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Contro il femminismo di regime
di Carlo Formenti
Il recente dibattito interno al femminismo, testimoniato anche dall'Almanacco di Filosofia di “Micromega”, apre uno spazio per la ripresa delle correnti anticapitalistiche del femminismo, aiutandole a ricavarsi un ruolo egemonico nel movimento delle donne e a contenere l’influenza delle correnti “emancipazioniste” e dell’estremismo “genderista”, che funzionano da vie di penetrazione dell’immaginario neoliberista nel movimento
Sull’ultimo numero del 2017, nel suo Almanacco di Filosofia, “MicroMega” ospita la dura polemica che ha opposto, da un lato, lo storico Vojin Saša Vukadinovič e Alice Schwarzer (direttrice di EMMA, rivista storica del femminismo tedesco), dall’altro, la filosofa statunitense Judith Butler e la sociologa tedesca Sabine Hark[i]. Prendendo spunto da letture dissonanti del noto episodio della notte del 31 dicembre 2015, allorché una folla di immigrati musulmani invase il centro di Colonia esercitando molestie sessuali nei confronti delle cittadine tedesche che festeggiavano il capodanno, i due fronti si sono scambiati accuse di razzismo (Butler - Hark contro Vukadinovič - Schwarzer) e di un relativismo culturale giustificatorio, se non complice, nei confronti delle pulsioni maschiliste dell’islamismo (Vukadinovič – Schwarzer contro Butler – Hark). Al netto della virulenza verbale (con insulti reciproci degni di una rissa fra stalinisti e trotskisti), il confronto sollecita una riflessione in merito a ciò che mi pare caratterizzi buona parte del dibattito teorico, tanto nel campo femminista “ortodosso” quanto in quello dei gender studies, vale a dire una sorta di oscillazione fra cattivo universalismo e cattivo relativismo.
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Sulla dialettica
di Eros Barone
Una discussione tra filosofi marxisti sulla dialettica («Rinascita», 1962) e un saggio sullo stesso tema («La Cultura», 2003)
Nel suo insieme, sia per le acquisizioni critico-metodologiche sia per la reinterpretazione complessiva di Marx (in senso umanistico e storicistico) alla luce specialmente della Kritik del 1843, la scuola filosofica di Della Volpe si configurò fra anni ’50 e anni ’60 come un campo teorico autonomo, una sorta di articolata ‘koiné’ capace di esercitare un influsso vasto e profondo sullo schieramento culturale della sinistra italiana, non meno che nella impostazione di concreti problemi di ideologia e di azione politica che interessavano il presente e le prospettive del movimento operaio. La discussione tra filosofi marxisti su «Rinascita» (si badi, una rivista più politica che teorica) tra giugno e novembre del 1962 agì da cartina di tornasole di un travaglio che metteva in gioco non solo questioni di interpretazione teorica e di orientamento culturale, ma soprattutto temi ricchi di scottanti implicazioni politiche, quali il rapporto fra teoria e pratica e, fuor di cifra, lo stesso dibattito sullo sviluppo capitalistico del paese1 e sulla strategia del movimento operaio di fronte alla linea attuata dalle forze dominanti con il varo del centro-sinistra. Per questo aspetto, essa rappresentò un tentativo importante di ricomposizione unitaria della teoria marxista e di superamento delle alternative presenti, ormai da tempo, in essa2.
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Classe operaia e rivoluzione: un equivoco secolare?
di Sandro Moiso
Michele Castaldo, Marx e il torto delle cose 1871 – 1917 – 2017, Edizioni Colibrì 2017, pp.446, € 22,00
E se l’errore di previsione più grande di Marx fosse stato proprio quello di aver attribuito alla classe operaia un ruolo rivoluzionario che in realtà non potrebbe svolgere? Questo il tutt’altro che scontato quesito posto da Michele Castaldo al centro di un testo stimolante, e per certi versi necessario, appena pubblicato da Colibrì.
Stimolante poiché obbliga a riflettere su un luogo comune, una sorta di autentico dogma della fede rivoluzionaria, che in tempi oscuri come quelli che stiamo attraversando potrebbe rivelarsi inattuale, almeno nel cuore delle metropoli imperialiste, e necessario poiché costringe chi si occupa di politica in chiave antagonista a fare i conti non solo con le fin troppo scontate convinzioni cui si accennava prima, ma anche con una ideale continuità tra Marx e Lenin, tra Marx e marxismo-leninismo, che a ben vedere non è sempre data e così facile riscontrare.
Il presupposto da cui parte l’autore è il seguente, delineato fin dalle pagine della Prefazione:
“Il punto chiave è se il modo di produzione capitalistico, come determinato storico di un processo tecnico-scientifico dell’uomo, regga a causa del dominio della borghesia o a causa di leggi proprie.
