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linterferenza

Come tradire Rousseau tra riforma costituzionale e democrazia diretta

di Daniele Gullì

Jean Jacques Rousseau painted portrait 1566982271678 638x425Nei giorni 20 e 21 di settembre ci sarà il Referendum che chiamerà gli elettori a pronunciarsi sulla Riforma Costituzionale che prevede il taglio del numero dei parlamentari. Approvata con il voto favorevole e trasversale di buona parte dell’arco parlamentare, la Riforma prevede una sostanziosa riduzione del numero dei seggi di Camera e Senato. Un cambiamento istituzionale fortemente voluto dal Movimento 5 Stelle, tanto da esser stato il punto principale ed imprescindibile dell’accordo di governo fatto l’estate del 2019 con il Partito Democratico. Se verrà confermato dalla consultazione referendaria, l’organo legislativo della Repubblica italiana, a partire dalla XX Legislatura, sarà composto da 400 deputati e 200 senatori, diventando, di fatto, con un parlamentare ogni 160 mila abitanti, il Parlamento con il rapporto di rappresentanza peggiore dell’intera Unione Europea.

Il Movimento 5 Stelle, dopo esser stato scaricato, oramai un anno fa, dell’ex alleato leghista, ha scelto la riduzione del numero dei parlamentari come primaria battaglia sulla quale accentrare il proprio armamentario comunicativo e propagandistico.

Mosso dalla necessità di rimettere a lucido la propria immagine del bagno sporco di realismo politico in cui si è calato da quando è al Governo, nel tentativo di tornare a rimarcare una netta differenza con i vecchi partiti, il M5S ha rispolverato il mantra della lotta alla casta. Il taglio alle poltrone, secondo il racconto dei proponenti, oltre che apportare un risparmio di spesa per le casse pubbliche, infliggerebbe un colpo ben assestato ai privilegi del mondo della politica. Una posizione curiosa, non tanto perché avanzata dalla forza di maggioranza del Governo in carica, ma perché proposta da chi, fino a due anni fa urlava, saliva sui tetti e si stracciava le vesti in difesa del ruolo centrale che il Parlamento dovrebbe ricoprire all’interno del sistema istituzionale e politico italiano.

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lafionda

NO al referendum confermativo di settembre. Un voto politico: la Costituzione va attuata, non demolita pezzo dopo pezzo

di Giuseppe D'Elia

costituzione italiana 001La vera posta in gioco di questa ennesima partita referendaria, l’obiettivo reale è l’impianto egalitario, solidaristico e genuinamente democratico della Costituzione repubblicana. L’attacco all’assetto istituzionale è solo il primo passo. Se si afferma definitivamente l’idea che la Carta — la Legge Fondamentale — è un problema da risolvere e non un progetto di società da realizzare, la strada per la definitiva cancellazione di ogni conquista sociale del movimento operaio sarà spianata e il ritorno al lavoro servile per quasi tutti è ciò che ci aspetta alla fine della corsa: lavoro scarso, precario, povero e senza nessuna prospettiva di concreto miglioramento per la maggioranza della popolazione e tutta la ricchezza che si concentra nella mani di pochi privilegiati (ricchi e super-ricchi)

* * * *

La questione della rappresentanza, come sappiamo, è il tema concreto messo in gioco da questa ennesima riforma costituzionale.

Tuttavia, a mio avviso, è fondamentale capire che le ragioni del NO vanno difese e sostenute, andando al di là della singola e specifica questione.

Il punto nodale, insomma, non è solo ed esclusivamente capire se — al netto dei senatori a vita — sia meglio avere 600 parlamentari o 945.

Dirimente è capire bene quale sia la vera posta in gioco, ovvero lo spazio democratico (= il controllo delle istituzioni democratiche) e le politiche concrete che per mezzo di queste istituzioni si possono realizzare.

