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blackblog

Lavoro morto, lavoro vivo: il gap energetico della società del lavoro [*1]

di Sandrine Aumercier

Aumersier1Ciò che angoscia molti, è cercare di capire come abbiamo fatto ad arrivare a questo punto di quel che appare come uno sfrenato sviluppo tecnologico che implica l'automazione progressiva di ogni possibile attività, oltre a un incessante progredire di uno stato di sorveglianza di massa. Che genere di critica possiamo opporre a tale evoluzione, senza che essa si riveli solo come una sterile reazione, o un movimento puramente emotivo? Alcune delle critiche che sono già state fatte - e che sono diventate dei classici - si sforzano di trovare dei criteri per poter distinguere tra tecnologie buone e tecnologie cattive, tra un utilizzo buono e uno cattivo, tra tecnologie alienanti ed emancipatrici, se non addirittura tra tecnologie autoritarie e democratiche (se vogliamo usare i termini adottati da Ivan Illich, da Lewis Mumford, ecc.).

Spesso, sulla stampa o nella letteratura specializzata, leggiamo l'espressione del rifiuto che molte persone esprimono nei confronti di un «inaccettabile limite» dello sviluppo tecnico, il quale starebbe per essere superato. Vediamo anche come questo «confine inaccettabile» non smette mai di venire esteso e come, con ogni nuova generazione di critici, venga stabilito un nuovo «limite inaccettabile». Tuttavia, i criteri sembrano quasi sempre che siano basati, o sull'opinione degli autori stessi o sulle tendenze del loro tempo. Ciò che però tutti questi critici hanno in comune, è il fatto che essi idealizzano una loro «volontà consapevole», come se quasi fosse possibile determinare dei limiti razionali per questa «fuga in avanti» corrispondente alla competizione tecno-scientifica. Ma se osserviamo meglio, vedremo come invece queste critiche siano quasi sempre rivolte all'indietro: indicano dei limiti che sono già stati superati, o che si trovano in procinto di esserlo; cosa che le condanna, per principio, a essere delle posizioni reazionarie, oltre a renderle già superate a partire da ogni innovazione che si presenta.

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frontiere

I tortuosi sentieri della conoscenza: orientarsi nel vasto mondo

di Pier Paolo Dal Monte

eUZ14vqmzcIo s4Ciò che viene definito “scienza” è sempre contaminato da fallacie sistematiche sotto forma di distorsioni, pregiudizi e conflitti di ogni genere (cognitivi, culturali, economici, sociali, ecc.) che ne inficiano sempre, in modo più o meno grave,non solo l’attendibilità delle asserzioni, ma anche, la rappresentazione collettiva del concetto stesso. Per cercare di inquadrare un po’ meglio il problema, forse, è bene procedere a ritroso ed addentrarci in un regno assai più vasto, ma anche assai più difficile da definire, che è quello che riguarda il concetto di “conoscenza”, in senso più generale, e che è costituito dalle diverse facoltà e dai variegati strumenti che permettono di apprendere, di elaborare e di ordinare i diversi fenomeni che ci circondano, e di “organizzare” ciò che dentro di noi (impressioni, immagini, pensiero astratto), senza, con questo voler addentrarci troppo in tediose dispute gnoseologiche.

 

Cosmo e caos

Gli esseri umani, così come tutti gli esseri “senzienti”[1], possono sopravvivere solo se riescono ad orientarsi attraverso gli innumerevoli fenomeni che si manifestano nel vasto mondo tramite i diversi strumenti cognitivi. “intrinseci” a loro disposizione.

Potremmo dire, a grandi linee, che la conoscenza è la costruzione, nella mente dell’immagine a del cosmo, delle “cose visibili e invisibili” o, in altre parole, l’introiezione del macrocosmo nel microcosmo della mente individuale o collettiva[2].

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machina

Lo statuto dell’immagine digitale

di Enrico Livraghi

Una riflessione sulla differenza ontologica tra immagine analogica e immagine digitale, e le sue conseguenze

0e99dc e9bce87ac17a41c4bf09bef94f7a85bamv2Di tutti gli equivoci appiccicati alle nuove tecnologie, i più insidiosi sono certamente quelli relativi allo statuto della cosiddetta immagine digitale. In particolare, intorno a un tema che dovrebbe ormai essere venuto a fuoco nitidamente – quello relativo alla differenza ontologica tra immagine analogica (fotografica e fotodinamica) e immagine numerico-digitale – tali equivoci appaiono paradigmatici di una difficoltà reale nell’elaborare concettualmente un simile nodo tematico.

