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machina

Vittorio Rieser, il compagno che di mestiere faceva il sociologo

di Diego Giachetti

Pubblichiamo un ritratto di Vittorio Rieser, sociologo e intellettuale militante, tra i fondatori del metodo dell'inchiesta operaia nelle fabbriche italiane

0e99dc 2bfddf29ba4f46679d2c76e6e3f7da64mv2Nella lunga e dettagliata intervista pubblicata nel volume della DeriveApprodi, Futuro anteriore. Dai «Quaderni Rossi» ai movimenti globali: ricchezze e limiti dell’operaismo italiano, Vittorio Rieser diceva di se stesso che di mestiere aveva fatto il sociologo, una scelta professionale subordinata a quella politica. Voleva laurearsi in storia, invece si laureò in sociologia, disciplina più affine e utile al progetto d’inchiesta alla Fiat. Un mestiere quindi scelto per necessità, una scoperta vocazionale d’interesse tra le tante che coltivava fin da giovane grazie ai precoci talenti dimostrati per la musica, la storia, le lingue straniere. A detta di Massimo Mila sarebbe potuto diventare un ottimo pianista. Franco Venturi rimpiangeva la sua scelta di non proseguire gli studi storici, deviando verso la sociologia del lavoro e industriale al fine di meglio svolgere l’attività di analisi, di studio e di partecipazione all’attività del movimento operaio, nei partiti di sinistra e soprattutto nella Fiom-Cgil.

La scelta, maturata fin dai tempi del liceo e praticata con coerenza e rigore per tutta la vita, fu influenzata anche dalle sue origini familiari. Nato a Torino il 15 febbraio 1939, figlio di Henek Rieser, un ingegnere comunista polacco emigrato perché colpito da mandato di cattura nel suo paese, e di Tina Pizzardo, allieva di Giuseppe Peano e poi insegnante di matematica. La madre, iscritta al Partito comunista, era stata arrestata nel settembre del 1927 e condannata dal Tribunale speciale a un anno di carcere. Nel 1930 abbandonò il partito e aderì a Giustizia e Libertà. Nuovamente arrestata nel maggio 1935 fu incarcerata per qualche mese alle “Nuove” di Torino. Nei primissimi anni seguenti la fine della Seconda guerra mondiale entrambi abbandonarono la vita politica attiva, ma non le relazioni sociali e di amicizia intessute in quell’ambiente che contribuirono alla formazione del figlio.

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doppiozero

La scienza pensa?

di Mario Porro

a1iz8nkr0alNel cuore della tragedia pandemica – ha osservato il filosofo della scienza Etienne Klein (Vita e pensiero, n. 1, 2021) –, vi è stata l’opportunità rara di svolgere un’opera di divulgazione sulle procedure della metodologia scientifica. Al di sotto del baccano assordante di tanti dibattiti, qualche voce accorta ha cercato di chiarire cosa fossero un esperimento a doppio cieco o randomizzato, quale fosse la differenza fra una correlazione e una relazione di causa-effetto, ha spiegato come fare buon uso delle statistiche. Sforzi tanto più meritevoli nel nostro paese, dove il preoccupante analfabetismo di ritorno si allea talvolta con l’atavica diffidenza verso il sapere scientifico (anche negli ambienti “culturali”).

Nell’esplorare l’ignoto o il poco noto, la ricerca scientifica, soprattutto in ambito terapeutico, richiede un lungo e paziente lavoro di analisi, di sperimentazioni e controlli; confronti serrati e critiche severe devono (dovrebbero) intrecciarsi fra ricercatori di molteplici laboratori, nel lavoro collettivo che si svolge all’interno della comunità o della città scientifica, come la chiamava Gaston Bachelard. Quel che abbiamo sperimentato in questi due anni è che la ricerca del vaccino anti-Covid può restare a lungo immersa nel chiaroscuro delle incertezze, conoscere tentennamenti ed errori. E non sempre si tratta degli errori “giusti” che, come vorrebbe l’epistemologia popperiana, confutando le prime congetture riorientano la ricerca verso strade più proficue.