Non è un caso che il Coordinamento per la Democrazia Costituzionale metta espressamente in correlazione questo progetto di riforma con i precedenti tentativi, già bocciati dal popolo sovrano, e con la necessità di reintrodurre nel sistema una legge elettorale di tipo proporzionale puro:

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la citta futura

Habemus Papam: Eminentissimum ac Reverendissimum Dominum Mario Draghi

di Ascanio Bernardeschi

Draghi pontifica al meeting di Rimini, ma la ricetta è fare debito a carico delle nuove generazioni, che però dichiara di voler tutelare

84c77d70a0d9fe931ebed453ee1c8b27 XLL’Italia ha un nuovo Papa. E non un Papa divisivo, come quello di stanza in Vaticano, ma un Papa ecumenico: sia le destre moderate, con qualche distinguo di facciata, che – più convintamente – le sedicenti sinistre, plaudono al discorso di Mario Draghi al Meeting di Comunione e Liberazione (Cl), che qualcuno ha letto come un’autocandidatura al soglio del Quirinale.

Già la scelta del luogo per proferire il suo messaggio urbi et orbi è una strizzata d’occhio ai settori più conservatori del cattolicesimo. Lo è anche l’esordio con cui si dichiara “partecipe della vostra [di Cl!] testimonianza di impegno etico”, glissando sull’impegno etico di Formigoni e della Compagnia delle Opere. Ma, potrebbe obiettare qualcuno, si tratta di una formalità e di un gesto di buona educazione nei confronti di chi lo ha ospitato e gli ha offerto quel pulpito. Quindi soprassediamo e veniamo alla “ciccia”, che comunque è sempre ben velata da frasi di apparente buon senso idonee a renderla più facilmente digeribile sia alla destra che alla “sinistra” (sempre sedicente, per essere precisi), come si conviene a un buon Pontefice.

Due sono le parti più rilevanti del suo discorso, una analitica e una propositiva.

Cominciamo dalla prima che attiene essenzialmente alla valutazione della crisi e della capacità di risposta delle istituzioni europee.

Il coronavirus, per sua stessa ammissione, si è abbattuto su un’Italia già in recessione, e tuttavia egli si ostina a denunciarlo come la causa di questa crisi. Potrebbe il mentore del capitale finanziario ammettere che il problema è il capitalismo? No. Quindi passiamogli anche questa.

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citystrike

In autunno: riprendiamoci la scuola

di CityStrike

18589576 small 990x661 1 800x445Partiamo dalla fine, per essere chiari. Il 24 e 25 settembre sono state indette due giornate di sciopero e mobilitazione dai sindacati di base (USB, Cub, UniCobas e alcune sezioni dei Cobas). Queste due giornate sono state fatte proprie da alcune organizzazioni studentesche e da numerosi collettivi universitari. Riteniamo che quelle due giornate di mobilitazione siano importanti. Cerchiamo di spiegare il perché e, contemporaneamente, il motivo per cui non ci convince affatto la mobilitazione prevista per sabato 26 da alcune associazioni e dai sindacati confederali.

 

Le false narrazioni

Ragionare in maniera sensata e convincente su ciò che accadrà a settembre nelle scuole e nelle facoltà, in effetti, non è semplice. Pesano, infatti, la cortina di fumo e le false promesse rilasciate a ogni pie sospinto dalla ministra Lucia Azzolina, rilanciate ripetutamente dai media e avallate dai sindacati confederali ed autonomi. Si fa un gran parlare di rientro in sicurezza, di investimenti, di nuovi spazi e assunzioni. Quindi occorre, in primo luogo, cercare di avere un quadro più chiaro.

Ad oggi gli unici provvedimenti in qualche modo certi sono la firma di un protocollo tra il governo e i principali sindacati dove, all’interno di un fiume di parole di cui si fatica a comprendere l’utilità, si fa cenno a una ripartenza in presenza per le scuole dell’infanzia, vengono riportate alcune norme di monitoraggio, viene ribadita la necessità del distanziamento.

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la citta futura

Un parlamento “modello Rocco”?

di Ascanio Bernardeschi

Il taglio dei parlamentari è un tassello di un più vasto disegno volto a ridurre gli spazi di resistenza delle classi sfruttate. E noi diciamo No!

ec8e748f0688ea03b676f28b588d56dc XLIl 20 e 21 settembre si andrà a votare al referendum confermativo dell’ennesima “riforma” costituzionale. Questa volta l’elettorato si deve pronunciare sulla riduzione del numero dei deputati da 630 a 400 e dei senatori da 315 a 200. L’elemento di novità di questo appuntamento è che questa volta si voterà non solo per il referendum, ma anche per il rinnovo dei consigli di sette regioni, dei sindaci e dei consigli di oltre mille comuni e di due senatori in un collegio uninominale della Sardegna e uno del Veneto.