La critica più accorta – quella che ha percepito il problema e si è posizionata davanti a una simile (invisibile) differenza ontologica – sembra inchiodata alla questione, certo importante, della cosiddetta «verità» o «sincerità» dell’oggetto visivo, che però si mostra anche l’unico terreno sul quale la stessa critica pare disposta a spingersi e a prospettare un qualche giudizio. Si tratta, come è noto, di un semplice constatare la scomparsa della traccia, o impronta sensibile, dall’immagine digitale; traccia invece da sempre conservata nell’immagine analogica grazie alla stessa struttura tecnica dell’apparecchio di ripresa (camera, otturatore, diaframma, pellicola fotosensibile eccetera). Detto di passagio, ai fini di una definizione minimamente rigorosa, ci sarebbe da chiedersi se sia ancora appropriato – al di là dell’abitudine – chiamare foto-grafia un’istantanea scattata con una macchina mediante la quale la luce emanata dal soggetto (insieme con i suoi tratti) è calcolata e immagazzinata in un file, e non più impressa, ovvero in-scritta, necessariamente e automaticamente in un supporto sensibile.

In ogni caso, quel constatare di cui sopra è ineludibile: l’oggetto concreto – ciò che è stato davanti all’obiettivo, per dirla barthesianamente – non è affatto necessario all’immagine digitale, la quale, al contrario di quella analogica, si costituisce come potenzialmente autoreferenziale.

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noinonabbiamopatria

La crisi, la finanza creativa e le leggi della fisica

di Noi non abbiamo patria

img 1274È sempre una questione di fisica e di strumenti di misura. Se poi lo strumento della misura, un elemento prodotto dall’uomo, che deve cercare di perfezionare per necessità, si distingue tra i popoli in diverse unità di misura, non muta la sostanza e non muta il rapporto con le leggi della fisica: lo strumento della misura deve poter rappresentare grandezze che esistono in natura secondo il suo ordine di spazio e di tempo. Tanto più l’azione dell’uomo lo costringe a comparare lo spazio ed il tempo in estensione, lo strumento di misura deve affinarsi, puó entrare in crisi, ma non puó sovvertire le leggi della fisica. Semmai l’uomo è costretto a specializzare le operazioni di calcolo attraverso sistemi numerici più complessi, ma sempre essi stessi sono rappresentativi della fisica come essenza della natura in termini di spazio e di tempo.

Oro, moneta e denaro, Bretton Woods, parità oro dollaro, sganciamento del dollaro dall’oro, e ora deglobalizzazione, dedollarizzazione dell’economia non sono nient’altro un momento della crisi tra quantità fisiche da comparare e lo strumento della misura. A tirare le fila della deglobalizzazione e dedollarizzazione dell’Economia, come ho sempre sostenuto, non sono i paesi nemici e concorrenti del dollaro, bensì gli Stati Uniti d’America stessi, rimettendo al centro il possesso delle materie prime sopra il dollaro, l’imperialismo neocoloniale milatare e della finanza sopra l’imperialismo basato solo sulla finanza e il monopolio.

“L’eredità dell’America come potenza dominante mondiale nell’industria dei semiconduttori è incisa nel nome del suo hub tecnologico più famoso, la Silicon Valley. Nel corso dei decenni, tuttavia, l’arte di realizzare microchip con wafer di silicio è diventata un’impresa davvero globale.

