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La Cina, gli Stati Uniti e gli altri - III
Verso la guerra fredda nel Mar Cinese meridionale?
di Michele Nobile
1. 2008-2011: cresce la tensione nel Mar cinese meridionale
A partire dall’inizio della Grande recessione nel 2008 e dai primi mesi del 2009 la politica marittima della Rpc nella regione del Mar cinese meridionale è stata caratterizzata da un atteggiamento fortemente nazionalista, dall’intensificazione dei controlli e della repressione di attività che considera illegali nelle acque di cui rivendica la sovranità, da misure amministrative e dichiarazioni politiche considerate provocatorie dalla maggior parte dei governi della regione, da azioni coercitive e confronti fisici a rischio di degenerare in scontri armati con le Filippine e il Vietnam. Obiettivamente un insieme di fatti in contrasto con l’idea di costruire un «mondo armonioso» e con la proposta di una nuova «via della seta» marittima, che dovrebbe concretizzarsi in iniziative di «sviluppo congiunto»; insieme allo sviluppo delle capacità di interdizione d’area ciò ha generato l’idea che la Rpc punti a controllare stock e flussi del Mar cinese. La preoccupazione si è estesa a tutta l’area del Pacifico, dall’Indonesia fino all’India. I primi effetti politici si manifestarono nel 2009 e, poco dopo, nella «svolta» verso l’Asia e il Pacifico di Obama.
Ricostruendo la successione degli eventi si possono distinguere due periodi: il primo coincide con gli ultimi anni della presidenza di Hu Jintao (Segretario generale del Pcc dal 2002 al 2012 e Presidente della Rpc dal 2003 al 2013), e del primo ministro Wen Jiabao; il secondo corrisponde ai primi anni della presidenza di Xi Jinping (Segretario generale del Pcc dal novembre 2012 e Presidente della Rpc dal marzo 2013; ma già vice Presidente dal 2008) e del primo ministro Li Keqiang. Volendo essere ottimisti è possibile che nell’estate del 2018 sia iniziato un terzo periodo di conciliazione tra Rpc e Asean, dagli esiti assai incerti.
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La Storia della Sussunzione
di Collettivo EndNotes
Questo è un periodo di crisi catastrofica per il capitale, però, allo stesso tempo, è anche un periodo in cui i vecchi progetti programmatici della classe operaia non si vedono da nessuna parte. Questo fatto ineludibile ci obbliga a ricostruire quelle che sono le discontinuità fra il passato ed il presente. Comprendere cos'è che distingue il periodo attuale può aiutarci a «seppellire i cadaveri» delle rivoluzioni fallite del XX secolo, e dare così eterno riposo agli spiriti erranti che continuano a perseguitare ancora la teoria comunista.
La posta veramente in gioco, relativa alla periodizzazione, è la questione di sapere dove finisce il passato e dove comincia il presente. L'identificazione delle rotture storiche e delle discontinuità ci aiuta ad evitare l'implicita metafisica di una teoria della lotta di classe, in cui alla fine ogni specificità storica viene ridotta all'eterno ritorno dello stesso. Tuttavia, le periodizzazioni possono apparire facilmente, non come il riconoscimento di vere e proprie interruzioni reali, ma piuttosto come se fossero l'imposizione arbitraria di uno schema astratto sulla densa trama della storia. Per ogni linea di rottura che viene tracciata, si possono individuare dei resti, o dei residui, di un'altra epoca storica che sembrano rifiutare la periodizzazione. Ragion per cui, soddisfatti in quanto simili dichiarazioni di rottura non possono assolutamente reggere, potremmo sentirci autorizzati a ripiegare sulla confortevole idea seconda la quale in realtà non cambia mai niente. Ma dal momento che consiste in questo la differenza rispetto allo scettico, ecco che è lo storico stesso a dover assumere la certezza predefinita del buon senso.
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Il caso Battisti e la guerra civile degli anni '70
di Alessandro Pascale
La cattura di Cesare Battisti riapre una pagina torbida e ancora misconosciuta del nostro Paese, quella degli anni ’70, definiti “gli anni di piombo”. Il Totalitarismo liberale che ci governa ha già messo in campo tutte le sue armi per distogliere l’opinione pubblica dai fallimenti dell’attuale Governo in carica e utilizzare strumentalmente il caso per dare la propria versione della Storia. La retorica populista si salda strettamente con il perbenismo borghese e democristiano su cui si è chiusa la Prima Repubblica e costruita la Seconda. Cesare Battisti non è che un pretesto per riattizzare l’odio verso il grande nemico storico: il comunismo. Poco importa che Battisti sia stato o meno genuinamente comunista. Indifferente è il fatto che non sia rappresentativo del marxismo, da lui e da altri “terroristi rossi” ampiamente frainteso. Battisti è stato elevato dalla borghesia a simbolo del comunismo e del peggio offerto in tal senso dalla sinistra degli anni ’70. Mentre Parigi brucia da settimane e l’Occidente si avvia da anni lentamente al suo declino, l’obiettivo vero è rinfocolare l’immagine sempre più sbiadita del fallimento di ogni alternativa al sistema presente. Il rimedio proposto è scontato: ravvivare un’identità “democratica” fondata sulla legalità, sulla pace sociale, sull’odio razziale e sull’associazione al terrorismo per chiunque metta in discussione il regime sociale vigente: il capitalismo.
Il caso Battisti diventa così un passo ulteriore per bombardare il popolo con una nuova ondata di revisionismo storico, marcando chiaramente i colpevoli dei peggiori epiteti: assassini, terroristi, violenti, comunisti, fanatici, rivoluzionari, pazzi, ecc. Al gioco delle armi di distrazioni di massa vince chi offre di più nella sagra delle semplificazioni.
I borghesi l’hanno chiamato “terrorismo rosso” perché banalmente hanno vinto loro, e hanno potuto imporre tale etichetta con la complicità dell’intero ordine “democratico”, compresi quei comunisti che avevano scelto la strada della via democratica al socialismo, illudendosi che il sistema potesse cambiare con le urne.
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Un patto per Paderno Dugnano
di Il Pedante
Fa scalpore in questi giorni la firma apposta da Beppe Grillo accanto a quella dell'ex premier Matteo Renzi in calce a un «patto trasversale per la scienza», promosso dai professori Guido Silvestri e Roberto Burioni. Già. Perché, in effetti, la scienza e l'antiscienza sono un grave problema nel nostro Paese, almeno tanto quanto lo era il traffico nella Palermo di Johnny Stecchino. L'iniziativa non serve insomma a nulla e quindi, per la legge ormai nota, se non serve a nulla serve a qualcos'altro. E non ci vogliono grandi esegesi per capire che qui si dice la scienza per dire le vaccinazioni, un po' come si direbbe l'universo per dire Paderno Dugnano. Perché oggi usa così: per riscattarsi dalla miseria semantica la si prende larghissima e si tirano in mezzo gli archetipi eterni. Si scomodano i venti cosmici per parlare di peti.
