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Critica, Capitale e Totalità
di Roberto Finelli
Critica e totalità sono due categorie che entrano nella cultura moderna come intrecciate e inscindibili solo con la filosofia di Hegel. Già Kant, com’è ben noto, aveva fatto della critica la modalità fondamentale di una filosofia che, rinunciando alle astrazioni di una metafisica ontologica dell’Essere o della Realtà Oggettiva, indagasse di fondo le strutture invarianti e trascendentali della soggettività. Ma è propriamente con Hegel che, a partire dalla tesi secondo cui «il vero è l’intero», la critica diventa fattore intrinseco della costruzione di una totalità, giacchè solo attraverso il progressivo autotoglimento di visioni fallaci e parziali si raggiunge la verità di un intero: attraverso cioè la dialettica dell’autocritica e dell’autocontraddizione in cui non può non cadere qualsiasi pretesa di un lato solo particolare o di una configurazione parziale di valore come l’intero. Il finito si toglie da sé medesimo, perché, non riuscendo alla fin fine a coincidere e a consistere solo con sé stesso, è costretto, per necessità interiore, a negarsi e a trapassare in altro.1 La critica qui, ancor più che in Kant, non rimanda più ad alcun osservatore o giudice esterno ma è il giudizio che la realtà stessa produce su sé medesima, in un’autonegarsi attraverso contraddizione, che dovrebbe garantire insieme verità del sapere ed emancipazione dell’agire. Solo che Hegel per dare continuità ai diversi passaggi dialettici ha dovuto forzare, almeno a mio avviso, la natura della negazione, assolutizzandola e ipostatizzandola, fino ad estremizzarla in un purissimo negativo, che non nega alcunché di determinato fuori di sé, ma alla fine null’altro che il proprio negare. Estenuando, con ciò, il nesso fondamentale genialmente istituito tra critica e totalità nella chiusura, invece, di una metafisica immanente del nulla/negazione.
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Quattro modi in cui l’ecologia ci fa dare di matto
di Bruno Latour*
Pubblichiamo un estratto da La sfida di Gaia di Bruno Latour (Meltemi)
Non c’è mai tregua, ogni mattina ricomincia tutto da capo. Un giorno, l’innalzamento delle acque; un altro, la sterilità del terreno; la sera, la scomparsa accelerata dei ghiacciai; dal telegiornale delle venti apprendiamo che, tra un crimine di guerra e l’altro, migliaia di specie sono destinate a scomparire prima ancora di essere state adeguatamente classificate; ogni mese, il tasso di Co2 nell’atmosfera è sempre più elevato, ancor più di quello della disoccupazione; ogni anno che passa, ci dicono, è l’anno più caldo mai registrato dalle stazioni meteorologiche; il livello dei mari non fa che innalzarsi; i litorali sono sempre più minacciati dalle tempeste di primavera; quanto all’oceano, a ogni campagna di misurazione risulta sempre più acido. È quel che i giornali definiscono vivere nell’epoca della “crisi ecologica”. Purtroppo, parlare di “crisi” sarebbe ancora un modo per darsi facili rassicurazioni, per dirsi che “passerà”, che “presto ci lasceremo alle spalle” questa crisi.
Se fosse soltanto una crisi! Se solo fosse stata semplicemente una crisi! Secondo gli specialisti, si dovrebbe parlare piuttosto di “mutazione”: eravamo abituati a un mondo; passiamo, mutiamo in un altro. Quanto all’aggettivo “ecologico”, lo utilizziamo troppo spesso, anch’esso, per rinfrancarci, per porci a una certa distanza dai problemi che ci minacciano: “Ah, state parlando di questioni ecologiche, be’, non sono cose che ci riguardano!”.
Una mutazione nel rapporto con il mondo
Come è già accaduto, d’altronde, nel secolo scorso, quando si parlava di “ambiente” e si designavano con questo termine gli esseri della natura considerati da lontano, al riparo di una teca di vetro. Ma oggi, siamo tutti noi – dall’interno, nell’intimità delle nostre preziose, piccole esistenze – a essere toccati, coinvolti in prima persona, dicono gli esperti, dai bollettini che ci mettono in guardia su quel che dovremmo mangiare e bere, sul nostro modo di sfruttare i terreni, di spostarci da un luogo all’altro, di vestirci.
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Grottesco fachinelliano
di Dario Borso
I. Appena laureatosi in Medicina a Pavia, Elvio Fachinelli si trasferì nel 1953 a Milano, dove lavorò per qualche anno come microbiologo in una grossa industria farmaceutica. Di sera, frequentava una compagnia così descritta quasi mezzo secolo dopo dal poeta Elio Pagliarani, allora giornalista del quotidiano socialista “L’Avanti!”:
Il ritrovo dove ci si vedeva più spesso era la trattoria di Poldo, in via Borgospesso, dove costituivamo un gruppetto abbastanza fisso e piuttosto affiatato: c’era e c’è il mio Virgilio, Luciano Amodio, guida assatanata e indistruttibile, non solo di me medesimo (per lui conobbi i Solmi, Vittorini, Fortini, Basso, Chiara Robertazzi, le tre sorelle Bortolotti, Giancarlo Majorino, Michele Ranchetti, Ettore Capriolo, Sergio Caprioglio che se n’è andato appena un mese fa, Antonino Tullier fra Dada e surrealismo, scomparso già da molto tempo) ma di tutta la giovanissima intellighenzia milanese in quegli anni, almeno così a me pareva allora e ne sono convinto ancora, e c’era Elvio Fachinelli, che non c’è più da troppo tempo1.
