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ospite ingrato

«La situazione è eccellente». Verifica dei poteri e noi

Una prefazione inedita di Fortini

di Sabatino Peluso

Fortini1Nel 1970 esce in Venezuela la prima traduzione in lingua straniera di Verifica dei poteri. È però già nel 1966, a un anno dalla prima edizione italiana, che Fortini (grazie alla mediazione di Alberto Filippi) entra in contatto con Rafael Di Prisco, studioso di letteratura dell’Università di Caracas interessato al lavoro di traduzione, con cui inizia uno scambio epistolare per discutere alcune modifiche da apportare al libro.

Los poderes culturales (il titolo scelto da Di Prisco), pubblicato presso le Ediciones de la Biblioteca de la Universidad Central de Venezuela, si presenta al lettore venezuelano con alcuni tagli1 suggeriti da Fortini nel tentativo di eliminare testi di interesse specificamente italiano, mentre particolarmente rilevante è l’aggiunta del saggio Due avanguardie che, dopo pochi anni, entrerà a far parte anche dell’edizione italiana di Verifica del 1969. Oltre alle modifiche richieste al curatore, Fortini pensa di aggiungere al testo alcune note esplicative e di colmare alcune omissioni necessarie per agevolare il lettore straniero. Quello a cui però Fortini tiene maggiormente, e che si legge con chiarezza nella sua prima lettera a Di Prisco (1966), è inserire una prefazione al volume che gli permetta di presentarsi in maniera diretta al nuovo pubblico. Uno scritto «rivolto ad immaginari studenti sudamericani vuol chiedersi che cosa significa, oggi, conoscere gli altri popoli e se, paradossalmente, non sia oggi più importante e grave intendere le somiglianze che credere di poter capire le differenze.

In nome di queste somiglianze vorrei anche autocriticare talune tesi di Verifica dei poteri e rispondere a critiche che mi sono state mosse, soprattutto sul tema della “fine del mandato sociale”».2 Nel mezzo degli anni che preparano in tutta Europa le agitazioni studentesche, questo scritto rappresenta dunque un’occasione decisiva per parlare a quel medesimo destinatario rivoluzionario che, da lì a poco, sarà pronto a emergere sulla scena mondiale e dar vita alla primavera del ’68. Ma, nonostante le intenzioni, Fortini decide in ultimo di non inviare quel suo scritto e di custodirlo tra i suoi appunti.

Quello che segue – come si leggerà nella Nota introduttiva scritta per l’occasione – è la versione che Fortini pubblica sulla rivista «Azimut» nel 1983 col titolo complessivo Memoria e futuro.3 Riportato alla luce a quindici anni di distanza dalla sua stesura, Fortini lo accompagna inoltre con una breve nota del 1975 ritrovata in un quaderno di appunti e giustificata nella prima parte dello scritto. Posta a chiusura del testo, la nota finale si carica adesso di un senso che va ben oltre il contesto nazionale a cui si riferisce, offrendo una sintesi fulminea che comprende e anticipa ciò che è alle spalle e nell’avvenire del mutamento che si va compiendo nel giro di quegli anni. E infatti, è proprio qui che, a lettura compiuta, si espliciterà quell’«identità di problemi» e quelle somiglianze di cui Fortini parla già nella sua lettera e attorno alle quali ragiona la prefazione e oggi si confermano, tanto nitide quanto decisive. Lo stato di degradazione che la nota coglie, insieme al crescente odio che germina nel sottosuolo della falsa democratizzazione della vita di tutti è, all’altezza del ‘75, ciò che porta Fortini a una lucida presa di coscienza, di fronte alla quale però non smetterà di riproporre il tentativo di una lotta intellettuale finalizzata al combattimento contro lo stato di annichilimento che proprio in quegli anni va realizzandosi. In questo senso, non è certo privo di significato che la parte dello scritto più lontana da quegli anni, e cioè il periodo conclusivo della Nota introduttiva, si concluda con una citazione di Mao e una netta spinta verso il ripensamento di una nuova, diversa rivoluzione culturale.4

L’alto valore che Fortini attribuiva a questo scritto è suggerito tanto dalla sua lunga gestazione quanto dalla struttura che assume la forma finale del saggio. Esso è difatti costruito intrecciando diversi movimenti temporali e di scrittura che rifiutano la profezia o l’anticipazione, e sceglie invece di insistere sulla necessità di stare dentro la storia. Ma, come già anticipato, l’importanza di queste pagine per Fortini è rivelata anche dalle numerose correzioni e, soprattutto, dalle aggiunte manoscritte a penna inserite nel 1985. Serie di elementi che fanno pensare, insieme ad altre tracce reperibili negli indici preparatori di Un giorno o l’altro, alla volontà di inserirlo (o di segnalarlo con un netto rimando) nel diario in pubblico a cui Fortini lavorò fino ai suoi ultimi giorni.

