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consecutiorerum

Tempo di lavoro e salario

di Carla Filosa*

Abstract: The aim of this article is to clarify the meaning of «wage» and «labour-power» concepts, according to Marxian analysis. The feature of the labour-process as human action aimed at the production of use-values is first highlighted. It is the everlasting nature-imposed condition of human existence. Indeed, the process of creating surplus value is nothing but the continuation of the boundless producing value process. Thus, the prolongation of the working-day beyonds the limits of the natural day – encroaching on all life’s time – has mainly the purpose of realizing increasing surplus value in the labour-power consumpition (i.e. during the commodities production). The “mistery” of poverty – nowadays contended as an enemy – is principally due to a generally known law that the longer the working days the lower the wages are. Indeed, the reproduction of labour-power mass as over-population is the mandatory outcome of the capitalist accumulation general law. Current migration flows show that the existence of huge quantity of (unemployed) human being is a precious disposable reserve army, independently than the limits of the actual increase of population, as a mass of human material always available to be exploited. This paper will deeply discuss about these issues, remarking also the existing differences between wage and (basic) income as well as the different typologies of wage (material, real, relative and nominal). Finally, the strict connection between wage, labour-power value and surplus value, will be validated

steve johnson 1124714 unsplash 300x2061. Forza-lavoro al tempo del salario

Il concetto di «salario» è stato deliberatamente rimosso attraverso la stessa rarefazione del termine. Molti giovani del III millennio non ne hanno mai sentito parlare, e ricevono, per loro semplicemente, «denaro» – ovvero una «paga» (wage) – in cambio di lavoro, meglio “lavoretto” o “job” (posto di lavoro, incarico, compito) normalizzato, anche senza neppure un contratto, senza mansionario o orario, senza assunzione, senza neppure percepire, né sospettare di dover conoscere, quanto altro tempo di vita viene loro richiesto per ottenere quel compenso magari nemmeno pattuito, ma solo forzosamente accettato. Altri, giovani e non, sono costretti a erogare lavoro gratuito nella speranza di ottenerne uno retribuito in una prospettiva non definibile, ma ignorano di costituire, in diverse fasi, quella quota oscillante dell’«esercito di riserva» di cui Marx analizzò, già quasi due secoli fa, la necessità vitale per il sistema di capitale.

Altri ancora, formalmente calcolati come occupati e per lo più stranieri, sono soggetti ai sistemi di caporalato con lavori stagionali, saltuari, intermittenti o a tempo parziale, se non proprio scomparsi dalle statistiche nel lavoro in nero, in base a cui la remunerazione dovuta evapora tra le mani dei mediatori e l’arbitrio padronale – insindacabile e quasi mai controllabile nella consueta elusione delle legislazioni vigenti – nel conteggio delle ore lavorate e nella quantità del denaro spettante. Il furto di lavoro, nella civiltà degli eguali su carta, riporta tutti nel passato della storia ove la disuguaglianza tra le classi era la norma e il lavoro era egualmente disprezzato nella forma svilita della schiavitù o della servitù. Se il capitale, cioè, non ha inventato lo sfruttamento lavorativo o pluslavoro, – ma solo il plusvalore poiché esso implica il valore – continua però a servirsene in quest’ultima forma, nella dicotomia salariata tra uso complementare sotterraneo a quello legalizzato e sua negazione giuridica e ideologica.

Scientificamente rispondente all’aumento della composizione organica del capitale, e risparmio di capitale variabile, la persistenza nei nostri tempi di questa realtà mondiale ha avuto la possibilità di sviluppare, ormai senza ostacoli, un assoluto comando sul lavoro nella procurata disgregazione, atomizzazione e perdita coscienziale di chi è sempre costretto a vivere nella dipendenza di datori di lavoro casuali o transitori. L’incremento della cosiddetta disoccupazione, legata anche al lavoro umano sempre più subordinato o affiancato all’uso di macchine o robot (dalla parola slava robota = lavoro pesante, o rabota = servo) richiede, o comunque legittima, uno sforzo di chiarificazione in direzione di un’analisi relativa ai meccanismi di questo sistema. Il salario, infatti, è di questo una parte fondante e non può essere schiacciato su un presente insignificante nella sua apparente empiria, ma deve essere riconoscibile alla luce di categorie teoriche tratte dal reale. I nostri tempi sono inoltre caratterizzati da un lungo periodo di crisi irresolubile, da parte di questo sistema in fuga continua dalle proprie ineliminabili contraddizioni, il cui risultato è la combinazione sociale dell’accumulazione in recessione da un lato e la perdita progressiva dei diritti civili dall’altro. Se infatti alle contraddizioni si corre al riparo con i soliti mezzi di contrasto (espulsione di lavoro vivo, riduzione e conversione produttiva, accordi commerciali favorevoli o bilaterali, protezionismo, qualora permanga il formale multilateralismo, guerre per interposta persona, ecc.), alla eliminazione programmatica dei diritti collettivi concorre favorevolmente l’attuale e non proprio casuale migrazione mondiale, sulla cui apparente accidentalità e fondata importanza si dirà più avanti.