In un dibattito riportato su “Il Tempo” del 19 dicembre 1976, Fachinelli aveva ironicamente specificato le dinamiche del gruppetto, dichiarando che nel 1955
era sorta l’idea di fare una rivista, che si chiamasse “Borgospesso”, perché mangiavamo tutti in via Borgospesso. C’erano Elio Pagliarani, Gianni Bosio, Amodio, Giuseppe Bartolucci e tanti altri2. E c’era, telefonato, Fortini. Verso l’ora del profiterol infatti arrivava un cameriere, chiamando Amodio al telefono. Grande irritazione di tutti, sia verso Amodio, che era il prescelto, che con Fortini, che telefonava per “dare la linea”, per farci sapere cosa andava, e cosa no.
E un appunto sparso datato 20 dicembre 1954 (il primo in assoluto conservatoci) fotografa la posizione di Fachinelli stesso, ironica e disincantata:
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Essere marxista, essere comunista, essere internazionalista oggi
di Samir Amin
Da: http://www.rifondazione.it/formazione - [estratto dal libro di Samir Amin LA CRISI. Uscire dalla crisi del capitalismo o uscire dal capitalismo in crisi? Punto Rosso 2009].
Samir Amin è stato un economista, politologo, accademico e attivista politico egiziano naturalizzato francese
Io sono marxista. Per me vuol dire “partire da Marx”. Sono convinto che la critica che Marx ha messo nell’agenda del pensiero e dell’azione – la critica del capitalismo, la critica della sua rappresentazione centrale (l’economia politica del capitale), la critica della politica e del suo discorso – costituisce l’asse centrale e imprescindibile delle lotte per l’emancipazione dei lavoratori e dei popoli.
Io non sono “neo-marxista”. Per esserlo, bisogna confondere Marx e i marxismi storici, il che non è il mio caso. I “neo-marxisti” vogliono rompere con il marxismo storico e pensano che bisogna andare “oltre Marx”. Di fatto, essi si oppongono solo a quelli che io definisco “paleo-marxisti”, cioè ai seguaci acritici del marxismo storico, in particolare il “marxismo-leninismo” nelle sue diverse versioni. Essere marxista come intendo io non significa essere “marxiano” (che trova “interessante” una qualche “teoria” di Marx, isolata dal resto dell’opera), né essere “marxologo”.
Significa necessariamente essere comunista.
Marx non dissocia teoria e prassi. Non si può seguire la scia di Marx se non ci si impegna nella lotta per l’emancipazione dei lavoratori e dei popoli. Essere comunista significa anche essere internazionalista. L’internazionalismo non è solo un’esigenza della ragione umanista. Non si cambierà mai il mondo se si dimentica l’immensa maggioranza dei popoli che lo costituiscono, quelli delle periferie.
Questi popoli hanno la responsabilità del proprio avvenire. Non sono i popoli dei centri imperialisti opulenti che possono da soli “cambiare il mondo” (in meglio). La carità, gli aiuti, l’umanitarismo, che si vuole sostituire all’internazionalismo, inteso come solidarietà nelle lotte, contribuiscono solo a consolidare il mondo come è, o, peggio, ad avviarlo verso la costruzione di un apartheid su scala mondiale.
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Il partito dello stato forte e la battaglia su Keynes
di Vadim Bottoni
La battaglia su Keynes è politicamente importante.
Si ritenga importante tatticamente, strategicamente, dialetticamente o che si condivida integralmente, il pensiero keynesiano ben interpretato fornisce uno strumento utilissimo per chi crede nella centralità dello Stato in economia.
D’altronde basta pensare a quante volte vengono tirate in ballo le politiche keynesiane come risposta alla crisi, come naturali implementazioni della parte economica della Costituzione, come aspetti costitutivi delle moderne economie monetarie, e così via.
Se questo dà la misura della sua importanza, un altro aspetto dà la misura della fragilità del richiamo al pensiero keyenesiano: il fatto è che Keynes risulta tanto nominato quanto poco letto e questo vale sia per i sostenitori che per i detrattori.
Questa fragilità presta il fianco a due tipi di attacchi da parte del mainstream liberista: o il loro qualificarsi come veri keynesiani mentre in realtà ne stravolgono il pensiero, o identificare chi crede nello Stato interventista come falsi keynesiani statalisti, i keynesiani de’ noantri, il cui pensiero non avrebbe non solo nulla a che fare con il (probabilmente) più grande economista del Novecento, ma che per giunta neanche avrebbero letto.
Il caso in questione rientra in quest’ultimo tipo di attacchi, che non sono solo pretestuosi e capziosi, ma sono anche perpetrati spesso senza assumersi l’onere della prova, perché se si scrive su testate prestigiose agli occhi del grande pubblico si eredita quel prestigio che consente di esimersi dalla giustificazione delle invettive.
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Bussole possibili per sinistre solide
di Andrea Cengia*
Da Etica & Politica / Ethics & Politics , XXII, 2020, 2, pp. 601-609, ISSN: 1825-5167
Esiste ancora oggi uno spazio teorico-politico che risponde al nome di Sinistra? Giungere oggi a porre questa domanda, dopo la fine della drammatica esperienza sovietica, apre ad una rosa di riflessioni non scontate. Nel discorso pubblico generale, il richiamo a una non meglio precisata sinistra politica e culturale circola con grande facilità. Tuttavia, i partiti presenti, che numericamente dovrebbero farsi carico di rappresentare le istanze politiche di sinistra, non sembrano godere oggi di buona salute non solo dal punto di vista del consenso elettorale, ma anche sul piano della proposta politica. Si potrebbe sostenere che tale quadro si inserisce nella difficoltà più generale ad assumere una Weltanschaauung differente da quella di matrice riformista. Quest’ultima è individuata come unica possibilità — dialogica, comunicativa e di creazione di spazi di consenso —attraverso cui giungere alla levigazione delle asperità del dominante quadro di mercato, magari attraverso ‘sapienti’ interventi di ottimizzazione del sistema normativo e redistributivo. Questa descrizione coincide quasi integralmente con quella che Jacques Bidet ha definito come polo politico delle competenze, nominalmente alternativo al polo del capitale. Mentre quest’ultimo avrebbe una collocazione immediatamente riconoscibile, il primo è frequentato da individualità politiche che giustificano la propria esistenza sulla scena pubblica, basandola sul fatto che sarebbe in loro possesso, quasi esclusivo, la competenza a saper gestire e organizzare, anche con maggiore ‘umanità’, la macchina politico-produttiva del modo di produzione capitalistico1. La ricollocazione di queste formazioni riformiste all’interno dell’alveo del sistema sociale egemone, al fine di ristabilire chiarezza di proposte, finalità e referenti sociali, può essere ben condotta attraverso A Sinistra (G. Cesarale, A sinistra. Il pensiero critico dopo il 1989, RomaBari, Laterza, 2019).
