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La rete intrappola la democrazia
di Antonio Cecere
Paolo Ercolani è tornato, in Figli di un io minore (Marsilio 2019), a riesaminare, da una prospettiva alternativa a quella popperiana, il rapporto fra democrazia e conoscenza. Vi si collega una proposta di costruzione di una nuova società della conoscenza che merita di essere attentamente valutata
A distanza di sette anni da L’ultimo di Dio (Dedalo 2012), Paolo Ercolani torna ad approfondire un tema essenziale per il dibattito intellettuale e politico dei nostri giorni: la democrazia intrappolata nella rete. Il filosofo romano è impegnato da anni nello studio e nell’analisi dei processi politici e dei cambiamenti in seno alle democrazie occidentali in virtù dell’impatto dei nuovi media.
In questo saggio l’analisi si allarga a tematiche antropologiche e pedagogiche, frutto di anni di confronti con studenti e di una propria esperienza diretta nel mondo virtuale dei social networks.
Il libro è suddiviso essenzialmente in due parti: una prima è costituita da un’importante prefazione di Luciano Canfora e dai sei capitoli che l’autore ha strutturato in modo che siano leggibili anche da un pubblico non specialista; nella seconda parte, pensata per un circuito di studiosi, l’autore elabora un impianto di note molto consistente e soprattutto una bibliografia aggiornatissima e di grande respiro internazionale.
Nella prefazione (pp. 7-9) Luciano Canfora mette in evidenza l’argomento più radicale e corrosivo del saggio di Ercolani, ovvero l’idea che il suffragio universale, vero totemdelle democrazie moderne, abbia mostrato tutta la sua natura superflua, confermando la teoria secondo la quale la rete, il massimo strumento di comunicazione di massa, non produca maggioranze rivoluzionarie, ma, al contrario, sia un veicolo di consolidamento per le élite più reazionarie.
Nel primo capitolo (pp. 27-84), L’uomo senza pensiero, Ercolani fa i conti con la vulgata popperiana che tanto aveva contribuito a fomentare illusioni circa l’avvento di una società aperta, quando il web cominciò a mostrare la propria vocazione di strumento di massa. L’autore, grazie a una scrittura agile e comprensibile, ma allo stesso tempo tagliente, riesce a cogliere con precisione tutte le più evidenti contraddizioni fra le speranze dei primi osservatori del fenomeno web negli anni ottanta e la realtà dei giorni nostri. L’aver puntato sulla difficoltà del libero pensiero nella società attuale pone l’analisi del testo all’interno della già consistente letteratura sociologica di un maestro come Edgar Morin, il quale aveva già notato come lo «Tsunami di informazioni», che piovono ogni giorno sui nostri dispositivi tecnologici, invece che favorire riflessioni e partecipazione al dibattito pubblico, favorisce una passiva acquisizione di slogan buoni per un atteggiamento da sostenitore di idee altrui.
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Contraddizioni in seno al populismo
di Fabio Ciabatti
Niccolò Bertuzzi, Carlotta Caciagli e Loris Caruso (a cura di), Popolo chi?, Ediesse, Roma 2019, pp. 214, € 13,39
Dagli anni ’80 del secolo scorso le classi popolari sono scomparse dal discorso pubblico mainstream come soggetto autonomo, capace di parlare con una propria voce. Eppure, come ogni rimosso, il popolo riemerge come fantasma cui attribuire tutti i mali del presente: l’elezione di Trump, la vittoria della Brexit, l’affermazione elettorale di Lega, la crescita del razzismo e chi più ne ha più ne metta. “Popolo sei ‘na monnezza!” verrebbe da dire insieme all’ingenuo fraticello interpretato da Alberto Sordi nel film Nell’anno del Signore.
Ma è proprio così? Gli autori del libro Popolo chi?sostengono che si tratta di una rappresentazione decisamente unilaterale. E lo fanno dopo aver ascoltato la voce di quelle classi popolari in nome delle quali molti si sentono autorizzati a sproloquiare. Il testo, curato da Niccolò Bertuzzi, Carlotta Caciagli e Loris Caruso, rappresenta il risultato di una ricerca basata su 60 interviste in profondità realizzate in quartieri e aree popolari di Milano, Firenze, Roma e Cosenza. Secondo gli autori non esiste un popolo pronto a consegnarsi nelle mani del populismo di destra. Piuttosto, il quadro che emerge viene riassunto con una parola: “contraddizione”. Vediamo brevemente perché.