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Sulla dottrina marxista dello Stato
Una nota nel centenario della Rivoluzione d’ottobre
di Massimo Pivetti*
La nota discute criticamente la dottrina marxista dello Stato quale venne sviluppata da Lenin alla vigilia dello scoppio della Rivoluzione d’ottobre sulla base delle idee principali di Marx ed Engels sulla questione. Si argomenta che questa dottrina, a partire dalla sua tesi centrale di un’incompatibilità tra la nozione di Stato e quella di libertà, non ha reso nel complesso un buon servizio alla causa della classe lavoratrice nel capitalismo
1. Due compiti della sinistra
Fino a una quarantina di anni fa, all’interno del capitalismo industrialmente avanzato, nella sinistra era ancora diffusa la consapevolezza che ciò che poteva indurre i capitalisti e i loro rappresentanti a fare delle concessioni importanti sul terreno economico era solo il timore di perdite maggiori, o addirittura il timore di perdere tutto. In generale, dunque, che i suoi compiti avrebbero dovuto essere sostanzialmente due: riuscire a tenere sempre vivo questo timore; sapere di volta in volta come sfruttarlo, ossia avere chiari i programmi e le misure necessarie a migliorare, attraverso l’intervento dello Stato, le condizioni di vita e di lavoro dei salariati e delle masse popolari – in pratica, le misure necessarie a migliorare il funzionamento stesso del capitalismo. Veniva al riguardo tenuto presente, da un lato, che a fronte di livelli di attività stabilmente elevati, quindi anche di una massa di profitti stabilmente elevata, i capitalisti e i loro rappresentanti avrebbero potuto col tempo abituarsi a considerare come normale un minor saggio di rendimento del capitale, finendo per accettare margini di profitto più contenuti e una minore quota dei redditi da capitale e impresa nel prodotto; dall’altro, che una parte della borghesia, la parte più istruita e socialmente sensibile, avrebbe anch’essa ricavato senso di tranquillità e di benessere da un contesto culturale e sociale non eccessivamente degradato e sufficientemente coeso; quindi, che avrebbe potuto essere indotta a sostenere, piuttosto che a contrastare, misure di riformismo socialdemocratico.
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Voto, non voto. Due posizioni all’interno di Carmilla
di Valerio Evangelisti e Sandro Moiso
Valerio Evangelisti: Io voto (Potere al Popolo)
Forse non sarei nemmeno andato a votare, se non fosse accaduto un fatto che, ai miei occhi, ha del prodigioso. Espulsi dal Teatro Brancaccio, in cui si sarebbe dovuta rifondare per l’ennesima volta la “sinistra” (con i D’Alema, i Bersani, i Civati, gli Speranza, gli Epifani e altri walking dead), i giovani e meno giovani del centro sociale Je so’ pazzo, ex OPG, tra i più attivi sul territorio napoletano, decidono di continuare da soli.
Riescono a riunire ottocento persone di tutte le età, ed è l’inizio di una valanga. Si tengono, in breve tempo, duecento affollatissime assemblee in ogni regione d’Italia, incluse quelle in cui l’antagonismo politico-sociale sembrava spento per sempre. Aderiscono al progetto nomi storici della sinistra “vera” e non liberale, di integrità non discutibile: Heidi Giuliani, madre di un martire divenuto simbolo di lotta, Nicoletta Dosio, l’instancabile ribelle e fuggiasca No Tav, Giorgio Cremaschi, una vita per i metalmeccanici e per il riscatto operaio. E tanti, tanti altri.
Soprattutto, si adunano sotto la nuova sigla – Potere al Popolo! – i frammenti di una classe subalterna modellata, nel presente, dai rantoli di un’economia e di un dominio antiumani, che solo in nuove guerre e oppressioni trovano slancio vitale. Precari, disoccupati, pseudo-apprendisti licenziati e riassunti (se va bene) ogni quattro mesi, gente che sbarca il lunario come può.
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Il ritorno delle istituzioni
di Antonello Ciervo
Su alcuni ambigui strumenti per cambiare il presente
La terza legge della dinamica sembrerebbe l’unico strumento che abbiamo a disposizione per descrivere quanto è accaduto nel corso degli ultimi due decenni in Italia: se è vero, infatti, che a ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria, possiamo dire che questo assunto si adatta perfettamente alla riscoperta, nel dibattito pubblico, del ruolo e dell’importanza del diritto, soprattutto alla luce della degenerazione della politica nostrana. Un ventennio di processi berlusconiani ha reso l’opinione pubblica edotta di una serie di tecnicismi (dalla prescrizione, passando per la ricusazione del giudice naturale per legittimo sospetto, fino alle immunità extra-funzionali, oggetto di tanti piccoli e grandi lodi ad personam, oltre al cosiddetto «utilizzatore finale» di olgettiniana memoria), tecnicismi che fino a pochi anni fa erano appannaggio soltanto degli specialisti del processo penale. La legislatura che volge al termine, invece, ci ha reso dei veri e propri esperti di diritto parlamentare, visto che non si è parlato altro che di «canguri», fiducie su maxi-emendamenti governativi,«franchi tiratori», verifica del numero legale e richiesta di voto segreto in Aula. Il culmine lo si è toccato però l’anno scorso quando, in concomitanza con il referendum del 4 dicembre, i salotti televisivi e le pagine dei giornali venivano invasi da costituzionalisti di ogni sorta e di ogni età , pronti a spiegare alla povera pensionata di turno, digiuna anche delle nozioni minime di diritto pubblico, l’inutilità e il danno dell’esistenza del Cnel per l’umanità.
