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tempofertile

Preparativi di un nuovo mondo: circa la “trasformazione strutturale” dell’economia Russa

di Alessandro Visalli

260px Московский Кремль ансамбль памятников архитектуры XV XVIGiovanni Arrighi descrive la svolta degli anni ottanta che produsse il ridisciplinamento dei lavoratori occidentali (il cui reddito reale è da allora stagnante[1]) come ultimo effetto di una lunga catena di cause e conseguenze il cui punto focale è la decolonizzazione. La svolta i cui alfieri furono Ronald Reagan negli Stati Uniti e Margareth Thatcher in Gran Bretagna è quindi letta nel contesto della lotta egemonica tra Est ed Ovest. La crisi dei profitti e della competitività delle merci occidentali, attivata dal cambiamento delle ragioni di scambio, in particolare di alcuni prodotti chiave (in primis energetici), determinò allora uno squilibrio fondamentale della bilancia dei pagamenti e fiscale. Squilibrio che fu aggravato dalle politiche di compensazione che si accumularono per tutti gli anni sessanta e settanta giungendo, alla fine, ad un punto di rottura. Politiche rivolte a salvare il grande capitale e cercare di conservare, allo stesso tempo, la pace sociale. Allora, con la svalutazione del dollaro (e della sterlina) del 1969-73 e con il distacco del 1971 dalla parità con l’oro derivarono un gioco di reciproco scaricabarile tra alleati. Un gioco a chi alla fine si sarebbe trovato a pagare la crisi. Toccò a noi.

Per evitare la distruzione di capitali, questi si rifugiarono nel loro “quartier generale”, ovvero nei mercati finanziari, cercando di moltiplicarsi senza passare per la produzione. Ma, come scrive Arrighi in “Adam Smith a Pechino”, in questo modo alla fine “gli Stati Uniti passarono dal ruolo di principale sorgente mondiale di liquidità e di investimenti diretti all’estero che avevano coperto durante gli anni Cinquanta e Sessanta, a quello di principale nazione debitrice e di pozzo di liquidità che non hanno più abbandonato dagli anni Ottanta”[2].

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“Scontro di civiltà e fine della storia”. Conservatori contro Liberal

di Gerardo Lisco

1200px Piero della Francesca 021Per affrontare la questione del conflitto Ucraino – Russo bisogna andare indietro negli anni. La fine della Guerra fredda , la vittoria degli USA e il crollo dell’URSS hanno aperto, negli anni 90, un dibattito culturale e politico che oggi ritorna di attualità. Possiamo riassumere quel dibattito avendo come coordinate i seguenti saggi : “La fine della storia e l’ultimo uomo” di F. Fukuyama, “ Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale” di S. Huntington e “ La quarta Teoria Politica” di A. Dugin. A differenza dei primi due, i quali risalgono il primo al 1992 e il secondo al 1996, il saggio di Dugin è del 2007. Pur essendo quest’ultimo relativamente recente richiama i primi due. Il contesto storico e politico nel quale vengono elaborate le teorie politiche dei tre autori racchiudono l’inizio di un quarto di secolo che con il conflitto ucraino – russo si è avviato alla fine. Fukuyama in più di una occasione ha avuto dei ripensamenti, su ciò che ha scritto nel saggio che lo ha reso noto, sostenendo di essere stato capito e interpretato in modo erroneo. Come vedremo da alcuni dei passaggi più significativi, ai fini dell’economia del mio ragionamento, quella di Fukuyama è per molti versi una filosofia “determinista” per cui la Storia a causa una serie di “meccanismi” tende ad un solo fine e cioè la realizzazione della Libertà da intendersi come trionfo del Liberalismo e del sistema Capitalista. Scrive Fukuyama ne “La fine della storia” << L’attuale crisi dell’autoritarismo non è cominciata né con la perestrojka di Gorbaciov né con la caduta del muro di Berlino. Essa ha avuto inizio un decennio e mezzo prima con la caduta, nell’Europa del sud, di una serie di governi autoritari di destra. Nel 1974 in Portogallo le forze armate rovesciarono con un colpo di stato il regime di Caetano. In quello stesso anno in Grecia vennero rovesciati i colonnelli che avevano governato il paese fin dal 1967, e ad essi successe il governo democratico di Karamanlis.