Purtroppo anche qualche esperto ha dimenticato che la temporalità della ricerca scientifica non obbedisce alla logica implacabile dell’immediato, cara ai media e ai social network, all’impazienza di massa che attende risposte rassicuranti.

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crs

Tra Stato e formazioni sociali

La nuova politica secondo Fabrizio Barca

di Antonio Zucaro

barca libroIn “Disuguaglianze conflitto sviluppo” (Donzelli ed., Roma 2021) Fabrizio Barca tira le somme, dialogando con Fulvio Lorefice, del suo lungo impegno intellettuale, amministrativo e politico sul rapporto tra Stato e formazioni sociali, che lo ha portato a essere Ministro per le politiche di coesione nel Governo Monti (2012/2013). In tale veste ha prodotto una “strategia per le aree interne” attraverso una pratica di confronto con i rappresentanti delle amministrazioni locali e delle organizzazioni sociali presenti nei territori, sperimentata in precedenza, come Capo dipartimento, per i progetti territoriali destinati soprattutto al Sud.

La pratica del confronto “acceso, aperto, informato e consapevole” (secondo la definizione di Amartya Sen) si è poi trasferita nel “Forum disuguaglianze e diversità”, da lui coordinato, che ha messo in relazione un gruppo di ricercatori e un insieme di organizzazioni di cittadinanza attiva, per studiare le criticità crescenti nel corpo della società e produrre ipotesi di soluzione lungo la linea del superamento delle disuguaglianze. Questo lavoro collettivo, iniziato nel 2018 e continuato fino a oggi, ha prodotto documenti programmatici di grande spessore, rinvenibili sul sito.

Da queste esperienze è maturato l’impianto concettuale delineato nel libro, dimostrando le grandi potenzialità di uno stretto rapporto tra lavoro teorico e pratiche sociali, soprattutto in una situazione complessa, e per molti aspetti inedita, come l’attuale.

L’ evidenza delle gravi contraddizioni in atto nella crisi globale, verificate nel confronto con l’associazionismo, hanno prodotto una evoluzione nell’atteggiamento dell’autore, da sempre critico dell’esistente, in direzione di posizioni più nette nei confronti degli attuali assetti di potere, politico ed economico, e delle relative dinamiche di fondo.

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gliasini

L’alba di tutto, ovvero: non siamo mai stati stupidi

di Lorenzo Velotti

2020 0904 david graeber 1200x836 1Un giorno d’ottobre 2018, in una Londra decisamente già troppo invernale, entravo nervoso in una classe stracolma. Anche ai lati, per terra, gli spazi scarseggiavano. Riuscii a sedermi per terra, quasi sotto un banco. Il professore, David Graeber, che vedevo in quel momento per la prima volta, era impegnato a scrivere sulla lavagna: “Rousseau; Hobbes; De Lahontan; Kandiaronk…”. Si girò e ci rassicurò: avrebbe chiesto all’amministrazione una classe più grande. Poi cominciò la lezione, con un po’ di studenti costretti a seguire da fuori, sbirciando dalla porta aperta. Fu la prima lezione del corso “Antropologia e Storia Globale”, che si tenne solo quell’anno e del quale gran parte dei contenuti erano relativi al libro che, ci rivelò, stava scrivendo con l’archeologo David Wengrow. Il corso si interrogava sulla relazione tra antropologia e storia, e culminava con le domande: “In che modo la storia è consapevolmente prodotta da chi ne partecipa? Secondo quali dinamiche la potenziale inquadratura narrativa degli eventi diventa un elemento chiave in politica o, addirittura, l’aspetto decisivo dell’azione politica stessa?”