L’inchiesta rimarca l’importanza della sfera lavorativa nella vita delle persone. “Sfruttato, precarizzato o intermittente, il lavoro (e la sua mancanza) costituisce una parte centrale nella realtà quotidiana di tutti gli intervistati, rappresentando … la fonte principale della loro sofferenza”.1 Di fronte a questa situazione, però, prevale la rassegnazione e la paura. Non si pensa che un’azione collettiva possa cambiarla. La maggioranza delle persone, infatti, non vive questi problemi come immediatamente sociali o, in senso lato, politici. Le sofferenze esperite nel luogo di lavoro sono considerate come mali privati sconnessi dal vissuto e dalle sofferenze delle altre persone che condividono le stesse condizioni. In breve il lavoro è centrale, ma non produce identità sociale e mobilitazione.
Ma dovendo pensare ad un conflitto chi dovrebbe essere la vera controparte? Chi comanda davvero, secondo gli intervistati, non sono i politici, ma i grandi imprenditori, i banchieri e i finanzieri. Eppure nei loro confronti non vengono pronunciate parole di disapprovazione.
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Note sulla fase politica
di Mimmo Porcaro
1.
Nonostante sia numericamente ben possibile assicurare la continuità di gestione dell’Ue (magari peggiorandola, grazie ai liberali), i risultati elettorali (in particolare quelli francesi, italiani ed inglesi) indicano il persistere di una seria crisi di consenso. Per quel che conta, il parlamento di Strasburgo deciderà quel che vuole, ma i “fuochi” di crisi restano accesi in tutte le più grandi nazioni del continente, anche nella sempre più frammentata Germania. Purtroppo questa crisi non è gestita dalle forze neosocialiste. Le elezioni hanno meritatamente punito Tsipras, ma hanno anche duramente colpito, o ulteriormente indebolito, le posizioni oscillanti ed incerte di Corbyn, di France Insoumise e di Podemos. Se è positiva la conferma della protesta popolare contro l’Unione, questa considerazione viene bilanciata dal fatto che tale protesta è ormai stabilmente egemonizzata dalla destra. Destra che peraltro non pare avere al momento né la volontà né la possibilità di usare la propria influenza per fini diversi da quelli di una rinegoziazione intra-Ue. Questo è il significato immediato (e negativo) delle elezioni europee.
2.
Sarebbe peraltro sbagliato leggere la situazione attuale semplicemente come scontro tra (grande) capitalismo globalista e (piccolo) capitalismo sovranista. E’ ormai iniziata da tempo l’inversione della globalizzazione, per cui si può dire che tutti i gruppi capitalistici, pur giocando ancora, in modi diversi, sull’apertura dei mercati, per tutelare i propri interessi fanno ricorso in maniera crescente alla logica territoriale. Ciò non vale solo per Trump. Vale anche per l’Unione: qui i due stati leader, da sempre gelosi della propria sovranità, disegnano un progetto di cooperazione economica che prevede la parziale chiusura del territorio dell’Unione stessa ad iniziative “straniere”, e la tutela di campioni nazional-continentali.
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Per un salario minimo dignitoso, contro lavoro povero e sfruttamento
di coniarerivolta
Al Senato è in discussione un disegno di legge, di iniziativa del Movimento 5 Stelle e a prima firma della senatrice Nunzia Catalfo, che mira ad introdurre un salario minimo orario in Italia, uno dei pochi paesi europei ancora sprovvisti di una legge che fissi una soglia minima alle retribuzioni. Secondo i promotori, il disegno di legge darebbe piena attuazione all’articolo 36 della Costituzione, che stabilisce che ciascun lavoratore ha diritto a una «retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa».
Il disegno di legge è suscettibile di essere modificato anche radicalmente attraverso gli emendamenti che già sono stati o saranno proposti dai parlamentari. Nonostante ciò, è interessante analizzare la discussione nata attorno alla proposta Catalfo, i vantaggi che potrebbero derivare dall’introduzione di un simile istituto nel nostro Paese e le eventuali insidie per i lavoratori che questo disegno di legge nasconde.
Ma cosa prevede questa proposta? In estrema sintesi, in base al dettato del disegno di legge (articolo 2), affinché si possa parlare di retribuzione complessiva proporzionata e sufficiente, il trattamento economico complessivo, proporzionato alla quantità e qualità del lavoro prestato, non deve essere inferiore a quello previsto dal contratto collettivo nazionale in vigore per il settore e per la zona nella quale si eseguono le prestazioni, il cui ambito di applicazione sia maggiormente connesso e obiettivamente vicino in senso qualitativo all’attività svolta dai lavoratori anche in maniera prevalente e comunque non inferiore a 9 euro all’ora al lordo degli oneri contributivi e previdenziali.