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Immanuel Wallerstein, “Dopo il liberalismo”

di Alessandro Visalli

2560888165102 0 0 536 0 75In questa agile raccolta di interventi che è stata pubblicata[1] da Wallerstein nel 1995 a New York e poi tradotta da Jaca Book tre anni dopo, sono sostenute alcune tesi radicali che, tuttavia, hanno una precisa collocazione storica. Si tratta in effetti di un potente esercizio di astrazione e semplificazione, per il quale tutti i movimenti politici dell’otto-novecento, sotto il profilo delle fondamenta ideologiche, sono ricondotti a varianti di un’unica pervasiva tradizione: quella liberale. A ben vedere è un riverbero, quasi trenta anni dopo, della critica al mondo ‘adulto’ della rivolta giovanile del ’68, accusato ‘in blocco’ di essere riformista ed un unico ‘sistema’. Riflettendo sulle conseguenze dell’89 l’autore diagnostica il declino del liberalismo (ovvero di quella che chiama l’unica ideologia politica della modernità), e con esso della complessiva idea di sviluppo, progresso, modernità come destino e speranza. Il declino della speranza induce a ripiegarsi nella protezione di gruppi identitari; infatti, se non ci può essere collettivamente una via di sviluppo e progresso allora occorre salvarsi da soli. Ma in questa fuga è presente sia il rischio di balcanizzazione della politica, che precipita nella lotta di tutti verso tutti, sia la speranza di una nuova politica plurale e decentrata, questa volta senza progetto definito, capace di montare e rimontare indefinitamente i gruppi intorno ad un vago ideale di eguaglianza delle diverse identità e rivendicazioni. Vaghezza rivendicata nell’ultima frase del libro. Una prospettiva che ebbe un certo successo in quegli anni e che oggi si presenta come fantasma in ogni tentativo di riaggregazione (sempre condotto nella forma della federazione aleatoria) nella sinistra radicale.

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machina

Alla festa degli oppressi e degli sfruttati

di Gigi Roggero

Recensione a Rivoluzione. 1789-1989: un'altra storia, di Enzo Traverso

0e99dc 8cac3818af92414e90359ad1d7851541mv2Il recente libro di Enzo Traverso Rivoluzione. 1789-1989: un’altra storia, si candida a diventare punto di riferimento del dibattito sul tema. In questo articolo Gigi Roggero discute in modo approfondito un volume che si assume un compito politico e non solo teorico. Non è vero, infatti, che di rivoluzione non se ne parla più, come uno di quei celebri spettri che la classe dominante è terrorizzata anche solo a evocare. All’opposto, ed è assai peggio, di rivoluzione se ne parla in continuazione. A partire dagli anni Ottanta, nell’epoca della controrivoluzione capitalistica, rivoluzione è diventato uno dei vocaboli più utilizzati per indicare qualsiasi gattopardesco cambiamento fatto con l’obiettivo che nulla cambi. L’innovazione si è mangiata la rivoluzione, o come scritto altrove: il contrario di innovazione non è conservazione, ma appunto rivoluzione.

* * * *

Nel 1543 viene pubblicato per la prima volta De revolutionibus orbium coelestium di Niccolò Copernico, destinato a mandare gambe all’aria il sistema tolemaico e a crearne uno nuovo. Nel 2011 muore Steve Jobs, trasversalmente assurto a icona globale della cosiddetta «rivoluzione» informatica. In questo lasso di tempo si svolge la storia della rivoluzione. Un concetto che nell’età moderna è stato radicalmente trasformato dai processi e dagli eventi di sovversione politica e sociale: non più, in senso astronomico, il moto di un corpo intorno a un altro; non ancora l’innovazione delle forme di produzione, affinché restino immutati il modo di produzione e i rapporti di sfruttamento. Ci riferiamo, invece, al concetto politico di rivoluzione, come rottura dell’ordine costituito, «interruzione improvvisa – e quasi sempre violenta – del continuum storico».

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machina

Trasformare le differenze in opposizione

Anna Curcio intervista Maurizio Lazzarato

0e99dc 8141b375eaa248fab75aaee8b7407307mv2Con il discorso della guerra sullo sfondo, in questa intervista a partire dal suo nuovo libro L’intollerabile presente, l’urgenza della rivoluzione. Classi e minoranze (ombre corte 2022), Maurizio Lazzarato affronta alcuni dei nodi irrisolti dell’agire politico rivoluzionario. In particolare, discute la necessità di ripensare il concetto di classe in relazione alla questione della razza e del genere. Attinge da un archivio teorico-politico eterogeneo, eterodosso rispetto alla sua formazione, e mette a critica le micro-politiche della relazione e la (connessa) spoliticizzazione delle differenze per interrogare il pensiero strategico capace trasformare le differenze in opposizione.