Questo scritto, un vero e proprio inedito riemerso dal gran giacimento di materiali dell’Archivio Franco Fortini di Siena, può quindi a pieno diritto essere considerato come l’ultimo ritorno di Fortini sulle pagine di Verifica dei poteri: ultima “autocritica” e, al tempo stesso, saggio che sintetizza una riflessione sul destino dell’intellettuale nata nel centro degli anni in cui si palesa la sconfitta di ogni ipotesi rivoluzionaria e l’oblio indotto della storia. Quella mutazione con cui, oggi. ancora facciamo i conti, e che perciò è nostro compito documentare e interpretare.

Sono almeno due i punti su cui insistere per abbozzare una riflessione sul senso che queste pagine possono avere per noi oggi. E il primo di essi è quello del destino della forma saggistica, su cui Fortini torna a ragionare in queste pagine.

Inattuale e senza legittimazioni (così Fortini lo percepisce già nel 1968), il saggismo è attività e forma indissolubilmente legate a una figura che, col chiudersi dell’arco temporale che delimita questo scritto, si rivela estinta o degradata: l’intellettuale- massa. Se nel licenziare le pagine di Verifica tale situazione è in un certo senso aurorale o non pienamente manifesta, gli anni successivi non faranno altro che concretizzare ed estendere quel mutamento, proprio nel campo della cultura, mediante il dominio della specializzazione dei ruoli in tutti i campi del sapere. Ma sarà soltanto grazie a uno scatto decisivo, cioè quello che consolida l’egemonia culturale della tradizione del pensiero “debole” e vitalistico-esistenziale («dove turbinano Nietzsche, Freud e Heidegger»), che verrà finalmente liquidata e messa al bando ogni antitesi dialettica e storica capace di resistere al pensiero dominante. Lukács e Adorno, su tutti, i primi a farne le spese. Ma non è privo di significato sottolineare quanto questa operazione mirasse ad una rimozione ancor più decisiva, quella che ha il nome di Marx. A ben vedere, sono proprio questi gli anni in cui Fortini si dedica con sempre maggiore insistenza alla critica delle posizioni dello specialismo e della egemonia neo-nietzschiana5 che, saldandosi all’inconscio economico neocapitalistico, arriva ormai a investire i centri del sapere e della produzione di cultura, riuscendo a fissare capillarmente fondo irrazionalistico e visione postmoderna della società. Ed è soltanto oggi, forse, che ci è dato verificare con più chiarezza la necessità di un recupero – nel senso suggerito da Fortini – di quella tensione dialettica «che ha reso e forse tornerà a rendere possibile la saggistica», e dunque cogliere il suo invito a riaprire i libri coperti dalla polvere per riportare quel destino, degli intellettuali e della saggistica, al suo percorso (non ancora alla sua meta).

È vero, infine, che Fortini, scrivendo la sua prefazione, si rivolge a un pubblico ben preciso, gli studenti latino-americani a cui capiterà di avere fra le mani Los poderes culturales. Proprio quel mancato incontro crea ora, tuttavia, la possibilità di uno nuovo e ancora decisivo, quello che con queste pagine ci è dato compiere. Dice Fortini, nella sua lettera a Di Prisco: «Quando un testo lascia i suoi interlocutori immediati esso rischia la sua vera prova».6 E ancora, nella prefazione, rivolgendosi agli studenti sudamericani: «Questo libro è piuttosto vostro che dei miei concittadini». È in queste due affermazioni così strettamente legate che dobbiamo vedere il senso, non solo di questo inedito, ma di tutto Verifica dei poteri; opera che oggi, dopo decenni di oblio, è possibile rileggere grazie all’edizione proposta dal Saggiatore7 nel centenario dalla nascita di Fortini. Oggi come allora i lettori di Caracas e del Sudamerica, gli studenti che tra Italia e resto del mondo leggono Verifica dei poteri sono quelli con cui il libro «rischia la sua vera prova». Essi fanno parte di quella massa di cui parla l’autore, formatasi con la mondializzazione, che subisce e condivide la stessa evidente e crescente diseguaglianza; sono i nuovi soggetti politici che sperimentano la consapevolezza delle contraddizioni della società attuale e la condizione di non esser più voce di nessuna coscienza dell’avvenire, nemmeno individuale. Quelli che, infine, hanno di fronte la condizione che ci mostrano i telegiornali, con gli sbarchi dei profughi, l’esilio e la disperazione lungo i confini di Europa e nella vita aggrappata alle zone più marginali delle città e dei paesi; dove si dà e si accetta la logica del dominio e dello sfruttamento come unica forma di vita. Sono gli stranieri dal proprio passato che abitano un paese sconosciuto e apparentemente senza storia. È perciò agli studenti italiani del nuovo millennio, prima ancora che a quelli del resto del mondo, che dedico le pagine che qui si propongono per la prima volta. Prima dei loro docenti o degli scrittori che leggono, sono loro a dover leggere e verificare «se quelle pagine abbiano [ancora] uno stridore utile, un cigolio sgradevole ma proficuo» capace di far intendere a se stessi che esistono in quanto destinatari dell’appello finale, «Tutto è da ripensare e da fare».