La falsa sineddoche ce la spiega Beppe quando fa un esempio di pregiudizio antiscientifico contro cui si dovrebbe lottare: quello «relativamente ad un certo vaccino o modalità di vaccinazione della popolazione». Uno a caso, naturalmente. Come deve essere un caso che tra le centinaia di migliaia di chimici, fisici, astronomi, medici, matematici, geologi, biologi, etologi, agronomi, paleontologi, filologi e altri scienziati che danno lustro al nostro Paese, il patto sia stato partorito da tale Roberto Burioni, omonimo di quel signore che lotta per «i vaccini» come si lottava nel secolo XII per la conversione dei Mori, e da Guido Silvestri, accreditato come consulente del Movimento 5 Stelle in tema di vaccinazioni e ricercatore negli USA per lo sviluppo di un vaccino anti HIV.
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PIL: storia di un grande seduttore, o della macchina celibe
di Antonio Bisaccia
Io non voglio essere un prodotto del mio ambiente,
voglio che il mio ambiente sia un mio prodotto.
Martin Scorsese, The Departed- il bene e il male
Durante l’ondata di contestazione che ha avuto luogo in Francia tra novembre e dicembre 2018, conosciuta come «gilets jaunes», sono emerse le rivendicazioni più diverse. Un contestatore ha detto ai giornalisti: “È urgente preoccuparsi del benessere dei cittadini. Si deve parlare finalmente di potenziale interno di felicità e non del prodotto interno lordo. Ecco che cosa migliorerebbe la produttività. Oggi non si parla più di felicità, ma di remunerazione degli azionisti”.
Frase che, nella sua immediatezza, trafigge il cuore del Pil (se ne avesse uno) per gettare un’ombra immensa “sul numero più potente del mondo” e sul suo sex-appeal.
Il cosiddetto Pil, Prodotto interno lordo, è appartenuto per molto tempo al rango degli arcani che interessavano solo un piccolo gruppo di esperti, come una formula della fisica.
Da qualche tempo, invece, scalda anche gli animi di un pubblico più vasto.
A ragione, direbbe Lorenzo Fioramonti. Il culto del Pil ha prodotto secondo lui un disastro. Il suo libro -che usa criticamente una poderosa mole di letteratura tecnica- è un lungo e stimolante j’accuse sugli effetti devastanti di quello che all’inizio -negli anni Trenta- doveva essere una semplice statistica per aiutare il governo degli Stati Uniti a uscire dalla “grande depressione”. Oggi invece le pubblicazioni trimestrali delle cifre del Pil hanno preso in ostaggio tutte le economie del mondo, e dunque tutte le società: compresa, quindi, anche la vita di ogni cittadino.
In un libro sorprendentemente (vista la materia!) leggibile e stilisticamente accattivante -perché scritto con passione- l’autore ripercorre la storia del Pil e le critiche che gli sono state rivolte -in primis da colui che l’aveva inventato: un paradosso che Fioramonti sottolinea più volte.
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Tempo di lavoro e salario
di Carla Filosa*
Abstract: The aim of this article is to clarify the meaning of «wage» and «labour-power» concepts, according to Marxian analysis. The feature of the labour-process as human action aimed at the production of use-values is first highlighted. It is the everlasting nature-imposed condition of human existence. Indeed, the process of creating surplus value is nothing but the continuation of the boundless producing value process. Thus, the prolongation of the working-day beyonds the limits of the natural day – encroaching on all life’s time – has mainly the purpose of realizing increasing surplus value in the labour-power consumpition (i.e. during the commodities production). The “mistery” of poverty – nowadays contended as an enemy – is principally due to a generally known law that the longer the working days the lower the wages are. Indeed, the reproduction of labour-power mass as over-population is the mandatory outcome of the capitalist accumulation general law. Current migration flows show that the existence of huge quantity of (unemployed) human being is a precious disposable reserve army, independently than the limits of the actual increase of population, as a mass of human material always available to be exploited. This paper will deeply discuss about these issues, remarking also the existing differences between wage and (basic) income as well as the different typologies of wage (material, real, relative and nominal). Finally, the strict connection between wage, labour-power value and surplus value, will be validated
1. Forza-lavoro al tempo del salario
Il concetto di «salario» è stato deliberatamente rimosso attraverso la stessa rarefazione del termine. Molti giovani del III millennio non ne hanno mai sentito parlare, e ricevono, per loro semplicemente, «denaro» – ovvero una «paga» (wage) – in cambio di lavoro, meglio “lavoretto” o “job” (posto di lavoro, incarico, compito) normalizzato, anche senza neppure un contratto, senza mansionario o orario, senza assunzione, senza neppure percepire, né sospettare di dover conoscere, quanto altro tempo di vita viene loro richiesto per ottenere quel compenso magari nemmeno pattuito, ma solo forzosamente accettato. Altri, giovani e non, sono costretti a erogare lavoro gratuito nella speranza di ottenerne uno retribuito in una prospettiva non definibile, ma ignorano di costituire, in diverse fasi, quella quota oscillante dell’«esercito di riserva» di cui Marx analizzò, già quasi due secoli fa, la necessità vitale per il sistema di capitale.
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Francia: Atto IX, ovvero l’attualità della rivoluzione
di Giacomo Marchetti
La settimana che ha preceduto l’Atto IX della mobilitazione dei GJ è stata caratterizzata da un notevole innalzamento dei toni da parte dell’entourage macroniano
Ad aprire le danze era stato lunedì sera, su TF1, il ministro Edouard Philippe, che aveva annunciato l’introduzione di nuove misure legislative di stampo repressivo contro il diritto a manifestare, ribattezzate “leggi anti-casseurs”.
Oltre a questa era stata assicurata una “ultra-fermezza” contro l’“ultra-violenza dei manifestanti”, attuando tra l’altro per l’Atto IX il dispiegamento di 80.000 agenti in tutto l’Esagono.
Per ciò che concerne i provvedimenti legislativi, si tratta di un pacchetto di misure come la possibilità di sanzionare chi non rispetta l’ “obbligo” di comunicazione di una manifestazione in Prefettura, di trasformare l’occultamento del viso in reato penale, di introdurre la “responsabilità civile dei casseurs” rispetto agli eventuali danneggiamenti che si verificano in una manifestazione e, da ultimo, l’istituzione di un database di manifestanti a cui verrebbe interdetta la partecipazione alle manifestazioni sul modello – come detto espressamente dal ministro – della diffida per gli eventi sportivi. Tutte cose che in Italia conosciamo bene, ma che messe in campo in Francia danno la misura della trasformazione della “democrazia” in qualcosa di molto meno apprezzabile…
Un progetto di legge depositato dal capo-gruppo dei LR, Bruno Retailleu, discusso lo scorso autunno al Senato, servirebbe da base per questa ennesima stretta repressiva, e verrebbe discusso all’Assemblea Nazionale ai primi di febbraio.