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"Potere al Popolo è l'unica forza politica che ha in programma la rottura con l'Unione Europea e la NATO"
Alessandro Bianchi intervista Giorgio Cremaschi
La nostra intervista a Giorgio Cremaschi, ex Segretario Fiom e candidato a Napoli e Bologna per la Lista Potere al popolo. "Lavoro, Welfare e diritti sociali possono tornare protagonisti in questo paese solo con la rottura chiara con Bruxelles"
Partiamo dalla sua candidatura. Perché dopo 50 anni di militanza attiva, come ha ricordato in un suo recente scritto, ha scelto di candidarsi alle elezioni al Parlamento italiano solo ora? E cosa l’ha convinto di Potere al Popolo?
Mi hanno convinto la crisi drammatica che vive la politica nel nostro paese e il coraggio e l'entusiasmo dei giovani di Je So Pazzo. Qualcosa dobbiamo fare e dobbiamo farlo ora. Il delirio mediatico, economico e culturale che espelle tutto ciò che non è conforme al pensiero unico dominante è stata sicuramente la spinta decisiva. Vorrei essere molto chiaro su questo punto: siamo tornati al livello della politica borghese ottocentesca in cui il mantra del sistema verso le classi meno abbienti era: “Non si può far nulla”. Prendete la decisione ultima votata ieri sul Niger auspicata dall’UE e voluta da Macron. Abbiamo deciso di mandare i nostri soldati all’ordine di Macron in un’iniziativa neo-coloniale per difendere il governo più corrotto dell’Africa, responsabile di disastri economici che spingono tante persone ad emigrare, e, pensate, lo hanno votato insieme centro destra e centro sinistra, che poi alla sera fanno finta di litigare in TV. Ecco se la Politica oggi in Italia si è trasformata in un’enorme e perenne fake news, mettersi in gioco è un dovere ed è per questo che ho accettato la sfida.
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Dalla questione irlandese all'imperialismo, il filo d'Arianna di Marx ed Engels
di Michele Basso
"Cadrebbe la visione marxista della storia se,
anziché riconoscere un tipo unico del rapporto
di produzione capitalista (come di ogni altro
precedente) che corre da una rivoluzione all'altra,
se ne ammettessero tipi diversi successivi."
La teoria dei fondatori del comunismo critico ha dimostrato grande duttilità ed è servita a spiegare fenomeni economico-sociali dell'antica Roma, delle società orientali, del feudalesimo. Non ha bisogno del chirurgo plastico per adattarsi alla situazione del XXI secolo.
Il capitalismo è uno, ha varie fasi e l'imperialismo è la fase monopolistica del capitale, non un sistema economico sociale a sé. Il marxismo è una teoria unica, non ha bisogno di prendere qualcosa a prestito da un qualsivoglia Keynes o da un qualche Friedman Milton.
L'eclettismo crea confusione in teoria e in pratica. Montereste pezzi studiati per un fucile a canna liscia su un fucile a canna rigata? Probabilmente vi esploderebbe tra le mani.
Mescolando la teoria di Marx con quella di altri presunti maestri se ne rende impossibile il suo funzionamento, la sua applicazione. Se Marx non vi convince, passate ad un'altra teoria, non create dei Frankenstein teorici e pratici.
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Democrazia o Confucianesimo 4.0?
di Pierfranco Pellizzetti
A partire dalla rilettura di Ralf Dahrendorf (“Quadrare il cerchio”, Laterza, 1995), una riflessione critica sulla post-democrazia confuciana teorizzata da Parag Khanna nel volume “La rinascita delle città-Stato”, di recente pubblicazione per Fazi: una proposta di governance tecnocratico-burocratica a misura degli interessi dominanti
La tirannia del costume è generalmente un ostacolo
al progresso dell’umanità. […] Questo è il caso, per
esempio, di tutto l’Oriente. In Oriente il costume
domina arbitro supremo in tutte le cose»[1].
John Stuart Mill
«Prima che l’umanità soffochi (o si delizi) nella
prigione (o nel paradiso) di un impero globale
di marca occidentale o di una società di mercato
globale gravitante attorno all’Oriente asiatico,
potrebbe anche bruciare tra gli orrori (o le glorie)
della crescente violenza che ha accompagnato il
disfacimento dell’ordine della Guerra Fredda»[2].
Giovanni Arrighi
Nostalgia di un mondo alla fine
Nel pieno della grande transizione di fine Novecento, il sociologo anglo-tedesco Ralf Dahrendorf diede alle stampe uno smilzo libretto impregnato della consapevolezza melanconicamente profetica di assistere al tramonto del mondo in cui si era riconosciuto per tutta la sua esistenza militante. Il Primo Mondo, quale Occidente illuminato e civile, interpretato e propugnato con le categorie del liberale critico di stampo popperiano e newdealista: «a volte si ha l’impressione che la grande stagione stia per concludersi, o che sia quanto meno in pericolo»[3].