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nazioneindiana

Popolo ed esperti

di Cornelius Castoriadis

220px Cornelius Castoriadis by Pablo SeccaA cura di Raffaele Alberto Ventura è uscito quest’anno, per la Luiss University Press, una raccolta d’interventi e saggi di Cornelius Castoriadis, Contro l’economia: scritti (1949-1997). Il curatore – che possiamo considerare un vecchio amico di Nazione Indiana – ben conosciuto grazie a un fortunato saggio del 2017 (Teoria della classe disagiata, minimum fax) e di altri usciti successivamente, ha realizzato un prezioso lavoro di selezione, raccolta, traduzione e introduzione di undici testi del filosofo (ed economista) greco e francofono Castoriadis. La casa editrice della Luiss si è già distinta per scelte editoriali importanti. Nel suo catalogo troviamo, ad esempio, saggi di Barbara Ehrenreich e Timothy Morton. In questo caso, la proposta va a colmare un grande vuoto. Castoriadis è senza dubbio una delle figure intellettuali più importanti del secondo Novecento in Europa, figura di militante-intellettuale, attivo prima in partiti di orientamento trotzkista e poi nel gruppo autonomo Socialismo o barbarie, ma anche di economista stipendiato dall’OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), di psicanalista e di filosofo, docente dal 1980 all’EHESS (Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales) di Parigi. (Su NI, ad esempio, lo pubblicammo qui e ne abbiamo già parlato qui). Più dei titoli e dell’ampiezza di interessi e competenze, è però decisivo il percorso intellettuale dell’autore, che lo porta ad attraversare e ad abbandonare il marxismo, senza rinunciare a sostenere un’idea radicale e rivoluzionaria di democrazia, ispirata in modo particolare – ma non esclusivamente – all’esperienza di Atene e dell’antica Grecia. I saggi raccolti da Ventura ritagliano la zona privilegiata della critica all’economia, che questo economista di professione non ha cessato di realizzare fuori e dentro le istituzioni internazionali. Ma in Castoriadis l’universo dell’economia è inseparabile da quello della società e delle “significazioni immaginarie” che quest’ultima – e qui parliamo soprattutto della società occidentale e capitalistica – attribuisce all’attività umana.

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paroleecose2

"Liberare l'insegnamento dall'apprendimento"

Rifessioni politiche e pedagogiche intorno a un libro importante

di Daniele Lo Vetere

Sovraccarico 3Gert J. J. Biesta è un importante filosofo dell’educazione, prima d’oggi mai tradotto nel nostro paese.[i] La pubblicazione di Riscoprire l’insegnamento (Raffaello Cortina Editore, 2022, pp. 153), per la cura di Francesco Cappa e Paolo Landri, mette a disposizione dei lettori italiani un pensiero pedagogico di grande interesse e sicura attualità, che merita ben più di una semplice recensione: direi l’avvio di una riflessione collettiva. È Biesta stesso che ci invita a una ricezione operosa: «Quelle esposte in questo libro non sono solo idee su cui riflettere […] ma forse, prima di tutto, idee con cui pensare» (pp. 4-5, corsivi originali). L’obiettivo del filosofo è rivalutare l’insegnamento e gli insegnanti, per una decisa correzione di quella che chiama «learnification dell’istruzione».

 

La «learnification dell’istruzione»

La critica di Biesta alla learnification è condotta ad un livello di rigorosa pertinenza pedagogica e didattica, ma è ricca di implicazioni politiche.

Nella letteratura scientifica «la diade teaching and learning è così onnipresente che spesso sembra essere condensata in un’unica parola – teachingandlearning». Biesta suggerisce che si possa sviluppare un discorso sull’educazione nel quale quella diade venga spezzata. Come nella vita si danno moltissimi casi di apprendimento senza bisogno di insegnamento, così l’insegnamento potrebbe essere un’attività (relativamente) indipendente dall’apprendimento: «l’insegnamento non deve necessariamente mirare all’apprendimento» (p. 33). Se quest’idea appare paradossale, ciò dipende proprio dal fatto che la «svolta verso l’apprendimento a scapito dell’educazione» è ormai diventata senso comune.[ii]

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illatocattivo

In cammino

di Il Lato Cattivo

Prefazione ad un’antologia di testi de Il Lato Cattivo di prossima pubblicazione in Grecia