Sui provvedimenti annunciati si è aperta una ampia discussione d’opinione tra esperti di diritto rispetto ai punti di criticità che solleva, soprattutto in merito alla lesione di un diritto fondamentale e dell’accesso allo spazio pubblico – cosa ben diversa dalla possibilità di assistere, a pagamento, ad un avvenimento sportivo in un impianto chiuso – per cui la già più che discutibile tecnica della “diffida” (daspo, in Italia) non potrebbe essere “traslata” sul piano dei diritti politici tout court.
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Vicoli ciechi e cambiamenti storici
di Eros Barone
La grande verità della nostra epoca (conoscerla non è ancora tutto, ma senza conoscerla non potrà mai trovarsi nessun’altra verità di una qualche importanza) è che il nostro continente sprofonda nella barbarie poiché i rapporti di proprietà sono vincolati con la violenza ai mezzi di produzione.
Bertolt Brecht
1. Un governo reazionario senza opposizione
Come ho avuto modo di rilevare in un articolo precedente,1 a mano a mano che la crisi politica della borghesia italiana si va intrecciando con il destino dell’attuale governo, acquista una crescente plausibilità, come criterio interpretativo, la nozione gramsciana di crisi organica delle classi dominanti italiane.2 Dal punto di vista oggettivo, il destino del governo Salvini-Di Maio è, peraltro, inestricabilmente connesso con gli irrisolti problemi economici del paese e con le principali questioni della nostra società (quella operaia, quella meridionale, quella industriale, quella scolastica, quella vaticana ecc.). Questioni che una coalizione divisa su tutto, tranne che sulla necessità di aggredire i migranti e gli operai in lotta, non potrà mai né impostare né tanto meno risolvere.
Ma va anche detto che il governo non ha un’opposizione che lo contrasti o lo condizioni in qualche modo, data l’irrilevanza politica di Leu e il disfacimento progressivo del Pd. Così, dopo aver abborracciato una finanziaria clientelare e averla imposta al parlamento senza alcun dibattito per via della ‘trattativa a perdere’ sul livello del deficit condotta con i burocrati della Commissione Europea, non senza un notevole scialo di sorrisi emorroidari a uso e consumo del pubblico dei ‘mass media’, dal presidente del consiglio, Conte, e dal ministro dell’economia e delle finanze, Tria, l’esecutivo adesso arranca, lacerato da divergenze profonde ma non insanabili, stante l’inconsistenza dell’opposizione nel parlamento e il vasto consenso di cui esso gode nel paese.
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La dialettica marxiana come critica immanente dell’empiria
di Stefano Breda*
Abstract: The paper aims to show that a materialist understanding of the method followed by Marx in his critique of political economy requires going beyond both the traditional logical-historical interpretation of dialectics and the logical-systematic interpretation developed within the Neue Marx-Lektüre
1. Un campo di tensione teorica
La questione della specificità del metodo dialettico seguito da Marx nella sua critica dell’economia politica rispetto a una dialettica idealista è stata al centro di accesi dibattiti fin dalla prima pubblicazione del primo libro del Capitale. L’inconsistenza della celebre metafora del capovolgimento attraverso la quale Marx definiva il rapporto tra il suo metodo dialettico e quello di Hegel è stata convincentemente messa in luce da Althusser (1965, 87 ss.), il quale, però, non ha fornito alcuna vera alternativa complessiva. Indicazioni più concrete si possono trovare in alcune fondamentali intuizioni di Adorno e nella loro elaborazione da parte della Neue Marx-Lektüre, la nuova lettura di Marx sviluppatasi in Germania a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso. Se si seguono tali indicazioni, il rivoluzionamento della dialettica da parte di Marx non consiste in un capovolgimento di soggetto e predicato rispetto alla sua forma hegeliana, bensì nel riconoscimento del fatto che la dialettica tout court non è che l’espressione filosofica di quegli specifici rapporti sociali in cui soggetto e predicato si presentano oggettivamente capovolti: i rapporti capitalistici (cfr. Reichelt 1970, 81)[1]. Se dunque la dialettica, nella sua forma hegeliana, presenta un mondo capovolto, non la si rimette coi piedi per terra rovesciandola in quanto sistema di pensiero, ma svelandone l’oggettivo radicamento nei rapporti capitalistici e criticando un rovesciamento operante in tali rapporti. Da rovesciare, al più, sono allora i rapporti sociali materiali, non la dialettica: essa va piuttosto demisticizzata, de-naturalizzata, individuandone i presupposti storicamente determinati. Molto più appropriata di ogni immagine legata al capovolgimento è dunque un’immagine legata alla delimitazione: «la forma dialettica d’esposizione è corretta solo se conosce i propri limiti» (MEGA II.2, 91)[2], ovvero i punti nei quali la dialettica, da explanans, diviene essa stessa parte dell’explanandum, in quanto prodotto storico bisognoso di una spiegazione altrettanto storica.
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Rosa Luxemburg
Nel centesimo anniversario dell’assassinio
di Michele Nobile
1.
Rosa Luxemburg morì il 15 gennaio 1919, assassinata poco dopo Karl Liebknecht da elementi dell’esercito tedesco. Non furono gli unici a cadere in quel gennaio berlinese: la stessa sorte toccò, nei combattimenti e nelle esecuzioni sommarie, a molte decine di operai, dirigenti sindacali rivoluzionari e militanti socialisti che si erano lanciati in rivolta, reazione a una deliberata provocazione del governo che, si badi, era un governo socialdemocratico, un governo della sinistra.
Con Rosa Luxemburg scompariva la mente più lucida della teoria e della pratica rivoluzionaria nell’Europa occidentale nei primi due decenni del XX secolo, l’unica a potersi confrontare ad armi pari con Lenin e Trotsky.
A una mente brillante che nel modo migliore argomentò la ragione della rivoluzione socialista corrispondeva una passione inesauribile nel mettere al centro dell’azione dell’avanguardia politica organizzata il movimento sociale dei lavoratori, la dinamica delle loro lotte, la maturazione di una coscienza di classe rivoluzionaria attraverso l’esperienza diretta e l’auto-organizzazione della classe. Lottò perché la politica socialista fosse realmente un tutt’uno con la lotta di classe, intesa come movimento di auto-emancipazione sociale. Sostenne con coerenza ineguagliata la democrazia socialista come fine e come mezzo della lotta politica.