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Siria, o degli errori della sinistra radicale sull’imperialismo
di Alberto Ferretti
Il compagno Alberto Ferretti ci segnala, per la rubrica "i comunisti e la questione nazionale" , un suo contributo pubblicato nel blog Ottobre. Volentieri lo proponiamo ai nostri lettori
Larga parte della sinistra radicale tende oggi a minimizzare i crimini nordamericani, stigmatizzando ed equiparando l’ossessione “antiamericana” (che esiste in molti settori radicali della destra occidentale) alla lotta anti-imperialista propria alle forze marxiste-leniniste. Questo accade quando si parla genericamente di imperialismo, decorrelandolo dal suo carattere economico, cioè come fase apicale, o suprema, dello sviluppo capitalistico guidato dal capitale finanziario dominante, e lo si riduce alla semplice politica estera “soggettiva” degli Stati e potenze, qualsiasi ne siano le ragioni.
Si cade così in una contraddizione: quella cioè di ragionare in termini geopolitici, ma di imputare a chiunque si schieri – nell’ambito dei conflitti in corso in particolare in Medio Oriente – da una parte o dall’altra della barricata, di fare della “geopolitica”, di aver abbandonato cioè la lotta di classe al fine di “tifare” per l’una o l’altra grande potenza in un’ottica “banalmente” anti-imperialista.
Questa visione sottende due gravi errori: il primo che non vi sia un contenuto di lotte di classe nella lotta delle nazioni sfruttate contro l’imperialismo e, come corollario, si considerano aprioristicamente tutti gli Stati-nazione attualmente esistenti come “imperialisti”; l’altro che l’unico compito del proletariato odierno sia combattere contro tutti gli Stati-nazione esistenti in quanto espressione del potere delle classi capitalistiche, esattamente come ai tempi di Marx e Engels o della Seconda Internazionale.
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Il ruolo dello Stato al tempo dell’economia digitale
di Mario Dogliani
Con le attuali trasformazioni tecnologiche – digitalizzazione, automazione, capitalismo delle ‘piattaforme’ – la funzione dello Stato cambia radicalmente: da regolatore del lavoro, l’intervento pubblico diventa il presupposto dell’esistenza stessa del lavoro. Socializzare la ricchezza prodotta è l’unica strada per stabilire un equilibrio tra produzione e consumo ed evitare catastrofi sociali infinitamente peggiori di quelle già […]
Ecco, una voce squillante ci ingiunge di ritornare
in noi stessi, riempie di figure le oscurità in cui ci
aggiravamo, i fantasmi fuggono lontano …
(En clara vox redarguit …)
1.- La politica e la cultura italiana avrebbero bisogno di una voce che riempia di figure l’oscurità indistinta e scacci i fantasmi.
Anche molti tra coloro che cercavano di comprendere con spirito libero la verità delle sfide che il mondo di oggi propone erano – fino a non molto tempo fa – spaesati, balbettavano, fuori di sé, discorsi che non erano i loro, non riuscivano a chiudere il cerchio tra i dati della realtà e le proposte politiche se non compiendo un salto fideistico in un qualcosa che in futuro sarebbe dovuto intervenire (la “ripresa” da “agganciare”, un “nuovo capitale umano” che avrebbe incontrato “una nuova domanda di lavoro prodotta dall’automazione stessa” …). Oppure evocavano politiche di giustizia affidate più ai sentimenti che al realismo (e dunque cieche nei confronti dei duri vincoli che lo stato delle cose impone). In questo clima una parte della sinistra credeva di potersi dimostrare utile perché – sulla base della sua tradizione, orientata allo sviluppo delle forze produttive e alla modernizzazione – pensava di essere più brava (e dunque anche più equilibrata e saggia) nell’applicare le ricette del neoliberismo.
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Note critiche sul documento ‘Un patto per la Costituzione’ del dicembre 2017
di Luigi Ficarra*
E’ stato diffuso il documento “Un patto per la costituzione e per la democrazia ”, che riproduco in calce, ed in merito al quale ritengo giusto svolgere alcune notazioni critiche.
Comincio con l’osservare che il non tener conto dei mutamenti intervenuti nella realtà economico-sociale, come mi sembra si faccia nel documento in questione, può essere all’origine di certe posizioni che reputo astratte.
1. Va innanzitutto preso atto che la forma parlamentare voluta dalla Costituzione del ’47 è stata già modificata dalla Costituzione materiale vigente.
Infatti, anche limitando l’esame a quest’ultima legislatura, emerge che:
• si è fatto ricorso per ben 95 volte alla decretazione d’urgenza, che la Costituzione ‘formale’ indica nell’art. 77 come del tutto straordinaria, solo per i casi di effettiva urgenza.
• la procedura normale di approvazione delle leggi, indicata dall’art. 72 della costituzione ‘formale’, è stata travolta dal ricorso molto frequente al voto di fiducia, avvenuto per ben 107 volte.