Già questo abbinamento pone dei problemi. Infatti l’importante tema di una riforma costituzionale rischia di essere poco dibattuto nelle realtà dove al centro dell’attenzione saranno i partiti e soprattutto i candidati per le elezioni amministrative e regionali. In periodo di emergenza da coronavirus e con spazi di partecipazione ridotti il rischio è che il popolo italiano giunga a questo appuntamento poco informato.

C’è da considerare inoltre che la percentuale dei votanti al referendum nelle località dove si tengono altri tipi di elezione sarà verosimilmente molto maggiore di quella negli altri territori e quindi che il peso dell’elettorato sarà molto diverso da località a località. A causa di ciò sull’appuntamento elettorale si allunga l’ombra di ricorsi presso l’Alta Corte.

La difficoltà di informare e far ragionare gli elettori si inserirà in un percorso che per i fautori del No sarà tutto in salita. Infatti il taglio dei parlamentari è stato proposto dai partiti populisti cavalcando la stanchezza della gente, il senso comune – purtroppo in buona parte più che comprensibile – che la politica e i partiti sono tutti corrotti, che meno parlamentari mandiamo a Roma e meglio è, che bisogna ridurre il costo della politica in quanto abbiamo sul collo un debito pubblico enorme che mette a repentaglio i diritti sociali: scuola, salute, casa, lavoro, trasporti pubblici.

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ilpungolorosso

Finalmente scoperti i portatori del Covid-19: gli immigrati

di Il Pungolo Rosso

147015 sdCe l’aspettavamo da un po’, e puntuale è arrivata. La più falsa di tutte le false notizie da cui siamo bombardati h24: “c’è una evidente correlazione tra immigrazione e Covid”. Pensate che la frase sia del cumulo di spazzatura che è anche segretario della Lega? Errore! L’ha pronunciata il suo padre spirituale, il lugubre Marco Minniti, Pd, lo stato di polizia fatto uomo.

Visto che si chiama in causa l’evidenza, dovrebbe esserci una sovrabbondanza di fatti a provarlo. Sennonché la sola cosa di cui si ha evidenza da molte indagini o inchieste è che il Covid-19 è arrivato in Italia, precisamente in Lombardia, nel bergamasco, via Germania, non tramite lavoratori immigrati irregolari, ma per mezzo di manager e padroni-padroncini assatanati di affari e totalmente incuranti della salute pubblica, o anche – forse – di figure tecniche specializzate alle loro dipendenze. La responsabilità della sua diffusione, poi, si deve alle pressioni della associazione dei suddetti signori autoctoni, la Confindustria, contraria a qualsiasi forma di lockdown. Ed è anche del governo Conte-bis che l’ha decretato a metà o ad un terzo quando già era tardi, incalzato dalla protesta operaia nella logistica e tra i metalmeccanici, e terrorizzato che la massa dei ricoveri d’urgenza svelasse quanto è stata criminale la politica pluri-decennale di tagli alla sanità.

Ma “ora, dopo tanti sacrifici – qui è il trasformista Conte-2 che interviene, parlando da Conte-1 – non si può assolutamente accettare che si mettano [cioè: che gli immigrati mettano] a rischio i risultati raggiunti”.

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jacobin

La vita agra dell’impresa pubblica

di Lorenzo Cresti e Giacomo Gabbuti

Il Rapporto sulle imprese pubbliche del Forum Disuguaglianze ci ricorda che nella pandemia, oltre ad aver bisogno della sanità, abbiamo necessità di poter mettere bocca sul perché, cosa, come e dove produrre ricchezza

imprese pubbliche jacobin italia 990x361L’evoluzione dei rapporti tra lo stato italiano e le imprese di sua proprietà ricorda un po’ quello di una commedia all’italiana: ricca di colpi di scena, spesso amari, ma con un finale per nulla scontato. A ravvivare una convivenza annoiata e rassegnata è arrivata una pandemia globale, che tra le sue varie conseguenze ha portato il governo ad annunciare la nazionalizzazione di Alitalia. Nonostante tutto, a parte le polemiche tra «liberisti da divano» e rappresentanti di uno stato inevitabilmente più attivo, continuavano a dominare la scena i soliti, inquietanti, piani «tecnici» di ispirazione neoliberale.