* * * *

Franco Fortini, Memoria e futuro

(a cura di S. Peluso)

 

Nota introduttiva

Nel giugno 1968, ossia nel pensiero di quella in più sensi memorabile primavera, scrissi alcune pagine pensando di premetterle ad una edizione in lingua castigliana di Verifica dei poteri, di cui mi era stata annunciata la pubblicazione a Caracas, Venezuela. Quella traduzione, col titolo Los poderes culturales fu poi stampata nel 1970. Ma rinunciai frattanto a mandare la prefazione perché mi parve pretenzioso indirizzarmi a un pubblico che non conoscevo per dire, soprattutto, che non lo conoscevo.

A me sembra che oggi, con diciassette anni di distanza e di prospettiva, quelle pagine abbiano uno stridore utile, un cigolio sgradevole ma proficuo. Il lettore di oggi vi potrà incontrare affermazioni che continuano a parermi valide; come quella sul saggismo, a proposito del quale facevo i nomi di Lukács, Benjamin e Adorno, ignaro che pochi anni dopo il primo e il terzo di quegli autori sarebbero stati depennati, per decreto della moda culturale, dalla memoria giovanile o stravolti in quella adulta. Di fatto si è continuato, a “sinistra”, a scrivere come se i condizionamenti della industria culturale e della manipolazione delle coscienze non fossero che trascurabili particolari e come se il quadro politico, sindacale, economico non dipendesse anche da quelli e non li accompagnasse.

Si potrà misurare anche quali erronee speranze fossero, allora, le nostre. Ma le vostre, quali sono? Non rispondete che non ne avete. All’opposto della speranza, non c’è, come di solito si crede, la disperazione, ci sono soltanto una o più speranze inferiori o meno degne. Dicono i teologi che gli uomini non si dividono fra chi crede e chi non crede in un Dio ma fra chi vi crede e chi crede, invece, in un qualche idolo. Quali sono i vostri idoli?

La Nota del 23 maggio 1975, trovata in un mio quaderno, vorrei fosse letta di seguito alle pagine precedenti. Fra quelle e questa erano passati sette anni, tutto cambiato. Le rivolte armate del Sudamerica erano state spazzate via. Allende era stato ucciso. Cominciavano, o continuavano i massacri e le torture in Argentina, Guatemala, Brasile. Da noi, in Italia, sappiamo cosa era successo e stava per succedere. Dieci anni di piombo, di stragi, di degradazione della indipendenza nazionale e intellettuale; dieci anni che si chiudono con tre milioni di disoccupati, la creazione di dislivelli economici e intellettuali feroci, la dissoluzione delle forze politiche di qualunque tendenza. Tutto è da ripensare e da fare. «La situazione», avrebbe detto Mao, «è eccellente».

 

Per gli studenti latino-americani (giugno 1968)

Or è un anno, pensando a scrivere qualche pagina per la traduzione di Verifica dei poteri, che introducesse il libro presso il lettore dell’America Latina – e ritenevo di dovermi rivolgere soprattutto a studenti – mi chiedevo chi fossero per me, per la mia ignoranza, quei giovani; i termini della loro cultura, i loro problemi. E proprio grazie ad una ignoranza più grande del credibile, (la cui gravità e il cui significato erano tanto più profondi e chiari quanto meno era soltanto mia bensì della mia cultura e della mia Europa) sapevo che avrei avuto solo due scelte: o supporre quei giovani delle università del Centro e del Sudamerica così remoti da rendere superfluo ogni discorso e qualsiasi tentativo di traduzione, vana dunque l’impresa dell’editore che stava per pubblicarmi; o supporre invece una identità di fondo, la possibilità che il discorso portasse, che il lettore esistesse, ossia collaborasse.