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Le illusioni dell’economia dell’equilibrio
di Paolo Leon
Pubblichiamo la prefazione di Paolo Leon al libro Squilibrio – Il labirinto della crescita e dello sviluppo capitalistico di Roberto Romano e Stefano Lucarelli, Ediesse Libri
L’economia come scienza compiuta, quando, pur differenziate, le ricerche riposavano su un apparente solido terreno comune, è stata travolta dalla crisi iniziata a settembre 2007. Al progredire della crisi e all’assistere al “doppio tuffo” – simile nell’andamento alla crisi del 1929: il “double dip” – molti hanno scoperto Keynes, ma non le politiche di Roosevelt, che ebbero un effetto lento ma sicuro sulla ripresa. Anzi, gli economisti “standard”, che definisco pseudo keynesiani, hanno creduto che il pensiero di Keynes fosse corretto nella crisi, ma sbagliato quando la crisi si fosse risolta, abbandonando una qualsiasi logica e affidandosi a un misto di realismo e fede.
Anche durante la crisi, del resto, le politiche keynesiane non sono state applicate con la forza sufficiente, mentre prevalgono da allora le cosiddette politiche dell’offerta. Si tratta di azioni volte a limitare il ruolo dello Stato, della democrazia rappresentativa e del sindacato (per ridurre il deficit pubblico e, inevitabilmente, anche la domanda che ne derivava), a stimolare l’aumento della produttività e, riducendo i salari e peggiorando la distribuzione del reddito, a rincorrere una maggiore competitività.
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“Eravamo combattenti, non terroristi”
Giacomo Di Stefano intervista Sergio Segio
È un uomo distinto, ha poco più di sessant’anni e si occupa di diritti umani e di disuguaglianze sociali. Se un ragazzino di 15 anni lo sentisse parlare penserebbe che Sergio Segio sia un docente universitario di lungo corso. Mai potrebbe immaginare che Segio ha passato gran parte della sua vita in carcere ed era il comandate militare di un’organizzazione armata di estrema sinistra: Prima Linea. Un gruppo protagonista negli ‘anni di Piombo’ di violenze e omicidi ai danni di docenti universitari, magistrati e agenti di polizia. Dopo oltre 20 anni di reclusione, Segio dal 2004 è un uomo libero e oltre all’impegno nel volontariato ha collaborato con vari quotidiani nazionali e da qualche anno dirige il magazine Human Right. Quest’intervista – che Segio ci ha concesso gentilmente e che si è svolta in forma indiretta, con consegna delle domande in forma scritta e presentazione scritta delle risposte – non nasce come apologia della lotta armata né come la riabilitazione dell’immagine di una figura controversa. Ma come pretesto per approfondire una stagione della nostra storia da un punto di vista inedito, spesso conosciuto in maniera superficiale e non dalla voce dei suoi protagonisti.
* * * *
Segio, il gruppo terroristico che ha fondato, Prima Linea, in sei anni (1976-1983) si è macchiato di 23 omicidi. Tra i vari motivi di rimorso, quali sono le cose che hanno provocato un senso di pentimento maggiore?
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Dell’uso strumentale del reddito per finalità politiche
di Andrea Fumagalli e Cristina Morini
Non è necessario essere dei veggenti, ma neppure fini analisti, per prevedere che uno degli argomenti al centro della prossima campagna elettorale sarà costituito dal tema del reddito.
Le tre principali forze politiche (5 Stelle, Pd e infine, ultima in ordine di apparizione, Forza Italia) si stanno sfidando. I 5 Stelle da anni hanno lanciato la proposta di “reddito di cittadinanza”, il Pd ha recentemente proposto e fatto approvare la misura del “reddito di inclusione” (ReI), Berlusconi, per non essere da meno, ha aggiunto la proposta del “reddito di dignità”, scippando un’espressione da tempo utilizzata da una campagna promossa dall’associazione Libera e da altre realtà della società civile.
In tutti i casi, il tema del reddito è strumentalmente utilizzato per altri fini e in particolare viene declinato come forma di controllo della povertà. Tale interpretazione è propedeutica all’imposizione di un sistema di welfare che si avvicini il più possibile al workfare liberista di matrice anglosassone, eliminando ciò che resta del welfare universalistico (in materia di sanità e scuola pubblica).
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Donne in nero
Da Belgrado a Hollywood, da Oprah a Catherine
di Fulvio Grimaldi
Le Donne in Nero incominciarono a gironzolare in aree di conflitto alla fine degli anni’80. Furono fondate, in piena prima Intifada, da un gruppetto di bene intenzionate donne israeliane che ritennero di superare lo scontro tra palestinesi in lotta di liberazione e invasori ebrei in fregola di colonizzazione, promuovendo iniziative congiunte di pace e riconciliazione. L’operazione aveva un vizio che ne minava ogni possibilità di risultato positivo: l’utopia che tra dominanti e dominati si potesse arrivare alla pacifica convivenza, rimandando a un qualche roseo futuro la soluzione del problema. Che, invece, in questo modo, veniva sottratta a chi aveva i titoli per richiederla “con tutti i mezzi”, come prescrive la Carta dell’ONU, a sua disposizione. Tuttavia, diversamente da altre epifanie di donne in nero, mirate con ogni evidenza ad annacquare le giuste lotte in un paralizzante volemose bene a prescindere e a sabotarle condividendo i pretesti del carnefice (“democrazia”, “diritti umani”, “donne imprigionate nel velo”, “dittatori”), quella in Palestina ha avuto l’indubbio merito di diffondere conoscenze sulle nequizie dei genocidi sionisti.