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La collocazione dell'uscita dall'UE nella strategia per il socialismo
di Domenico Moro
Il dibattito intorno all’Unione Europea e alla permanenza dell’Italia al suo interno ha attinto nuova linfa dalla crisi sanitaria del Covid 19 e dalle conseguenti contrattazioni tra i paesi europei per l’individuazione dei meccanismi di sostegno agli Stati. Ciò che è, però, largamente assente dalla discussione è una posizione autonoma dei comunisti che approfondisca le condizioni attuali del processo di integrazione europea, la complessità delle relazioni competitive tra paesi capitalistici e i meccanismi di controllo e oppressione messi in campo attraverso le istituzioni dell’Unione Europea.
Con il seguente articolo inauguriamo una rubrica di discussione sul tema e intendiamo lanciare un’ampia riflessione strategica sul ruolo dei comunisti nella lotta contro le istituzioni europee. Lo faremo grazie a diversi contributi che si soffermeranno sui vari aspetti che compongono la questione, attraverso una molteplicità di punti di vista provenienti, anche, dai partiti comunisti degli altri paesi membri, con il fine di contribuire a far avanzare il dibattito tra i comunisti su questa importantissima tematica.
* * * *
La questione del giudizio da dare sull’Ue e sull’euro appare oggi ancora più centrale che nel passato alla luce della recente crisi del Covid-19. Come già verificatosi nel corso della crisi precedente, quella del 2007-2008, l’Ue e l’euro presentano delle caratteristiche intrinseche che impediscono di far fronte alla crisi e soprattutto di rispondere al peggioramento delle condizioni del lavoro salariato, a partire dai suoi settori più deboli quali quelli precari e sottoccupati.
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L’autunno che verrà e i polli di Renzo
di Michele Castaldo
La questione sindacale ha costituito da sempre un rompicapo per le formazioni politiche di sinistra e di estrema sinistra fin dal sorgere del capitalismo e della conseguente nascita del proletariato, o classe operaia, secondo le migliori tradizioni marxiste. Si tratta di una questione spinosa che a distanza di circa 200 anni (datiamo per comodità esplicativa i primi tentativi di costituzione in Inghilterra di società di mutuo soccorso e comitati operai) non ha trovato ancora una sistemazione teorica definitiva.
L’Italia ha avuto il “privilegio” di una esperienza per una insubordinazione di alcuni settori sia del Pubblico Impiego che in aziende a partecipazione statale, durante gli anni ’70 del secolo scorso, quando si sono sviluppate una serie di organizzazioni definite di base, in alternativa ai sindacati confederali esistenti e maggiormente rappresentativi, cioè Cgil, Cisl e Uil, con un ruolo molto marginale della Cisnal che era la cinghia di trasmissione del Movimento Sociale Italiano e che non compariva nelle mobilitazioni unitarie che le tre Confederazioni indicevano, per una sua certa nostalgia nei confronti del Fascismo.
Il presupposto teorico del “basismo”, senza farla troppo lunga, era, ed è, una critica allo spirito collaborazionista della tre confederazioni con l’economia nazionale e con la Confindustria. Si trattava, secondo la gran parte delle organizzazioni “basiste”, di sindacati che avevano abbandonato la causa dei lavoratori e la loro autonomia per subordinarsi totalmente alle esigenze dei padroni. Da questo assunto teorico-politico si sanciva, perciò, la necessità di costituire nuovi organismi di base e strada facendo della formalizzazione di nuovi sindacati veri e propri.
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Finalmente scoperti i portatori del Covid-19: gli immigrati
di Il Pungolo Rosso
Ce l’aspettavamo da un po’, e puntuale è arrivata. La più falsa di tutte le false notizie da cui siamo bombardati h24: “c’è una evidente correlazione tra immigrazione e Covid”. Pensate che la frase sia del cumulo di spazzatura che è anche segretario della Lega? Errore! L’ha pronunciata il suo padre spirituale, il lugubre Marco Minniti, Pd, lo stato di polizia fatto uomo.
Visto che si chiama in causa l’evidenza, dovrebbe esserci una sovrabbondanza di fatti a provarlo. Sennonché la sola cosa di cui si ha evidenza da molte indagini o inchieste è che il Covid-19 è arrivato in Italia, precisamente in Lombardia, nel bergamasco, via Germania, non tramite lavoratori immigrati irregolari, ma per mezzo di manager e padroni-padroncini assatanati di affari e totalmente incuranti della salute pubblica, o anche – forse – di figure tecniche specializzate alle loro dipendenze. La responsabilità della sua diffusione, poi, si deve alle pressioni della associazione dei suddetti signori autoctoni, la Confindustria, contraria a qualsiasi forma di lockdown. Ed è anche del governo Conte-bis che l’ha decretato a metà o ad un terzo quando già era tardi, incalzato dalla protesta operaia nella logistica e tra i metalmeccanici, e terrorizzato che la massa dei ricoveri d’urgenza svelasse quanto è stata criminale la politica pluri-decennale di tagli alla sanità.
Ma “ora, dopo tanti sacrifici – qui è il trasformista Conte-2 che interviene, parlando da Conte-1 – non si può assolutamente accettare che si mettano [cioè: che gli immigrati mettano] a rischio i risultati raggiunti”.