Giorgio de Chirico Art cantore della vita interiore degli oggetti 1Riesaminare il contenuto di questi scritti «d’occasione», elaborati generalmente «a caldo» e in tempi brevi, è per chi scrive un esercizio necessario ma non sempre appagante. Il tempo è un giudice implacabile. Nel distacco che esso consente, le analisi deboli risaltano più di quelle solide, le ipotesi fallaci più di quelle pertinenti. Ciò è vero a maggior ragione dopo lo scoppio della «crisi da Covid-19», che pone la teoria comunista di fronte a una forma di crisi del tutto atipica, e ancora lungi dall'aver dispiegato tutti i suoi effetti in termini economici, politici e sociali. Nell'elaborazione di questa prefazione, il nostro riflesso spontaneo è stato, di primo acchito, quello di voler completare, precisare e correggere gli assi di riflessione, le articolazioni, le proiezioni contenute in questi testi. Dopo ulteriore ponderazione, e nella consapevolezza della ridotta risonanza delle nostre posizioni e attività, in particolare a livello internazionale, ci è sembrato invece più opportuno fornire ai lettori e alle lettrici di Grecia, qualche elemento sul percorso in cui questi testi si inscrivono, ovvero cercare di rispondere a domande in apparenza semplici: «da dove veniamo?», «dove andiamo?».

Chiariamo fin da subito che quella de Il Lato Cattivo, cominciata una decina d'anni fa, è una storia che riguarda pochi individui: una cerchia ristretta che nei momenti migliori si è potuta contare sulle dita di una mano, e una platea di interlocutori assidui che al massimo riempirebbe l'altra mano. Dal punto di vista aggregativo, per non dire «organizzativo», è dunque una storia di solitudini e di insuccessi, di tentativi non necessariamente infruttuosi, ma sempre estemporanei, di allargare la cerchia oltre gli iniziatori, i quali restano ad oggi i soli superstiti.

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materialismostorico 

Democrazia, bonapartismo, populismo

di Michele Prospero (Università di Roma “la Sapienza”)

ed2b7bcea4f6c8c94f75420f549a2a85 MC’e un tema molto importante (quello della torsione autoritaria dei regimi politici nelle crisi di sistema) che attraversa la ricerca di Losurdo e costituisce un nucleo analitico rilevante del suo studio: dal libro della Bollati Boringhieri, Democrazia o bonapartismo, ritorna anche nell’opera postuma su La questione comunista, soprattutto nel capitolo riguardante il neopopulismo.

Nel libro su Democrazia o bonapartismo il merito di Losurdo è quello di intrecciare la storiografia filosofica delle idee con l’analisi delle dinamiche politiche istituzionali. In particolare, Losurdo raccoglie il nucleo analitico più profondo del 18 brumaio di Marx e ne assume le categorie essenziali come fondamento possibile di un’interpretazione dei momenti critici delle democrazie occidentali. L’assunto che Losurdo sviluppa è che il bonapartismo e il populismo costituiscano fenomeni ricorrenti strutturali. Rappresentano cioè l’ombra delle democrazie di massa nelle giunture problematiche.

Il bonapartismo emerge nell’analisi di Marx proprio a ridosso della grande crisi di modernizzazione degli istituti politici francesi che introdussero il suffragio universale maschile. Il bonapartismo e il populismo, in questo senso, sono fenomeni che riguardano la difficoltà che i ceti politici e sociali dominanti incontrano nel gestire con le risorse procedurali dell’ordinamento i grandi conflitti della modernità. In tal senso il cesarismo con la personalizzazione del potere indica lombra che accompagna la democrazia moderna.

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lavocedellelotte

Fra egemonia e avanguardia: il Lenin di Guido Carpi, il nostro Lenin

di Marco Duò

Il Lenin di Guido Carpi, una biografia in due volumi, è un contributo utile e stimolante per pensare al marxismo e alla politica rivoluzionaria del XX secolo per formulare una guida per l’azione oggi

lenin12Per i militanti, la biografia di un rivoluzionario del passato, si sa, è sempre prima di tutto un manuale. In queste biografie, l’approccio militante consiste, di solito, nel cercare di scovare delle indicazioni e dei modelli, per trasformare il racconto in precedente e per porsi lungo lo stesso tracciato storico percorso dal protagonista. Fare proprio un fatto storico, però, è possibile e doveroso, anche e soprattutto se lo si fa con lo scopo di darsi una guida per l’azione. Esisto-no, infatti, delle biografie che già di per sé sono concepite come manuali per la militanza. È questo, senza dubbio, il caso della biografia di Vladimir Il’ič Lenin scritta da Guido Carpi, intitolata Lenin, e uscita in due volumi (il primo nell’ottobre 2020, il secondo l’ottobre scorso) per Stilo Editore.