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Ripensare la funzione di produzione neoclassica
di Gaetano Perone*
Cobb-Douglas aggregate production function surely represents the cornerstone of the neoclassical theory. However, its good fit implies the respect for a series of unrealistic and increasingly restrictive hypothesis. So, this article attempts to summarize and to analyze the most important objections to Cobb-Douglas function raised by heterodox economists
1. Struttura elementare della funzione Cobb-Douglas
La funzione matematica elaborata da Cobb e Douglas (1928) può essere considerata la pietra d’angolo dell’impianto teorico neoclassico. Stabilendo una relazione piana e diretta fra output di prodotto e input produttivi, essa costituisce la più nota funzione di produzione utilizzata nell’analisi economica aggregata (Prescott 1988, p. 532). Nella sua forma elementare, si presenta come segue:
Dove Y rappresenta l’output, A un multi-fattore di produttività della tecnologia adottata, K lo stock di capitale fisico, L il lavoro e α e β le quote distributive del reddito che vanno ai profitti e ai salari, e nel contempo l’elasticità di sostituzione statica di L e K. Teorizzata inizialmente per spiegare la distribuzione del reddito, essa è stata successivamente rielaborata da Solow (1956) per descrivere analiticamente i processi di sviluppo economico.
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«La situazione è eccellente». Verifica dei poteri e noi
Una prefazione inedita di Fortini
di Sabatino Peluso
Nel 1970 esce in Venezuela la prima traduzione in lingua straniera di Verifica dei poteri. È però già nel 1966, a un anno dalla prima edizione italiana, che Fortini (grazie alla mediazione di Alberto Filippi) entra in contatto con Rafael Di Prisco, studioso di letteratura dell’Università di Caracas interessato al lavoro di traduzione, con cui inizia uno scambio epistolare per discutere alcune modifiche da apportare al libro.
Los poderes culturales (il titolo scelto da Di Prisco), pubblicato presso le Ediciones de la Biblioteca de la Universidad Central de Venezuela, si presenta al lettore venezuelano con alcuni tagli1 suggeriti da Fortini nel tentativo di eliminare testi di interesse specificamente italiano, mentre particolarmente rilevante è l’aggiunta del saggio Due avanguardie che, dopo pochi anni, entrerà a far parte anche dell’edizione italiana di Verifica del 1969. Oltre alle modifiche richieste al curatore, Fortini pensa di aggiungere al testo alcune note esplicative e di colmare alcune omissioni necessarie per agevolare il lettore straniero. Quello a cui però Fortini tiene maggiormente, e che si legge con chiarezza nella sua prima lettera a Di Prisco (1966), è inserire una prefazione al volume che gli permetta di presentarsi in maniera diretta al nuovo pubblico. Uno scritto «rivolto ad immaginari studenti sudamericani vuol chiedersi che cosa significa, oggi, conoscere gli altri popoli e se, paradossalmente, non sia oggi più importante e grave intendere le somiglianze che credere di poter capire le differenze.
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Postdemocrazia, pseudopopulismo e la trappola dell'antipopulismo
di Michele Nobile
Il saggio qui pubblicato segue i precedenti intorno alla questione del populismo già apparsi su questo blog a firma dello stesso Michele Nobile: «Donald Trump: vedette pseudopopulista della società dello spettacolo» e «Pseudopopulismo e stile paranoide in politica». Se ne consiglia caldamente la lettura
1. Un radicale cambiamento nell’approccio ai fenomeni detti populisti
Populista! è ingiuria assai frequente, direi quanto il prezzemolo in cucina, tanto che fra le battute del teatro politico ha preso il posto di un’altra, che pare obsoleta: comunista!
Tuttavia, gli epiteti populismo e populista sono straordinariamente versatili.
Populisti sarebbero Marine Le Pen e l’olandese Geert Wilders, Beppe Grillo e Matteo Salvini, il turco Recep Tayyip Erdoğan e i britannici Nigel Farage e Boris Johnson; ma alla lista possono aggiungersi anche Alexīs Tsipras e Syriza prima maniera, Jeremy Corbyn e Bernie Sanders. Se poi lasciamo vagare l’etichetta del populismo nel tempo e nello spazio, vedremo che essa si appiccica a Gandhi e Nasser, a Frantz Fanon, Julius Nyerere e Thomas Sankara e, ovviamente, ai tanti populisti latinoamericani: Víctor Raúl Haya de la Torre, Lázaro Cárdenas, Juan Domingo Perón e sua moglie Evita, Víctor Paz Estenssoro e Fidel Castro, fino ai più recenti neopopulismi: il subcomandante Marcos, Hugo Chávez, Evo Morales e Rafael Correa.