A movimentare sul serio la situazione ci ha pensato l’estate. La prima metà di luglio, due eventi – ben distinti per natura ed eco mediatica – ci hanno portato a riflettere sul ruolo che può giocare lo stato nell’economia, dopo anni spesi a discuterne solo le inefficienze, il clientelismo, la corruzione. 

Il primo luglio 2020 si è tenuta un’iniziativa di confronto virtuale tra ministero dell’economia e delle finanze e dirigenti di imprese pubbliche sul ruolo che potrebbe avere lo stato nel guidare lo sviluppo del Paese. Il motivo è stato la presentazione del rapporto del Forum Disuguaglianze e Diversità sulle imprese pubbliche. Il Forum – un’alleanza di organizzazioni e ricercatori  – ha individuato, sin dalla presentazione nel 2019 del Rapporto Atkinson, proprio nelle aziende di proprietà pubblica una leva importante per qualsiasi cambiamento che parta dall’attivazione di nuovi e più virtuosi processi di sviluppo economico. Mentre il dibattito sul «ritorno dello stato» assume toni grotteschi, una simile iniziativa permette di ragionare in modo meno astratto e più utile di quale stato servirebbe per risolvere i nostri problemi. 

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contropiano2

Stazione di Bologna: dai depistaggi all’invenzione della Storia

di Dante Barontini

bologna geopoliticiDopo 40 anni, è necessario provare a dire perché sulla strage della stazione di Bologna, come su tutte le altre stragi “fascio-statuali”, è pressoché impossibile arrivare a una conclusione condivisa e si è tuttora obbligati a fare “controinformazione”, smentendo la pioggia di “ricostruzioni ufficiali”.

I “misteri”, in queste stragi1, non esistono. Ci sono buchi nelle indagini, palesi e spesso scoperti tentativi di depistaggio, interferenze continue praticamente “firmate” da servizi segreti – italiani, americani, israeliani, persino francesi – testimoni che scompaiono o muoiono in circostanze più che dubbie. Ma nulla che sia davvero “inconoscibile”.

Da Piazza Fontana in poi (in realtà si potrebbe risalire a Portella delle Ginestre e ai vari accenni di golpe messi in programma più volte), ci sono state più chiavi di lettura, tutte riconducibili a due campi politici molto chiari. Sul fronte opposto ad entrambi sta la ricerca della verità, storica e politica, tentata quasi in solitaria dal “movimento antagonista” – finché ha avuto forza e capacità di discernimento, sia individuale che collettivo – e da alcuni (pochi) storici o giornalisti.

I due campi principali sono facilmente distinguibili. Quello sedicente “progressista” – capeggiato un tempo dal Pci, poi dalle sue innumerevoli conversioni – ha spesso condotto le indagini attraverso magistrati “di area”, trovando sulla sua strada resistenze e depistaggi messi in atto, oggi diremmo, dal deep state. Ovvero dagli apparati, spionistici e mediatici, che quelle stragi avevano organizzato e poi coperto.

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infosannio

Parla Leonardo Mazzei del coordinamento nazionale di “Liberiamo l’Italia”

Intervista esclusiva di Marco Giannini

leonardo mazzei di liberiamo litaliaBuongiorno Leonardo, in questa intervista vorrei che spaziasse e non si limitasse allo “stretto necessario”. Sa, quando ascolto i TG ed i Talk Show ripenso alle parole del Nobel economico Stiglitz che, nel saggio “Freefall”, sosteneva che i poteri forti neoliberisti avrebbero fallito, qualora avessero cercato di combinare in Europa ciò che avevano provocato nel sud est asiatico, alla fine degli anni ’90. Io invece trovo che i media siano prodigiosi nel non fare accorgere, ai cittadini dei paesi che in UE soccombono (L’Italia), di essere sfruttati da quelli che della UE approfittano (Germania). A questo scopo hanno inventato il termine imbecille di “sovranisti”.

* * * *

1) Mi scusi la premessa Leonardo, ci parli di Liberiamo l’Italia: che ruolo ha lei all’interno di questa forza politica, quando nasce, quali sono i suoi scopi e la sua collocazione ideologica.

