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Le frontiere del valore

di Michael Roberts

Merci porto 1.jpgGüney Işıkara e Patrick Mokre hanno pubblicato un libro approfondito che spiega come la teoria del valore di Marx funzioni per spiegare le tendenze e le fluttuazioni nelle moderne economie capitalistiche. Il titolo, Marx’s Theory of Value at the Frontiers – Classical Political Economics, Imperialism and Ecological Breakdown[La teoria del valore di Marx alle frontiere – Economia politica classica, imperialismo e collasso ecologico], indica al lettore che il libro tratta della legge del valore di Marx applicata a quelle che gli autori definiscono le sue “frontiere”, ovvero i mercati e il commercio, l'imperialismo e la crisi ambientale globale.

Si tratta di un progetto ambizioso, ma gli autori riescono con grande chiarezza a spiegare come il valore (creato dalla forza lavoro umana al massimo livello di astrazione) sia modificato e mediato dalla concorrenza tra capitalisti in quelli che Marx chiamava “prezzi di produzione” (dove i tassi di profitto dei singoli capitali si stabilizzano) e dai prezzi di mercato (dove i profitti in eccesso spingono i capitalisti a una concorrenza incessante).

Gli autori, ex studenti di Anwar Shaikh, adottano la sua teoria della “concorrenza reale” in contrapposizione alla tradizionale “concorrenza perfetta”. Quest'ultima si basa su una visione della produzione capitalistica fondata su armonia ed equilibrio, mentre la concorrenza reale è [caratterizzata da] una turbolenza incessante. Questa è la concorrenza reale in azione: «antagonista per natura e turbolenta nel suo funzionamento» (Shaikh). Gli autori sostengono che questa concorrenza reale sia il principio regolatore centrale del capitalismo, ma che «qualsiasi teoria della concorrenza, inclusa la concorrenza reale, deve essere supportata da una teoria del valore. Altrimenti, la fonte dei ricavi che spettano alle diverse classi sociali (tra le altre cose) rimarrà indeterminata».

Işıkara e Mokre si sono prefissati di dimostrare la connessione logica (e storica) tra il valore creato dalla forza lavoro e i prezzi di mercato.

Fanno l'importante distinzione tra concorrenza «tra settori» e «all'interno di un settore». All'interno di un settore, le imprese competono per quote dello stesso mercato; quindi i prezzi tendono a livellarsi all'interno di un dato mercato. L'impresa che domina quel mercato tenderà a fissare il prezzo, il «capitale regolatore». Tra settori, i capitalisti spostano gli investimenti verso i settori con i tassi di profitto più elevati e quindi c'è una tendenza dei tassi di profitto a livellarsi tra i settori. Di conseguenza, il valore incorporato nelle singole merci viene modificato in «prezzi di produzione» basati sui costi, più un tasso medio generale di profitto. I prezzi di mercato pagati da consumatori e imprese si muovono attorno a questi prezzi di produzione; che, in ultima analisi, sono a loro volta regolati dai «prezzi diretti» delle merci, ovvero dal valore del lavoro in esse contenuto. Quindi, le differenze tra prezzi diretti e prezzi di produzione, da un lato, e tra prezzi di produzione e prezzi di mercato, dall'altro, derivano da variazioni di valore.

In questi primi capitoli teorici, Işıkara e Mokre affrontano con decisione le critiche mainstream ed eterodosse alla teoria del valore di Marx, pur tralasciando saggiamente l'interminabile dibattito sul cosiddetto problema della trasformazione dei valori in prezzi, risolto altrove. E nella loro analisi empirica, gli autori forniscono prove ancora più convincenti della relazione fortemente positiva tra valori e prezzi, utilizzando un nuovo e ampio database input-output.

Işıkara e Mokre riscontrano che gli scostamenti tra i prezzi di mercato e i prezzi diretti (in percentuale sui prezzi di mercato) si attestano tra il 10 e il 20% in quasi tutti i paesi del campione, mentre gli scostamenti tra i prezzi di mercato e i prezzi di produzione sono leggermente inferiori (di circa 1-2 punti percentuali) per quasi tutti i Paesi. Gli scostamenti tra i prezzi diretti e i prezzi di produzione sono inferiori al 5% in tutti i Paesi. «Ciò supporta la visione di Ricardo secondo cui le complicazioni causate dall'accumulazione di capitale (differenze nei rapporti capitale-lavoro, tempi di rotazione, durabilità dei beni capitali e così via) portano a scostamenti dei prezzi naturali relativi (nel nostro caso, prezzi di produzione relativi) dalle grandezze sottostanti del lavoro incorporato (nel nostro caso, prezzi diretti), ma si prevede che questi scostamenti siano inferiori al 7%». Gli autori concludono che «i nostri risultati confermano che i prezzi diretti costituiscono un potente indicatore dei prezzi di produzione e di mercato e, analogamente, che i prezzi di produzione sono un potente indicatore dei prezzi di mercato». La teoria del valore di Marx ha un forte supporto empirico.