Dopo qualche rapido cenno all’età di Bolívar o San Martín, o alla guerra ispano-americana del 1898, la storia dei paesi dell’America Latina, nelle nostre scuole medie, non esiste. La conoscenza della letteratura dell’America Latina non oltrepassa pochi nomi, assai bizzarramente assortiti: Neruda, Guillén, Vallejo, Asturias, Borges, Márquez; la maggior parte delle cosiddette “persone colte” (intellettuali, professionisti, insegnanti), ignora anche questi pochi nomi. La maggior parte dei giovani e anche meno giovani che simpatizzano con le sinistre dell’America Latina non sanno chi siano stati Martí o Mariátegui.

Quello che mi pareva di poter escludere immediatamente era l’ipotesi di un lettore che non fosse, in una qualche misura, complice; e che, prima ancora di cominciare la lettura, non mi credesse sulla parola. L’autore detesta con tutto il suo animo l’angolatura letteraria degli argomenti, che è quella del presente libro e considera servitù quasi ripugnante la forma della saggistica “aperta” o “libera” alla quale tuttavia ha fatto ricorso. Eppure non sa far altro che ostentare questi stracci, i polverosi costumi di scena dell’”anima bella” di ascendenza umanistica: anche perché li preferisce alle livree specialistiche. Nella mia patria esistono numerosi gli studiosi capaci di dare, agli argomenti che frequenta in questo libro, un grado ben diverso di fondatezza e di argomentazione razionale. Ma egli si lusinga che il lettore, se avrà la pazienza di seguirlo, riconoscerà una qualche unità, o, se si preferisce, un destino, nella forma prescelta; e dunque (quale che ne sia il valore) un significato oggettivo.

Una parte di questi scritti è giudicata, anche dai più benevoli e intelligenti miei connazionali, assai difficile. Ho sempre ritenuto questo fosse un difetto; ma solo in questi ultimi tempi ho cominciato a credere che si tratti invece di una colpa. Non di un difetto o di una colpa personali. Quando voglio so essere chiarissimo e perfino brillante. No, la mancanza di chiarezza, di rapida comunicabilità è venuta da una incertezza sul tipo di strumento comunicativo, sul genere letterario da impiegare. Quella incertezza può avere una origine psicologica, privata, che qui non interessa. Ma ha anche, o soprattutto, una origine storica, sociale, politica. È collegata alla storia del mio paese, dell’Europa, anzi del mondo.

Un poeta italiano, generoso (ma, forse, proprio per questo a tal segno ubriaco di quel vino dei poeti che è la morte da dimenticare ogni speranza terrena) scrisse, una quindicina di anni fa, nel terrore di un nuovo conflitto: “Qualcosa nel mondo accadrà – per colpa dei nostri pensieri”. Veramente qualcosa è accaduto: non ad opera dei nostri pensieri, ma per quello che essi non hanno fatto.

Forse non potete nemmeno immaginare fino a qual segno la nostra educazione e cultura fossero, fino ad un decennio fa, stoltamente europocentriche. Dovunque ci volgessimo era l’Europa con le sue atroci e intollerabili grandezze. Sono fiorentino, ne so qualcosa. Dal granito di Leningrado alle vigne di Dordogna, dalla casa di El Greco al mulino di Hölderlin… Solo il mondo di lingua inglese sembrava, in una qualche misura, sfuggire a questi limiti. Ma, se si eccettua l’America degli Stati Uniti, il resto del mondo sembrava solo un impreciso sfondo all’azione dell’Europeo, come in tanti fetidi film razzisti e colonialisti degli anni Trenta.