Ora, queste non sono, almeno esplicitamente, le domande che pone il libro L’alba di tutto. Una nuova storia dell’umanità (Rizzoli 2022), che Wengrow e Graeber finirono di scrivere soltanto una settimana prima della prematura morte di quest’ultimo (avvenuta a Venezia nel settembre 2020). Tuttavia, sono domande particolarmente utili da cui partire per cogliere gli aspetti fondamentali di questa ricerca. Infatti, nonostante i sospetti postmoderni nei confronti delle metanarrative, queste ultime sembrano aver costituito, da sempre, un elemento fondamentale nell’intreccio tra storia e azione politica.

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chartasporca

Quando Foucault parlò con un operaio

L'(in)attuale rispetto di una “star” filosofica per il sapere dei lavoratori

di Andrea Muni

5340624604 a09f148f15 b“L’intellettuale serve a mettere insieme le idee, ma il suo sapere è parziale rispetto al sapere dei lavoratori”. Con questo titolo esce su Libération del 26 maggio 1973 una conversazione tra José, operaio della Renault vicino alla Gauche Proletarienne – Sinistra Proletaria (gruppo di estrema sinistra maoista/spontaneista) e il già celeberrimo filosofo Michel Foucault. La splendida e “canonica” traduzione italiana di questo scambio si trova in M. Foucault, “Il discorso, la storia, la verità (Interventi 1969-1984)”, a cura di Mauro Bertani, Einaudi 2001. [Qui la traduzione degli estratti è mia]

A cosa serve andare a ripescare una conversazione in tutti i sensi inattuale come questa? Una conversazione tra quella che, nel 1973, è già una “star” filosofica come Foucault e un operaio della Renault? Serve in primo luogo per apprezzare la dimensione di ascolto, di non-paternalismo e non-pedagogismo che Foucault assume nei confronti di José. In secondo luogo, serve come spunto storico per riflettere sul livello di simpatia e complicità che i grandi intellettuali “militanti” degli anni ’60 e ’70 nutrivano pubblicamente, senza problemi, nei confronti di quelle frange della militanza politica che non disdegnavano di portare la lotta nelle strade, nelle università e nelle fabbriche. A Lens, dopo la morte di un gruppo di minatori per una fuga di gas, nel 1970 i militanti maoisti della GP attaccano fisicamente l’amministrazione della fabbrica. Mentre il processo della giustizia ordinaria procede contro i mao’s, questi convincono niente meno che l’anziano Jean Paul Sartre (e altri importanti intellettuali dell’epoca) a difenderli dall’aggressione della Giustizia e dello Stato borghesi. E’ così che Sartre, per evitare che venga chiuso, assume la direzione del giornale della GP (La cause du peuple), e accetta anche di presiedere le sedute di un tribunale popolare incaricato di giudicare, inversamente, i crimini dei nemici della classe operaia.

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ilcomunista

Marx, il capitalismo e i compiti politici del presente

di Francesco Garibaldo

Il dibattito su Marx e le nuove problematiche del capitalismo in un recente libro di Riccardo Bellofiore. Come nasce il plusvalore? La natura monetaria del valore. I limiti di una analisi distributiva del reddito. La doppia critica: al lavorismo e alla teoria della fine del lavoro. La critica a Keynes e i compiti politici del presente

51fWYXxW8zLIl libro di Riccardo Bellofiore dedicato a Smith Ricardo Marx Sraffa. Il lavoro nella riflessione economico-politica1 rilegge gli autori classici citati nel titolo seguendo due temi dominanti: la teoria del valore-lavoro e come viene rappresentato il lavoro nella riflessione economico-politica. Un pensiero centrale in tutto il libro, riprendendo un tema di Rosa Luxemburg, è la critica della centralità dell’economico e di una visione industrialista basata sulla centralità della produzione.

In realtà, nel ripercorrere criticamente questi temi in quegli autori, Bellofiore ci consegna i risultati di un dibattito internazionale – International Symposium on Marxian Theory – iniziato da Fred Moseley nel 19902, di un lungo lavoro di rilettura di gruppo di Marx a partire dall’originale tedesco, iniziato da Bellofiore all’Università di Bergamo, e il confronto con un grande numero di interpretazioni di Marx negli ultimi decenni. In primo luogo, quindi, il libro è un utilissimo compendio critico del dibattito su Marx su scala internazionale e in Italia negli ultimi quarant’anni.