Le implicazioni storiche di quelle esecuzioni - e in particolare di Rosa Luxemburg - furono gravissime. Retrospettivamente portarono un colpo mortale alla direzione socialista e alla possibilità di realizzare la rivoluzione nel Paese più avanzato d’Europa. Quattordici anni dopo lo Stato capitalistico tedesco, la cui ricostruzione si ergeva sulla repressione di quel moto berlinese, si sarebbe denominato Terzo Reich.
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L’euro, un’idea insensata
di Ashoka Mody
Intervistato da Tim Black di “Spiked”, Ashoka Mody – professore di economia a Princeton e già dirigente presso il Fondo monetario internazionale – conferma quello che gli economisti sanno, ma la stampa spesso nega: l’euro è stata fin dall’inizio una pessima idea sia economica sia politica. La rigidità intrinseca dei tassi di cambio, le folli regole fiscali, il dominio delle nazioni forti che impongono regole riservate a quelle deboli, creano i presupposti per la divergenza economica e l’inimicizia politica tra le nazioni, anziché promuovere prosperità e pace come propagandano i sostenitori del progetto europeo. Non sono quindi i populisti a essere euroscettici: sono gli euristi che vivono in una bolla di irrealtà, ignorando i più elementari ragionamenti economici e politici
“Si è trattato di uno sforzo un po’ solitario”, dice Ashoka Mody – professore di economia presso l’Università di Princeton, e già vicedirettore del dipartimento europeo del Fondo monetario internazionale (Fmi) – parlando di ”Eurotragedia: un dramma in nove atti”, la sua brillante, magistrale storia della Ue e dello sviluppo dell’eurozona. “La gran parte dell’establishment europeo” continua Mody “o ha tentato di ignorare o ha contestato quelli che mi sembrano principi e dati economici assolutamente basilari”.
È facile capire perché l’establishment europeo potrebbe essere stato incoraggiato a farlo. Eurotragedia è un atto d’accusa all’intero progetto europeo postbellico, una dissezione meticolosa e abrasiva di tutto quello che è caro all’establishment europeo. Ed è anche un attacco allo stesso establishment, al pensiero di gruppo dei suoi membri, ai loro deliri, alla loro arroganza tecnocratica. Inoltre, tutto questo viene dal principale rappresentante del Fmi in Irlanda durante il suo salvataggio dopo le crisi bancaria post-2008 – una persona cioè che ha visto dall’interno i meccanismi fiscali della Ue.
Spiked ha intervistato Mody per capire meglio la sua analisi critica del progetto europeo, i difetti fatali dell’eurozona e perché l’integrazione europea sta dividendo i popoli.
* * * *
Spiked: Lei pensa che il suo lavoro su Eurotragedia sia stato solitario perché, dopo la Brexit e altri movimenti populisti, l’establishment Ue è al momento molto arroccato sulla difensiva?
Ashoka Mody: Sono sicuro che in parte la ragione è questa. Ma penso che la natura dell’intero progetto sia molto difensiva. Pensate alla dichiarazione di Robert Schuman del 9 maggio 1950, che mise le basi per la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio due anni dopo – disse che una fonte comune di sviluppo economico doveva diventare il fondamento della federazione europea.
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Protezionismo e delocalizzazioni: perché la politica di Trump è sbagliata
di Fabrizio Antenucci
I dazi introdotti da Trump non contrastano le delocalizzazioni perché non colpiscono le imprese con residenza fiscale negli USA. Sarebbe meglio agire su un altro aspetto: controlli dei movimenti di capitale
Da quando Trump si è insediato alla Casa Bianca, il protezionismo è tornato ad essere un argomento di estrema attualità. Fin dall’inizio della sua campagna elettorale, il nuovo presidente degli Stati Uniti si è rivolto ai lavoratori della manifattura promettendo di recuperare posti di lavoro nel territorio nazionale, affermando che ogni decisione riguardante commercio, tasse, immigrazione, e affari esteri sarebbe stata “presa a vantaggio dei lavoratori americani e delle famiglie americane”. Stando alle sue intenzioni, le misure protezionistiche avrebbero dovuto da un lato disincentivare le aziende a delocalizzare la produzione, e dall’altro ad imporre barriere al commercio internazionale. Cosa è successo dall’inizio del suo mandato?
Le misure commerciali prese dalla nuova amministrazione vedono coinvolte soltanto indirettamente la Cina e l’Unione Europea: si tratta di dazi imposti su alcune categorie di beni, senza alcun riferimento a specifici paesi. Tali misure, che rivelano preoccupazione per una eccessiva sofferenza dell’economia statunitense nella competizione internazionale, non sono affatto una novità. D’altronde, il saldo delle partite correnti risulta perennemente in negativo dall’amministrazione Reagan. È opinione diffusa, a tal riguardo, che un saldo commerciale negativo rifletta un peggioramento dello stato di salute delle imprese, contribuendo inoltre alla perdita di posti di lavoro. In effetti, a partire dalla fine degli anni ’70, il settore manifatturiero statunitense ha registrato una forte contrazione occupazionale, coinciso di fatto con il peggioramento del saldo delle partite correnti (Borjas et al., 1992). Si tratta di fenomeni entrambi verificati in concomitanza di un progressivo processo di apertura al commercio estero avviato con la ratifica di diversi accordi internazionali tra cui il GATT (Tokyo Round 1973-79, Uruguay Round 1986-1994) e il NAFTA (1994), fino alla costituzione della World Trade Organization (WTO) nel 1995.
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L’euro non è un errore di calcolo
di coniarerivolta
Lo scorso 1° gennaio l’euro ha compiuto i suoi primi venti anni di vita. Dovremmo ormai aver maturato la giusta consapevolezza su come giudicare l’attuale progetto di integrazione europea, culminato nell’unione monetaria del 1999: oltre alle venti candeline, l’Unione Europea ha spento qualsiasi possibilità di attuazione di politiche emancipatorie per le classi meno abbienti e ha contribuito in maniera decisiva alla depoliticizzazione delle decisioni di politica economica, ormai dipinte quasi esclusivamente come scelte tecniche. Una cosa, tuttavia, non è riuscita ancora a spegnere a distanza di due decenni: anche in sedi apparentemente più illustri del bar sotto casa, qualcuno si chiede ancora perché la parità dell’euro sia stata fissata a 1936.27 lire, asserendo contestualmente che la situazione di arretratezza economica e sociale in cui versano da anni i paesi periferici, Italia in primis, sia stata in gran parte generata da un cambio ‘sbagliato’.