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La proiezione internazionale della Cina nello stallo degli imperialismi
di Paolo Beffa e Lorenzo Piccinini
In questo articolo presenteremo una breve ricostruzione della storia della proiezione internazionale della Repubblica Popolare, per poi ripercorrere come il recente protagonismo cinese stia venendo interpretato in occidente, in particolare riguardo alle teorizzazioni di un “imperialismo” cinese.
Infine abbiamo tradotto e pubblichiamo un articolo dello studioso zimbabwiano Sam Moyo su un aspetto specifico della proiezione internazionale cinese: Prospettive riguardo le relazioni Sud-Sud: la presenza cinese in Africa.
1. Il contesto internazionale: lo stallo degli imperialismi
Ci troviamo ormai da decenni all’interno di una crisi sistemica del sistema sociale ed economico capitalista, che periodicamente si manifesta sotto forme diverse. Che sia come crisi finanziaria o, come stiamo vivendo in questi mesi, una crisi sanitaria globale che impatta in maniera più forte quei paesi che del libero mercato hanno fatto il proprio feticcio, la causa di fondo rimane la stessa: una disperata difficoltà a livello globale di valorizzazione degli investimenti, che spinge il capitale a cercare i profitti di cui disperatamente ha bisogno nella speculazione finanziaria, nella distruzione dell’ambiente naturale, nel saccheggio del patrimonio pubblico, nelle privatizzazioni barbariche e sregolate.
Con l’esaurirsi della spinta data dalla mondializzazione avviata dopo la caduta del muro di Berlino, questa sempre maggiore difficoltà alla valorizzazione sta portando sempre di più ad una competizione internazionale tra macro-blocchi che si fa sempre più accesa (vedi per un’analisi più approfondita http://lnx.retedeicomunisti.net/2020/01/21/dazi-monete-e-competizione-globale-lo-stallo-degli-imperialismi-3/).
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Beirut: chi, cosa, dove, quando, perchè
Basta riavvolgere il filo
di Fulvio Grimaldi
“La fiducia dell’innocente è lo strumento più utile al bugiardo” (Stephen King)
Disinformare evitando il contesto
Clicca qui per vedere l'intervista fattami da Edoardo Gagliardi di Byoblu (aprire con CTRL e clic sul link), a poche ore dalle due esplosioni che il 4 agosto hanno distrutto il porto di Beirut, ucciso circa 150 persone, ferito altre 5000 e devastato gran parte della capitale libanese. Qui si tratta di un primo giro d’orizzonte lungo le domande che, codificate un tempo dalla stampa anglosassone, un qualsiasi cronista dovrebbe porsi. Le risposte dovrebbero inserire il fatto con le sue coordinate nel suo contesto ambientale, politico, geopolitico, temporale, storico. Un’abitudine da lungo tempo persa, o piuttosto abbandonata, dalla stragrande maggioranza della stampa nazionale e occidentale, che, in omaggio agli interessi dei suoi editori e referenti politico-economici, preferisce fornire le risposte da costoro richieste. Avendo attraversato più di mezzo secolo di pratica giornalista per un notevole numero di testate stampa, radio e televisive, sono testimone di questo trapasso.
Libano, la preda negata
E ho potuto anche essere testimone di ciò che è culminato ora a Beirut: una storia dei popoli arabi che, liberatisi dal gioco coloniale europeo, da quel momento subiscono la ritorsione, via via più feroce e letale, degli ex-colonialisti, dei quali hanno preso la guida due nuove presenze innestate in Medioriente, Usa e Israele.
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Quale sinistra?
di Salvatore Bravo
La engelsiana dialettica della storia è non solo antiumanistica, ma favorisce forme di sudditanza rafforzando comportamenti fatalistici e minando l’essenza stessa del comunismo, la quale è emancipazione comunitaria, tensione positiva tra libertà del singolo e libertà della comunità
La sinistra che non c’è lascia spazio alle sue imitazioni, ai partiti-movimenti utilizzati ad hoc dai potentati economici per le elezioni o per far accettare più docilmente dai popoli “provvedimenti e riforme” contro i popoli. La fine del comunismo reale novecentesco impone un lungo percorso di ricostruzione ideologica mediata dalla riflessione non solo sugli errori strettamente storici, ma anche di ordine ideologico.
Il comunismo è stato segnato, in tal senso, dall’interpretazione engelsiana di Marx. Non è stato sufficientemente valutato che il determinismo di Engels era parte del positivismo dell’Ottocento, un mezzo, probabilmente, per rendere il messaggio coerente alla sua epoca e per rafforzare la lotta con l’errata idea della inevitabilità della vittoria finale del proletariato. Il determinismo ha anche favorito la sconfitta della sinistra, poiché è stato utilizzato dai burocrati e dalle nomenclature per passivizzare l’attività politica della base – tanto il successo era già iscritto nella dialettica della storia, pensata come ineluttabilmente vincente –, con l’inevitabile allontanamento della base dal comunismo reale del Novecento, vissuto come estraneo ed opprimente. Non solo! Forse vi è una sostanziale relazione tra la passività con cui i popoli hanno accettato l’economicismo crematistico attuale ed il passato ideologico comunista, in quanto anche quest’ultimo era sostanzialmente una forma di economicismo che aveva esemplificato banalizzandolo il ben più profondo e radicale pensiero di marxiano. Vi è stato solo un passaggio di consegne tra forme diverse di economicismo.
