panoplia di concetti che mirano alla reinterpretazione dello scenario del conflitto in termini di un’opposizione manichea tra il potere costituito (il male assoluto) e la relazionalità immanente; o, per usare i termini di Deleuze e Guattari, tra il molare (Stato, paranoia) e il molecolare (il desiderio, lo “schizo”».
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Dimensione operaia degli Stati Popolari, Sardine, ecologismo, antirazzismo, antipatriarcato...
di Karlo Raveli
Fine del lavorismo secolo XIX?
L’iniziativa Stati Popolari potrebbe riuscire a riproporre un reale percorso di lotta anticapitalista, generale e radicale pur tra tutti i condizionamenti attuali, a cominciare dai virus dell’informazione ufficiale. ‘Di sinistra’ inclusa. Superando il populismo neo-fascista ma rimettendo anche al loro posto vari inscatolamenti lavoristi dell’universo operaio, soprattutto per opera di vecchi marx-ismi chiusi tra le stantie inferriate dell’esclusività salariale produttivistica più o meno tutelata. Cioè della storica particolarità del lavoro stipendiato assunto ed innalzato a esclusività strategica operaia, anti-Capitale, dallo stesso cosiddetto “Marx politico” di un secolo e mezzo fa.
Appaiono del resto sempre più come strumenti di difesa terminale del sistema anche recenti dissertazioni di confusione e irretimento etico, teorico e politico a proposito della DIMENSIONE o CLASSE operaia globale. Per esempio attorno all’idea di un presunto ‘quinto stato’ riproposta poco tempo fa in un articolo di Allegri e Ciccarelli del Manifesto, ‘Fenomenologia della classe a venire’. Un 5° stato che, da tipici marxismi di sinistra del sistema, servirebbe come concetto valevole per eclissare il primo ed essenziale elemento classista marxiano, innanzitutto etico ma poi teorico e politico:
l’alienazione o appropriazione particolare, privata, personale e famigliare di naturali od oggettivi Beni Comuni di una società. Da cui sorge lo sfruttamento e guerre e violenze di ogni tipo.
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La Francia di Macron
Un primo tentativo di approcciare in modo non ideologico il fenomeno-Macron
di Sebastiano Isaia
Non mi convince affatto la chiave di lettura che ci presenta il nuovo Presidente francese nei panni dell’ennesima creatura tecnocratica creata a tavolino dai soliti “poteri forti mondialisti” generati dal Finanzcapitalismo. Burattino e burattinai, insomma. Per Massimo Franco «Macron è il prodotto di un esperimento tecnocratico della banca d’affari Rotschild, [è] figlio dell’élite tecnocratica [che] incarna una strategia europeista e centrista che ha fatto tabula rasa sia del gollismo, sia della sinistra» (Il Corriere della Sera): troppo semplice per i miei gusti. Questo senza nulla togliere alla forte connotazione tecnocratica e “finanzcapitalistica” del nuovo inquilino dell’Eliseo, matrice che sono ben lungi dal negare. Anche l’interpretazione di Macron (cioè delle politiche “neoliberiste” che egli incarnerebbe alla perfezione) come la vera causa del successo che comunque il Front National ottiene nell’elettorato di estrazione operaia e proletaria (per cui chi ha votato per il candidato della «cupola finanziaria mondialista» di fatto avrebbe portato acqua al mulino della “destra populista”) mi appare troppo riduttiva e semplicistica, e in ogni caso essa non coglie tutta la complessità della crisi sistemica che ormai da anni travaglia in profondità la società francese.
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“L’intero segreto della concezione critica”
Sul lavoro in Lukács e Marx
di Matteo Gargani
I. Nel gennaio 1868, armato della consueta mordacità, Marx confessa al sodale di sempre Friedrich Engels come il «Kerl» di turno, Privatdozent di filosofia ed economia politica a Berlino Eugen Dühring, abbia mancato il senso del I libro de Il Capitale. L’«intero segreto della concezione critica» – scrive Marx riferendosi proprio alla sua «Critica dell’economia politica» – sta nel fatto che «se la merce ha il doppio carattere di valore d’uso e valore di scambio, allora anche il lavoro rappresentato nella merce deve avere carattere doppio». Centrale è quindi la distinzione tra «lavoro astratto» e «lavoro concreto», sfuggita non solo a Dühring, ma secondo Marx anche agli stessi fondatori dell’economia politica: «la semplice analisi fondata sul lavoro sans phrase come in Smith, Ricardo ecc. deve sempre andare a sbattere in questioni inesplicabili»1. Ricorrendo alla nota immagine della rivoluzione copernicana, possiamo dire che Marx individua quella da lui operata nel campo dell’economia politica nella fondamentale distinzione tra «lavoro astratto» e «lavoro concreto», pendant soggettivo della doppia natura del valore già incorporata nella merce. È proprio sul «concetto di lavoro» nell’intera opera di uno tra i più celebri filosofi del xx secolo che si concentra Individuo, lavoro, storia. Il concetto di lavoro in Lukács di Antonino Infranca.
Il testo in questione, tuttavia, si colloca su un terreno diverso rispetto al piano «critico» evocato da Marx nella lettera a Engels.
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Il fascino discreto della crisi economica
Intervista a Richard Walker
Il ciclo di interviste a teorici eterodossi a cura degli attivisti della Campagna Noi Restiamo continua. Siamo ormai arrivati all’ottava intervista e la parola va a Richard Walker. Walker è professore emerito presso il Dipartimento di Geografia della University of Berkely (California).