Una seconda ragione di interesse del libro è la sua apertura problematica. Esso non vuole consegnarci un Marx ossificato in una qualche forma dogmatica, ma un Marx oltre Marx. Si tratta di tenere fermi i punti chiave delle sue scoperte teoriche aggiornandole ai nuovi contributi di ricerca, sia teorici sia derivanti dall’analisi dei nuovi problemi posti dal capitalismo attuale.

Il libro si articola in otto capitoli e due appendici: la prima di analisi critica del pensiero di O’Connor sulla questione della natura, la seconda sulla questione di genere; entrambi i temi sono discussi in rapporto al problema del lavoro. L’ultimo capitolo sostituisce una formale conclusione con una disamina dell’ambiguità del concetto di liberazione dal lavoro a partire dal famoso saggio di Keynes del 1930 sulle prospettive economiche per i nostri nipoti.

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materialismostorico

Recensione di "Il virus dell'occidente"

di Giovanni Andreozzi

Stefano G. Azzarà, Il virus dell’Occidente. Universalismo astratto e particolarismo sovranista difronte allo stato d’eccezione, Mimesis, Milano, 2020, pp. 425, ISBN 978-88­5757-155-3

mfront signoranapoletana iconaMentre il muro di Berlino cominciava a mostrare le crepe più profonde, Francis Fukuyama pubblicava un breve saggio intitolato The EndofHistory?. Il saggio riapparve qualche anno dopo in una forma ampliata, con un cambiamento significativo già a partire dal nuovo titolo: The End ofHistory andthe Last Man. L’interrogativo lasciava il posto all’amara consolazione: la storia era finita.

Con l’avvento del nuovo millennio si è andata rafforzando tutta quella congerie filosofica caratterizzata dal suo essere “post”. Post-umanesimo, post-strutturalismo, post­metafisica etc., tutte accomunate dal rifiuto della questione dell’ideologia e dei suoi ambiti performativi. Ecco allora che quando si sfoglia il testo di Azzarà si nota subito che, in quelle narrazioni, qualcosa non torna. Nonostante la sua “fine”, la storia continua a generare nuovi conflitti, i quali divampano massimamente proprio nei momenti di crisi. A palesarsi è, inoltre, il grande rimosso del XIX secolo: l’ideologia.

L’intento critico che anima le pagine de Ilvirus dell’Occidente. Universalismo astratto e particolarismo sovranista di fronte allo stato d’eccezione non è solo quello di svelare le carenze dell’ideologia liberale e delle sue inefficaci risposte di fronte alla catastrofe pandemica, ma anche quello di mostrare le continuità tra tale ideologia e le presunte posizioni alternative. Questo movimento critico-ricostruttivo è esemplificato dall’Autore attraverso la dialettica tra universalismo astratto (il liberalismo) e particolarismo (il sovranismo). Riprendendo un termine molto utilizzato in questo periodo, potremmo definire questi due elementi come le “varianti” ideologiche del capitalismo: l’una legata fortemente alla globalizzazione compiuta; l’altra contraria alla globalizzazione e tesa all’affrancamento da essa.

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doppiozero

Il paradigma immunitario

di Rocco Ronchi

81tuNJD0ceLLa pandemia ha causato capogiri ai filosofi, a quelli italiani in particolare. Talvolta l’effetto è stato un capitombolo, talaltra un surplus di lucidità e di autocritica intelligenza. Purtroppo le cadute rovinose sono state enfatizzate dai media, con grave disdoro della filosofia che si è così trovata accomunata alle peggiori farneticazioni complottiste, mentre i miglior contributi che il pensiero ha offerto alla comprensione del presente sono stati, come sempre, bellamente ignorati. Va subito detto che il mal di testa non si doveva al fatto che, a causa della pandemia, la filosofia si misurava con qualcosa di nuovo, di inatteso e di stupefacente. La vertigine nasceva piuttosto dal contrario: da un eccesso di conferma dell’ipotesi di fondo intorno alla quale il cosiddetto italian thought si era costituito e grazie alla quale aveva acquisito negli ultimi trent’anni un prestigio internazionale.