Liberiamo l’Italia (Lit) è un movimento nato con la manifestazione del 12 ottobre 2019, il primo corteo nazionale per l’Italexit. Visto il successo dell’iniziativa, i suoi promotori decisero di avviare il processo costitutivo di un soggetto politico che ne portasse avanti i contenuti. Uscire dall’Unione Europea e dal neoliberismo, riconquistare la sovranità nazionale, applicare la Costituzione del 1948 dando a tutti lavoro e dignità: questi gli obiettivi su cui siamo nati, la cui attualità è perfino superfluo ricordare. Lit ha un coordinamento nazionale di cui faccio parte.

 

 2) Liberiamo l’Italia può trovare un percorso comune con altri soggetti, penso alla neonascente “Italexit” di Gianluigi Paragone e/o a “Vox” di Fusaro?

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andreazhok

Italexit

di Andrea Zhok

Paragone partito ItalexitIn questo periodo nell'area politica che frequento maggiormente c'è grande fermento, volano stracci e qualche coltellata.

Il grande tema è dato dalla comparsa sul terreno di un’aspirante forza politica, guidata dall'ex direttore della Padania e vicedirettore di Libero, sen. Gianluigi Paragone.

Il manifesto politico e scritto da mani capaci, e, per quanto semplicistico, tocca tutti i punti giusti nell'area di riferimento. Tuttavia più del manifesto, il cuore della proposta sta in ciò che viene comunicato dalla scelta stessa del nome: ITALEXIT, l’uscita dell’Italia dall’UE.

La fibrillazione nell'area politica di riferimento (oscillante tra 'sinistra euroscettica' e 'destra sociale') è manifesta. Il senso politico dell’operazione è piuttosto chiaro: esiste una fascia di elettorato rimasto politicamente orfano dopo che nella Lega l'europeismo di Giorgetti ha messo all’angolo l'area Borghi-Bagnai, e dopo che l'esperienza di governo ha mitigato l’euroscetticismo del M5S.

Il progetto di ITALEXIT sta nel chiamare a raccolta quest’area di malcontento in uscita da Lega e M5S, con numeri sufficienti da superare le soglie di sbarramento alle prossime elezioni politiche, portando qualcuno (a partire dal sen. Paragone) in Parlamento.

L'operazione è politicamente legittima e può avere successo.

Intorno a questa operazione, al suo retroterra e ai suoi concreti sbocchi si è acceso un rovente dibattito. Conformemente al modo di porsi del nuovo partito, la discussione si è immediatamente fatta incandescente intorno al tema dell'Italexit, con un ritorno in grande stile delle accuse di "altroeuropeismo".

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coniarerivolta

Autostrade: cambiare poco per non cambiare nulla

di coniarerivolta

profittiSi è molto discusso, sin dai giorni immediatamente successivi al disastro del Ponte Morandi di Genova, delle responsabilità di Aspi (Autostrade per l’Italia) in qualità di concessionaria. Aspi è una società per azioni, posseduta, in gran parte, dalla famiglia Benetton, che gestisce in concessione, per l’appunto, molte delle autostrade italiane, direttamente o tramite società controllate.

Con una concessione, lo Stato (o, in generale, una pubblica amministrazione) affida la gestione (e, se necessario, anche la costruzione) di una infrastruttura a una società privata. Quest’ultima, in cambio dei proventi derivanti dalla gestione (nel nostro caso soprattutto i pedaggi autostradali), si impegna a far funzionare tale infrastruttura secondo logiche e regole stabilite dalle leggi e dagli atti di concessione. Generalmente, la società concessionaria è anche responsabile della manutenzione dell’opera.

Aspi, dunque, gestiva (e ancora gestisce) quel tratto di A10 che comprendeva il Ponte Morandi, in parte disastrosamente crollato il 14 agosto del 2018, con 43 morti e oltre 500 sfollati.

Sin da subito, dicevamo, il Movimento 5 Stelle, all’epoca al governo con la Lega, dichiarò di voler ritirare le concessioni autostradali ai Benetton. Il 24 maggio ancora lo ribadiva, in maniera esplicita, il viceministro alle Infrastrutture Cancelleri. Nel Governo, però, non c’era accordo, perché i principali alleati del M5S, ovvero il PD e Italia Viva, si dicevano contrari al ritiro delle concessioni. Ciò anche in virtù del fatto che Aspi minacciava cause che avrebbero potuto comportare, per lo Stato, esborsi a nove zeri.