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Rifiuto del lavoro, corporeità, ironia
Anna Stiede intervista Franco Berardi Bifo
Questa intervista si è svolta a Bologna nell’ottobre 2017. La trascrizione è di Shendi Veli, l’editing di Franco Palazzi
A: La cosa che mi ha stupito leggendo questo libretto con il tuo commento [“Malgrado voi” (1977)] è che tu avevi anche parlato di un bisogno di capire bene la nuova connessione tra il sapere, la tecnologia ed il lavoro. Dato che sono molto interessata alle trasformazioni dello sviluppo economico, connesso anche alla cosiddetta digitalizzazione, al virtuale, etc, sono stata stupita che tu già alla fine degli anni settanta sostenevi che per capire bene la nuova composizione della classe e ricostruire l’Autonomi bisognava rivolgere l’attenzione verso questa connessione; purtroppo credo che i movimenti non fossero in grado di sviluppare un comportamento collettivo per affrontare tale cambiamento. Dal punto di vista tuo e delle lotte degli anni settanta, come descriveresti questo sviluppo nella composizione di classe ma anche nello sviluppo economico?
B: Il movimento del settantasette italiano, e non solo quello italiano – però adesso parliamo di quello italiano o vorrei dire bolognese – ha un carattere complesso. Ci sono vari elementi, perché c’è un elemento diciamo anarchico, autonomo, ribellista che è simile a quello dei movimenti che dalla California degli anni sessanta va fino agli Sponti tedeschi, fino al punk. È un movimento giovanile ribelle, con caratteristiche particolarmente creative.
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Il declino di una sinistra che chiude gli occhi
di Antonio Lettieri
I fallimenti dell’euro hanno imposto un duro prezzo alla maggior parte dei paesi dell’eurozona in termini di crescita, di disoccupazione, di esplosione delle diseguaglianze. E hanno, al tempo stesso, messo in crisi, quando non eliminato dalla scena, la vecchia sinistra di governo. Su questo dovrebbe concentrarsi il dibattito, ma la sinistra italiana non lo fa
1. A metà del secolo scorso, la Francia, che sedeva tra le potenze vincitrici della seconda guerra mondiale, decise di promuovere un accordo con la Germania che avrebbe cambiato il senso tragico della storia dei conflitti franco-tedeschi che avevano dominato la prima parte del secolo. Il protagonista politico della svolta fu Robert Schuman. L’occasione fu data dall’accordo sull’uso congiunto del carbone della Ruhr di cui la Francia, impegnata nella pianificazione economica diretta da Jean Monnet, aveva assoluto bisogno.
Nacque così, per iniziativa francese, la CECA, la Comunità europea del carbone e dell’acciaio, il primo accordo transnazionale nell’Europa contemporanea. La seconda tappa fu qualche anno dopo, nel 1957, l’istituzione del Mercato comune che, al pari della CECA, comprendeva, oltre a Francia e Germania, l’Italia e i paesi del Benelux. Gli effetti furono pari alle aspettative. Il “miracolo economico” tra la fine degli anni cinquanta e l’inizio dei sessanta si estese dalla Germania all’Italia. L’Europa dei sei paesi fondatori della CEE, la Comunità economica europea,cresceva a vista d’occhio in un clima di tendenziale piena occupazione.
Con l’avvento di Charles de Gaulle, la Francia, dopo oltre un decennio, uscì finalmente dal vicolo cieco dei conflitti coloniali in Vietnam e in Algeria, e poté rilanciare l’impegno per la costruzione europea, ribadendo e rafforzando la partnership franco-tedesca.
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L'eterodosso
Andrea Incerpi intervista Sergio Cesaratto
Intervista su una rivista del PD. Dopo l'introduzione di Matteo Renzi (e Marco Fortis) e un articolo di Tommaso Nannicini, a pag. 30 c'è una intervista al sottoscritto da parte di un dottorando di Siena (Andrea Incerpi), che ringrazio per averla pubblicata integralmente. Chapeau, certamente più pluralismo che fra Liberi & Uniformi
Sono passati dieci anni dalla crisi finanziaria che ha messo in ginocchio i mercati del lavoro e dei capitali eppure i suoi effetti, seppur mitigati dalla decorrenza del tempo piuttosto che da efficaci misure di politica economica a livello europeo, sono ancora visibili. Austerity, rigore fiscale e riduzione della spesa pubblica sono stati i mantra dei governi dell’Eurozona, con effetti spesso discutibili sui principali indicatori economici. Il pensiero ortodosso che si riconosce in questo spettro di politiche restrittive non è mai sembrato così in discussione. Ed è proprio uno dei maggiori esponenti del pensiero critico italiano, il prof. Sergio Cesaratto, a fornire un contributo analitico partendo da una diversa prospettiva.