Gli autori spostano poi il valore su un'altra frontiera: il trasferimento di valore attraverso il commercio internazionale. Iniziano criticando la teoria della dipendenza: «L'indagine di Marx si concentra sulla concorrenza tra capitali, all'interno e all'esterno dei confini, in contrasto con Emmanuel, che vedeva la questione come sfruttamento di una nazione da parte di un'altra». Essi concludono: «Sarebbe corretto affermare che i capitalisti dei paesi avanzati traggono vantaggio dall'opportunità di sfruttare non solo i lavoratori domestici, ma anche quelli che vivono in altri paesi. Sono in grado di ottenere profitti superiori alla norma dal surplus sociale grazie alla concorrenza a livello internazionale. Tuttavia, un trasferimento di plusvalore dalle tasche dei capitalisti di un paese alle tasche dei capitalisti di un altro paese non può essere definito come sfruttamento del primo paese da parte del secondo. Allo stesso modo, non si può dire che le industrie si sfruttino a vicenda solo perché c'è un trasferimento di valore da un'industria all'altra».

D'altra parte, Işıkara e Mokre non seguono la linea di David Harvey nel respingere lo scambio ineguale di valore nel commercio internazionale come rilevante per l'imperialismo moderno. «L'argomentazione di Harvey è a favore dell'abbandono del concetto di imperialismo e della sua sostituzione con una nozione più fluida di egemonie mutevoli all'interno del capitalismo globale». Gli autori respingono la conclusione di Harvey sia dal punto di vista teorico che empirico. Utilizzando il loro database, hanno scoperto che «i trasferimenti internazionali di valore sono sostanziali, corrispondenti al 5,9% della produzione globale annuale nelle industrie manifatturiere nel periodo 1990-2020, con una cifra cumulativa sbalorditiva di 70.000 miliardi di dollari». Messico, Indonesia, Russia, Corea del Sud e Brasile sono i maggiori fornitori di valore, mentre Stati Uniti, Giappone e Cina sono tra i maggiori beneficiari dei trasferimenti di valore nel commercio internazionale.

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I cosiddetti BRICS, in quanto maggiori rappresentanti della periferia del capitalismo mondiale, sono i maggiori perdenti, ad eccezione della Cina. In merito alla Cina, la conclusione dei due autori, «è qualitativamente diversa dalla posizione consolidata nella letteratura, secondo cui la Cina è tra i paesi dominati, o risente di una perdita di valore nel commercio internazionale». Ma essi aggiungono anche alcune precisazioni. In primo luogo, la Cina è diventata un vincitore netto solo negli ultimi dieci anni, dopo la Grande Recessione, in seguito alla quale la crescita del commercio globale si è indebolita. Inoltre, lo studio «riguarda solo i trasferimenti di valore nelle industrie manifatturiere (tralasciando altri aspetti economici dell'imperialismo) e, di conseguenza, non è di per sé una prova che la Cina sia ora una potenza imperialista».

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È importante sottolineare che la ricerca di Işıkara e Mokre analizza il trasferimento di valore scomponendolo in due elementi: l'aumento della composizione del valore del capitale [OCC - Organic Composition of Capital], che indica una maggiore superiorità tecnologica, e l'aumento del tasso di plusvalore [ROE - Rate of Exploitation], che indica un tasso di sfruttamento del lavoro più elevato. I risultati mostrano che entrambi i fattori contribuiscono al trasferimento di valore in misura pressoché uguale.

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In merito alla ricerca della composizione del capitale e del tasso di sfruttamento, questo risultato è molto simile a quello ottenuto da Guglielmo Carchedi ed io nel nostro studio sullo scambio ineguale del commercio tra il nucleo imperialista e le economie periferiche. È degno di nota il fatto che, secondo i risultati di Işıkara e Mokre, i guadagni netti derivanti dal commercio cinese siano quasi interamente dovuti alla sua superiorità tecnologica rispetto ad altri paesi, mentre per gli Stati Uniti e il Regno Unito siano dovuti principalmente a tassi di sfruttamento più elevati degli altri paesi.