L’ipotesi “biopolitica” di un potere che dal piano esclusivamente “politico” si estende alla vita biologica, assumendosela in carico, gestendola e amministrandola, era verificata puntualmente dai fatti di cui tutti siamo stati testimoni e che è inutile, per la loro evidenza, elencare. L’ipotesi di una “governamentalità” che eccede la dimensione giuridica dello Stato, ponendo l’esecutivo in un costante “stato di eccezione”, era confermata dalle decisioni prese, quasi all’unisono, dai governi “democratici” per fronteggiare l’epidemia. Insomma, tutto quanto era stato teorizzato come critica di una tendenza che percorreva la modernità trovava una scioccante conferma nell’attualità. E siccome il più clamoroso esempio storico che si adduceva a suffragio della ipotesi era la biopolitica nazista, ecco allora che il nazismo poteva diventare l’inevitabile termine di paragone del presente.

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tempofertile

Giacomo Gabellini, “Krisis”

di Alessandro Visalli

bretton woodsL’importante libro di Giacomo Gabellini[1] reca l’ambizioso sottotitolo “Genesi, formazione e sgretolamento dell’ordine economico statunitense”. L’oggetto dello studio, informatissimo, è dunque “l’ordine economico statunitense”, l’arco della sua estensione è dalla genesi allo sgretolamento. La narrazione è orientata lungo la freccia del tempo.

L’ordine economico non è chiaramente l’unica forma di ordine, né l’economico l’unico ordinatore possibile o attivo nella successione degli eventi storici. Anzi, come del resto si rileva anche dalla lettura di Gabellini, l’economico è sempre in qualche misura intrecciato e talvolta incorporato nel politico e nel sociale (e culturale). Si relaziona profondamente, quando non promana nella sua forma concreta, al sapere tecnico ed alle tecnologie dominanti (non solo direttamente produttive, anzi una delle forme di ordine emergente è connessa intimamente con tecnologie che non sono apparentemente produttive, ma egualmente hanno una dimensione ‘economica’, come quelle del ‘capitalismo della sorveglianza’[2]), e ha una storica simmetria, nella sua forma moderna, con il razionalismo e la scienza[3]. Per fare un esempio di prospettiva del tutto diversa dell’ordinatore, se pure rivolta alle correnti profonde e non agli eventi superficiali (secondo la famosa immagine di Braudel), Emmanuel Todd inquadra il senso di declino che è anche alla radice della interpretazione per cicli ripresa nel testo nel contesto di una predazione demografica in corso da quaranta anni da parte dell’occidente ricco ed anziano nei confronti dei paesi periferici. La transizione è letta con occhiali antropologici e punta la sua attenzione sulle trasformazioni che si sono accumulate al termine del trentennio ‘glorioso’[4], trasformazioni che muovono tutti gli strati più profondi della società, partendo dall’economico e dal politico per arrivare alla sua cultura ed alle strutture familiari.