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laboratorio

ASPI, niente nazionalizzazione ma salvataggio statale del capitale transnazionale

di Domenico Moro

Quello che resta del ponte Morandi collassato martedì a GenovaLa decisione del Consiglio dei ministri di non procedere alla revoca della concessione ad autostrade per l’Italia (Aspi) non è soltanto un salvataggio in extremis dei Benetton, ma rappresenta, nel nuovo modello di azienda che si configura, una modalità di salvataggio del capitale transnazionale e di interessi europei da parte dello Stato italiano.

La revoca della concessione avrebbe portato al fallimento di Aspi, che avrebbe coinvolto non solo la Atlantia dei Benetton, che la controlla all’88%, ma anche multinazionali straniere, che sono presenti nel capitale di Aspi, e alcune istituzioni europee. Un eventuale default avrebbe reso insolventi 9 bond di Aspi comprati dalla Bce e sarebbe finito in crisi il finanziamento da 1,3 miliardi erogato dalla Bei. Soprattutto avrebbe comportato grosse perdite per gli altri azionisti di peso di Aspi. Si tratta di Appia, che detiene il 6,94% di Aspi, e del fondo governativo cinese Silk Road, che ne detiene il 5%. Non è un caso che la Merkel, nell’incontro con Conte prima del vertice dei capi di governo della Ue sul Recovery Fund, si fosse detta curiosa di sapere come sarebbe andato il Consiglio dei ministri che doveva decidere in merito alla sorte di Aspi. Infatti, in Appia è presente la tedesca Allianz, che è il primo gruppo assicurativo mondiale, Edf, che è la maggiore società produttrice e distributrice di energia della Francia, e  Dif, che è un fondo olandese di investimento. Tutte aziende di Paesi importanti, che, guarda caso, giocano un ruolo decisivo anche nelle trattative in corso sul fondo di ricostruzione europeo. Ma il capitale multinazionale è presente anche in Atlantia, dove le minoranze contano il 40% dell’azionariato e vedono la presenza di colossi come la statunitense Blackrock e il fondo di investimento di Singapore. In Edizione, la holding dei Benetton, che  controlla a sua volta Atlantia, è presente anche la statunitense Goldman Sachs, una delle più grandi banche d’affari del mondo.

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lafionda

Democrazia a un bivio: ripensare la Rivoluzione al di là delle “riforme”

di Luca Cimichella

il socialismo italiano tra riforme e rivoluzioneLo scorso 20 giugno Michele Salvati, voce storica del PD e della sinistra riformista, scriveva sul Corriere della Sera: «Gli storici hanno da tempo messo in rilievo l’antica dannazione italica dei partiti “antisistema”, partiti che non potevano far parte delle coalizioni di governo anche se erano rappresentati in Parlamento. Non potevano farlo perché il loro programma politico contrastava con i principi in base ai quali una democrazia liberale e\o un’economia di mercato si erano di fatto assestate nel nostro Paese. (…) Finito questo conflitto per il collasso dell’Unione sovietica, ci si poteva attendere che fossero esaurite anche in Italia le ragioni per escludere come “antisistema” partiti che accettassero i criteri di una democrazia liberale, di un’economia capitalistica e fossero legittimamente rappresentati in Parlamento. E di fatto si instaurò per alcuni anni, tra il 1994 e il 2018, una alternanza destra\sinistra che includeva tutti (…). Poi, con le elezioni del 2013 e del 2018, arrivarono in Parlamento partiti populisti-sovranisti (…). Che si collochino a destra o a sinistra, la concezione di democrazia da essi condivisa è in conflitto con quella liberale, parlamentare e rappresentativa».