In uno degli scritti di questo libro si parla della funzione del critico letterario come di colui che è eminentemente il diverso dallo specialista e, in una società ben ordinata, ha il compito di mediare vari momenti della sovrastruttura ideologica (e non già diversi ordini o ceti o classi, quali ad esempio autori-lettori, più colti-meno colti, “avanguardie” vive – intellettuali e politiche – “basi” etc.). Oggi la realtà sociale non lascia più margine alcuno per una simile ipotesi. E che quindi la funzione del critico deve ridursi o a quella del funzionario dell’industria culturale o allo “specialista” (studioso di scienza della letteratura) oppure alla unione – nella malafede – dei due precedenti momenti. Il saggismo, nel senso alto da me suggerito anni fa sulla scorta di indicazioni di Lukács, Benjamin e Adorno, è oggi, illegittimo; non può essere accettato né a destra né a sinistra, e, se trova maggiore comprensione e udienza a destra questo avviene grazie all’ovvio equivoco per cui la causa della conservazione tende a pregiare tutto quel che presuppone, fingendone l’esistenza, una società ben ordinata: che non c’è. È molto interessante rilevare come in Francia molti “scrittori e critici” (come R. Barthes e anche quelli del gruppo Tel Quel) partiti sette o otto anni fa da una intenzione di “scientificità” antideologica (in polemico rifiuto della gauche e di Sartre), e tesi attraverso le metodologie strutturaliste alla costituzione di un sapere interdisciplinare, abbiano finito in pratica col liquidare le stesse pretese scientifiche dello strutturalismo e muovere verso il (o tornare al) Gran Pasticcio vitalistico-esistenziale, dove turbinano Nietzsche, Freud e Heidegger. In quello non esistono più, nonché i generi letterari, nemmeno le distinzioni fra letteratura creativa e critica letteraria, storiografia ecc. Tutto è écriture. Ancora una volta la tensione dialettica (che ha reso e forse tornerà a rendere possibile la saggistica) viene liquidata a favore di una indistinzione regressiva, di un linguaggio o sistema di segni che vorrebbe anticipare misticamente e quindi in modo mistificato (come già nei Surrealisti di trenta o quarant’anni fa) quel superamento delle divisioni del lavoro che è l’ipotesi limite della Rivoluzione.8 Così essi possono credere, la causa rivoluzionaria, di servirla. Ma non esiste nessuna possibilità intellettuale di anticipo. Se arte e poesia prefigurano, esse sì, la fine delle divisioni del lavoro, pagano questo dono di profezia, come Cassandra, col non essere credute fino in fondo (onde ogni bellezza è vulnerata segretamente dalla stessa intransitività che la fa esistere).

Identità di problemi. Mondializzazione. Gli studenti non sono più l’intellighenzia. Sono massa. Qualcosa di analogo avviene anche per lo scrittore. Egli non è più la coscienza della società al potere né pretende essere quella dell’avvenire.

Credo che buona parte delle riflessioni del periodo 1945-1965 intese, in Italia, a valorizzare le istanze nazional-popolari si collegassero con le remote nozioni romantiche di “nazionalità” e di “spirito delle nazioni”, riprese poi dalla sociologia positivista. Esse si ritrovano in una vastissima area e con le più diverse e apparentemente contraddittorie colorazioni politiche, ovunque si rivendica indipendenza da una condizione di alienazione coloniale. Sono le formule proposte dalle cosiddette “borghesie nazionali”; nei confronti delle quali l’età fra le due guerre – ma anche quella successiva – ha veduto le posizioni delle forze rivoluzionarie oscillare dall’alleanza al rifiuto.

Non occorre, credo, avere una conoscenza approfondita delle vicende ideologico-politiche dell’America Latina dalle guerre di indipendenza ai nostri giorni per supporre che questa problematica sia stata e probabilmente sia ancora molto rilevante per tutto il Subcontinente.

Il tema dell’“identità” o dello “spirito” o della “specificità” e della “missione” nazionale, tema tipico della cultura borghese, è una delle maggiori tentazioni dei popoli che si affermano contro l’oppressione coloniale, semicoloniale, compradorica.

Nella manipolazione generalizzata spariva tra 1945 e 1965 la possibilità di essere “voce della coscienza” e “difensore dell’umanità”. Ma dove si manifestava ancora la figura dello scrittore, dell’”impegnato”? Nei paesi, ad esempio, in aperta lotta con le forme aperte di fascismo (Spagna, Portogallo, Grecia) o di colonialismo (Algeria). Mentre la figura dell’intellettuale organico conservava più o meno le sue caratteristiche ufficiali nei paesi socialisti, appunto, ufficiali e convenzionali, Sartre aveva, possiamo dire, creato in Franz Fanon la perfetta figura dell’intellettuale “impegnato”. Però non era più possibile situarlo in Francia, ma solo in Algeria.