La sua ricerca si concentra sulla geografia economica, lo sviluppo regionale, il capitalismo e la politica, le città e l’urbanizzazione, le risorse e l’ambiente, la California e infine su tematiche legate a classe e etnia. Il suo lavoro più conosciuto per quanto riguarda la geografia economica è il libro The Capitalist Imperative: Territory, Technology and Industrial Growth (Blackwell, 1989), scritto con Micheal Storper. Fa parte del Board of Directors del progetto “Living New Deal”, che punta a raccogliere e mostrare i risultati raggiunti dal piano di riforme economiche e sociali promosso da Franklin Roosevelt.
Noi Restiamo: L’emergere della crisi ha confermato la visione di alcuni economisti eterodossi secondo la quale il capitalismo tende strutturalmente ad entrare in crisi. Tuttavia, le visioni sulle cause del disastro attuale divergono.
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Lo stato delle cose in una nuvolosa estate
di Elisabetta Teghil
Le recenti elezioni per il parlamento europeo hanno confermato quello che già si sapeva, cioè che l’elettorato italiano è in larga misura di destra, con forti connotati anticomunisti. Infatti, la sinistra, intesa come M5S e Lista Tsipras, ha raccolto il 25% dei voti. Non è questa l’occasione per chiarire cosa intendiamo per sinistra e se gli uni e gli altri, Pentastellati e Lista, facciano parte a pieno titolo del panorama di sinistra, certo è che il Partito Democratico, così come gli altri partiti socialdemocratici in Europa, si è trasformato in destra moderna ed equivoci non ce ne sono , né all’andata, né al ritorno perché il loro programma politico è esplicito e chiaro e chi li sostiene li percepisce giustamente come tali.
Soffermandoci sull’Italia, ma il ragionamento si può estendere anche agli altri Paesi, il PD ha rinunciato ai connotati propri della cultura socialdemocratica riformista e gradualista per sposare la causa neoliberista che si è proposto di naturalizzare in Italia.
Il neoliberismo, penso che tutte/i conveniamo, è un attacco a tutto campo al mondo del lavoro, alle sue conquiste, traduce tutto in merce, smantella lo stato sociale… E’ un modello che è nato negli USA, testato in corpore vili nel Cile di Pinochet e passato in Europa attraverso l’Inghilterra.
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Il Ponte è un esempio di keynesismo alla rovescia
Antonello Mangano
Ivan Cicconi, massimo esperto italiano di lavori pubblici, svela la vera essenza del modello Ponte: «E’ keynesismo al contrario, si usa la ricchezza sociale per trasferirla a pochi soggetti privati». Secondo lo schema già sperimentato con la Tav. Un articolo da Terrelibere.org
«Sono politiche keynesiane alla rovescia. In precedenza si prendeva la ricchezza prodotta per redistribuirla, oggi si danno soldi a chi è già ricco. Sono costi che pagheremo per diversi decenni». Lo dice a terrelibere.org Ivan Cicconi, uno dei maggiori esperti di infrastrutture e lavori pubblici, commentando l’annuncio del governo della prima pietra del Ponte sullo Stretto. «La varianti come quella di Cannitello sono ad hoc per il Ponte, si tratta di opere funzionali al progetto». Cicconi, ha denunciato già molti anni fa le storture dell’Alta velocità. Profitti privati, costi per tutta la collettività, cantieri lumaca. Oggi ravvisa nel Ponte lo stesso modello. Il keynesimo alla rovescia, Robin Hood al contrario: la ricchezza sociale che finisce nella tasche dei soliti noti: i grandi contractors, con Impregilo sempre in testa.
Esattamente quanto sostenuto nel libro «Ponte sullo Stretto e mucche da mungere»: è «l’economia basata sulle partnership tra pubblico e privato che mungono attività senza rischio. Al primo soggetto spettano i costi, al secondo i benefici. E’ l’economia delle infrastrutture inutili, addirittura non volute ed imposte al territorio. E’ l’economia dei disastri e delle guerre».
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La ricostruzione di una ipotesi comunista per la società del XXI secolo
di Laboratorio 21
1. La sinistra radicale e i comunisti stanno vivendo quello che, in Europa e soprattutto in Italia, è il periodo peggiore della loro storia. Ciò appare paradossale se pensiamo alla profonda crisi strutturale del modo di produzione capitalistico in atto, che dovrebbe fornire argomenti alla sua critica. La verità è che la stessa identità comunista ha necessità di essere ridefinita: cosa vuol dire essere comunisti oggi e soprattutto cosa è il comunismo? La risposta a queste domande e la ripresa del movimento comunista richiedono tempo e soprattutto non possono avvenire mediante scorciatoie politicistiche o ideologico-dogmatiche. Si può risalire la china solo con un lungo e radicale lavoro di rielaborazione della storia del comunismo novecentesco e di comprensione del modo di produzione capitalistico e della società che vi sorge sopra.
2. Quella della sinistra radicale e dei comunisti è una profonda crisi, inserita all’interno di una fase di grande trasformazione dell’economia e della società dell’Italia e dell’Europa a sua volta inserita in una grande trasformazione del capitalismo a livello globale. I cambiamenti in atto nella struttura socio-economica hanno avuto conseguenze sulla sovrastruttura politica, determinando la crisi del bipolarismo tra centro-destra e centro sinistra – che in Italia si basava su coalizioni ruotanti attorno a Forza Italia-Partito delle libertà e al Pds-Ds-Pd. Nello stesso tempo lo spazio un tempo occupato dai partiti “centrali” è stato occupato, da una parte, da forze cosiddette populiste come il M5s e la Lega, che hanno drenato gran parte del voto della sinistra radicale e comunista e soprattutto di ampi settori di classe lavoratrice, e, dall’altra parte, dall’astensionismo di massa.
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