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Sei tesi su complottismo e rivoluzione
di Alessandro Lolli
Un contributo di Alessandro Lolli, autore de La guerra dei meme (effequ 2017), il quale del complottismo si è già occupato: sei tesi dallo sguardo obliquo articolate per punti, utili per cominciare ad aprire un dibattito necessario sulla questione
1. Che cos’è il complottismo.
a. Si definisce complottismo l’insieme di credenze aberranti, cioè che divergono in maniera inconciliabile dalle credenze comunemente accettate. Complottismo è anche il nome dato all’unificazione teorica di più credenze aberranti entro un quadro sistemico che aspira a una sua coerenza interna (il complotto giudaico, il complotto del Deep state, il complotto degli Illuminati, eccetera).
b. Fondamentale capire chi ha il potere di definire complottismo questo o quell’insieme di credenze. Complottismo è infatti un esonimo: un nome dato a quelle credenze da chi non le sostiene. I marxisti chiamano se stessi marxisti, i rapper chiamano se stessi rapper, i complottisti non chiamano se stessi complottisti.
c. Complottismo è il nome dell’insieme di credenze aberranti dato da chi reputa quelle credenze non solo aberranti, ma false. Il complottista sa che le sue credenze sono aberranti, cioè che divergono in modo inconciliabile dalle credenze accettabili, ma non le ritiene false.
d. Le singole credenze aberranti sono anche chiamate “bufale” o “fake news” e possono o non possono fare a capo a uno o più teorie del complotto.
2. Su cosa verte il complottismo
a. Un ampio spettro di affermazioni e teorie ricade nel complottismo al punto che questo viene spesso definito un’ideologia o una filosofia. Per questo è giusto sottolineare che l’affermazione inaugurale del complottista verte sui concetti di vero o falso, non di giusto e sbagliato.
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Ripartire da Marx
Alessandro Bartoloni intervista Giulio Palermo
Dal 25 al 29 agosto si terrà a Seriate (BG) la seconda scuola estiva internazionale diretta da Giulio Palermo in cui si parlerà di teoria marxista, istituzioni europee, crisi da coronavirus nel contesto della crisi globale e relative vie di uscita anticapitalistica, con l’obiettivo di porre la scienza al servizio della rivoluzione proletaria
Il nuovo Coronavirus ha reso evidente la crisi economica che covava da tempo. Ciononostante, sui grandi mezzi di informazione, nelle università e nei bar, il virus viene dipinto come la causa dei problemi. Un’operazione di disinformazione molto simile a quella messa in campo nel 2008 quando ad essere portati sul banco degli imputati furono l’avarizia dei banchieri, la deregulation, i mutui subprime. Per rimettere le cose al proprio posto c’è bisogno di analizzare la realtà in maniera scientifica e per farlo è necessario possedere le giuste categorie analitiche. Un’ottima occasione per impossessarsene è rappresentata dalla Scuola estiva internazionale organizzata dall’Università critica, l’Università di Brescia ed il Coordinamento comunista. Ne parliamo con Giulio Palermo, economista e animatore di questa seconda edizione che si intitola “crisi economica e lotte sociali nell’Unione europea”.
* * * *
D. Ciao Giulio. Innanzi tutto grazie per l’intervista. Puoi raccontarci come nasce questa scuola estiva e a chi è rivolta?
R. La scuola estiva nasce all’interno di un progetto scientifico-politico di trasformazione dell’università borghese e della società capitalista intitolato Università critica.
L’università svolge precise funzioni economiche e sociali nella produzione scientifica e nella riproduzione ideologica del capitalismo. La critica scientifica e la produzione di nuove conoscenze utili alla lotta non possono quindi separarsi dalla critica dell’università stessa, sempre più asservita al capitale, in cui non c’è coerentemente spazio per la critica anticapitalistica.
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L’inferno e il paradiso di Giorgio Cremaschi
di Leonardo Mazzei
Emergenza sì, emergenza no. Su MicroMega Giorgio Cremaschi ha detto la sua. Qui diremo invece la nostra.
Cremaschi prova a dare un colpo al cerchio (no alla proroga governativa dello stato d’emergenza) ed uno alla botte, scagliandosi contro i cosiddetti “negazionisti”. Per l’ex sindacalista della Cgil il vero problema sono però questi ultimi, semplicemente da “mandare all’inferno”. Viceversa, con i decisori dello stato d’emergenza si deve certo discutere, ma in maniera amabile e rispettosa, come si conviene a chi è destinato al paradiso.
Le argomentazioni di Cremaschi non mi convincono neanche un po’. Le comprendo e le rispetto, ma fanno acqua da tutte le parti, portando altro fieno in cascina a quel blocco dominante che sicuramente egli crede di combattere.
Per farla breve proverò a sintetizzare in cinque titoli i tragici errori del leader di “Potere al popolo”. Questi titoli sono: negazionismo, libertà e liberismo, emergenza ed emergenzialismo, democrazia e tecnocrazia, lavoro e popolo.
Negazionismo
Questa parola, che il Nostro utilizza a iosa, andrebbe semplicemente abolita. Essa sta infatti a significare l’esistenza di una verità assoluta che non ammette una discussione razionale. Una “verità” che, in maniera assolutamente analoga alle religioni, ha i suoi dogmi, i suoi riti, i sui sacerdoti.
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Il capitalismo trascendentale delle piattaforme
di Antonio Savino
Il capitalismo delle piattaforme1
Dal capitalismo immanente quello delle ciminiere, delle sirene che chiamano al lavoro migliaia di persone, si è passati al capitalismo trascendentale, un capitalismo simil-finanziario, che trae profitto creando centri (monopolisti) di servizi e “miners”, relazioni, collegamenti e estrazione di dati: sono le nuove piattaforme che internet e le nuove tecnologie digitali consentono; il loro core business è tanto la prestazione di un servizio (spesso retribuita, ma non sempre), quanto l’estrazione di valore dalle interazioni sociali che ne derivano.
Le piattaforme fino a ieri erano delle strutture piane e resistenti che servivano come base di appoggio per un trasbordo di merci e rendono possibili dei passaggi. Le recenti piattaforme digitali sono un agglomerato di hardware e software (con uso di intelligenza artificiale e big data) che si collocano in modo tendenzialmente monopolista, tra due entità fisiche come produttori e consumatori (es. Amazon), tra parlanti e riceventi (es. Facebook) o tra macchine e operatori (es. Siemens, GE) che permettono di svolgere determinate operazioni. Sono dispositivi con strutture e norme che regolano flussi, passaggi, spostamenti ed operazioni varie di informazioni e merci.