Questa definizione, così come i rimanenti articoli del disegno di legge, presenta dei punti discutibili. Da un lato, la proposta depositata al Senato sembra offrire preziose sponde che potrebbero rivelarsi utili per conquistare maggiori tutele per i lavoratori, in particolare con riferimento ai cosiddetti ‘lavoratori poveri’, ossia quelli caratterizzati dai salari più bassi.
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La disoccupazione giovanile e la proposta di Stato innovatore di prima istanza
di Guglielmo Forges Davanzati
L’aumento della disoccupazione giovanile, secondo la visione dominante, è da imputarsi al mancato incontro fra la domanda di lavoro espressa dalle imprese e l’offerta di lavoro proveniente dai lavoratori. Questi ultimi – si sostiene – ricevono da scuola e Università una formazione generalista, eccessivamente calibrata sull’acquisizione di conoscenze e poco attenta alla trasmissione di competenze. Le competenze – il saper fare – sono (o sarebbero) quelle di cui le imprese, in un’ottica di breve periodo, hanno bisogno. La linea di politica economica che ne discende fa riferimento alla necessità di riformare i sistemi formativi per renderli funzionali alla produzione di forza-lavoro ‘occupabile’.
Il fatto che alcune imprese, in alcuni particolari segmenti del mercato del lavoro, trovino (o denuncino) difficoltà nel reperire manodopera con il livello e la qualità della formazione richiesta non implica che l’intera disoccupazione giovanile in Italia (superiore al 60% in alcune regioni del Sud) dipenda dal mismatch fra competenze offerte e competenze richieste. Per smentire questa tesi, può essere sufficiente considerare che oltre il 40% delle imprese italiane dichiara di non occupare – o non intendere assumere – laureati, a fronte del 18% della Spagna e del 20% della Germania.
La disoccupazione giovanile italiana – da molti anni superiore alla media europea – dipende essenzialmente dal combinato di un calo di lungo periodo della domanda aggregata (calo si è manifestato con la massima intensità a seguito dello scoppio della prima crisi, nel 2007-2008, e che ha avuto impatti anche sulla disoccupazione di individui in età adulta e anche sulla disoccupazione di lungo periodo) e dalla crescente fragilità della nostra struttura produttiva, particolarmente nel Mezzogiorno. La disoccupazione giovanile è aumentata sia perché le imprese hanno trovato conveniente, in una fase recessiva, non licenziare lavoratori altamente qualificati per non dover sostenere i costi della formazione dei neo-assunti, sia per il blocco delle assunzioni nel pubblico impiego.
La teoria del mismatch fa propria una visione della formazione economicistica, funzionalista e di breve periodo: il sistema formativo – stando a questa visione – deve essere sottostare a vincoli propriamente economici.
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Umanità, tecnica e natura (ricordando lo sbarco sulla luna)
di Alessandro Della Corte, Stefano Isola e Lucio Russo
Ricorre quest’anno il cinquantesimo anniversario dello sbarco sulla Luna, e lo ricordiamo formulando una domanda i cui legami con quell’evento speriamo appariranno più chiari nel seguito.
Perché l’ideale platonico di un potere legittimato soltanto dalle superiori conoscenze dei suoi detentori sembra oggi tornato così seducente?
Alcune ragioni ci sembrano abbastanza ovvie. Il crollo del livello culturale medio della classe politica dà origine per reazione a una fisiologica ribellione contro “l’ignoranza al potere”, che facilmente può generare o alimentare l’ideale platonico.
Un tale ideale diviene particolarmente comprensibile, anche se non necessariamente condivisibile, ammettendo di vivere in un mondo che soltanto gli “scienziati” possono comprendere e modificare. Ciò darebbe loro il diritto, si potrebbe sostenere, di decidere anche per i non-scienziati, ovvero per coloro che per ignoranza non sono in grado di discernere la verità dietro le apparenze e conseguentemente agiscono come gli incatenati nella caverna platonica.
Un mondo di questo tipo è stato immaginato molte volte nella storia. Ad esempio da Francesco Bacone, il quale vedeva negli scienziati i soli esseri dotati di un sapere in grado di trasformare la realtà e di assicurare una vita migliore all’intera umanità. Idee di questo tipo, per altro, hanno avuto largo spazio tra la fine del XVII e il XVIII secolo, grazie alle società scientifiche impegnate, tra le altre cose, ad applicare la scienza a problemi che interessavano gli Stati nazionali, nonché alla stessa visione strategica tipica del dispotismo illuminato.