Semplificando, il tasso di cambio ci indica quante unità della nostra moneta occorrono per acquistare una unità della moneta di un altro Paese. Perché ci occorre acquistare valuta estera? Ad esempio, se avessimo intenzione di acquistare un telefonino da un produttore americano, questo vorrà essere pagato in dollari statunitensi (che potrà ad esempio usare per andare a cena in un ristorante di New York, dove difficilmente saranno accettati euro), e pertanto avremo la necessità di ‘cambiare’ i nostri euro in dollari: di fatto, staremmo cedendo euro in cambio di dollari ad un dato tasso di cambio. Nell’ipotesi che un telefonino sia venduto a 800 dollari, dovremmo pertanto disporre dell’equivalente in euro di quegli 800 dollari, cambiarli da un intermediario (ad esempio, una banca) al tasso di cambio corrente, e una volta ottenuti i dollari (anche se questo passaggio non lo vediamo materialmente, avviene nei terminali degli intermediari) effettuare l’acquisto del telefonino.
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Dove sbaglia la “sinistra sovranista”
di Fabrizio Marchi
Ho letto questo articolo di Carlo Formenti https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/14088-carlo-formenti-l-ideologia-antistatalista-e-l-autodistruzione-delle-sinistre.html che è in buona parte condivisibile.
Tuttavia mi pare che nella sua posizione così come in quelle dei vari esponenti della neonata “sinistra sovranista” ci sia un eccesso di enfasi nei confronti dei concetti di nazione e di patria. Non è un caso che l’autore concluda l’articolo con una citazione del subcomandante Marcos che difende lo stato nazionale contro il tentativo di distruggerlo da parte del grande capitalismo transnazionale.
Ma è soltanto l’ultima in ordine di apparizione. Fino ad ora il più gettonato negli ambienti della suddetta sinistra sovranista è stato sicuramente Palmiro Togliatti, storico leader del PCI che – pur essendo “cosa” completamente altra rispetto a Marcos per cultura, formazione politica e contesto storico-politico – sosteneva la necessità di difendere e rafforzare lo stato nazionale che in Italia – è bene ricordarlo – scaturiva dalla guerra di liberazione contro il nazifascismo ed era il risultato di una gigantesca mediazione tra forze politiche nazionali e internazionali assai diverse che portò al “varo” della Costituzione Italiana.
Ora, la funzione delle citazioni è quella di individuare quei precedenti storici (autorevoli…) con i quali rafforzare e “giustificare” le proprie posizioni, specie quando queste sono tacciate dagli avversari di essere pericolose, ambigue o addirittura reazionarie. A mio parere è un atteggiamento di debolezza e non di forza, perché se si è veramente convinti delle proprie opinioni non c’è necessità di ricorrere ai suddetti “precedenti”, anche perché la storia e la politica non funzionano come la giurisprudenza e ciò che poteva essere valido per il passato potrebbe non esserlo più per l’oggi. Ma non è questo il punto che volevo ora trattare (e mi interessa anche poco).
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Rivoluzione in occidente e vincolo europeo
Riflessioni a margine di Sovranità o barbarie di Fazi e Mitchell
di Domenico Moro
Recentemente è uscito in libreria Sovranità o barbarie di Thomas Fazi e William Mitchell (Meltemi editore, euro 20, pp. 315). Si tratta di un testo che raccomandiamo a chi sia interessato non solo ai temi dell’Europa, ma anche alla ricostruzione di una sinistra adeguata alla realtà attuale. A differenza della maggioranza dei testi sull’euro e sulla Ue, Sovranità o barbarie non parla solo di economia o soltanto di diritto e istituzioni europei. La riflessione che vi viene svolta è interdisciplinare, offrendo una articolata sintesi delle implicazioni dell’integrazione europea, oltre che per l’economia, per lo Stato e le sue istituzioni, per i concetti di nazione e identità nazionale e soprattutto per la democrazia. Di semplice lettura, grazie a una prosa scorrevole e molto chiara, è un testo, però, mai banale, che guida il lettore attraverso un intreccio di questioni complesse e controverse, che riguardano il “che fare”. Per questo, Sovranità o barbarie è soprattutto un libro politico, nel senso più ampio del termine, e va letto a più livelli, che, anche se a volte implicitamente, investono tre questioni principali:
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La descrizione dei meccanismi e le implicazioni su economia e politica dell’integrazione europea, coniugate alla critica al sovra-nazionalismo legato alla mondializzazione;
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La critica dell’atteggiamento della sinistra europea degli ultimi trenta o quaranta anni rispetto alla mondializzazione e all’integrazione europea;
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La questione della definizione di una politica di sinistra efficace nei Paesi avanzati, ossia le specificità di quella che Gramsci chiamava la “Rivoluzione in Occidente”.
Oggettivamente, “Sovranità o barbarie”, partendo dalla questione europea, va a investire la questione più complessiva di quale sia, in Europa, la politica da adottare da parte delle classi subalterne e del lavoro salariato su un piano strategico, a fronte a una delle maggiori sconfitte storiche della sinistra.
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La scoperta del plusvalore relativo
di Maria Turchetto*
Abstract: We analyze the Chapter 10 of Capital’s Volume I «The Concept of Relative Surplus-value» highlighting come important concepts: 1) the industrial and mass character of production as consequences of the relative surplus-value; 2) extra-profits and dissemination of innovations; 3) the combined operation of absolute and relative surplus-value
1. Tra la terza e la quarta sezione
Il cap. 10 del Libro I del Capitale definisce il concetto di «plusvalore relativo», ponendosi tra la terza sezione, dedicata a La produzione del plusvalore assoluto (capp. 5-9) e la quarta sezione, dedicata appunto a La produzione del plusvalore relativo (capp. 10-13). Queste sezioni rappresentano il cuore del Libro I, il nucleo essenziale della rivoluzione scientifica prodotta da Marx.
La terza sezione ci ha condotti «nel segreto laboratorio della produzione sulla cui soglia sta scritto No admittance except on business» (Marx 1975, 212), dove finalmente si svela l’arcano della produzione di plusvalore, rimasto inaccessibile all’analisi degli economisti classici. Com’è noto, la distinzione cruciale introdotta da Marx è quella tra forza-lavoro, oggetto di acquisto nella sfera della circolazione al suo valore di scambio, e lavoro, ossia uso della forza-lavoro nel «processo di produzione immediato». Il processo di produzione immediato, indagato cioè «allo stato puro […] facendo astrazione da tutti i fenomeni che nascondono il giuoco interno del suo meccanismo» e in particolare dal «movimento mediatore della circolazione» (Marx 1975, 694), oggetto dell’intero Libro I (cfr. Marx 1975, 7), rappresenta, come scrive Louis Althusser (2006, 21), l’«enorme svista» degli economisti classici, la zona d’ombra che impedisce loro di riconoscere lo sfruttamento capitalistico. Non si tratta, ovviamente, come Althusser (2006, 21) sottolinea con grande efficacia, di non cogliere un dato, qualcosa che «tuttavia era sotto gli occhi, […] a portata di mano». Si tratta di un più delicato problema di costruzione dell’oggetto scientifico o del campo di indagine.