L’intervista, che si sviluppa seguendo gli snodi tematici proposti dal titolo del libro, si apre discutendo del presente. Cos’è che rende intollerabile il nostro presente?

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Guerre e rivoluzione

In una serie di articoli recenti pubblicati su questa rivista, hai discusso della guerra: un tema che nel libro fa da proscenio alla «catastrofe che si annuncia»; l’enunciato di questo presente intollerabile. Quale rapporto esiste (oltre le evidenze della situazione in Ucraina) tra la guerra e il presente?

Nel 2016, insieme a Eric Alliez, abbiamo pubblicato Wars and Capital per ricordare e ricordarci quello che negli ultimi cinquant’anni anni sembravamo aver dimenticato: che non c’è Capitale senza lo Stato e senza la guerra tra stati e senza le guerre di classe, razza e sesso. Con la prima guerra mondiale, le guerre si modificano radicalmente perché sono strettamente intrecciate con il capitale.

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doppiozero

L'inconscio della fisica

di Emilia Margoni

71plqz3xxplPer quanto implausibile, l’intuizione di Leonardo Sciascia è suggestiva: parlare di scomparsa in riferimento a Majorana ha un che di sviante e rivelativo a un tempo. Sviante, perché dissimula i segni di un progetto studiatissimo; rivelativo, perché quel progetto contemplava la dissimulazione delle proprie tracce. In questa chiave, quello di Majorana fu un gesto di duplice sottrazione: sottrarre sé stesso al peso di una svolta epocale e ingovernabile e sottrarre un peso così poco sostenibile a un mondo che aveva intuito, ma non ancora elaborato, un piano strategico per l’autodistruzione, la cui première sarebbe andata in scena a Hiroshima il 6 agosto 1945.

Sciascia proietta sul fisico catanese una capacità anticipatoria che non è né chiaroveggenza né pura sensazione, ma una ponderatissima logica deduttiva che da certe premesse portava a certe conclusioni. In risposta all’inconsapevole cupio dissolvi dei suoi colleghi, secondo Sciascia, Majorana decise di inscenare la sua scomparsa (“perché la sua scomparsa noi la vediamo come una minuziosamente calcolata e arrischiata architettura” – L. Sciascia, La scomparsa di Majorana, Torino: Einaudi, 1975, p. 54) per dare massimo risalto alla “cecità” improvvida e fatale della comunità scientifica e per trovar riparo in ben altre comunità. Insomma, mentre i giovani fisici in fermento degli anni Venti e Trenta rompevano i protocolli della fisica classica con sconsiderata esuberanza e avviavano la nuova fisica verso quel futuro che oggi è presente, Majorana, Pizia riluttante, preferiva sottrarsi a quelli che, ai suoi occhi giudiziosi, sarebbero stati di lì a breve gli esiti deflagranti di quegli entusiasmi giovanili: la fissione nucleare.

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kamomodena

Nell’intreccio della guerra. Ordine e caos della crisi globale

di Silvano Cacciari

Russia Ukraine Crisis Russia is on its way to repeat 1200x900 1Shock energetico, scarsità di materie prime, inflazione galoppante, recessione annunciata, riarmo massiccio: «È l’economia di guerra, bellezza, e tu non puoi farci niente, NIENTE!».

È il coro unanime scandito a reti e firme unificate che in questi giorni, dalle televisioni ai giornali, passando per i social, comincia a essere ripetuto da giornalisti, opinionisti, politici e ministri con molta chiarezza. Economia di guerra: siamo in guerra, quindi? Dichiarata da chi e in nome di chi, per quanto riguarda l’Italia, ancora non è altrettanto chiaro – in apparenza, nella forma: sappiamo benissimo che le decisioni ratificate a Roma vengono prese a Bruxelles, e prima ancora imposte da Washington e Londra, oltre che pagate da noi.