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machina

Dove non è il luogo e quando non è il momento (seconda parte)

Lenin, Luxemburg, i populisti: lotta di classe e sviluppo del capitalismo

di Gigi Roggero

0e99dc 52a1d6e5a3da4e979de7f6d91ecacbbfmv2Il saggio di Gigi Roggero che pubblichiamo per la prima volta in italiano, suddiviso in due parti, (qui la prima parte) è stato scritto nel 2012 per un volume curato dagli studiosi militanti della rivista polacca «Praktyka Teoretyczna». Come indicato nel sottotitolo, viene trattato il rapporto critico tra Lenin, Luxemburg e i populisti russi rispetto alla questione dello sviluppo del capitalismo. Più precisamente, da un lato viene tratteggiata in chiave genealogica la polemica di Lenin contro i populisti dell’ultimo decennio dell’Ottocento, sbiaditi eredi di una grande tradizione rivoluzionaria; dall’altro, vengono analizzate le ricchezze e i vicoli ciechi della lettura luxemburghiana dell’accumulazione del capitale. Lungi dall’essere un tema di semplice interesse storiografico, la tensione dell’intero testo è volta all’evidenziazione dell’attualità e della posta in palio politica di quel dibattito apparentemente remoto.

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2. Il mercato mondiale è ancora sempre in formazione?

Anche in questo caso, la contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione, interamente dentro al rapporto di capitale (ciò che faceva dire a Marx che «la vera barriera della produzione capitalistica è il capitale stesso»), è stata decentrata e trasformata in una dicotomia tra interno ed esterno. Dicotomia che, si badi bene, quando Luxemburg scriveva era indubbiamente radicata nella realtà, ma la cui tendenziale scomparsa – come lo scenario attuale dimostra – non avrebbe significato il crollo del capitalismo. Eppure, secondo Luxemburg, è questo il vicolo cieco di Marx, ciò che rende la sua astrazione del sistema capitalistico irrealizzabile nella sua forma pura: «Una volta raggiunto il risultato finale – che rimane tuttavia una costruzione teorica –, l’accumulazione diventa impossibile: la realizzazione e capitalizzazione del plusvalore si trasforma in un problema insolubile.

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blackblog

Marx e Freud in Lacan: dall'inestricabile intreccio alla perfetta compatibilità

di David Pavón

marx e freudSembra che, politicamente, Jacques Lacan sembra sia stato un conservatore. Di certo non era un comunista, e nemmeno un socialista. Ha deriso a più riprese sia gli intellettuali marxisti che gli attivisti di sinistra. Quando era giovane, dichiarò di essere un sostenitore della monarchia, e partecipò alle riunioni di un'organizzazione di estrema destra, l'Action Française. Anni dopo, in piena maturità, ha ammesso di aver votato a destra, per Charles de Gaulle. Sebbene di destra e ostile al marxismo, Lacan ha sempre mostrato grande interesse, e un'ammirazione quasi fervente per Marx. Non ha mai smesso di leggerlo, e di riferirsi a lui con passione. È vero che a volte lo ha criticato, ma più spesso ha riconosciuto i suoi grandi meriti, i suoi successi e le sue scoperte. Inoltre, ha ampliato molte delle sue idee usandolo ripetutamente in quella che è stata la sua interpretazione del pensiero freudiano. Negli scritti di Lacan, e nel suo insegnamento orale, Marx non smette di continuare a incontrare Freud. Gli incontri, tanto frequenti quanto consistenti, profondi e significativi, a volte danno luogo a relazioni strette che organizzano internamente la teoria lacaniana. Tuttavia, quale che sia il grado di citazione di Marx messo in atto da Lacan, appare chiaro che a lui non viene conferito lo stesso posto di Freud. Lacan non adotta il punto di vista di Marx. Non si considera un suo seguace.

Lacan si attiene a Freud. È a lui che aderisce. Si considera un freudiano, non un marxista, e di certo non un freudo-marxista. La sua visione del freudo-marxismo non è per niente positiva. Lo descrive, nelle sue stesse parole, come se si trattasse di un groviglio inestricabile, come se fosse il «vicolo cieco», o «senza soluzione».