Occorre a questo proposito tornare all’analisi di Marx nel Capitale. Per necessità saranno presupposti alcuni concetti basilari al fine di articolare convenientemente quelli qui in questione, con la premessa che si inizierà con l’astrazione delle forme di questo sistema nonché con l’individuazione dei relativi contenuti specifici, e infine con la sua temporalità storica passata o presente. L’unità dialettica capitale-lavoro si coglie entro l’altra unità dialettica di produzione e circolazione, «il processo ciclico del capitale è dunque unità di produzione e circolazione, esso include ambedue» (Marx 1970b, II, I, 64). Ciò significa che la realtà che contiene in sé la dualità consta di determinazioni distinte poste, cioè non immediate, ma che si mediano l’un l’altra acquistando così il senso della vera propria funzionalità: l’una non sussiste indipendentemente dall’altra. «Il movimento mediatore scompare nel proprio risultato senza lasciar traccia» (Marx 1970b, I, II, 107), ed è ciò che farà dire a Marx, rispetto alla forma del lavoro «alienato» (pur attraverso le sue mutazioni), che può continuare a sottomettere transitoriamente la potenzialità del pluslavoro universale. Per questa ragione «il capitale come posizione del pluslavoro è altresì e nello stesso momento un porre e un non porre il lavoro necessario; esso è solo in quanto questo è e nello stesso tempo non è» (Marx 1970a, Q. 4, F. 15). «L’unico valore d’uso che può formare un’antitesi e un’integrazione al denaro come capitale è il lavoro, e questo esiste nella capacità di lavoro come soggetto. Il denaro esiste come capitale soltanto in riferimento al non-capitale, alla negazione del capitale, in relazione alla quale soltanto esso è capitale. Il reale noncapitale è il lavoro stesso» (Marx 1977, 17). La circolazione, quindi, è e non è il luogo della realizzazione del plusvalore in quanto specifica del capitale e veicolo del valore già prodotto; la si vede apparire come ultima fase nella formula D-M-D’, in cui il denaro D (o capitale monetario, ancora potenziale rispetto alla sua trasformazione in capitale) acquista merci M per rivenderle secondo un vantaggio tale per cui D’> D. «Il nostro possessore di denaro, che ancora esiste come bruco di capitalista, deve comperare le merci al loro valore, eppure alla fine del processo deve trarne più valore di quanto ve ne abbia immesso. Il suo evolversi in farfalla deve avvenire entro la sfera della circolazione e non deve avvenire entro la sfera della circolazione…. Hic Rhodus, hic salta!» (Marx 1970b, I, I, 4, 183).

Se D’ non fosse maggiore di D si tratterebbe di «un assurdo» – affermerà Marx – in quanto non ci sarebbe ragione nella compravendita, con i rischi che comporta l’affidamento alla circolazione del denaro investito, e potrebbe al più trattarsi di un semplice baratto! Il processo di scambio di denaro contro merce è finalizzato a realizzare quel solo D’, non più denaro perché ormai metamorfosato in capitale, quale unico fine intrinseco del processo, consistente proprio in quella che viene chiamata autovalorizzazione, o investimento produttivo. Antitetica a quest’analisi – quale esempio di famose teorie liberali postume – la considerazione di J.M. Keynes secondo cui, riprendendo dall’oscuro economista americano Harlan McCracken e dall’altrettanto oscuro capitano maggiore dei corpi ausiliari dell’aeronautica britannica Clifford Hugh Douglas, si afferma che «al contrario di Marx, vittima del plusvalore, D’-D sia a volte positivo e a volte negativo, ma in media nullo».

Marx fece una pregnante osservazione: la tendenza degli affari è il caso D-M-D’. Ma il susseguente uso che ne fece fu altamente illogico. L’eccedenza di D’ su D è l’origine del plusvalore, per Marx e per coloro che credono nel carattere necessario dello sfruttamento per il sistema capitalistico. Mentre coloro che credono nella sua interna tendenza alla deflazione e alla sottoccupazione sostengono l’inevitabile eccedenza di D. (Keynes 1971-1979, vol. XXIX, 81-83)

La verità intermedia, per Keynes, è che il continuo eccesso di D’ sarebbe interrotto da periodi durante i quali, presumibilmente, D deve essere in eccesso. Keynes stesso ritiene allora che la sua eclettica argomentazione serva a una «riconciliazione» tra le due tendenze: quella di Marx da un lato e quella di Douglas dall’altro!

Per vedere chiaro su ciò che sembra essere un mistero («arcano» lo definirà Marx) sulla vera natura del profitto, bisogna scomporre innanzi tutto le due fasi dell’acquisto (D-M) e della vendita (M-D’), oltre a individuare le necessarie componenti di M in Pm (o materie prime e mezzi di produzione) e L (forza-lavoro). Chi possiede denaro per un investimento produttivo acquista, e quindi possiede, mezzi di produzione che potranno aumentare l’investimento iniziale mediante la loro attivazione e trasformazione da parte di una forza-lavoro, comprata sullo specifico mercato del lavoro e al pari di qualsiasi altra merce, da utilizzare nel modo più vantaggioso. L’attenzione alla differenza qualitativa e quantitativa di Pm e L qui interessa soprattutto per il mercato ove L viene comprata, mercato costituito da soggetti liberi (nel senso sia da mezzi di produzione, sia da mezzi di sostentamento) giuridicamente e formalmente di vendere l’unica merce posseduta, la propria forza-lavoro pagabile nella forma di salario. Questa merce infatti acquista valore solo se venduta, secondo però le condizioni salariali imposte dal compratore, nella finzione dell’uguaglianza giuridica della compravendita, che prevede volontà libere e paritarie nella stipula dei contratti. L’avvenuta separazione di questa forza-lavoro dai mezzi di produzione e dalla propria sussistenza è stata determinata da processi storici qui ovviamente presupposti, dai quali il sistema di capitale non avrebbe mai potuto prescindere per la sua affermazione storica.