Delle tendenze di ristrutturazione dell’economia, delle catene del valore e degli scenari geopolitici della crisi ne abbiamo parlato a Modena il 2 aprile, alla giornata di discussione sul mondo di domani, la guerra in Europa e il destino della globalizzazione. Dopo quello di Raffaele Sciortino, presentiamo allora la trascrizione dell’intervento di Silvano Cacciari, autore su «Codice Rosso» e che a breve uscirà in libreria con La finanza è guerra, la moneta è un’arma (per La Casa Usher).

L’intervento ci regala una grande dimostrazione di metodo. Attraverso l’analisi materiale di diversi indicatori, offre una fotografia mossa del presente, in cui linee tendenziali e traiettorie di possibile sviluppo vanno formandosi, permettendo una possibile anticipazione, appunto, del mondo di domani – che, come vediamo, è già oggi. La bussola resta sempre la ricerca, di parte, delle contraddizioni e ambivalenze su cui la prassi militante può (deve) insistere. Nelle righe che seguono, ripercorreremo la storia delle ultime crisi, nelle traiettorie che si sono prevedibilmente disegnate e nei varchi aperti dall’imprevedibile.

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menticritiche

Belligeranza senza ideali

di Giovanni Dursi

Pensieri sul “riconoscimento sociale” della lotta di classe e sulla tossicità del pensée unique capitalista

Simbolo ZLa tragica ed aspra spirale del conflitto bellico paneuroasiatico – che, ad oggi, vede nel territorio ucraino il più recente avamposto - è “coinvolgente”. Interroga tutti gli “uomini di buona volontà”. Terminato il secondo ventennio del XXI secolo, ci sono le condizioni psicologiche, per le giovani generazioni – sia d'ispirazione nerd che “Stúrm und Dráng” - e per le donne e gli uomini nati tra il 1945 ed il 1965 (dai 77 ai 57 anni oggi), per decidere come riorientare anche le proprie esistenze. È giunto il momento di fare i conti con la coscienza e scegliere. Alle stessa stregua di come agirono i partigiani che, per un impulso prepolitico, morale, compirono una scelta di campo e decisero di impegnarsi, mettendo a repentaglio la vita, e combattere con le armi per liberare il mondo dal nazifascismo. Analogamente, è possibile, con consapevole rammemorazione, rievocare il dilemma di Ἀντιγόνη, protagonista della tragedia di Sofocle, rappresentata per la prima volta ad Atene alle Grandi Dionisie del 442 a.C., come utile sollecitazione alla riflessione che si propone ed all'auspicabile agire collettivo.

Si, è indifferibilmente etico intervenire. È una chance che i contemporanei hanno, ob torto collo. Con le armi della “critica”, politicamente e culturalmente. Innanzitutto, dimostrando di comprendere la genesi e l'attuale scenario degli scontri militari in corso. In secondo luogo, perché quando la situazione è atroce, ciò che non si è ancora realizzato, può esserlo. In termini diversi: va esperito il tentativo di affrontare la situazione con un'adeguata disamina ed altrettanto inerente valutazione circa il “da farsi”. Infine, l'auspicata doverosa partecipazione è necessaria anche per contrastare le unilaterali “narrazioni sulla guerra”, le interpretazioni e manipolazioni informative erogate con altrettanta “potenza di fuoco” dal mainstream media subalterno e dagli “utili idioti”, insigni protagonisti del perturbante scenario transdemocratico e al servizio di dissimulate, emergenti cheirocrazie o oclocrazie. (rif. a “L’utile idiota. La cultura nel tempo dell’oclocrazia”, Antimo Cesaro, MIMESIS EDIZIONI, 2020).

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marxdialectical

Discussione intorno al senso della guerra

di Roberto Fineschi

Sabato 9 aprile, il Centro Casa Severino e l'Associazione di Studi Emanuele Severino hanno promosso un incontro interdisciplinare sul tema della guerra. Il video è disponibile a questo link. Qui sotto la trascrizione minimamente rivista del mio intervento

imagekjhre4Da una parte vorrei tentare di fare un discorso più generale diciamo di quadro. Facendo questo inevitabilmente ci si presta alla critica di non cogliere la drammaticità del presente: quando muoiono persone, si distruggono città è difficile distogliere lo sguardo; ovviamente si tenta di farlo non per ignorare il dramma ma per proporre una riflessione più ampia, inquadrata in un contesto di sistema, in questo caso relativo al concetto di guerra e violenza nella modernità e, a fortiori, anche al caso ucraino.