Tuttavia, questi risultati si basano solo sulle industrie produttive; non viene preso in considerazione il flusso di valore attraverso le industrie nonproduttive (nonproduction) - come le attività finanziarie e assicurative - nel trasferimento del plusvalore da un paese all'altro sotto forma di profitti, commissioni e interessi. Gli autori tentano una stima della “cattura di valore nonproduttivo” e rilevano che il trasferimento di valore in questo settore è piuttosto modesto rispetto al trasferimento di valore nei settori produttivi delle economie. Tuttavia, riconoscono che nelle loro tabelle input-output, la cattura di valore nonproduttivo è probabilmente sottostimata. Infatti, un altro studio di Thomas Rotta su questo argomento, che include i settori produttivi e nonproduttivi, rileva che la Cina è il maggiore donatore di valore, mentre gli Stati Uniti sono il maggiore catturatore di valore dell'economia mondiale. La quota statunitense di “valore catturato” per dipendente continua ad aumentare, a scapito dei paesi periferici come l'India e la Cina, anche se, come nell'analisi di Işıkara e Mokre, Rotta rileva che dalla Grande Recessione la perdita annuale della Cina si è ridotta in modo significativo.

Esistono altri modi per analizzare il trasferimento di reddito dai paesi periferici al nucleo imperialista utilizzando i trasferimenti netti di reddito primario e il “rendimento in eccesso” sugli investimenti esteri. Quando si tratta di flussi netti di redditi transnazionali derivanti dal commercio e dagli investimenti, il nucleo imperialista guadagna visibilmente, mentre i paesi BRICS, compresa la Cina, sono dei perdenti.

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Fonte: FMI

 

Piketty et al. hanno inoltre scoperto che, quando si calcolano i rendimenti netti delle attività estere, anche in questo caso il nucleo imperialista registra guadagni positivi, mentre i paesi BRICS (compresa la Cina) sono negativi.

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Nei capitoli finali, Işıkara e Mokre spingono la teoria del valore di Marx alle frontiere della natura, ovvero la terra e l'ecologia del pianeta. Essi sostengono che la rendita, in quanto categoria generale, modifica la legge del valore, ma non la elimina. La proprietà terriera non abolisce il funzionamento della legge del valore. «La tendenziale stabilizzazione dei tassi di profitto è ancora il cuore pulsante della concorrenza capitalistica, che abbraccia tutti i settori, compresi quelli in cui la rendita deve essere pagata ai proprietari monopolistici di risorse cospicue. Nessun capitalista investirebbe in queste ultime se non potesse aspettarsi profitti normali dopo aver pagato la rendita».

Tuttavia, essi offrono l'interessante osservazione che il “capitale fittizio” aumenta effettivamente i ricavi correnti «tramite la cartolarizzazione dei ricavi e dei lavori futuri e attraverso la trasformazione di settori precedentemente pubblici (privatizzazione dei diritti pensionistici e previdenziali, degli alloggi, degli spazi urbani; appropriazione di terreni)». La finanziarizzazione è quindi una forma moderna di accumulazione di valore. Aggiungerei che il plusvalore che viene estratto dall'acquisto e dalla vendita di attività finanziarie, proviene in ultima analisi dal valore delle attività produttive: la finanza non crea nuovo valore, ma si limita a ridistribuirlo.

Işıkara e Mokre criticano l'opinione sempre più diffusa secondo cui la natura crea valore e che lo scambio ineguale di materie prime (energia, terra, ecc.) nei flussi commerciali globali, non è preso in considerazione dalla teoria del valore. Il punto qui è che «le teorie dello scambio ecologicamente ineguale si occupano principalmente dei risultati nel campo dei valori d'uso». Il pericolo è che «non riuscendo a cogliere la distinzione tra il lavoro utile e la forma sociale specificamente capitalistica di creazione di valore, si finisce per pensare che il lavoro non umano (ad esempio, quello svolto dai cavalli, dalle api, dai combustibili fossili e così via) sia altrettanto costitutivo di valore quanto il lavoro umano». Aggiungerei che il “lavoro della natura o di altre specie” viene trasformato in valore nel capitalismo solo dalla forza lavoro umana (raccolta del miele per la vendita; estrazione di petrolio e gas; lavoro dei cavalli e dei buoi, ecc.

Nel loro libro, Işıkara e Mokre dimostrano come la teoria del valore di Marx sia essenziale per comprendere le questioni principali che il mondo deve affrontare nel XXI secolo. Essi sostengono con forza che le differenze tra i prezzi di mercato, i prezzi di produzione e i valori del lavoro, sono fondamentali per comprendere i trasferimenti internazionali di valore dovuti alle diverse composizioni del capitale e ai diversi tassi di sfruttamento, nonché per spiegare il ruolo centrale della rendita e dell'accumulazione nella crisi ecologica indotta dal capitalismo. In quanto tale, il libro è «un manuale per i praticanti marxisti».


Traduzione a cura della Redazione di Antropocene.org

Fonte: Michael Roberts blog 03.10.2025
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