Il salario nasce quindi come quota predisposta, o «quantità determinata di lavoro oggettivato (morto) quindi una grandezza di valore costante» da un certo capitale (si intenda non solo come singolo, ma soprattutto come pluralità al suo interno in costante movimento di attrazione e repulsione) per remunerare una certa quantità di forza-lavoro da acquistare, alla condizione però che quest’ultima realizzi una produzione di valore eccedente quella necessaria al suo fabbisogno. Tale eccedenza, o plusvalore realizzato da lavoro erogato e non pagato, è infatti la condizione in mancanza della quale non si accede al salario, che rappresenta quindi solo la quantità necessaria alla riproduzione della propria vita, sottratta a tutto il valore realizzato. Ciò significa che la forza-lavoro non possiede mai le condizioni oggettive per vivere, sopravvivere o conservarsi quella dignità, peraltro sempre rivendicata da tutti i lavoratori, consistente nel poter mantenere sé stessi e i propri familiari. Una volta comprata come valore di scambio, ad un prezzo così prefissato, la forza-lavoro deve poi sottostare al comando del capitale che detiene il diritto di avvalersene in quanto valore d’uso, cioè secondo una modalità variabile e a discrezione, in ragione di un costo sempre inferiore al valore e plusvalore realizzato nel processo lavorativo, che, nel capitale, coincide col processo di valorizzazione. «Al lavoro morto subentra lavoro vivente, a una grandezza statica subentra una grandezza in movimento, al posto di una costante subentra una variabile». Ogni intervento, pertanto, sull’organizzazione del lavoro in termini di intensificazione di ritmi, condensazione delle pause, eliminazione delle porosità dei tempi lavorativi, o sull’introduzione di innovazioni tecnologiche (macchine, robot, ecc.), è volto ad allungare la giornata lavorativa – anche nella formale ma apparente riduzione dell’orario di lavoro – per aumentare la quota di pluslavoro e conseguente restrizione di quella destinata al lavoro necessario, quota che i lavoratori scambieranno con merci per il consumo. Ė per questo che Marx definirà il salario «produttivo» (di plusvalore, o valore gratuito) per il capitalista, e «improduttivo» per il lavoratore, che determina invece la fuoriuscita dalla circolazione del proprio denaro perduto nello scambio per la sussistenza. Infine, nell’aumento del costo delle merci deputate alla riproduzione della forza-lavoro, la cosiddetta inflazione, più o meno pilotata nelle varie fasi del sistema nascosto dietro decreti o leggi governative, comporta che il salario reale diminuisca ancora in capacità d’acquisto, pur mantenendo l’apparenza dello stesso valore nominale.

Il plusvalore inconsapevolmente estorto alla forza-lavoro è pertanto l’arcano svelato della natura di quel D’ (appropriato dal capitale), che rimarrà potenziale nella fase di produzione e realizzabile solo successivamente nel processo di circolazione (M-D’), se i mercati in cui M sarà venduta saranno ancora insaturi, permettendo così alla produzione successiva di reiterarsi con capitale aumentato per incrementare ancora altro plusvalore, e così via per tutti i cicli produttivi in avvenire. Il «valore-capitale dalla sua forma di denaro alla sua forma produttiva, o, più brevemente, trasformazione di capitale monetario in capitale produttivo» (Marx 1970b, II, I, 1, 34). è solo capitale anticipato, in quanto il pagamento effettivo alla forza-lavoro viene fornito solo dopo che questa abbia operato. L’importanza di conoscere l’iter e l’obiettivo della trasformazione del denaro in capitale, nonché del passaggio dalla potenza all’atto nella realizzazione di plusvalore entro l’unità contraddittoria di produzione e circolazione, è data proprio dalla forma salario già presupposta dal lavoratore nella vendita della propria forza-lavoro (L-D) (=M-D), nella forma opposta a quella propria del capitalista che compra con denaro la forza-lavoro mercificata (D-M) (=D-L) per ottenerne capitale. Come in un qualunque scambio relativo alla circolazione semplice (M-D-M), in cui il denaro risulta essere soltanto un mediatore di merci scambiabili, il lavoratore scambierà il suo salario ottenuto dalla vendita della propria forza-lavoro (L-D) (=M-D) con un consumo finale di merci, secondo i bisogni del suo tempo storico (D-M). In altri termini il salario materiale, che in media rappresenta una determinata quantità di mezzi dati di sussistenza, si commisura con ogni aumento di plusvalore estorto dal capitale rispetto ai suoi costi, rendendo così relativo il suo potere d’acquisto. La diminuita capacità sociale di accedere alle merci necessarie allarga in tal modo la forbice con i profitti, che possono lasciare anche immutato il valore del salario reale, o addirittura aumentato, mentre quello relativo è ridotto. Il «prezzo del lavoro» vivo, immediato, si abbassa in rapporto al «prezzo del lavoro» morto, accumulato, o capitale.