Negarsi come intellettuale, ossia come funzionario e prete, essere “come tutti”, è stato sempre il desiderio profondo di ogni poeta serio, anche se questo desiderio si è sempre accompagnato alla certezza di non poter mai del tutto perdere la veste sacerdotale, e il privilegio, di non poter cessare mai del tutto di rivendicare il carattere metatemporale e metastorico del fare poetico.

Questo libro è stato composto nel periodo (della mia biografia ma anche della storia del mio paese e forse d’Europa) che sta tra la fine di qualsiasi speranza nelle possibilità riformiste (ebbi a chiamarla la “fine dell’antifascismo”) e la certezza dell’inizio di un grande rivolgimento internazionale… quello che tutti ormai hanno sotto gli occhi. Gli scritti che portano le date più remote mostrano con ingenuità che l’autore credeva ancora ad una moralità da salvare, ad una funzione sociale della letteratura. Forse è opportuno che i miei lettori sappiano che durante il secondo conflitto mondiale e negli anni immediatamente seguenti i miei scritti sono stati, seppure con non poca imprecisione critica, classificati fra quelli della letteratura impegnata e resistenziale, mentre quelli più recenti concludono invece alla “fine del mandato sociale” degli scrittori.

Questo libro è piuttosto vostro che dei miei concittadini. Infatti in questi ultimi anni – ed è inutile che io vi elenchi i fatti, i nomi e vi indichi le tracce di sangue – è avvenuto qualcosa di straordinario, della cui importanza si possono però rendere conto quasi soltanto coloro che hanno vissuto dopo il 1945. È nella presenza simultanea alla coscienza del mondo, di tutte le culture e i popoli ai quali gli Occidentali hanno tolto verità e parola per secoli.

Esiste, nel mondo Occidentale, una condizione sociale, sempre più largamente diffusa, che un tempo fu di specifiche parti della società e si chiamò piccola borghesia. Alcune delle caratteristiche di quel ceto sono oggi reperibili in strati sempre più larghi. È vero che quel ceto allargato tende a partecipare della condizione di alienazione e unidimensionalità di cui ci ha parlato Marcuse; tuttavia in quella condizione si dà ancora la possibilità di sperimentare la contraddizione fra certezza e precarietà, fra intento di partecipazione all’esistenza e suo rifiuto. I termini esistenziali di “inessenzialità” e di “deiezione” sono stati formulati soprattutto per quella condizione. E per quella condizione è divenuto problematico qualsiasi rapporto con gli altri e con l’altro.

Ora accade che al nostro neo-piccolo borghese d’oggi (la cui caduta nella condizione di salariato e di servo del capitale si accompagna a quella di animale ingrassato con i cascami della “alta cultura”, e quindi con le ideologie dei dominatori) si dia la possibilità di scoprire che una parte dei suoi simili, una parte immensa dei popoli, partecipa da sempre di quella inessenzialità e si ciba di quei medesimi cascami.

La situazione intorno a noi è mutata in pochi anni con tale velocità che un libro come questo non può sperare sopravvivenza se non come libro di storia, nella misura in cui aiuta a ripercorrere e ad intendere le fasi di un itinerario che abbiamo immediatamente alle spalle; oppure come libro di stile ossia come costruzione linguistica, come qualcosa che con la propria articolazione formale aggiunge un significato secondo a quello primo e più evidente. Storia di chi? Ma di un intellettuale europeo, nella specie di uno scrittore, di un letterato; ossia di un erede del meglio e del peggio di una cultura… Stile per chi? Per i suoi complici di casta, anzitutto: e di qui la sua condanna. Però nella speranza che una serie di mediazioni possa rendere il significato di quello stile percettibile e utile al di là della sua casta e della cultura della sua classe.