Si tratta di una pubblicazione che, pur collocandosi lungo un filone che sembrava ormai esaurito (si pensi alle opere di Gorkij (1927), Trotsky (1936) e Lih (2010), per citarne solo alcuni), presenta notevoli e numerosi elementi di originalità. Fra questi, spiccano sicuramente l’impostazione dell’opera e l’uso delle fonti. Quella di Carpi, infatti, non è la classica biografia da vertici di partito, basata esclusivamente su fonti ufficiali, dove il profilo del protagonista e quello dell’istituzione di cui egli fa parte faticano a distinguersi. Stavolta, la linfa da cui prende vita il racconto è la corrispondenza fra il rivoluzionario russo e i militanti di base del partito. Attraverso un ampio catalogo di frammenti epistolari, firmati quasi sempre da nomi che non hanno avuto la fortuna di essere consegnati alla storia, il lettore si scontra direttamente con la realtà dell’organizzazione politica nei suoi aspetti più crudi e pratici.

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materialismostorico

Libertà dei moderni, liberalismo e comunismo in Domenico Losurdo

Su "La questione comunista" di Domenico Losurdo

di Antonio Cantaro (Università di Urbino Carlo Bo)

61563 ung     1. Corpo a corpo

Non ho nulla da aggiungere alla nitida introduzione di Giorgio Grimaldi all’inedito La questione comunista. Storia e futuro di una idea (Carocci, 2021) e alla lucida recensione di Francesco Fistetti dello scorso 14 gennaio su “Il Quotidiano di Puglia”. Condivido senz’altro la notazione che qui Losurdo continua ad osservare il marxismo negli elementi che in esso confluiscono e in ciò che è ancora capace di produrre.

Siamo, insomma, di fronte, ad un uno “scritto d’occasione” (la ricorrenza dei cento anni dalla rivoluzione di ottobre), ma tutt’altro che “occasionale”. Mimmo prosegue, anche in questa occasione, il suo appassionato corpo a corpo con le ripetute rimozioni del conflitto delle libertà perpetrate tanto dal liberalismo reale – le concrete e storiche società liberali – quanto dal socialismo irenico, il “comunismo utopico e messianico”. E rivendica, per contro, la persistente attualità della filosofia classica tedesca e di una tradizione del movimento comunista – la linea Gramsci-Togliatti – che coloro che hanno metabolizzato l’opera losurdiana conoscono assai meglio di me.

Si tratta, osserva Grimaldi, della questione del potere – questione altamente teorica e altamente pratica – che completa e beneficamente complica il quadro inaugurato con lo spiazzante Il marxismo occidentale, dall’eloquente sottotitolo Come nacque, come morì, come può rinascere1.

Lo specifico effetto spiazzante di questo secondo lato del “dittico” losurdiano è l’affermazione che il movimento comunista deve autocriticamente prendere atto dello straordinario valore di certe acquisizioni del liberalismo.

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ospite ingrato

Fredric Jameson, Dossier Benjamin

di Luca Mozzachiodi

Fredric Jameson, Dossier Benjamin, trad. it. di F. Gasperetti, Milano, Treccani, 2022

walterbenjamin 1 web1280Dossier Benjamin è il titolo del libro di Fredric Jameson edito da Treccani per la cura di Massimo Palma, che di Benjamin ha preparato in Italia diverse opere e antologie di scritti, da Scritti politici per gli Editori Internazionali Riuniti nel 2011 a Esperienza e povertà nel 2018. Il libro è stato meritoriamente tradotto con una rapidità senza precedenti rispetto alle opere di Jameson, che in generale sono arrivate in Italia con diversi anni di ritardo sugli originali e questo, oltre che alla scelta del curatore, ritengo sia da ascrivere in parte all’oggetto del libro: l’opera di Walter Benjamin, in parte alla modalità compositiva che Jameson ha adottato.