La permanenza delle costanti rotazioni di capitale (D-M-D’) si basa quindi sulla utilizzazione della forza-lavoro salariata che permette una etero-valorizzazione. La rapina nascosta di pluslavoro, è la causa quindi materiale, oggettiva dell’antagonismo di classe: all’aumento di D’ corrisponde una diminuzione del salario necessario, o un incremento del carico lavorativo o un’eliminazione di lavoratori dall’accesso al salario. Il plusvalore prodotto in quanto grandezza proporzionale è in rapporto alla sola quantità di capitale variabile stanziato, esprimibile nella formula p (plusvalore)/v (capitale variabile) = tasso di plusvalore altrimenti definibile come tasso di sfruttamento. Infatti il capitale variabile v vale quanto la forza-lavoro acquistata, e dato che questa «determina la parte necessaria della giornata lavorativa, e il plusvalore è determinato a sua volta dalla parte eccedente della giornata lavorativa, ne segue che il plusvalore sta al capitale variabile nello stesso rapporto che il pluslavoro sta al lavoro necessario; cioè il tasso del plusvalore è: p/v = pluslavoro/lavoro necessario. I due rapporti esprimono la stessa relazione in forma differente, l’uno nella forma del lavoro oggettivato, l’altro nella forma del lavoro in movimento» (Marx 1970b, I, III, 7, 237). Questa quantità prodotta, se poi verrà realizzata, andrà a formare il profitto proveniente da quel D’, il cui saggio è però calcolato su tutto il capitale investito, costante e variabile, e che costituisce il fine produttivo entro la continua riproduzione del sistema, di cui i capitalisti sono gli agenti mentre i lavoratori costituiscono il «non-capitale», nella condizione di subordinazione e dipendenza. Il «salario» dunque, o come lo si voglia chiamare mantenendone però fermo il concetto capitalistico, è mistificazione di giusta retribuzione, analogamente al sostegno ideologico che, nella pacatezza ieratica di una religione collusa, veniva raccomandato come la «giusta mercede» da corrispondere ai lavoratori di un tempo. Nel suo concetto innovato e universalizzato dal capitale dunque, il «salario» è nella sostanza soprattutto rapporto coatto di dipendenza sociale, essendosi trovata e riprodotta a dismisura la forza-lavoro «libera», cioè privata di tutto o povera.

 

2. Migrazione ‘privata’

Quest’ultima condizione di privazione aumenta progressivamente, in ragione del continuo sviluppo storico e tecnologico asservito al capitale, in termini di impoverimento sociale assoluto e relativo, che oggi va analizzato non più sul piano di geografie asimmetriche o nazional-statuali, bensì su scala mondiale e soprattutto secondo marginalità differenziate all’interno di ogni Paese. La produzione di miseria, parallela alla produzione di ricchezza privatamente appropriata, non solo non è più contenibile all’interno del fenomeno urbano mondiale denominato, da parte di Ruth Glass nel 1964, «gentrification», ma soprattutto è deflagrata sotto gli occhi di tutti come irrefrenabile migrazione in atto di impoveriti, sia in termini di individui sia di quasi intere popolazioni. Varie letture, o vere e proprie teorie di questo fatto, ne hanno tentato lo studio su motivazioni ed effetti, restando però all’analisi di aspetti peculiari, ancorché corretti, ma limitanti per una comprensione della complessità articolata del contesto «globalizzato» in cui queste si verificano. Per brevità di spazio se ne fa cenno solo a qualcuna a mo’ d’esempio. Quella del «migrante razionale» (D’Acunto e Schettino 2017) propugna l’esistenza di «una spontanea tendenza della ‘mano invisibile’ del mercato ad allocare le risorse in maniera ottimale, spostandole verso aree del globo dove possono essere meglio valorizzate». In altre parole laddove i salari sono più alti si attrarrebbe forza-lavoro e si esporterebbero capitali monetari, da prestito, da investimento o speculativi, e al contrario l’esportazione di manodopera avverrebbe dai paesi a bassi salari interessati invece ad attrarre capitali. L’ottica essenzialmente individualistica di siffatto approccio non dà conto, come cause, dei fattori determinanti quali possano essere le influenze delle comunità originarie o intermedie nei processi decisionali, oppure le incertezze esistenziali dovute a molteplici ragioni (guerre, fame, spoliazioni, malattie, ecc.) cui i migranti tentano di sfuggire. La speranza di vita che anima questi trasferimenti pericolosi potrebbe esprimersi come nei versi rimati del 1593 o 1597: «subdola […] adulatrice parassita/ che fa la morte indietreggiar, la morte/ che scioglierebbe dolcemente i lacci/ dell’esistenza, senza la speranza/ falsa che ne prolunga l’agonia» (Shakespeare 1924, 64). Non a caso è invece proprio sul comune materialistico istinto di sopravvivenza, da millenni trasferito nell’astrazione dei cieli di una provvida virtù teologale, che il capitale punta per succhiare il suo lavoro gratuito entro la domanda di un lavoro purchessia – come il vampiro, dirà Marx – cui forse ne seguirà uno meglio retribuito, non si sa mai quale, né come né per quanto tempo. Infine, per capire quanto la poesia o il sentimento, in quanto espressioni umane, non riguardino affatto la realtà del capitale che va conosciuta per non dolersi continuamente delle sue crudeltà o indifferenze anaffettive, sempre lamentate dai lavoratori di ogni settore produttivo o meno, ancora una volta la chiarezza concettuale è fornita dalle parole di Marx:

Tu mi paghi la forza-lavoro di un giorno, mentre consumi quella di tre giorni. Questo è contro il nostro contratto e contro la legge dello scambio delle merci. Io esigo quindi una giornata lavorativa di lunghezza normale, e lo esigo senza fare appello al tuo cuore, perché in questioni di denaro non si tratta più di sentimento. Tu puoi essere un cittadino modello, forse membro della Lega per l’abolizione della crudeltà verso gli animali, per giunta puoi anche essere in odore di santità, ma la cosa che tu rappresenti di fronte a me non ha cuore che le batta in petto. Quel che sembra che vi palpiti, è il battito del mio proprio cuore. (Marx 1970b, I, 81)

Oltre a fattori di tipo soggettivo o semplicemente meccanicistico, nei flussi migratori studiati non vengono inoltre alla luce processi relativi a un passato anche recente o attuale, oppure che lascino intravvedere prospettive future. I costanti interventi imperialistici sono volti infatti a rendere funzionale, ai mercati finanziari dominanti, una produzione sempre più orientata ad integrazione delle proprie risorse, indispensabili per innovazioni per lo più tecnologiche in corso, o comunque per incrementare l’accaparramento mondiale concorrente per l’egemonia mondiale. Tali interventi sono infatti per lo più responsabili di una vera e propria «espulsione» di individui, da sistemi economici resi inadeguati o alla sussistenza materiale dei propri abitanti, o perché dilaniati da conflitti insanabili fino al conseguimento degli obiettivi imposti. Un’altra analisi sulla migrazione (Pinto 2017, 246), offerta dalla Commissione Europea, sottolinea che «l’ammissione e il soggiorno nell’Unione Europea sono subordinati alla circostanza che essa (forza-lavoro) sia occupabile». L’ingresso e il soggiorno in UE di extra-comunitari, qualificati o meno, si lega così a domande di lavoro che veicolino il diritto di risiedere, ma che siano utili anche, se non proprio richieste perché vantaggiose, a datori di lavoro autoctoni. La distinzione “legale” istituita, che separa gli aventi diritto dai “clandestini”, fornisce in tal modo una forza-lavoro particolarmente appetibile perché ricattabile – pena infatti l’espulsione forzosa – sulla necessità di accettare qualunque condizione lavorativa, per definizione vulnerabile per il bisogno di sostentamento, lo scardinamento familiare e comunitario, l’isolamento culturale, linguistico, politico, ecc. Una condizione cioè particolarmente utile per i capitali d’ogni dimensione nell’arrivo già predisposto di un esercito di riserva non più solo complementare ai lavoratori nazionali, ma assolutamente concorrenziale al proprio interno per effetto della crisi già riversata sul lavoro. L’ostilità nei confronti degli stranieri, non solo dettata da paure ancestrali da parte dei lavoratori nazionali, ma anche politicamente pilotata perché profittevole, ha la sua spiegazione oggettiva nella violazione senza conseguenze dei contratti sia individuali sia collettivi stipulati, oltre alla sostituzione lavorativa discrezionalmente gestita, e favorita dalla procurata assenza di diritti da rivendicare. «La disponibilità di forza lavoro a basso costo rende possibile la compressione dei costi in misura tale da garantire la sopravvivenza degli attuali modelli di specializzazione produttiva» (Pinto 2017, 260). Esplicito quindi il riferimento al cosiddetto lavoro nero, riconosciuto come elemento strutturale degli assetti economici, in cui lo sfruttamento o pluslavoro dei lavoratori è «la montatura che incastona la gemma» (Shakespeare 1924, 34) preziosa – o plusvalore – del capitale, tra l’eternizzata pratica del caporalato e l’apporto giuridico dell’inferiorizzazione civile congiunta all’esternalizzazione legittimata. L’obiettivo di sempre, da parte del capitale, soprattutto nelle sempre più ravvicinate fasi di crisi da sovrapproduzione, è di porre i lavoratori in concorrenza tra di loro: occupati contro disoccupati, impiegati contro operai, uomini contro donne, nazionali contro stranieri, ecc., al fine di scongiurarne l’unità di classe, sempre in agguato nel caso in cui se ne sviluppasse l’esasperazione o la coscienza, difficili se non impossibili da controllare.