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machina

Dove non è il luogo e quando non è il momento

Lenin, Luxemburg, i populisti: lotta di classe e sviluppo del capitalismo

di Gigi Roggero

0e99dc 638bc177a04f48c4804f4fe673a1faa6mv2Il saggio di Gigi Roggero che pubblichiamo per la prima volta in italiano, suddiviso in due parti, [qui la seconda parte) è stato scritto nel 2012 per un volume curato dagli studiosi militanti della rivista polacca «Praktyka Teoretyczna». Come indicato nel sottotitolo, viene trattato il rapporto critico tra Lenin, Luxemburg e i populisti russi rispetto alla questione dello sviluppo del capitalismo. Più precisamente, da un lato viene tratteggiata in chiave genealogica la polemica di Lenin contro i populisti dell’ultimo decennio dell’Ottocento, sbiaditi eredi di una grande tradizione rivoluzionaria; dall’altro, vengono analizzate le ricchezze e i vicoli ciechi della lettura luxemburghiana dell’accumulazione del capitale. Lungi dall’essere un tema di semplice interesse storiografico, la tensione dell’intero testo è volta all’evidenziazione dell’attualità e della posta in palio politica di quel dibattito apparentemente remoto.

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Nel settembre 1870 Marx definì l’insurrezione una follia. Quando però le masse si sollevano, Marx vuole marciare con loro, imparare insieme con loro nel corso della lotta, e non solo declamare istruzioni burocratiche. Egli comprende che il tentativo di determinare in anticipo le prospettive con assoluta precisione sarebbe ciarlataneria o sconfortante pedanteria. Al di sopra di tutto egli pone il fatto che la classe operaia fa di propria iniziativa, eroicamente, con abnegazione, la storia universale.

(V.I. Lenin, Prefazione alla traduzione russa delle lettere di K. Marx a L. Kugelmann)

La sera m’aveva avvolto nel vivifico umore delle sue lenzuola crepuscolari, la sera mi aveva posato le palme materne sulla fronte rovente. Io leggevo ed esultavo, ed esultando, spiavo la misteriosa curva della retta di Lenin.

(I. Babel’, L’Armata a cavallo)

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doppiozero

IA: né intelligente, né artificiale

di Tiziano Bonini

61cwldgme6lIl Palaquium gutta è un albero che si trova principalmente in Malesia e produce un lattice naturale bianco latte, chiamato guttaperca. Alla fine del 19° secolo, questo albero, finì per essere il centro del più grande boom tecnologico dell’epoca vittoriana. Era stato da poco inventato il telegrafo e il mondo aveva appena iniziato ad essere connesso da chilometri di cavi elettrici per la comunicazione in tempo reale, tramite codice Morse. Nel 1848 lo scienziato inglese Michael Faraday pubblicò uno studio su The Philosophical Magazine sulle potenzialità del lattice di Palaquium gutta come isolante elettrico. Da quel momento, la guttaperca divenne un materiale preziosissimo, perché fu vista come la soluzione al problema dell’isolamento dei chilometrici cavi telegrafici che dovevano resistere alle condizioni ambientali del fondo degli oceani. Con la crescita del business globale dei cavi sottomarini, crebbe anche la domanda di tronchi di gutta di palaquium. Lo storico John Tully descrive come i lavoratori locali malesi, cinesi e dayak fossero pagati una miseria per i pericolosi lavori di abbattimento degli alberi e di raccolta del lattice. Il lattice veniva lavorato e poi venduto attraverso i mercati commerciali di Singapore al mercato britannico, dove veniva trasformato in chilometri di guaine per cavi elettrici sottomarini.

Una palaquium gutta matura poteva produrre circa 300 grammi di lattice. Ma nel 1857, il primo cavo transatlantico era lungo circa 3000 km e pesava 2000 tonnellate – richiedeva quindi circa 250 tonnellate di guttaperca. Per produrre una sola tonnellata di questo materiale erano necessari circa 900.000 tronchi d'albero. Le giungle della Malesia e di Singapore furono spogliate, e all'inizio del 1880 la palaquium gutta si estinse.

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ospite ingrato

Totalità, critica e mediazione

Dalla crisi del marxismo all’ultimo Fortini

di Andrea Cavazzini

external content.np94sd9lUna discussione su totalità, critica e mediazione è senz’altro un’occasione importante per riprendere questi concetti e riformularne la genealogia e le implicazioni.