Se mi rivolgo agli studenti sudamericani (con un rispetto, mi si voglia credere, che non è esente, anzi è accresciuto dalla coscienza della mia presunzione) non è solo perché la casa editrice di questo libro è universitaria. Ma perché è stato necessario che una profonda agitazione universitaria scuotesse nell’ultimo anno, le università europee (Cambridge e la Sorbona, Torino e Belgrado, Roma e Marburgo, Varsavia e Berlino) perché noi potessimo cominciare a comprendere la lunga e spesso tragica storia delle università sudamericane e asiatiche. Noi eravamo cresciuti imparando che cosa erano stati gli studenti nell’Europa delle rivoluzioni nazional-borghesi, gli studenti della battaglia di Jena e quelli de I Miserabili; avevamo conosciuto gli studenti della letteratura e della tradizione russa. Ma a quel punto del processo storico, l’università dei nostri padri e nostra era divenuta la cittadella del nazionalismo e del fascismo. In Italia, erano stati gli studenti a manifestare per le strade e a chiedere la guerra, nel 1915 e nel 1940. Almeno in Italia, per i primi quarant’anni del secolo, studente equivaleva a: avversario dell’operaio. Il grido “ma vai a lavorare” che il padre borghese e benpensante indirizzava al corteo di scioperanti operai (o magari di disoccupati), questi ultimi lo hanno ripetuto allora ai figli di quei padri, studenti manifestanti per qualche agitazione nazionalistica o patriottica. Nell’enorme confusione ideologica che il fascismo non poteva non indurre, se gli studenti di Shanghai o Nuova Delhi, di Atene o di Madrid tumultuavano o si dibattevano con le forze dell’ordine, eravamo incapaci di comprendere che cosa distinguesse entro quelle file la destra nazionalistica dalla sinistra socialista. Ma quella incapacità l’avevamo in comune, senza saperlo, con i maggiori dirigenti del movimento operaio; come insegnò l’avvento del nazismo.

Le possibili latenze dello sviluppo delle rivoluzioni nazionali nel secolo XX sono chiare alla mente dei maggiori teorici; quarant’anni fa, ad esempio, J.C. Mariátegui nel saggio sul “Problema agrario e problema indio” concludeva, per lo sviluppo dell’agricoltura peruviana: “Si pone qui un problema non soltanto per una eventuale soluzione di tipo socialista ma anche per una di tipo capitalistico”. Era però necessario si arrivasse al sesto decennio del nostro secolo perché la separazione fra i due elementi cominciasse a diventare, nella massa studentesca, un fenomeno, appunto, di massa; certo favorito, almeno in Italia e in Germania, dalle pregresse e atroci esperienze di esasperato nazionalismo. Non so né posso sapere cosa si dibatta in proposito fra i giovani delle università sudamericane. Ma basta aver seguito le notizie giornalistiche e quel tanto di pubblicistica corrente che anche da noi si scrive sull’argomento. La fase attuale dello sviluppo capitalistico sta liquidando alcune élites che fungevano da mediatrici fra classi dominanti e subalterne. Gli intellettuali come professionisti delle coscienze e gestori di Dio, sacerdoti dell’ideologia borghese, vengono sostituiti ovunque.

In questo senso il superamento delle contraddizioni storiche che dei movimenti studenteschi in paesi relativamente meno sviluppati (com’è l’Italia e come sono, suppongo, la maggior parte dei paesi dell’America Latina) avviene di fatto ad opera delle esigenze capitalistiche. Gli studenti sono, in quanto massa, respinti o di qua o di là con una radicalizzazione che era facilissimo prevedere anche senza indagini sociologiche.

Per questa edizione venezuelana ho aggiunto un mio scritto recente sulle forme della nuova avanguardia letteraria in Italia.9 Credo che esso debba essere letto – come d’altronde tutte le pagine di questo libro – come l’applicazione ad un particolare settore della vita culturale (in questo caso: la letteratura e la critica letteraria) di un discorso globale, o per meglio dire, tendenzialmente totalizzante. In questo senso so di muovermi deliberatamente contro due o tre dei più radicati miti della cultura ufficiale: il mito antideologico, quello specialistico e quello avanguardistico. Accetto di buon animo di essere definito quindi un fumoso ideologo, un dilettante e un retrogrado.

Oggi – e mentre vi scrivo – non passa giorno che notizie, immagini, libri, interrogativi sempre più incalzanti non ci giungano dal vostro continente. Sta accadendo, entro di noi, qualcosa che non avremmo sospettato: le realtà nazionali o continentali e razziali, le diversità dei livelli economici e delle culture, le antitesi politiche, tutto questo precipita con un movimento accelerato. Il mercato mondiale preannunciato or è più di un secolo ha distrutto definitivamente o respinto del folklore il fascino apparente dell’“altro”, del “diverso”. Per la gente della mia generazione, che non aveva potuto lasciare i confini nazionali prima dei trent’anni e quelli d’Europa prima dei quaranta, il mondo è stato ancora novità e sorpresa nella sua dimensione geografica e storica. Oggi prevale l’identità, la diversità è gestita dal turismo o è spettacolo. Mai nella storia passata è stato possibile come ora ridurre gli uomini alle due categorie, di padroni e di servi, di oppressi e di oppressori; se infatti è vero che interi popoli partecipano contemporaneamente delle due qualifiche, è anche vero che mai è stata così forte la possibilità di scegliere il proprio luogo, di conoscere il proprio destino. Come scriveva recentemente, Edgar Snow, è diffuso nel mondo un atteggiamento di sfida; e mai il desiderio di verità e di discussione è stato così forte.