La creazione di una sovrappopolazione relativa alle necessità del ciclo produttivo del capitale è completamente visibile – se si è liberi da stereotipi politichesi – nel fenomeno migratorio in qualunque periodo delle varie fasi capitalistiche dei secoli precedenti, ma soprattutto in quello attuale. La crisi di accumulazione che si perpetua pone infatti la necessità spasmodica di trovare forza-lavoro disponibile al momento, o da espellere con analoga facilità senza contrasti (si ricordino, in Italia, le miserabili metafore dei «lacci e lacciuoli» rimproverati ai sindacati, o all’abolizione ultima dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori!), cui ricorrere nell’abbassamento continuo dei costi di produzione, consentito su scala planetaria da una migrazione spontaneamente coatta a implorare il proprio illimitato sfruttamento a sostituzione del diritto alla sopravvivenza. L’indifferenza della maggior parte degli stati – non solo europei – per le sofferenze e le morti di tanti reietti, grandi e piccoli, o ancora nemmeno nati, è infatti il volto coerente di un sistema in grado di apprezzare unicamente una forza-lavoro venduta (unica merce non prodotta dal capitale), laddove l’involucro umano che la produce può essere gettato nei rifiuti, data la sua innumerevole sostituibilità in un mercato di scarti più che saturo. I sentimenti umani di fraternità o solidarietà, che dettano l’aiuto al mantenimento della vita, ove possibile, non hanno infatti cittadinanza nelle leggi del capitale che ne dispongono la vanificazione, ove possibile[1]. Si consideri, per l’appunto, l’attuale e nostrano Decreto Minniti sulla sicurezza delle città, e il Decreto Minniti-Orlando sulla sicurezza internazionale e sul contrasto all’immigrazione illegale. In nome della «sicurezza» proclamata come «diritto» di tutti, la cui necessità viene rafforzata dalle ambigue quanto reali minacce terroristiche, viene a perdersi la priorità concettuale del «rapporto economico» tra chi si arricchisce e chi si impoverisce. Non deve quindi convincere la formale eguaglianza giuridica dello scambio, ma la materialità vivente ed esperita relazione storica e sociale in cui risiede l’antitesi tra salario e capitale, la conflittualità strutturale di classe, emergente solo alla coscienza scientifica. La «sicurezza» della borghesia negli ultimi trent’anni del secolo scorso è consistita nel riproporre come dominante il «comando sul lavoro», in parte smarrito nelle conquiste sindacali degli anni ’68-’70. La stessa borghesia, rinnovata nel III millennio nei suoi agenti attuali, proclama la «sicurezza pubblica», o polizia, legge della società civile concepita questa come il limite tra le libertà uguali e isolate dei suoi individui, tradizionalmente considerati hommes égoistes dalle filosofie liberali e così trasferiti nelle economie liberiste. La «sicurezza» dunque è la riduzione del concetto di «società» a conservazione della proprietà privata e di individui la cui libertà incontra il proprio limite nella libertà altrui, secondo le ben note teorizzazioni filosofiche e politiche settecentesche, agli albori del sistema di capitale. Ancora una volta la società, invece di essere il luogo di sviluppo e crescita degli uomini sociali, è contraddittoriamente rappresentazione ideale dell’armonizzazione di una convivenza fittizia, regolata da leggi che limitano le libertà individuali nell’esercizio pratico della divisione in classi, i cui materiali interessi antitetici devono essere mascherati per non inficiarne l’illusione.

Lo spazio dedicato al fenomeno migratorio sembra necessario non solo per l’attualità politica cogente variamente sviluppata sulla tematica lavorativa, ma perché gli aspetti pro o contro umanitari, buonisti o fautori del respingimento che recentemente hanno colonizzato l’opinione pubblica mediatizzata, ne sviano l’attenzione dalla necessità di leggervi un imperialismo in crisi che aumenta illimitatamente l’abuso della forza-lavoro mondiale. Il concetto di «salario» è pertanto la forma di classe su cui si impernia indirettamente il numero dei circa 5.000 morti nel Mediterraneo, e direttamente l’incremento dei morti sul lavoro[2] e degli infortuni, a fronte del calo dei controlli ispettivi, evidenziando che i dispositivi di sicurezza non riguardano la quota sociale dei salariati. Il rischio della vita che il salario implicitamente di fatto comporta – il numero stimato in Italia, tra le morti dichiarate e non, è di circa 2 o 3 al giorno – è dovuto al risparmio dei costi, alle leggi che impongono una vita lavorativa più lunga, alla mancanza di rispetto delle normative esistenti, al consumo indiscriminato della forza-lavoro oltre la resistenza individuale, ecc., ovvero nella generalità dei casi all’incremento del pluslavoro. L’esposizione ai condizionamenti ideologici di questo sistema irretisce l’autonomia della formazione culturale e coscienziale dei lavoratori, che ancora rimangono imbrigliati nelle fanfare borghesi sulla partecipazione produttiva o agli utili d’impresa sostenuta dall’imprenditoria predatoria organizzata.