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Con i gilet gialli: contro la rappresentanza, per la democrazia
di Pierre Dardot e Christian Laval
Abbiamo tradotto un contributo sui gilet gialli scritto dal filosofo Pierre Dardot e dal sociologo Christian Laval per il portale d’informazione indipendente francese Mediapart. Lo scritto è del 12 dicembre scorso, ma rimane di indubbia attualità politica proprio alla luce della continuità di eventi insurrezionali e dell’evoluzione organizzativa dei gilet gialli avutasi nell’ultimo mese
Raramente nella storia un Presidente della Repubblica è stato così odiato come lo è oggi Emmanuel Macron. Il suo solenne discorso televisivo del 10 dicembre e le briciole che distribuisce con "compassione" ai più poveri, senza invertire in alcun modo le misure ingiuste che aveva incoraggiato o deciso - prima come consigliere di Hollande, poi come ministro dell'Economia e infine come presidente - non cambieranno questo dato di fatto.
La spiegazione di questo rifiuto massiccio è ben nota: il disprezzo di classe che ha dimostrato, sia nelle azioni che nelle parole, gli viene restituito con violenza, con tutta la forza di una popolazione arrabbiata, e non c'è nulla di più meritato. Con la sollevazione sociale dei gilet gialli, il velo si è strappato, almeno per un po'. Il "nuovo mondo" è quello vecchio in peggio: questo è il messaggio principale inviato da chi dallo scorso novembre indossa il gilet giallo.
Nel 2017, Macron e il suo partito-azienda «En marche» hanno sfruttato il profondo odio della classe operaia e della classe media nei confronti dei governanti che fino ad allora avevano solo peggiorato la loro situazione lavorativa e di vita per imporsi contro ogni aspettativa nella corsa alla presidenza. In questa scalata istituzionale, Macron non ha esitato a utilizzare cinicamente il registro populista del dégagisme e di una finta “verginità” politica per vincere, lui che non è mai stato nient’altro che il «candidato dell'oligarchia», in particolare di quella corporazione élitaria che fa capo all'ispettorato finanziario[1].
L’operazione è stata grezza, ma ha funzionato per difetto. Ha vinto, con idee minoritarie, con un doppio voto di rifiuto, al primo turno dei partiti neoliberali-autoritari (i partiti gemelli Socialista e dei Repubblicani) e al secondo turno della candidata del partito neofascista francese.
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Nei Quaderni filosofici di Lenin: lo studio della Logica e la lettura del proprio tempo
di Emiliano Alessandroni
Abstract. In the 50s and 60s of the twentieth century, Lucio Colletti developed a requisition against Hegel and against those elements of his philosophy that had penetrated into Marxism. The main thesis is simple and clear: the more Marxism is contaminated with Hegelism the more it loses scientific consistency. This thesis ends up investing the judgment on the work of Lenin too. The essay in question will show the opposite: the concepts that the Russian revolutionary will find in Hegel’s Logic provide him the tools usefull to avoid the ideological deviations of his time and to identify the theoretical errors committed by Trotsky and the exponents of the Second International, both prisoners of the abstract intellect and of mechanistic ways of thinking. This judgment also belonged to Gramsci, who was not by chance a reader and a profound admirer of Hegel. Both Gramsci and Lenin often accuse Trotsky and the Second Internationalists of not having been able to internalize the dialectical logic, with very serious and dangerous political repercussions
Nel corso degli anni ‘50 e ‘60 del Novecento, collocandosi lungo la scia tracciata da Galvano Della Volpe, Lucio Colletti sviluppa in Italia una requisitoria contro Hegel e segnatamente contro quegli elementi della filosofia hegeliana che, in modo più o meno volontario, erano penetrati all’interno del marxismo, inficiandone, a suo avviso, la consistenza scientifica. Tre i vizi speculativi tramandati, secondo lo studioso italiano, dalla Scienza della logica e dalla Fenomenologia dello Spirito: 1) l’assorbimento del quadro storico nel quadro ontologico, vale a dire il complessivo disinteresse verso la «molteplicità del reale», portata a vanificarsi entro «una genericità o un’idea che non rimanda né si riferisce a questo o a quell’aspetto del reale, ma si presenta al contrario essa stessa come la sola e intera realtà»1; 2) lo «scambio», per usare la terminologia aristotelica, «del genere con la specie»2; 3) la tendenza a cedere reiteratamente alle lusinghe delle «ipostasi», categorie incapaci «di servire come ipotesi e criteri per l’esperienza» in quanto non desunte da scrupolose osservazioni dell’Oggetto, ma apparse come «un’introduzione surrettizia di contenuti immediati, non controllati»3.
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Cosa sta succedendo
di Guido Ortona
I sostenitori di politiche sbagliate non sono quasi mai in mala fede. Prima di proporle riescono quasi sempre a convincere sé stessi che sono giuste (U.D.)
1. In breve. Che la terra sia sferica è ovvio per chiunque la guardi dallo spazio, ma non lo è per chi si trova al livello del suolo. Analogamente, quello che sta capitando oggi in Italia sembra molto confuso se si segue la cronaca politica mentre diventa più chiaro se si usa una prospettiva storica. Se adottiamo questa ottica scopriamo che ciò che sta capitando è un fenomeno non nuovo, e non nuove sono alcune caratteristiche che ne conseguono.
In breve: l’Italia è al centro di un processo di annessione a uno stato più forte, la nascente Europa a egemonia tedesca, come area debole destinata a essere colonizzata. E’ possibile che la nascente Europa dei padroni esploda nella culla per eccesso di ingordigia, come la rana della favola. Ma è meglio non farci troppo affidamento. Se ciò non avviene, il destino dell’Italia sarà analogo a quello dell’Italia meridionale nei confronti di quella settentrionale o degli Stati Confederati americani a seguito della guerra civile, vale a dire la condanna al sottosviluppo (rispetto alle aree forti), a seguito della subordinazione a leggi e istituzioni proprie degli stati vincitori e non solo inadatte a quelli subordinati, ma tali in molti casi da propiziare il loro sfruttamento. Con tutto ciò che ne è conseguito; in particolare la cooptazione delle classi dominanti delle aree subordinate nel sistema di potere di quelle vincitrici, e la subornazione culturale delle aree subordinate. Forse siamo ancora in grado di impedire tutto ciò. Vediamo più in dettaglio.
2. Leggi e istituzioni inapplicabili. Le norme europee prevedono che l’Italia sottragga ogni anno circa 50-70 miliardi alla sua economia per pagare interessi sul debito, somme che vengono investite quasi interamente in altri paesi, data la libera circolazione dei capitali. La libera circolazione di capitali è presentata come una norma sensata, progressiva e tale da massimizzare l’efficienza dell’economia mondiale.