Mi pare che si possa iniziare cercando di situare il problema della totalità (e quindi del pensiero dialettico) nella storia discontinua e contraddittoria del movimento comunista, nelle sue crisi e nella sua dissoluzione alla fi del Novecento. Non mi pare necessario insistere sulle ragioni di considerare questa storia come una storia provvisoriamente conclusa: questa constatazione mi sembra non dover essere associata né alla disperazione né all’euforia, ma credo sia imposta dal bilancio della fi del Novecento, a trent’anni dalla dissoluzione dell’URSS e a quarantacinque dalla fi della Rivoluzione Culturale. In compenso, il problema resta interamente aperto rispetto alla possibilità di individuare e riconoscere un’eredità possibile di questa sequenza storica.

Un recupero o un rilancio delle categorie intellettuali associate al marxismo dovrebbero, in qualche modo, farsi carico della storia attraverso cui tali categorie arrivano fino a noi, e del modo in cui le nostre attuali forme di comprensione del mondo dipendono anche da questa storia, dalle riscritture, dalle cancellazioni e dalle deformazioni che essa ha imposto ai concetti e ai discorsi che oggi si offrono alla nostra interpretazione e ai nostri eventuali riusi. Nessun confronto con il pensiero o la teoria di Marx e della tradizione marxista può evitare di costruire una teoria della ricezione che dia un senso non apologetico o metaforico al termine “tradizione”: con ciò’ si vuol dire che l’insieme o gli insiemi di concetti di volta in volta designati da locuzioni come “critica dell’economia politica”, “materialismo storico”, “pensiero dialettico”, eccetera, non possono essere considerati come trasparenti, dati ad una lettura oggettiva, disponibili per un’appropriazione immediata che trascuri o rimuova le storie di cui essi sono i sintomi.

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economiaepolitica

Il Diritto al servizio del capitale. Note a margine di un libro di Katharina Pistor

di Sergio Marotta

Screenshot internazionel ferrara 2021Che cos’è il «codice del capitale»?

Ormai anche nella patria del capitalismo contemporaneo, gli Stati Uniti d’America, c’è chi si interroga sulla necessità di tornare a riflettere sulla natura, sul significato e sul ruolo del diritto nella nostra epoca. Lo fa con grande intelligenza la comparatista Katharina Pistor in un libro uscito nel 2019 nella versione originale per i tipi di Princeton University Press e qualche mese fa nell’edizione italiana con il titolo Il codice del capitale. Come il diritto crea ricchezza e disuguaglianza (con postfazione di Francesco Di Ciommo, Sergio Di Nola e Massimiliano Vatiero, Luiss University Press, Roma 2021).

La tesi di fondo della studiosa tedesca che insegna “Comparative Law” alla Columbia Law School è espressa con estrema chiarezza sin dalle prime pagine e resta il filo costante dell’intero volume: «In questo libro sostengo che il capitale viene codificato nella legge, che gli avvocati sono signori del codice, e che gran parte dei signori del codice provengono da un solo sistema giuridico: la common law. Se questo è vero, è ora di rimettere mano al dibattito sull’impatto dei sistemi giuridici»[1].

I nove capitoli di cui si compone il libro sono costruiti con l’intento di dimostrare il fondamento di questa tesi, di rintracciarne le antiche origini, risalenti all’età medievale, e di descriverne i successivi sviluppi fino al diritto commerciale e finanziario dei nostri giorni.

L’ottavo capitolo apre lo sguardo verso un possibile futuro del diritto messo a dura prova dai nuovi codici digitali. L’ultimo capitolo, dal titolo suggestivo Il capitale impera secondo la legge, è dedicato all’elaborazione di possibili rimedi da poter utilizzare per superare le terribili distorsioni prodotte dal codice del capitale che sono ormai tutte dispiegate chiaramente innanzi ai nostri occhi.