Fin qui tutto sembra normale, le piattaforme più o meno tecnologiche ci sono sempre state, svolgevano un servizio spesso legale e “utili” (il virgolettato del dubbio) come la grande distribuzione, notai, ecc, altre volte meno legali come i sistemi mafiosi, i quali ponendosi da monopolisti tra produttori e consumatori (nei settori droga, ortofrutta, caporalato, costruzioni, ecc.) traggono profitto dalla transazione.
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La vita agra dell’impresa pubblica
di Lorenzo Cresti e Giacomo Gabbuti
Il Rapporto sulle imprese pubbliche del Forum Disuguaglianze ci ricorda che nella pandemia, oltre ad aver bisogno della sanità, abbiamo necessità di poter mettere bocca sul perché, cosa, come e dove produrre ricchezza
L’evoluzione dei rapporti tra lo stato italiano e le imprese di sua proprietà ricorda un po’ quello di una commedia all’italiana: ricca di colpi di scena, spesso amari, ma con un finale per nulla scontato. A ravvivare una convivenza annoiata e rassegnata è arrivata una pandemia globale, che tra le sue varie conseguenze ha portato il governo ad annunciare la nazionalizzazione di Alitalia. Nonostante tutto, a parte le polemiche tra «liberisti da divano» e rappresentanti di uno stato inevitabilmente più attivo, continuavano a dominare la scena i soliti, inquietanti, piani «tecnici» di ispirazione neoliberale.
A movimentare sul serio la situazione ci ha pensato l’estate. La prima metà di luglio, due eventi – ben distinti per natura ed eco mediatica – ci hanno portato a riflettere sul ruolo che può giocare lo stato nell’economia, dopo anni spesi a discuterne solo le inefficienze, il clientelismo, la corruzione.
Il primo luglio 2020 si è tenuta un’iniziativa di confronto virtuale tra ministero dell’economia e delle finanze e dirigenti di imprese pubbliche sul ruolo che potrebbe avere lo stato nel guidare lo sviluppo del Paese. Il motivo è stato la presentazione del rapporto del Forum Disuguaglianze e Diversità sulle imprese pubbliche. Il Forum – un’alleanza di organizzazioni e ricercatori – ha individuato, sin dalla presentazione nel 2019 del Rapporto Atkinson, proprio nelle aziende di proprietà pubblica una leva importante per qualsiasi cambiamento che parta dall’attivazione di nuovi e più virtuosi processi di sviluppo economico. Mentre il dibattito sul «ritorno dello stato» assume toni grotteschi, una simile iniziativa permette di ragionare in modo meno astratto e più utile di quale stato servirebbe per risolvere i nostri problemi.
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2 + 2 = 5. L’emulazione socialista in URSS. Parte IV
di Paolo Selmi
Qui, qui e qui le parti I, II e III
Cari compagni,
questo lavoro è nato come paragrafo alla parte introduttiva del manuale sulla pianificazione che sto traducendo. Poi, le questioni sollevate man mano che la ricerca proseguiva erano tante e tali... che in questi mesi è diventata una piccola monografia: 150 pagine delle mie, un libro vero e proprio usando un'impaginazione editoriale. Per motivi di dimensione, difficile da gestire anche per software potenti come l'editor di sinistrainrete.info, è stata decisa una suddivisione (del tutto strumentale) in quattro puntate. Lo scopo primario di questo lavoro è stato riproporre e sviluppare alcune questioni su cui e, peggio ancora, di cui oggi nessuno parla quando si parla di socialismo e di storia sovietica. Lo scopo ultimo e, infine, l'auspicio con cui chiudo queste poche righe è che ciascuno di voi, sia singolarmente che come gruppo di lavoro e collettivo di ricerca, tragga da questi materiali, la cui traduzione è inedita nella stragrande maggioranza dei casi, spunto per ulteriori analisi, riflessioni, collegamenti, approfondimenti. Di carne al fuoco ce n'è davvero molta, per cui grazie per l'attenzione, per le osservazioni, per gli spunti che vorrete condividere, ma soprattutto...
Buona lettura!
* * * *
E dopo?
Il quadro era tutt’altro che roseo, alla fine del secondo conflitto mondiale: uno sfacelo economico mai visto nella Storia dell’uomo laddove, in aggiunta a quanto già riportato in questo stesso lavoro1, possiamo aggiungere dati più specifici relativi all’agricoltura, nella convinzione che ripeterli non sarà mai abbastanza per denunciare quanto accaduto:
Il danno, arrecato dagli occupanti fascisti all’agricoltura, fu calcolato in alcune decine di miliardi di rubli (prezzi del 1945-46). Nei territori occupati dai fascisti, prima della guerra si produceva fino al 55% dell’intero raccolto sovietico, di cui il 75% di grano, quasi il 90% di barbabietola da zucchero, il 65% di girasoli, il 45% di patate; inoltre, si produceva il 40% dell’allevamento sovietico, di cui il 65% di carne suina, il 40% di derivati del latte, ecc. Duecentomila fra trattori e macchinari agricoli, ovvero il 30% dell’intero parco macchine agricole sovietico del 1940, erano stati completamente distrutti dagli occupanti. Venticinque milioni di capi in meno rispetto al 1940, e il 40% in meno di aziende di trasformazione alimentare, completavano il quadro.2
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La distruzione del sapere
di Ezio Partesana
Riprendo da Etica e politica questo saggio di Ezio Partesana e aggiungo alcune mie considerazione in appendice. [E. A.]
Si può odiare con tutto il cuore una verità anche quando non c’è nulla da fare. La sentenza di una grave malattia, le distruzioni causate da un terremoto o la somma degli anni vissuti quando si arriva alla fine, non hanno un nemico contro il quale ci si possa scagliare; si bestemmia contro il fato o la vita, ma è un modo di fare, non una risposta. Quel che è accaduto non è colpa di nessuno, non c’è rimedio e si muore comunque.