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Dal Niger al Sudan, l’Africa nella morsa dell’ipocrisia clericosinistra
di Fulvio Grimaldi
Due settimane davanti a Malta. Sarebbero bastate per sbarcare a Calais, Dover o Amburgo
Grande dibattito e grande esplosione di hate speech, discorsi dell’odio, rancore, invidia sociale (quelli che venivano attribuiti agli italiani che hanno votato questo governo) da parte dell’unanimismo politico-mediatico globalista e antisovranità, sul decreto sicurezza. Hate speech ulteriormente animati dalle due navi di Ong tedesche che girano per il Mediterraneo meridionale. Ong tedesche, vale a dire di quel paese e appoggiate da quel governo (oltreché da George Soros) che, dopo aver raso al suolo la culla della nostra civiltà (nuovamente barbari, alla faccia di Goethe, Bach, Duerer e Schopenhauer), si sono fatti giustizieri, insieme ai francesi e ai burattini di Bruxelles, del timido tentativo italiano di invertire il flusso della ricchezza perennemente dal basso verso l’alto.
Navi tedesche, mi viene da riflettere, che nel corso dei 18 giorni in cui andavano lacrimando su mari in tempesta e migranti, secondo l’immaginifico manifesto “in condizioni disperate” (benché rifornite da Malta di tutto il necessario…), tra Malta e Lampedusa, avrebbero potuto raggiungere, che so, New York, o magari Amburgo, visto che così tante città tedesche si erano dichiarate disposte ad ospitare i profughi. O Rotterdam, visto che è olandese la bandiera della Sea Eye. Non vi pare?
Posto che l’unica cosa buona fatta dal socio neoliberista e ultradestro della maggioranza di governo è stato mettere l’opinione pubblica di fronte al ricatto dell’Europa nei confronti dei paesi rivieraschi del Sud – o mangiate la minestra della destabilizzazione sociale ed economica di un’immigrazione incontrollata, o vi buttiamo dalla finestra -, posto che strumento di questo ricatto è la società anonima creata dal colonialismo tra multinazionali predatrici, trafficanti, Ong, santi peroratori dell’accoglienza senza se e senza ma, per sottrarsi a tale ricatto ritengo il decreto sicurezza del, per altri versi detestabile, fiduciario dei padroni, il minimo indispensabile per salvare una serie di paesi destinati al macero.
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La chimera del capitalismo di pieno impiego
di Roberto Lampa*
Non saranno le “cassette degli attrezzi” di questo o quell’economista a risolvere il problema della disoccupazione perché non si tratta di un problema tecnico ma di una questione meramente politica
Come è stato possibile continuare per anni a imporre politiche economiche di flessibilizzazione e precarizzazione lavorativa, cioè misure incoerenti sul piano teorico e non corroborate da risultati pratici?
Per quanto riguarda la teoria economica, spesso tirata in ballo per giustificare la fondatezza e l’ineluttabilità delle famigerate “riforme” o “jobs act”, Davide Villani ha richiamato efficacemente, su queste pagine, la controversia sul capitale e la cristallina dimostrazione della fallacia del principio di sostituzione fattoriale tra capitale e lavoro, pietra angolare della quasi-totalità delle pubblicazioni mainstream in materia. Teresa Battista ha poi aggiunto un importante tassello a questa premessa, ricordandoci come anche l’evidenza empirica smentisca categoricamente l’esistenza di una qualsivoglia correlazione tra processi di flessibilizzazione del mercato del lavoro e livello di occupazione, trattandosi invece dell’istituzionalizzazione dei rapporti di forza tra capitale e lavoro.
Alla luce di questi contributi, quella posta all’inizio appare quindi come una domanda cruciale, a cui però il sapere tecnico non è in grado di fornire una risposta. Curioso paradosso, in un’epoca nella quale gli economisti si ergono a depositari della verità assoluta, tanto da arrivare a tacciare di negazionismo economico chiunque osi sfidare le rigide implicazioni di politica economica che discendono dalla teoria economica.
Per poter delineare una risposta è dunque indispensabile uscire dagli schemi abituali e partire da un’importante constatazione. La teoria economica attuale – sia nella sua versione dominante che in quella “eterodossa” – assume come dato esogeno un elemento di cruciale importanza: l’esistenza di un sistema capitalista.
In un certo senso, si può perfino affermare che mai come oggi sia accettato acriticamente (e trasversalmente alle scuole economiche) il famoso aforisma di Milton Friedman secondo cui «non esistono l’economia ortodossa e quella eterodossa, ma solo l’economia buona e quella cattiva».
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La lezione dimenticata di Federico Caffè
di Michelangelo Morelli
Definire Federico Caffè un semplice economista significa banalizzare molti aspetti che contribuiscono a renderlo uno dei personaggi più interessanti del Novecento repubblicano del nostro Paese. Alfiere del pensiero keynesiano e del welfare state, antifascista e attento osservatore della società italiana, Caffè è stato un intellettuale poliedrico ed enciclopedico, capace di ragionar d’economia cogliendo le implicazioni umane, sociali e culturali essenziali per la costruzione di una società fondata sul benessere degli individui.
Federico Caffè nacque il 6 gennaio 1914 a Castellammare Adriatico (Pescara), secondogenito di una famiglia economicamente modesta: il padre Vincenzo era un ferroviere, mentre la madre Erminia integrava il magro bilancio famigliare dirigendo un piccolo laboratorio di ricamo. Caffè rimase sempre molto legato alla madre, ereditando da essa la passione per la cultura letteraria, musicale ed estetica che caratterizzò l’eclettica personalità dell’economista per tutta la vita.
Diplomatosi a pieni voti presso l’Istituto Tecnico Tito Acerbo a Castellammare (riunificata con Pescara nel 1926), Caffè si trasferì a Roma da una cugina per frequentare gli studi universitari presso la facoltà di Economia e Commercio della Sapienza. La frequentazione dell’ateneo romano fu possibile grazie alla madre Erminia, che per raccogliere il denaro necessario vendette un piccolo podere di cui era proprietaria, riacquistato in seguito dallo stesso Caffè.
Caffè si laureò cum laude nell’ateneo romano il 17 novembre 1936 con una tesi intitolata L’azione dello Stato considerata nei suoi strumenti finanziari nell’ordinamento autarchico dell’economia italiana, discussa col Professor Guglielmo Masci, suo maestro assieme a Gustavo Del Vecchio. Il tema della tesi è emblematico di quell’attenzione per il ruolo dell’amministrazione centrale nella vita economica che caratterizzò il percorso intellettuale e professionale dell’economista pescarese.