 La guerra non è certo una novità contemporanea; da quando esistono società complesse l'uomo ha sempre fatto guerre; da sempre i filosofi se ne sono occupati, ma più recentemente è nata una disciplina che in modo più politically correct ha cercato di affrontarla in maniera ancora più esplicita: le relazioni internazionali. In esse si cerca di sciogliere il nodo della guerra non per giustificarla da un punto di vista morale, ma per spiegarne la necessità fattuale nel mondo politico (i rapporti di potere producono degli equilibri che non si tratta di giudicare perché belli o brutti, ma semplicemente in quanto instaurano un ordine) o nel tentativo di evitarla proprio per le caratteristiche che ha. Tanto gli approcci realisti e neorealisti, quanto quelli che hanno invece cercato una via diplomatica, non violenta alla soluzione delle controversie internazionali di stampo liberale o neoliberale (Bobbio ad esempio), a mio modo di vedere hanno una questione filosofica di fondo che consiste nel partire da una concezione che dal punto di vista di Marx è criticabile, vale a dire il contrattualismo: considerare la formazione dell'istituzione statuale come un contratto sociale, che naturalmente si risolve poi diversamente in diversi filosofi.

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circolointernazionalista

Ucraina 2022: per un internazionalismo attivo e operante

di Rostrum

uocoIl più alto slancio di eroismo di cui la vecchia società è ancora capace è la guerra nazionale; e oggi è dimostrato che questa è una semplice mistificazione governativa, la quale tende a ritardare la lotta delle classi e viene messa in disparte non appena la lotta di classe divampa in guerra civile. Il dominio di classe non è più capace di travestirsi con una uniforme nazionale; contro il proletariato i governi nazionali sono uniti. K. Marx, La guerra civile in Francia, 1871.

Da quando l’uomo ha la dote di pensare prima di agire, per sfuggire al mantenimento degli impegni, alle conseguenze concrete delle astratte affermazioni, l’avvocatismo che si annida in ogni essere pensante è ricorso sempre alle distinzioni. Così oggi ci rigetta tra capo e collo la distinzione tra guerra di offesa e guerra di difesa, tra l’invasione della patria altrui e la protezione del territorio nazionale. E gli antipatrioti di ieri scrivono una lettera che distrugge dieci volumi, mille discorsi, mille articoli, e marciano alla frontiera. A. Bordiga, In tema di neutralità: al nostro posto!, Avanti!, 16 agosto 1914.

 

Una caricatura del 4 agosto 1914

Nell’ultimo mese, in Italia, salvo poche eccezioni, abbiamo assistito al “4 agosto” di gran parte della sedicente sinistra rivoluzionaria. Una triste farsa, nella quale l’opportunismo, il socialsciovinismo, la falsificazione del marxismo hanno gettato la maschera di fronte all’atteggiamento da assumere verso la guerra imperialista in Ucraina. Un esito preannunciato da decenni di tanti piccoli segnali, e che una crisi tutto sommato ancora “parziale” ha precipitato con inesorabile rapidità.

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ilpungolorosso

Autodeterminazione dell’Ucraina?

di Alessandro Mantovani

1649263783 maxresdefault«Se [per la propria affermazione nazionale] un paio di Erzegovini vogliono dare il via ad una guerra mondiale che costerebbe mille volte gli uomini che popolano l'intera Erzegovina; questo secondo me non ha nulla a che fare con la politica del proletariato» (Engels a Bernstein, 22-25/2/1882) 1

«Essere per la guerra in tutta l'Europa per la sola ricostituzione della Polonia significa essere un nazionalista della peggior specie, significa porre gli interessi di un piccolo numero di polacchi al di sopra degli interessi di centinaia di milioni di uomini che soffrono la guerra» (V.I. Lenin, "I risultati della discussione sull'autodecisione", 1916)

«Quanto più pura è ora la lotta del proletariato contro il fronte generale imperialista, tanto più imperioso si fa, evidentemente, il principio internazionalista: "Un popolo che opprime altri popoli non può esser libero"» (Lenin, "I risultati della discussione sull'autodecisione", 1916)2.