Qualche volta usciamo da noi stessi e il male subìto si trasforma, si vorrebbe trasformato, in buona azione: In nome del padre o della figlia ci diamo da fare affinché la stessa sorte non tocchi a altri o almeno ci si prepari a renderla più lieve. Non c’è motivo di sorridere di questo conforto, anche la rivolta contro l’inevitabile è un principio di speranza: sotto i terremoti ci sono le case e gli anni non sono tutti uguali, ma non basta.
Il sapere necessario a uscire dal lutto non è disponibile sotto forma di un manuale di istruzioni ma va ottenuto con la forza e le difficoltà appaiono spesso insormontabili, serve tempo. La volontà da sola tiene sveglio l’istinto ma da solo l’istinto può andare in qualunque direzione. Una cattiva notizia segnala chi la riferisce, è vero, ma insieme a lui anche la conoscenza che l’ha prodotta.
Quando si passa sotto silenzio la fragilità dell’esistente, il colpevole è presto individuato, così come la constatazione rende tutti innocenti. In entrambi i casi chi volesse obiettare si troverebbe come Sansone tra le due colonne che lo tengono prigioniero, di fronte a una scelta obbligata tra la capitolazione e la rovina.
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L’età del capitalismo della sorveglianza
di Paolo Pecere*
Tra tecnologia, scienze cognitive e utopia negativa: presente e futuro secondo Shoshana Zuboff
L'espressione “capitalismo della sorveglianza”, coniata da Shoshana Zuboff, condensa efficacemente due concetti: quello di un nuovo capitalismo, alternativo a quello industriale dei secoli scorsi, e quello di un nuovo sistema di potere fondato sul controllo del comportamento individuale. Il sottotitolo del libro di Zuboff insiste su questo epocale significato politico: il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri.
Il capitalismo della sorveglianza, portato in Italia da LUISS University Press, con la traduzione di Paolo Bassotti, è un libro importante e ampio (oltre 600 pagine) che descrive una realtà con cui miliardi di persone hanno a che fare, spesso inconsapevolmente, e introduce conoscenze che dovrebbero far parte dell’istruzione di qualsiasi cittadino. Un’opera in cui è utile, per un primo orientamento, distinguere due aspetti: primo, l’analisi storica, giuridica e economica del nuovo capitalismo sorto all’inizio del millennio e fondato sulle nuove tecnologie digitali; secondo, la descrizione di una nuova forma di potere antidemocratico, basata sul sistematico e occulto condizionamento delle scelte individuali, su cui l’autrice vuole provocare “indignazione”, invocando l’azione politica.
La seconda parte del libro è meno ancorata ai fatti: guardando al futuro delinea un’utopia negativa, una previsione plumbea fondata su alcune assunzioni filosofiche e politiche che si ritrovano anche in altri tentativi recenti di futurologia, come quelli di Yuval Harari. Ma, come cercherò di spiegare più avanti, Zuboff e Harari, pur avendo l’ambizione di “leggere” il futuro nelle tecnologie del presente, trascurano il contributo dell’epistemologia, della filologia, della filosofia, e in genere delle discipline che insegnano a comprendere criticamente i discorsi scientifici e i testi.
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Subprime e Covid 19. Le due grandi crisi dell'economia del debito
di Giordano Sivini
Parte prima
L’asimmetria delle crisi e la centralità dei rendimenti
Nella grande recessione iniziata nel 2007 e in quella attuale del grande lockdown, il mondo si confronta con crisi di portata globale, paradossalmente originate da eventi localizzati.
La grande recessione è stata originata dalla insolvibilità dei mutuatari subprime, che aveva bloccato il flusso di rendimenti dei titoli basati sulla cartolarizzazione dei mutui. Questi titoli costituivano appena il tre per cento del totale delle attività delle banche di Wall Street[1], una nicchia particolarmente speculativa entro una enorme massa costruita sui debiti delle famiglie.
Il grande lockdown è stato invece innescato dal blocco delle attività produttive del mercato di Wuhan, un’area della Cina dove sono localizzati i fornitori di 51 mila imprese attive nel mondo. Si è estesa alle aree contigue, ed ha interrotto le catene mondiali di approvvigionamento just-in-time ben prima che gli Stati, uno dopo l’altro, chiudessero le proprie attività non essenziali. Le imprese e le famiglie si sono trovate in difficoltà nel far fronte alla massa dei debiti in scadenza.
Entrambe le crisi hanno colpito i rendimenti. Nell’economia del debito i rendimenti esprimono la vitalità del rapporto di credito sul quale si erge il sistema dei titoli finanziari. “I titoli - chiarisce un esperto di finanza - sono radicati in uno spazio giuridicamente coerente di diritti, doveri o convenzioni. Esistono dunque in quanto originati dalla realtà che li contiene. Perciò, all’estremo, tutti gli elementi della realtà possono essere introdotti nello spazio teorico e pratico della finanza. L’attività sottostante è ovunque la stessa: quella di uno stock autonomo di ricchezza che mira a generare un flusso di rendimenti” [2].
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Stazione di Bologna: dai depistaggi all’invenzione della Storia
di Dante Barontini
Dopo 40 anni, è necessario provare a dire perché sulla strage della stazione di Bologna, come su tutte le altre stragi “fascio-statuali”, è pressoché impossibile arrivare a una conclusione condivisa e si è tuttora obbligati a fare “controinformazione”, smentendo la pioggia di “ricostruzioni ufficiali”.
I “misteri”, in queste stragi1, non esistono. Ci sono buchi nelle indagini, palesi e spesso scoperti tentativi di depistaggio, interferenze continue praticamente “firmate” da servizi segreti – italiani, americani, israeliani, persino francesi – testimoni che scompaiono o muoiono in circostanze più che dubbie. Ma nulla che sia davvero “inconoscibile”.