Non è questa la sede per proporre una storia della ricezione di Benjamin in Italia, naturalmente strettamente connessa con le vicende politico culturali del paese, ma gioverà ricordare che dopo la fase fondativa della traduzione da parte di Solmi di un’antologia di scritti con il titolo Angelus Novus,1 selezione di saggi dagli Schriften preparati da Adorno per Suhrkamp nel 1955 e che Jameson mette a contrasto con quella di Arendt nella disputa sull’eredità di Benjamin – presentata dal critico americano tra le righe come una storia di fraintendimenti e esplicite correzioni –, il cammino italiano dello scrittore tedesco sarà lento ma costante per tutto il secolo. Quando negli anni Settanta gli si affiancherà Cases, ciò porterà a scoprire il Benjamin critico letterario con gli scritti raccolti in Avanguardia e rivoluzione e poi con Il dramma barocco tedesco.

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machina

Tecno-scienza e tardo-capitalismo: otto tesi per una discussione inattuale

di Franco Piperno

0e99dc 01e838a07e494a0c8875169b558c104amv2Nella nostra epoca, quella del tardo-capitalismo, pressoché tutte le forme dei saperi propriamente scientifici sono stravolte: l'originaria «filosofia della natura» coltivata nelle università da piccoli gruppi di ricercatori, se non da singoli individui, si è via via dislocata all'interno del complesso militare-industriale, divenendo appunto Big Science: una vera e propria fabbrica di innovazioni tecnologiche caratterizzata dai costi immani e da decine e decine di migliaia di ricercatori che lavorano in un regime di fabbrica di tipo fordista. Si può affermare che il Progetto Manhattan, ovvero la costruzione della bomba atomica americana, costituisca il punto di non ritorno che separa la scienza moderna da quella tardo-moderna, la Big Science appunto. A dispetto di una opinione tanto fallace quanto diffusa, non esiste né può esistere un «capitalismo cognitivo»; semmai v'è, in formazione, un «capitalismo tecnologico», un modo di produzione che promuove una furiosa applicazione della scienza alla valorizzazione del capitale – applicazione che genera continue innovazioni di processo e di prodotto, ma queste non hanno alcun significativo rapporto con l'accumularsi delle conoscenze. Infatti, per loro natura, le scoperte scientifiche non possono essere né promosse né tanto meno programmate, perché esse sono in verità risposte a domande mai formulate – come accade nei viaggi o nei giochi. Le tesi che seguono presuppongono la constatazione nel senso comune del basso livello culturale e l'alto grado di specializzazione della forza-lavoro nelle società tecnologicamente più sviluppate, e.g. gli USA; e cercano di porre, su un piano non-metafisico, la questione di una «nuova scienza» che recuperi l'autonomia della conoscenza rispetto al complesso militare-industriale.

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I saperi antichi: teoria, tecnica, morale

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mutanteassoluto

Dugin contro la fine

La Quarta Teoria Politica. I

di Nicola Licciardello

71PtnsSg8uLItalia oggi così ubriaca per il crollo d’affluenze ai referendum, e per il crollo di Lega e 5 stelle alle comunali, da quasi dimenticare la guerra della gloriosa Ukraina, la carestia mondiale dovuta al sanguinario Putin, come pure i balletti di Ursula e il Drago. Mentre il quasi premio Nobel per la Pace Zelensky piange per le armi promesse e non mantenute, o per non saperle usare, i russi sparano su chi non è ancora scappato fuori dai velenosi rifugi del Donbas, tanto che qualcuno di “Storia Segreta” (Sinistra in Rete 14 giugno) si spinge a decretare che La guerra è finita e che la Russia ha vinto. Situazione tuttora virtuale, ma certo probabile e conseguenziale.

E se “Storia Segreta” non esita a indicare in due esponenti della lucidità ebraica, Carlo De Benedetti ed Henry Kissinger, gli autori che per primi hanno definito la presente guerra dell’Occidente contro la Russia un “errore strategico” – in primis per l’ovvia conseguenza di favorire un’alleanza Russia-Cina, poi per l’incompetenza valutaria (il rublo, agganciato all’oro, premiato sul dollaro) infine per l’eccessivo squilibrio geopolitico di un’Europa occidentale succube della Nato – c’è chi aveva previsto alla lettera gli attuali eventi bellici, in effetti da Putin assai posticipati rispetto al 2014: si tratta di Aleksandr Dugin, “tradizionalista” moscovita e grande ammiratore della storia d’Italia, di cui parla anche la lingua.