Ogni grande evento storico determina svolte. In particolare le catastrofi, e nessuna più della guerra. Tutto accelera, gli animi si accendono, le forze sociali si mettono in moto. Sono destinate a divaricarsi inesorabilmente tra chi la guerra la vuole e chi la subisce. Ma all'inizio il quadro si presenta diverso: lo sciovinismo e l'isteria bellicista imperano. ''Armiamoci e partite! Prendiamo misure di guerra e tirate la cinghia!'', è l'assordante boato dei media che copre ogni voce dissonante, mentre gli esitanti si danno un gran daffare, con ragionamenti tortuosi, per esorcizzare il momento in cui dovranno decidere: o per la guerra, o contro.

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sinistra

Il «problema dello Stato» nel marxismo rivoluzionario di Evgeny Pashukanis*

di Carlo Di Mascio

Pashukanis.1Questo Stato borghese, strumento del dominio di classe borghese, Marx e Lenin hanno ripetuto che occorreva “spezzarlo”, e, idea molto più importante, hanno correlato questa “distruzione” dello Stato borghese con l’“estinzione” ulteriore del nuovo Stato rivoluzionario […]. In altri termini, essi hanno pensato la distruzione dello Stato borghese anche sulla base dell’estinzione e della fine di ogni Stato. Ciò dipende da una tesi fondamentale di Marx e di Lenin: non è solo lo Stato borghese ad essere oppressivo, ma ogni Stato.

Louis Althusser, 22ème Congrès

 

1. Stato, rapporti di produzione e classe dominante

Se nel marxismo rivoluzionario di Evgeni Pashukanis il «problema dello Stato», e se si vuole dell’intera sua filosofia del diritto, ha poco da condividere con la tradizione marxista legata ad una nozione ancora «romantica» e «utopica» di democrazia ottocentesca, ha invece molto a che fare con la maturità dell’analisi marxista-leninista del capitalismo, nonché con l’approfondimento teorico degli antagonismi scaturenti dai suoi intricati processi economici e amministrativi. E’, difatti, proprio in forza dell’analisi dello sviluppo del capitale - quel capitale che, in coincidenza con il contesto storico in cui La Teoria generale del diritto e il marxismo1 viene pubblicata, inizia aggressivamente a ricercare nuovi mercati in grado di assimilare sempre più pluslavoro, e che Lenin in particolare negli scritti su L’imperialismo del 1916 aveva con lungimiranza già individuato, sia per l’enorme concentrazione del potere capitalistico nella figura dei singoli Stati imperialistici che nella forza di distruzione che lo scontro tra gli stessi metteva in risalto2 - che tende a potenziarsi in Pashukanis il discorso sullo Stato come strumento borghese capace di proteggere interessi di classe e, soprattutto, di mediare le transazioni di mercato per consentire l’accumulazione capitalistica.

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perunsocialismodelXXI

Momento populista e rivoluzione passiva

di Carlo Formenti

populismo2In varie occasioni ho definito il populismo come la forma che la lotta di classe ha assunto da quando la controrivoluzione liberista ha sconfitto le classi lavoratrici, annientandone l’identità socioculturale e inibendole la possibilità di rappresentare politicamente i propri interessi. Questa definizione è stata erroneamente interpretata come una legittimazione “ideologica” del populismo, benché chi scrive abbia sempre sostenuto che il populismo non è né è mai stato un’ideologia; sia perché non esiste un corpus teorico e ideologico condiviso dai movimenti populisti, sia perché gli sforzi di definire elementi comuni a tutti i movimenti populisti del passato e del presente non hanno prodotto altro che degli “idealtipi” inadeguati a cogliere la complessità del fenomeno. Dire che il populismo è la forma in cui oggi si manifesta la lotta di classe non implica attribuirgli connotati positivi. Chi ritiene che il conflitto di classe abbia sempre e comunque valenza progressiva dimentica che le idee dominanti sono sempre quelle delle classi dominanti, ed è per questo che, in assenza di un progetto politico controegemonico, ogni moto sovversivo tende a risolversi in una “rivoluzione passiva” che cavalca le lotte delle classi subalterne per rivolgerle contro i loro stessi interessi. Dal momento però che non penso neppure che il populismo sia di per sé un fenomeno regressivo, necessariamente destinato ad assumere connotati “di destra”, le mie tesi sono state impropriamente associate a quelle del filosofo argentino Ernesto Laclau. 

