
I torti di Askatasuna: credere nella libertà e nella democrazia
di Algamica*
In premessa: esprimiamo piena e totale solidarietà ai militanti del centro sociale Askatasuna, quale componente di un più generale movimento ideale di opposizione al sistema vigente e alle sue leggi di funzionamento. Dunque niente distingui!
L’autorevole quotidiano dell’establishment italiano, il Corriere della Sera, nel commentare i fatti che si stanno sviluppando intorno al centro sociale di Torino, occupato da ben 29 anni, in un occhiello chiosa: « Askatasuna in lingua basca vuol dire libertà ». È centrata appieno la questione: il senso da dare alla parola libertà, che in filigrana vuol dire: «ma questi che hanno capito»?
Affrontiamo da subito di petto la questione che sta dietro la campagna d’odio feroce nei confronti dei militanti del centro sociale in questione: l’azione nei confronti del giornale La Stampa di Torino quando durante lo sciopero dei giornalisti alcuni giovani entrarono nei locali e misero in disordine gli uffici della redazione. Non vi fu nessuna devastazione, e nessun ferito. Solo un atto dimostrativo di protesta contro le posizioni di un giornale storicamente in difesa sempre e soltanto della libertà dei potentati economici, che in occasione del consumato genocidio nei confronti del popolo palestinese non si è mai tirato indietro, ma è stato sempre in prima fila contro la resistenza del popolo palestinese con alla testa la sua maggiore organizzazione politica e organizzativa: Hamas.
Che il centro sociale Askatasuna, dopo la chiusura del Leoncavallo di Milano, stesse nelle mire dell’insieme dell’establishment, e che si preparassero alla sua chiusura è fuori discussione. Si aspettava la famosa «pistola fumante» per far partire l’operazione e smembrare quello che appariva come un punto di coagulo di una serie di resistenze contro le follie liberiste di questa fase, e non solo nella città di Torino e del Piemonte.
La scorbutica domanda che certi democratici, a sinistra, muovono è: «certo, se non ci fosse stato “l’attacco” a La Stampa, non ci sarebbero state le perquisizioni e la decisione di sgombro dello storico centro sociale, di cui si era reso artefice».
È la stessa motivazione che gli stessi democratici danno per l’azione di Hamas del 7 ottobre 2023: « se non ci fosse stata quell’azione non ci sarebbe stata la reazione dello Stato sionista d’Israele a provocare il genocidio e la distruzione di Gaza ».
Il punto in questione è: se un genocidio giustificato continuamente da tutta la stampa occidentale, potesse giustificare o meno una qualche risposta significativa anche nei confronti di prezzolati allo scopo. Tra l’altro un’azione contro le cose mentre a Gaza si consuma il genocidio sulle persone e la distruzione delle loro case. Una differenza di non poco conto.
Stranamente però, mentre una simile impostazione giornalistica vale per Hamas e per un gruppo di militanti di un centro sociale, non viene posta per l’azione della Russia che ha dovuto subire per ben 14 anni l’azione criminale del governo di Kiev, per conto degli occidentali, contro le popolazioni russofone del Donbass fino alla possibilità di una adesione alla Nato per smembrare la Russia e mettere le mani sulle sue risorse.
Si tratta veramente di uno “strano” modo di ragionare, ovvero di affermare: «quello che a me è consentito a te è vietato». In virtù di quale legge? Come di quale legge? «della libertà»! ma di quale libertà? «quella della forza»!
E siamo così al dunque, un dunque storico, sul quale è necessario ragionare.
Esisterebbe una stampa libera, democratica e indipendente? Certamente sì, di dire tutto e il suo contrario a sostegno degli interessi di chi paga. Uno sciopero per la «libertà di stampa»? Ma con quale faccia? Provate a domandare quanto guadagna all’anno un Vittorio Feltri, una vera eccellenza italiana, e perché viene così profumatamente pagato? Cosa guadagna un Ernesto Galli della Loggia per giustificare dalle colonne del Corriere della sera che il genocidio dei palestinesi e la distruzione di Gaza dei giorni nostri equivale ai bombardamenti che rasero al suolo Dresda nel 1945. Quanto guadagna un Enrico Mentana, uno di rare qualità giornalistiche capace di fiutare l’aria che tira meglio di un segugio in cerca di tartufi e l’azzecca sempre da oltre 40 e passa anni. E quanto guadagnano tutti quei cialtroni che compaiono nei talk show a intrattenere il pubblico tra uno spot pubblicitario e l’altro per spiegare quello che non sanno?
Allora è arrivato forse il momento di chiarirci al nostro interno, ovvero fra quanti si richiamano in mille modi all’anticapitalismo e all’antioccidentalismo, cosa si debba intendere per democrazia e libertà.