L’autore del Capitale diceva, più di un secolo fa, di non conoscere l’Uomo ma il Tedesco, non lo Spirito ma la sua determinazione. È bastato un secolo perché ad un moltiplicarsi di determinazioni sempre più precise, di una sempre più spietata misurazione storico-sociologica, corrispondesse, una riduzione altrettanto spietata ad alcuni problemi essenziali della specie umana.

Quando questa vita sarà passata e – come ha scritto un poeta – “torneremo giovani a fare il giro del mondo”, allora gli occhi potranno tornare a scoprire diversamente le meraviglie e anche gli orrori di cui il mondo e gli uomini sono stati capaci. Le immense scene naturali dei continenti che noi non avremo visitati e le minuscole perfette valli in cui gli italiani e i popoli mediterranei hanno sperimentate nell’architettura delle coltivazioni le antiche forme di conoscenza; i totem dei musei e gli affreschi delle cattedrali; e anche le parole del giuoco e del canto, tutto insomma quel che nella nostra giovinezza ci parve troppo bello e desiderabile e la nostra maturità ha guardato con impazienza e quasi dimenticato, tutto questo sarà di chi avrà saputo volerlo.

 

Nota del 23 gennaio 1975

Quando l’equilibrio si spezzerà, nel nostro paese accadranno cose orrende; molto peggiori di quelle che accaddero trent’anni fa. L’odio che si è venuto accumulando ha una pressione feroce. Quest’odio non ha una direzione politica se non elementarissima e, come tale, votata al peggio. Quel che fa pensare che sia meglio scomparire dalla scena al più presto è l’impossibilità di lottare contro la catastrofe imminente ossia contro una di queste due ipotesi: quella di una indefinita prosecuzione dell’attuale stato di degradazione e quella di un passaggio dalla anarchia indotta del potere alla anarchia violenta della guerra civile.

Non è possibile lottare contro questa condizione catastrofica senza una visione politica complessiva – che è appunto quella che manca. Tutto quel che siamo capaci di fare è vedere bene che la situazione richiederebbe un grado di eroismo anche intellettuale, di cui siamo incapaci.


Note
1 Vengono esclusi dal libro i saggi Per uno stato civile dei letterati, Precisazioni, Leggendo Spitzer, Mimesis, Lukács in Italia, Sartre romanziere, Saint Genet, Due Ritorni e l’Indice dei nomi e delle cose notevoli per un taglio complessivo di ottantasette pagine.
2 F. Fortini, lettera del 23 ottobre 1966 a R. Di Prisco, [I] c. Lettera conservata nell’Archivio Franco Fortini della Biblioteca Umanistica di Siena, f. XXVI, c. 62.
3 F. Fortini, Memoria e futuro, in «Azimut», maggio 1983, pp. 98-99.
4 Si noti l’aggiunta a penna in orizzontale, lungo il margine sinistro, che Fortini inserisce nel 1985 e come questa condensi quello che è l’atteggiamento che Fortini mantiene a fronte delle stragi che attraversano il decennio 1975-1985.
5 Sul tema della Nietzsche renaissance, si veda il saggio di D. Balicco, «Una lettera a Nietzsche». Fortini e il nichilismo di massa, in «Allegoria», 63, gennaio-giugno 2011, pp. 103-133.
6 F. Fortini, lettera del 23 ottobre 1966 a R. Di Prisco, cit.
7 F. Fortini, Verifica dei poteri. Scritti di critica e di istituzioni letterarie, Milano, Il Saggiatore, 2017. Va qui ricordata anche la recente edizione inglese, per l’eccellente cura di Alberto Toscano: F. Fortini, A Test of Powers: Writings on Criticism and Literary Institutions, Calcutta, Seagull Books, 2016.
8 Nella copia del testo corretto da Fortini a penna, «della Rivoluzione» è sottolineato e indicato con un segno convenzionale che fa pensare a una volontà di cancellatura.
9 Si tratta dello scritto Due avanguardie, in Avanguardie e neoavanguardia, a cura di G. Ferrata, Milano, Sugar, 1966; inserito successivamente nella II edizione di Verifica dei poteri. Scritti di critica e di istituzioni letterarie, Milano, Il Saggiatore, 1969.

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