Laclau sostiene che la diffidenza e il disprezzo nei confronti del populismo è un riflesso – apparentemente anacronistico - della paura delle oligarchie tardo ottocentesche nei confronti dell’irruzione delle masse sulla scena del conflitto politico: paura della democrazia insomma.

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machina

Rileggere «Operai e capitale»

di Mario Tronti

0e99dc 83648ad8120140c28ba184bc4534c472mv2Nel 2006, a quarant’anni di distanza dalla prima edizione, DeriveApprodi ha ripubblicato Operai e capitale di Mario Tronti. Mercoledì 31 gennaio 2007, presso la facoltà di Scienze politiche della Sapienza di Roma, DeriveApprodi e la Rete per l’autoformazione hanno organizzato un convegno su quello che è, senza dubbio, il testo fondamentale dell’operaismo politico italiano. In quella straordinaria occasione di dibattito sono intervenuti Alberto Asor Rosa, Rita di Leo, Toni Negri, Brett Neilson. Pubblichiamo oggi la relazione di Tronti, capace di mettere – come recitava il sottotitolo del convegno – lo stile operaista alla prova del presente. 

* * * *

Passato questo anniversario dei quarant’anni di Operai e capitale, dovremmo tornare a un discorso più specifico e, se volete, scientifico dell’operaismo. Vorrei spendere alcune parole per rispondere alla domanda: perché ancora l’operaismo malgrado l’assenza delle condizioni che l’hanno originato e prodotto? Tali condizioni si possono sommariamente riassumere nel neo-capitalismo industriale, con cui per la prima volta ci si confrontava in Italia, e oggi decaduto; nella fase fordista, anch’essa archiviata; in un ciclo di lotte operaie che hanno investito il paese nei primi anni Sessanta, con al centro la figura dell’operaio-massa. Credo che oggi il passaggio, ormai avvenuto, dalla centralità alla marginalità non riguarda solamente l’operaismo. Questo passaggio riguarda anche il capitale. Nel senso proprio del Das Kapital marxiano, come lo intendeva Marx ma anche come lo intendevamo noi: il capitale cosiddetto sociale, o il piano del capitale come si diceva nei «Quaderni rossi». Come gli operai, così anche questa forma di capitale è diventata da centrale a marginale. La lotta era lotta di classe tra due centralità: ognuna aveva il proprio campo e il proprio blocco sociale, ognuna era centrale nella propria parte.

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circolointernazionalista

La guerra in Ucraina e la questione nazionale nell'epoca della maturazione imperialistica

di Rostrum

img 20220327 221103S’intende da sé, che per poter combattere, in generale, la classe operaia si deve organizzare nel proprio paese, in casa propria, come classe, e che l’interno di ogni paese è il campo immediato della sua lotta. Per questo la sua lotta di classe è nazionale, come dice il Manifesto comunista, non per il contenuto, ma “per la forma”. Ma “l’ambito dell’odierno Stato nazionale”, per esempio del Reich tedesco, si trova, a sua volta, economicamente “nell’ambito” del mercato mondiale, politicamente “nell’ambito” del sistema degli Stati. […] E a che cosa il Partito operaio tedesco riduce il suo internazionalismo? Alla coscienza che il risultato del suo sforzo “sarà l’affratellamento internazionale dei popoli“, – frase presa a prestito dalla Lega borghese della libertà e della pace, e che deve passare come equivalente dell’affratellamento internazionale delle classi operaie, nella lotta comune contro le classi dominanti e i loro governi. K. Marx, Critica del programma di Gotha, 1875

L’operaio che pone l’unione politica con la borghesia della «propria» nazione al di sopra dell’unità completa con i proletari di tutte le nazioni agisce quindi contro i propri interessi, contro gli interessi del socialismo e della democrazia. Lenin, Tesi sulla questione nazionale, 1913

Fino a poche ore prima dello scoppio del conflitto in Ucraina, nessuna delle varie organizzazioni o gruppi che si richiamano all’internazionalismo proletario aveva nulla da eccepire sulla definizione della guerra in arrivo come guerra imperialista, su entrambi i fronti. Sono bastati pochi giorni di intensa, pervasiva, totale e violenta propaganda di guerra da parte dei media delle potenze imperialistiche occidentali per far emergere perplessità, ripensamenti più o meno dichiarati, emendamenti o sofisticazioni a proposito della caratterizzazione del conflitto in corso e dei compiti dei rivoluzionari internazionalisti.