Da Piazza Fontana in poi (in realtà si potrebbe risalire a Portella delle Ginestre e ai vari accenni di golpe messi in programma più volte), ci sono state più chiavi di lettura, tutte riconducibili a due campi politici molto chiari. Sul fronte opposto ad entrambi sta la ricerca della verità, storica e politica, tentata quasi in solitaria dal “movimento antagonista” – finché ha avuto forza e capacità di discernimento, sia individuale che collettivo – e da alcuni (pochi) storici o giornalisti.
I due campi principali sono facilmente distinguibili. Quello sedicente “progressista” – capeggiato un tempo dal Pci, poi dalle sue innumerevoli conversioni – ha spesso condotto le indagini attraverso magistrati “di area”, trovando sulla sua strada resistenze e depistaggi messi in atto, oggi diremmo, dal deep state. Ovvero dagli apparati, spionistici e mediatici, che quelle stragi avevano organizzato e poi coperto.
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Interesse nazionale, storia, cultura, identità: la grande sfida di riunire l’Italia
Andrea Muratore intervista Marco Giaconi
L’insistenza di Mark Rutte, leader dei Paesi frugali e dell’Olanda austeritaria, ha fatto venire a galla definitivamente la pericolosità dei “vincoli esterni” politici, culturali e ideologici che nel discorso pubblico italiano sono, purtroppo, estremamente presenti. Con il professor Marco Giaconi cerchiamo oggi di capire come spezzare questi vincoli e riunire, definitivamente, il Paese.
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Professor Giaconi, per discutere del peso del “vincolo esterno” sull’Italia vorremmo partire dalla recente trattativa sul Recovery Fund europeo: vedendo le accuse lanciate dal premier olandese Mark Rutte al nostro Paese abbiamo finalmente osservato allo specchio l’origine non italiani di anni di svalutazione del nostro Stato in ambito politico e mediatico. Dal mito secondo cui “abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità” al dualismo tra rigoristi virtuosi e italiani “cicale”, il vincolo esterno ha costruito un forte retroterra narrativo e ideologico. Quali sono gli effetti di questa contaminazione culturale?
Ci si difende al potere, e mi riferisco qui a Mark Rutte e agli altri “frugali”, anche e soprattutto accusando gli altri delle nostre colpe e rendendoli immagini rovesciate delle nostre paure. Noi frugali, italiani spendaccioni o fannulloni. Già Goethe, nel suo “Viaggio in Italia” raccontava che i napoletani non sono affatto pigri, ma casomai caotici. Diventare indebitati come gli italiani, avere una burocrazia o una magistratura come noi, tutte cose che mettono paura e vengono utilizzate come strumenti del potere. E’ il meccanismo del “perturbante” di Freud. Das unheimliche, ciò che non è Patria-Casa e quindi spaventa.
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Negri lettore di Marx. Parte II
di Bollettino Culturale
Cosa fare dalla definizione del soggetto rivoluzionario al di là del lavoro e del potere?
Le basi teoriche di cui parliamo hanno cambiato le concezioni dell'organizzazione e dell'azione politica, del soggetto politico rivoluzionario e del progetto strategico. Dagli anni '70, tuttavia, la questione della definizione del soggetto rivoluzionario è rimasta senza risposta per Negri, fino al recupero del concetto spinoziano di moltitudine. La difesa di un potere costituente autonomo e alternativo come progetto distinto da un'idea di transizione fa emergere precisamente il tema del potere che prende il sopravvento e permea la discussione sullo stigma che porta il termine massa, a cui il concetto di moltitudine servirebbe da contrappunto. La novità della moltitudine sarebbe nel reindirizzamento delle dinamiche dello sfruttamento capitalistico che oggi si rivolgono verso lo sfruttamento della cooperazione. Questa stessa cooperazione sarebbe un fattore favorevole alla creazione di reti di resistenza. Ma, se esaminiamo le tesi di Marx sul lavoro vivo, vediamo che le reti di collaborazione menzionate da Negri, associate a questo concetto, non implicano un potenziale di resistenza. Le forme di lavoro cooperativo restano strettamente legate alle loro forme espropriate. Questo perché "gli individui che costituiscono la classe dirigente (...) dominano anche come pensatori, come produttori di idee, regolano la produzione e la distribuzione delle idee del loro tempo".
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Bill Gates e la nemesi tecno-medica
di Bianca Bonavita
“L’Homo sapiens, che si destò al mito in una tribù e crebbe alla politica come cittadino, viene ora addestrato a essere un detenuto a vita di un mondo industriale. La medicalizzazione porta all’estremo il carattere imperialista della società industriale.”[1]
“Nessuna assistenza dovrà essere imposta a un individuo contro la sua volontà: nessuna persona, senza il suo consenso, potrà essere presa, rinchiusa, ricoverata, curata o comunque molestata in nome della salute.”[2]
Ivan Illich, Nemesi Medica
“Potere vuol dire infliggere dolore e umiliazione.
Potere vuole dire ridurre la mente altrui in pezzi che poi rimetteremo insieme
nella forma che più ci parrà opportuna.
Cominci a intravedere adesso il mondo che stiamo costruendo?”[3]
George Orwell, 1984
Premessa
Denunciare la mistificazione costruita attorno al grande evento spettacolare Covid-19 (che distingueremo nel testo dal virus Sars-CoV-2) e alla forma di governo e di controllo della popolazione che si sta globalmente ridefinendo, non significa difendere la devastante normalità del prima, non significa porsi in una posizione di conservazione di un prima desiderabile da preservare. Così come non significa negare la morte delle persone.
Il virus non ci sembra, come molta della critica radicale vorrebbe, una speciale conseguenza della distruzione prodotta dal capitalismo e dai suoi allevamenti industriali umani e animali. Il nuovo coronavirus non ci sembra affatto un “demone della distruzione totale”, né “la produzione più devastante della devastazione della produzione”.
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