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La Tirannia del Tempo: la critica immanente di Moishe Postone
di Avery Minnelli
Sono dell'opinione che non esista una cosa che possa assomigliare ad una lettura "neutrale" o "obiettiva" di un testo o di un pensatore politico [*1]. Se una lettura si presenta in tal modo, è molto probabile che dietro ad essa si nasconde quello che è un appello all'autorità (per esempio: «Bene, su questo Lenin è ovviamente d'accordo con me, e Lenin aveva ragione, perciò, ipso facto, io ho ragione»). È stato con la consapevolezza che le interpretazioni sono necessariamente selettive ed intenzionali, che mi sono accostata con la mente aperta al libro di Moishe Postone, "Time, Labor, and Social Domination: A Reinterpretation of Marx’s Critical Theory" (1993) [Il libro, in lingua inglese, può essere liberamente scaricato/e letto cliccando qui] - che da qui in avanti chiamerò TLSD. È per me di primario interesse il fatto che mi possa essere utile il punto di vista dell'interpretazione di Postone in quanto tale, piuttosto che sapere quanto essa possa riflettere da vicino il punto di vista di Marx.
Moishe Postone (1942-2018), è stato spinto a scrivere TLSD dopo aver svolto un approfondito studio dei Grundrisse di Marx. Postone riteneva che la struttura libera di quel testo potesse fornire uno sguardo che avrebbe permesso di visionare il pensiero di Marx, che nei tre volumi del Capitale era stato più dissimulato. Gli argomenti di Postone si basano principalmente sia sui Grundrisse che su Il Capitale; fa ben pochi riferimenti alle opere politiche di Marx, e nel testo Engels è quasi del tutto assente [*2]. In TLSD, Postone imposta il suo progetto come una reinterpretazione di Marx, ponendola in contraddizione con quella che Postone stesso ha definito «Marxismo tradizionale», che egli riteneva non fosse in grado di spiegare quelli che erano stati gli sviluppi avvenuti nel capitalismo post-liberale nel XX secolo.
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Marxismo e questione nazionale
di Sabato Danzilli
La disputa tra comunisti e nazionalisti nella Germania anni Venti nel nuovo libro di Stefano Azzarà
Il panorama politico degli ultimi tempi sembra essere dominato dallo scontro tra i sostenitori acritici dell’integrazione europea e i “sovranisti” euroscettici. Si tratta di una contrapposizione che si rivela fittizia e del tutto interna a fazioni della classe dominante. Essa tuttavia ha coinvolto anche la cosiddetta sinistra di classe, che si dimostra incapace nel suo elemento maggioritario di sfuggire dal fare codismo all’una o all’altra posizione. Il fronte di chi invoca una supposta maggiore sovranità e democrazia, possibile solo sul terreno dello Stato-nazione, si allarga infatti sempre di più, e aumenta il numero di chi propone un’alleanza che vada oltre la destra e la sinistra, in nome di un comune interesse nazionale, contro il neoliberismo e il capitalismo finanziario dell’alta borghesia cosmopolita.
Il libro di Stefano G. Azzarà, Comunisti, fascisti e questione nazionale. Germania 1923: fronte rossobruno o guerra d’egemonia?[1], uscito di recente per i tipi Mimesis, giunge a fare chiarezza sui rapporti tra marxismo e questione nazionale in un momento in cui il dibattito su questi temi è particolarmente vivace. Azzarà affronta il problema da un punto di vista storico, confrontandosi con una situazione che presenta forti parallelismi con l’attualità e che, più di altre, può dunque fornire chiavi di lettura per un’analisi più consapevole della fase storica presente. Come esplicitato dal sottotitolo, il momento storico considerato è quello della Germania dei primi anni Venti. L’occupazione francese della Ruhr in rappresaglia ai ritardi nei pagamenti delle riparazioni di guerra da parte tedesca e la debole “resistenza passiva” del governo guidato da Cuno rendeva urgente la riflessione sulla reale indipendenza del paese. Nella prima parte del volume l’Autore esamina nel dettaglio la polemica del 1923 tra i comunisti e i gruppi neonazionalisti. Essa era seguita a un ricordo di Leo Schlageter, un militante nazionalista tedesco ucciso dai soldati francesi, che Karl Radek aveva fatto in un discorso pronunciato a una seduta dell’esecutivo dell’Internazionale Comunista.
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Liberalismo, Democrazia, Sovranità
Moreno Pasquinelli intervista Alessandro Somma
Alétheia si confronta con il noto professore di Diritto Comparato autore di “Sovranismi”
Alessandro Somma è stimato professore ordinario di Diritto comparato all’Università di Ferrara. Per DeriveApprodi ha appena pubblicato il saggio Sovranismi. Stato, popolo e conflitto sociale. Si tratta di un testo ad alta densità teorica che, dopo aver ricostruito il dibattito filosofico e politico sul concetto di sovranità, giunge sino alla nascita degli Stati costituzionali di diritto, quindi all’oggi. Somma considera che la Costituzione della Repubblica italiana rappresenta uno dei momenti più alti del costituzionalismo moderno, poiché i suoi capisaldi sono la democrazia economica e l’eguaglianza sostanziale. Proprio per questo, essa è fatta oggetto di un’aggressiva decostruzione da parte delle forze neoliberiste. Va dunque difesa, non per un mero ritorno al già stato, ma poiché sulle sue basi è di nuovo possibile immaginare un’alternativa all’ordine sociale e politico esistente.
Alétheia ha intervistato Somma, intanto per rendere esplicito ciò che sembra implicito in Sovranismi, poi per comprendere quale sia il suo giudizio sul delicato momento politico che attraversa il nostro Paese.
* * * *
La Costituzione del ’48 è in assoluto la protagonista del tuo libro. Sembra di capire che tu ritenga che contiene il punto geometrico di equilibrio tra democrazia e capitalismo, altrimenti destinati a confliggere. Davvero possono coabitare capitalismo e democrazia?
Penso che la Costituzione individui un punto di equilibrio ottimale tra capitalismo e democrazia, ma penso anche che si tratti di un equilibrio assolutamente instabile: destinato a essere messo in crisi e a produrre il superamento del capitalismo o quello della democrazia. Sul finire dei ’30 gloriosi si sono intrapresi passi significativi nella prima direzione, tanto che poi si è subito imposta la seconda, significativamente descritta in termini di ritorno alla normalità capitalistica.
Restiamo alla Costituzione. Tu ritieni che la Carta sia un risultato avanzato di quello che definisci “Stato (costituzionale) di diritto” dal momento che respinge l’idea liberista del “mercato autoregolato” e contiene invece impliciti i concetti di “democrazia economica” e di “democrazia sostanziale”. Cosa intendi per “democrazia economica” e “democrazia sostanziale”?
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