Tutte le tendenze del ceppo storico che indichiamo grossolanamente nel marxismo, nel socialismo, nel comunismo e così via, a un certo punto della storia, con chiaro riferimento al corso della seconda guerra mondiale, abbiamo assorbito il principio del male assoluto nel fascismo e nel nazismo, e nella difesa della democrazia e della libertà come contraltari ad essi. Rimuovendo in toto, dunque senza esaminarle profondamente, quelle che sono le leggi del modo di produzione capitalistico. Ci siamo fidati ciecamente. Non solo, ma abbiamo assimilato una tesi secondo cui la democrazia e la libertà sarebbero stati fattori propedeutici alla conquista della coscienza rivoluzionaria della classe operaia e allo sviluppo di una rivoluzione socialista o giù di lì. Fino al punto di schierarci per una resistenza democratica pilotata dai caporioni della libertà, ovvero dagli Usa che avevano reclutato milioni di poveri disgraziati neri dall’Africa per sbarcare sui nostri patri confini. Non solo, ma ci ponemmo sotto il loro comando, in quanto liberatori, dopo che ci avevano rasi al suolo. Quegli stessi comandi che avevano contattato le famiglie mafiose in Sicilia per sbarcare. Una Sicilia dove un povero Peppino Impastato fu ucciso in modo orrendo da quella stessa mafia. E per finire, il maggiore partito di ispirazione comunista, in Italia, il Pci, oltre a chiedere alla classe operaia di farsi Stato, di fronte alla crisi dell’Urss non trovò di meglio che dire: «mi sento più protetto sotto l’ombrello della Nato».
Ecco il capolavoro compiuto dal liberismo: tutti a osannare la democrazia, la libertà, il diritto individuale, ovvero alla disintegrazione di ogni possibilità di polo sociale organizzato di oppressi e sfruttati, insomma alla liquefazione in individui dispersi come a suo tempo pensava la “brillante” Margaret Thacher.
Sicché oggi le nuove generazioni, che osservano il disastro cui il mondo capitalistico si sta avviando, non hanno da guardare indietro, perché mai il passato potrebbe avere un futuro e men che meno la nostra fedeltà nella democrazia e nella libertà. Ne è una riprova il fatto che di fronte al genocidio del popolo palestinese c’è stata una mobilitazione in tutto l’Occidente, una mobilitazione con alla testa le bandiere palestinesi, mentre i partiti della sinistra l’hanno subita e quando hanno tentato di inserirsi lo hanno fatto nel peggiore dei modi, ovvero coi distinguo rispetto ad Hamas e ai suoi martiri.
Sia ben chiara una questione: in una fase di crisi generale, dove aumenta la concorrenza fra settori, aziende, nazioni come quella attuale del modo di produzione capitalistico, nei paesi più industrializzati e in Occidente si sviluppa più il nazionalismo corporativistico che la resistenza al capitalismo. Non ce lo nascondiamo, è una legge della natura: quando la nave affonda viene lanciato l’allarme dal comandante della nave del «si salvi chi può» e si comincia a sgomitare, dove vengono calpestati i più deboli, i meno fortunati, quelli che stanno nella stiva e così via mentre avanzano i più forti e i più furbi. Il comandante che lancia l’allarme non è una persona fisica, ma le leggi del capitalismo. È questo il masso di granito duro da sgranocchiare per quanti seriamente cominciano a interrogarsi sul da fare.
È già successo nella storia, come alla fine della Prima guerra mondiale, che il movimento ideale del comunismo rispondesse ai reduci che tornavano dal fronte che bisognava lottare per l’Internazionalismo proletario. Abbiamo pagato duramente quella velleità, e ancora oggi ci lecchiamo le ferite.
Per fortuna la storia non si ripete mai uguale a sé stessa. Chi oggi predica e quanti che sotto traccia predicano di stare calmi, perché altrimenti si ripete la storia come il ’22 del secolo passato, va detto chiaramente che il tempo non passa invano, che anche il capitalismo è entrato in un tempo diverso dal passato. Come va aggiunto che per quanto certi ceti intermedi si diano da fare in termini populistici e conservatori il peggio arriverà anche per loro, perché la crisi è mondiale.
Sicché in Italia dopo la chiusura di certi spazi democratici, sull’esempio dello stesso Askatasuna, si può anche procedere oltre, va messo in conto. Ma sappiamo con certezza che avverranno fatti che scateneranno nuove e ben più violente mobilitazioni anche nel nostro democratico Occidente. Per una ragione molto semplice: non c’è soluzione all’attuale crisi, basta guardare a Bruxelles di questi giorni per rendersene conto: a ogni passo delle leggi del capitale, come l’accordo degli europei coi paesi del sud America, per alcuni prodotti agricoli, scattano le proteste violente di piazza. È la storia che procede inesorabile il suo corso. Non ci scansiamo, non storciamo la bocca, perché quello che si muove e sempre di più si muoverà prescinde dalle nostre volontà.
* Alessio Galluppi e Michele Castaldo








































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