Un tono candido e lineare, un’argomentazione che non sembra fare una piega. Se non fosse per un solo dettaglio: il misterioso ritorno di questo spettro, i “dannati” partiti “antisistema”, che vengono periodicamente a turbare l’innocente rotta della democrazia liberale sugli intrascendibili, universali orizzonti del sistema vigente. Si tratta di una narrazione rassicurante quanto falsa e cieca, che dopo aver sedotto per circa trent’anni i cuori e le menti di quella sinistra “illuminata”, “moderata”, che esce dalle rovine di Pci, Psi e Dc – passando per i vari D’Alema, Amato e Prodi – risulta ormai indigeribile per le nostre coscienze disincantate, che in un contesto economico-politico sempre più insensato, soffocante e indistricabile, anelano disperatamente (spesso senza saperlo) ad una alternativa di mondo e di società.

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lafionda

Salvini, un liberista fuori dal tempo (e dalla Costituzione)

di Thomas Fazi

salvuniTatcherL’altro giorno, a Piazza del Popolo, Matteo Salvini ha citato per l’ennesima volta uno dei suoi modelli di riferimento, Margaret Thatcher: «Non esiste libertà, se non c’è libertà economica». È uno dei mantra dei neoliberisti. L’idea di fondo è semplice quanto stravagante, ovverossia che i mercati sono fondamentalmente autoregolantesi e dunque che questi, se lasciati a sé, cioè con la minor interferenza possibile da parte dei governi (riassumibile nello slogan “meno tasse, meno burocrazia”), sono in grado di generare automaticamente crescita, stabilità sociale e piena occupazione (purché i lavoratori siano disposti ad accettare qualunque salario venga loro offerto, essendo questo il risultato del “naturale” meccanismo della domanda e dell’offerta).

Peccato che sappiamo almeno dagli Venti-Trenta del secolo scorso che l’economia capitalistica non funziona così: la crisi finanziaria del 1929 e la successiva Grande Depressione dimostrarono non solo che i mercati (in particolare quelli finanziari), se “lasciati a sé” tendono a generare enormi bolle e squilibri che finiscono inevitabilmente per scoppiare, portando giù con sé l’intera economia; ma anche che il mercato, da sé, non è assolutamente in grado di garantire la crescita e la piena occupazione, soprattutto in seguito a una crisi finanziaria, poiché queste sono determinate da quella Keynes chiamò “domanda aggregata”, cioè dalla quantità di beni e servizi complessivamente richiesta dai soggetti economici, che può essere sostenuta solo da un attore “esterno” al mercato – il tanto vituperato governo, ovviamente –, attraverso la politica di bilancio e in particolare la spesa in disavanzo.

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mondocane

Stati Generali: fuffa al veleno

di Fulvio Grimaldi

Colao and friends: governo e parlamento sostituiti da Microsoft e Vodafone. Col digitale verso la transumanità

ghigliottinaLa sicurezza del Potere si fonda sull’insicurezza dei cittadini” (Leonardo Sciascia)

Cari amici e interlocutori, stavolta vado davvero per le lunghe. Più del solito. Ma fate finta che sia un livre de chevet, libro da comodino, come li chiamava Montaigne, da prendere a pizzichi e bocconi. Come cinque pezzi corti. Anche perché per un mese e passa non ce ne saranno altri. Non busserò a casa vostra. Sto in montagna, a rompere le palle alle marmotte.

 

Stati Generali per corona(virusa)re il nostro futuro

Negli Usa ormai si manifesta con crescente spudoratezza quel governo parallelo, chiamato “Deep State”, nella cui militanza confluiscono i falchi repubblicani e, ben più guerrafondai, quelli democratici. Stato profondo ben rappresentato nella serie “Saw”, formato da elementi non eletti ma più potenti degli eletti e che tiene sulla graticola, ultimamente con le sommosse, l’eterodosso Donald Trump, sebbene pure lui prodotto dallo (s)fascio statunitense. Dal momento che l’Italia, da sempre, è l’apprendista stregone minore su cui sperimentare il peggio del colonialcapitalismo, anche qui abbiamo un governicchio in vetrina, parzialmente eletto, e un Deep State per niente eletto, (in)visibile nelle varie task forces, dietro al banco. Ora questo insieme metastatico deve essere davvero bravo per fare avere ragione a gente come l’opposizione che oggi completa il nostro degrado. Eppure ci riesce quando a una conventicola formatasi alle fonti del Po, nel mausoleo di Predappio e nel ventre di Cosa Nostra ha potuto legittimamente dire “non c’è più democrazia”, o “sul Coronavirus ci marciate”, o “è tornata la Troika”.