 

3. Neo-corporazione

I precedenti storici si possono rintracciare nel concetto di «corporativismo istituzionalizzato» nel periodo fascista in Italia (1925), ripreso ultimamente nelle forme nuoviste della «share economy» o economia partecipativa, in cui imprenditori e operai «collaborano» in quanto egualmente produttivi alla formazione del Pil, e pertanto hanno diritto alla riduzione fiscale a favore delle aziende, identificate con lo stato-nazione. L’incorporazione materiale della forza-lavoro viene effettivamente realizzata, nel processo produttivo, all’interno della sua trasformazione in capitale fisso, quella ideologica o sindacal-politica, però, viene conquistata entro la mistificazione dello scambio. Quest’ultima è quindi l’artefice della sparizione altrimenti oggettiva e strutturale dell’antagonismo di classe, lasciando campo libero ai corifei del capitale – generalmente economisti e sociologi – non solo di gestire in piena libertà e senza ostacoli le condizioni lavorative dei salariati, ma anche di ottenerne la subordinazione e il consenso. Ulteriore conseguenza di tale sparizione sarà la via libera alla criminalizzazione di ogni forma di protesta, nelle ben note forme della riduzione a mantenimento dell’ordine pubblico contro «ogni» violenza, sempre da contrastare come unilaterale dal basso, mentre la persuasività, ormai ampiamente mediatizzata, viene sparsa attraverso l’esecrazione del dissenso solo da «percepire» come «odio» o «invidia», ovviamente da combattere sul piano morale, spesso soccorso da quello religioso. Vanificata così, in termini di conoscenza, la necessità storica e logica del conflitto di classe unicamente fondato sull’interesse antagonistico tra profitti e salari, si sottrae così legittimazione alla lotta della parte dipendente e più debole, lasciando a chi detiene direttamente il potere attraverso lo stato, di continuare la sua lotta di classe mediante il controllo – sebbene non sempre efficiente – parlamentare (con le leggi), della magistratura (con processi e sentenze) e naturalmente nella gestione dell’esecutivo (decreti, ecc.).

La sperimentata concertazione delle «relazioni industriali» anni ’70-’80 ha realizzato l’agognata armonizzazione preventiva delle classi principali, destinatarie di capitali e salari, sul confronto continuo della tematica lavorativa, sulla necessità della flessibilità, della modifica previdenziale, della riorganizzazione del mercato del lavoro, ecc., dando l’impressione della partecipazione alle decisioni politiche nella forma triangolare tra governo, organizzazioni sindacali e imprenditoriali. Questa forma sicuramente più moderna, che da anni chiamiamo ormai neocorporativismo, ha avuto il pregio di occultare la forma del cottimo, o salario a rendimento, oltre alla generalizzazione di un tempo di lavoro dilatabile a piacimento e a volte proprio non quantificabile anche in base alla tecnologia più avanzata, in cui la massa di lavoro erogato e quindi il valore prodotto non permettono più nessun calcolo per un salario tendente a scendere al di sotto del minimo. Indipendentemente dalla differenza qualitativa che separa ogni lavoro concreto dall’altro, è proprio il salario quello che il lavoratore produce per sé, cioè quel denaro destinato ad essere scambiato con mezzi di sussistenza immediati o differiti, qualora una quota di quel denaro venisse risparmiata per acquisti futuri o più onerosi. L’ambiguità con cui l’inganno «partecipativo» si veicola è data dalle trovate di «azionariato popolare», «proprietà diffusa» o addirittura «fine della proprietà», creando confusione tra chi detiene comunque un potere decisionale e chi è interpellato solo per ammorbidire, col dialogo generoso, la rigidità preminente della proprietà occultata. L’ideologia partecipativa si estende fino a realizzare il cottimo generalizzato, in cui la riduzione salariale è assicurata attraverso una busta-paga «tagliata unicamente sul rendimento personalizzato del lavoratore o della “squadra di lavoro” di cui lui fa parte (e non proprio liberamente)» (cfr. Pala 2018, 77), per raggiungere il livello salariale precedente. Il cottimo infatti risulta ancora il più efficace aumento di pluslavoro – sempre autonomamente regolato e rifluito nella moderna organizzazione lavorativa di gruppo realizzata nell’interdipendenza dei vari componenti tesi a fornire il massimo risultato ma nelle modalità falsamente solidaristiche in vista di obiettivi «qualitativi» preventivati – adeguatosi alla forma corporativa rinnovata. Campione indiscusso di questa cottimizzazione forzata è stata l’azienda Toyota negli anni ’80 del secolo scorso, dove fu introdotto il metodo del «miglioramento continuo» (kaizen) nella incessante ricerca di miglioramenti più produttivi, laddove produttività aumentata significava sempre intensificazione lavorativa e condensazione delle pause. Sotto la direzione di Taichi Ohno la fabbrica a 6 zeri (0 stock, 0 difetti, 0 conflitti, 0 tempi morti, 0 tempo d’attesa per il cliente, 0 burocrazia) realizzava così per sé l’agognato risparmio dei costi, con il just in time e con l’autoattivazione o «automazione con un tocco di sensibilità umana». In questa poi si voleva trasferito alla macchina il controllo automatico non come normale perfezionamento di una macchina, ma come esproprio del lavoro umano di progettazione della stessa, proponendo così la possibilità di una intelligenza artificiale autonoma. Il problema aperto di un processo produttivo che avrebbe esonerato gran parte o totalmente il lavoro salariato, sostituito da macchine «intelligenti», poneva la prospettiva, oggi all’ordine del giorno nelle politiche sul lavoro, della «fine del lavoro» e pertanto della fase terminale del rapporto dialettico capitale-lavoro.