Nella Prefazione all’edizione italiana (2020) de La Quarta Teoria Politica (forse il suo trattato più organico) Dugin infatti mostra una conoscenza anche della filosofia italiana contemporanea. Di Massimo Cacciari, ad esempio, riferisce su quel problematico ma suggestivo Geofilosofia dell’Europa (1994) che ribadiva il destino di un’Europa Arcipelago[1], mentre di Giorgio Agamben elabora una geniale lettura ‘sincretica’, in cui la “vera natura politica della Modernità è la nuda vita del lager”.

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sinistra

L’ideologia dell’infosfera

di Roberto Finelli

floridi1. A “massive information process”

L’immagine più diffusa con la quale il mondo tendeva a concepire se stesso, prima della pandemia, e attraverso la quale verosimilmente tornerà a pensarsi, ancor di più, superata la pandemia, è quella che può sintetizzarsi nel brutto termine di “infosfera”. L’infosfera è la concezione del mondo come scambio e messa in rete continua di informazioni, più precisamente come un luogo unificato e globalizzato da un processo permanente di accumulazione, calcolo e trasmissione di informazioni.

Tale rappresentazione per la quale il mondo fisico, naturale, materiale viene ad essere sempre più attraversato, abitato e dominato da una società cosidetta della conoscenza, trova ovviamente il suo fondamento nella diffusione gigantesca delle macchine informatiche, dei computer, e della crescita esponenziale del loro potere computazionale, della loro capacità cioè di immagazzinare, confrontare, elaborare e calcolare informazioni. Tale capacità enorme di “processare”, resa ormai esterna e indipendente dalla mente umana (inaugurata e messa in opera dalla geniale macchina di Touring), concluderebbe, si afferma, una dimensione antropologica del conoscere, fondata sulla centralità della mente umana, per inaugurare un tipo di sapere che dipenderà sempre più da dispositivi automatici, da intelligenze e memorie artificiali, in grado di produrre metodologie di ricerca e interpretazioni di ogni aspetto del mondo e della vita.

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consecutiorerum

Masse postmoderne. Considerazioni su feticismo e dispotismo nel tempo dell’estetizzazione amministrata

di Marco Gatto*

Marco Gatto 768x5581. Agglomerati transitori e identificazioni attimali

Di fronte alle recenti immagini dell’assalto alla sede romana della Cgil dello scorso 9 ottobre, ci siamo chiesti in quale misura l’evidente partecipazione di organizzazioni neofasciste avesse incontrato la protesta di corpi sociali meno smaccatamente politicizzati e più direttamente legati, in quel frangente, alla contestazione per le politiche di emergenza sanitaria adottate dal governo (green pass in testa). Abbiamo riflettuto, di fronte a quelle stesse immagini, sul peso specifico di alcune figure tribunizie, colte dai media nell’atto di incitare i presenti o, come si direbbe con lessico giornalistico, di aizzare la folla. Ed è stata dai più condivisa, probabilmente, la sensazione di trovarsi di fronte a retori casuali, finanche folcloristici, a pose tanto prevedibili quanto consumate, a un gioco di ruoli persino meccanico e tuttavia capace di scatenare una furia distruttiva simbolicamente orientata. Così come a non pochi dev’essere sfuggito il profilo fin troppo vario di quella folla, la cui costituzione sembrava caratterizzata da un’aperta provvisorietà degli attori partecipanti. Quasi che a vestire i panni dell’aggressore potesse essere, in fondo, chiunque e che la violenza risultasse come il naturale compimento di un modo d’esserci, come un tentativo di partecipare all’atto, di manifestare in quel momento – e solo in quel momento – la propria presenza. Che ad essere colpita sia stata la sede del maggior sindacato italiano dei lavoratori, è un dato di fatto incontrovertibile e nello stesso tempo carico di significati, che deve essere compreso insistendo su un’altra constatazione, relativa al carattere estremamente spurio e ibrido di quel chiunque.