Quella che pone al centro della crescita il ruolo dell’Europa, il mondo dei lavoratori e un nuovo nucleo di forze progressiste.
* * * *
La crisi degli ultimi anni ha fatto crescere il numero di “euroscettici”. È ancora possibile ipotizzare la futura sostenibilità dell’Eurozona?
La ripresa europea è considerate fragile e trainata da fattori esterni. Inoltre non vi sono, né vi possono essere, grandi prospettive per una rivoluzione politica dell’Eurozona.
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“Il passo e il sogno”
di Elisabetta Teghil
La nostra società si sta esprimendo ed ha compiuto atti importanti nella realizzazione dello sfruttamento illimitato. Questa violenza strutturale si è incarnata nell’ideologia neoliberista che è una sorta di macchina infernale e che è stata veicolata attraverso la divinizzazione del potere dei mercati. Sotto gli occhi di tutti ci sono gli effetti di questa nuova organizzazione sociale a partire dalla miseria di una parte sempre più grande delle società economicamente più avanzate e lo straordinario aumento del divario fra i redditi. Quindi, un’affermazione scomposta della vita personale intesa come una sorta di darwinismo che instaura la lotta di tutti contro tutti, il cinismo come norma, la ricchezza come premio di questa selezione, la traduzione nella vita quotidiana con l’assuefazione alla precarietà, all’insicurezza e all’infelicità che permea l’esistenza. Con una precarizzazione così diffusa da ridurre il lavoratore/trice a mano d’opera docile sotto la permanente minaccia della disoccupazione. L’aspetto paradossale è che questo ordine economico e sociale si spaccia e si promuove sotto il segno della libertà e addirittura come società armoniosa.
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La traiettoria teorica e politica di Mario Tronti
di Davide Gallo Lassere
Pubblichiamo in anteprima la traduzione italiana della voce “Mario Tronti” scritta da Davide Gallo Lassere per il dizionario sul marxismo che verrà pubblicato da Routledge in occasione del bicentenario della nascita del Moro di Treviri. Proprio oggi esce per Il Mulino l’antologia di scritti di Tronti con il titolo “Il demone della politica”
Il comunismo del Novecento – la nostra Heimat
Scrutare il mondo con sguardo politico. Confrontarsi con la storia innanzitutto, e solo in seguito con la teoria. Perseguire non tanto l’inserzione in una tradizione di pensiero, ma degli strumenti per organizzare la lotta. Ecco, a grandi linee, l’approccio sviluppato da Mario Tronti lungo l’arco della sua vita. Politico pensante piuttosto che pensatore politico, l’autore dell’opera fondatrice dell’operaismo fa sistematicamente implodere la separazione tra teoria e pratica. Secondo Tronti, la teoria è sempre politica, e la politica è sempre teorica; è a partire dalla pratica che si produce della teoria e la teoria può e deve esprimere una produttività politica. Come egli scrive in un articolo giovanile, “se il Capitale è nello stesso tempo un’opera scientifica e un momento d’azione politica che sposta la realtà oggettiva delle cose, si potrebbe sostenere inversamente che la stessa rivoluzione d’Ottobre o la Comune di Parigi sono nello stesso tempo un grande movimento pratico e una potente scoperta teorica”[1].
Malgrado le svolte significative conosciute nel corso del tempo – dal conflitto ancorato nella materialità della classe a una visione metafisica della conflittualità -, questo stile di militanza che fonde ricerca teorica e azione politica è diventato uno dei marchi di fabbrica di Tronti, determinato dal sentimento di appartenenza destinale a una parte del mondo sociale che – una volta sconfitta dalle forze della storia – assume dei tratti tragici[2].
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L’epocale eccezione del populismo Cinque stelle
di Militant
La straordinaria e ininterrotta sequela di abbagli, errori, madornali gaffe, pastrocchi politici, sbandamenti ora a destra ora a destra, incapacità di governo, incapacità d’opposizione, che vede protagonista il M5S, è qualcosa di raro visto in politica. Per di più, il fuoco di sbarramento a media unificati – da Repubblica al Manifesto, dal Fatto al Corriere – contribuisce a raccontare il M5S come male principale della politica italiana. Giornalisti pagati unicamente per svelarne la natura corrotta e para-nazista trovano alloggio presso ogni testata, ogni televisione, per non dire delle case editrici, blog, settimanali. La maggior parte di queste critiche sono suffragate da fatti incontrovertibili. L’incapacità del M5S di essere forza politica credibile è un dato di fatto. Eppure, da più di cinque anni rimane saldamento il primo partito italiano. Anche fosse il secondo, o il terzo, il discorso non cambierebbe. La Lega o il Pd, Forza Italia o Rifondazione: tutti i soggetti politici hanno pagato elettoralmente il prezzo della propria incoerenza e incapacità, nel presente o in passato. Tutti tranne il M5S. Chi da anni si accanisce contro il partito di Grillo, svelando non si sa più a chi la sua natura reazionaria, ancora oggi non riesce a spiegare i motivi di questa tenuta elettorale, che è anche una tenuta politica, se non dando la colpa all’elettorato.
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