Risulta chiaro che quest’ultimo tema richiederebbe ben altro spazio e valutazioni, ma averlo accennato ha lo specifico scopo di attrarre un’attenzione informata capace di critica approfondita nei confronti della pervasiva supremazia ideologica. Ancor oggi, e non si sa fino a quando, si è all’interno dell’unità dialettica capitale-lavoro, e pertanto della non autonomia onnisciente del primo, dotato solo di un enorme aumento della composizione organica per l’incorporazione del lavoro scientifico come capitale fisso al pari delle macchine dotate di autocontrollo o robot di ultima generazione. Impossibilitato a non sviluppare le forze produttive, il capitale sta sfiorando senza soluzione la sua massima contraddizione dalla quale potrebbe andare incontro alla distruzione e suo superamento come modalità produttiva: la progressiva eliminazione dei salariati, cioè il risparmio sempre inseguito del capitale variabile, tendenzialmente minimizza la quota di plusvalore estraibile, che, nella necessaria ripartizione tra capitali, renderebbe inevitabile guerre per l’egemonia assoluta, pertanto il dispotismo, o la trasformazione del sistema in modalità imprevedibili. Per ora si riesce solo a intravvedere tale tendenza, non solo nel perdurare della crisi di capitale, ma anche nelle politiche che tentano di introdurre «redditi di base», di «cittadinanza», di «dignità», ecc., scorporando pertanto la disponibilità di mezzi di sussistenza dal rapporto lavorativo, sebbene se ne mantengano possibili forme di lavoro accessorio, secondo un corredo assistenzialistico o elemosiniere. Il salario rappresenta ancora la relazionalità principale della socialità da cui il reddito, così elargito, resterebbe escluso. Erogato a individui, o gruppi di essi, espropriati della loro connotazione sociale in quanto solo bisognosi, o «sfortunati», il reddito statale proverrebbe dal gettito fiscale ancora una volta ripartito su una salarizzazione già preordinata, cui accollare anche i costi della disoccupazione familiare e sociale in genere, mentre i capitali non sottrarrebbero neanche un centesimo al loro plusvalore.


* Università popolare Antonio Gramsci
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Note
[1] L’espresso, 15.4.’17. Si fa riferimento alle varie elusioni del problema della politica europea oltre ad alcuni tentativi, in questi ultimi anni, di gettare discredito sulle Ong europee (MOAS, Jugend Rettet, Stichting Bootvluctring, Medici senza Frontiere, Save the Children, Proactiva Open Arms, Sea Watch, Sea-Eye, Life Boat) per i salvataggi nel Mediterraneo. Accusate da Frontex, al fine di rafforzare il controllo delle frontiere, di collusione con mafie e scafisti per traghettare clandestini in Europa dietro compensi in denaro, a mo’ di “taxi dei migranti”. Avvenire: 16.4.’18. Dissequestro per decisione della Procura distrettuale di Catania il 27.3.’18 della nave spagnola Proactiva Open Arms, ormeggiata dal 18.3.’18 a Pozzallo, per il rifiuto di consegnare 218 profughi salvati a una motovedetta libica. Huffpost, il Blog di G. Cosentino, 20.4.’18: incriminazioni fino a 5 anni di carcere e 30.000 euro di ammenda a una guida alpina di Chamonix per aver accolto un migrante (salvandogli la vita) che aveva sfidato la route alpine per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina nel passaggio in Francia sulle Alpi. Il reato è definito délit de solidarité seguito dal Disegno di Legge del ministro dell’Interno G. Collomb (autore anche dello sgombero della tendopoli di Calais) riassumibile nella formula “moins de réfugés, plus d’expulsés”, che dà concretezza all’ “humanisme réaliste” di Macron, in attesa del “Prix Nobel de gentillesse sociale” dato il suo “Bienvenus dans le Pays des Droits de l’homme”. Durante la presidenza Macron sono state respinte 85.000 richieste d’asilo su 100.000 presentate all’Office franςais de protection des réfugés et apatrides (Ofpra).
[2]Articolo21, 30.4.’18: riporta l’aumento del 10% di morti, rispetto ai primi mesi del 2017, soprattutto nel settore edile, oltre all’aumento di infortuni. Ravvisa, nell’elusione dell’articolo 41 della Costituzione che richiede di «non recare danno a sicurezza, libertà, dignità umana», la necessità di introdurre il “delitto di omicidio”.

Bibliografia
D’Acunto, S. e Schettino, F. (2017), «Per qualche dollaro in più?» in D’Acunto, S., De Siano, A. e Nuzzo, V. (a cura di), In cammino tra aspettative e diritti, Napoli: ESI.
Keynes, J.M. (1971-79), Collected Writings, London: Mcmillan.
Marx, K. (1970a) [1857-58], Lineamenti Fondamentali della critica dell’economia politica, Firenze: La Nuova Italia.
Marx, K. (1970b) [1866], Il Capitale, voll. I e II, Roma: Editori Riuniti.
Marx, K. (1977) [1858], Urtext (Grundrisse), Savona: International.
Pala, G. (2018), Propriamente Salario Sociale di classe, Napoli: La Città del Sole.
Pinto, V. (2017), «Migrazioni economiche e rapporti di lavoro», in D’Acunto, S., De Siano, A. e Nuzzo, V. (a cura di), In cammino tra aspettative e diritti, Napoli: ESI.
Shakespeare, W. (1924) [1593], La tragedia di Re Riccardo II, Milano: Treves.

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