D’altra parte, al tempo in cui viveva Platone, e ancora in quello di Bacone, gli esseri umani si muovevano con una certa fiducia in un mondo regolato da una molteplicità di fattori: la cultura, il linguaggio, la politica, le istituzioni, le arti, le attività pratiche, etc., e anche chi non riteneva desiderabile l’ideale platonico, difficilmente poteva crederlo una reale minaccia per la libertà e la dignità umane. E questo anche perché quell’ideale, e il mondo che lo avrebbe potuto legittimare, non poteva stabilirsi se non come una proiezione dell’immaginazione, poiché l’insieme delle possibilità d’intervento tecnico sul mondo era incommensurabile con la varietà dell’esperienza umana, per orientarsi nella quale si continuava ad avvalersi perlopiù del senso comune e del linguaggio quotidiano.
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Potere al Popolo: sintesi, analisi e proposte della 6° Assemblea Nazionale
di Potere Al Popolo!
Domenica scorsa Potere al Popolo ha convocato a Roma la sua sesta Assemblea Nazionale per fare il punto su quanto fatto finora e sulle sfide che ci attendono. L’Assemblea è riuscita ogni oltre previsione: più di 500 persone sono venute da tutta Italia e anche dai nodi esteri a portare, in quasi 50 interventi, un patrimonio di idee, proposte, esperienze e umanità, hanno condiviso rabbia e gioia, ingiustizie e lotte vincenti, con spirito positivo e con il sentimento di stare costruendo una comunità e uno strumento utile per tutti gli sfruttati. Insieme abbiamo rinnovato quell’impegno a “fare tutto al contrario” rispetto a quello che abbiamo visto nella politica italiana di questi anni.
Dopo un anno e mezzo, infatti, non ci è passata la voglia – e anzi pensiamo sia sempre più necessario – essere diversi da quella politica fatta di molte chiacchiere e pochi fatti, molto verticismo e poca partecipazione, molto opportunismo e poco spirito di servizio, molti personalismi e poco senso del collettivo, molta ideologia e poca concretezza, molta immagine e propaganda e poca sostanza, molti litigi e poca voglia di pratiche comuni…
In quest’anno e mezzo di vita abbiamo toccato con mano che “fare tutto al contrario” è davvero possibile, che è possibile costruire un nuovo tipo di organizzazione, far partecipare le persone e anche ottenere vittorie. Certo, ci siamo sempre più convinti che occorra essere onesti sulle tante difficoltà che un progetto come il nostro deve affrontare, ma anche che bisogna cercare sempre l’aspetto che possa volgerle al positivo.
Stiamo facendo ed accumulando esperienze sul campo, spesso in modo diversificato, stiamo aggregando nuove persone, molte delle quali giovani o nuove alla politica, stiamo cercando di radicarci sui territori aprendo Case del Popolo, ricomponendo settori della società lì dove le classi dominanti hanno lavorato a dividere, disgregare, contrapporre. Stiamo cercando di migliorare il nostro programma attraverso 13 tavoli di lavoro nazionali e, dopo le ultime elezioni amministrative in cui abbiamo eletto consiglieri, abbiamo iniziato a sperimentare anche il lavoro nelle istituzioni di prossimità. Ma siamo perfettamente consapevoli che tantissimo resta ancora da fare per diventare un’opzione credibile agli occhi delle classi popolari.
Le pagine che seguono sintetizzano appunto le analisi e le proposte emerse dall’Assemblea Nazionale per riuscire a crescere, organizzarsi meglio, risultare più incisivi.
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Economia per l'estate
di Michael Roberts
La scorsa settimana, Martin Wolf, il giornalista di economia del Financial Time, ha fatto l'elenco dei nuovi libri di economia da lui raccomandati per lettura estiva. Ha cominciato con "Austerità. Quando funziona e quando no", di Francesco Giavazzi, Alberto Alesina e Carlo Favero (Rizzoli). Wolf lo ha commentato dicendo che «questo un libro estremamente importante. Il libro fa uso di prove empiriche che permettono di valutare gli effetti dell'austerità fiscale messa in atto attraverso i tagli alla spesa in contrapposizione all'aumento delle tasse. Conclude dicendo che gli effetti negativi dei tagli alla spesa sono inferiori rispetto a quelli causati dall'aumento delle tasse. Inoltre, i programmi basati sulla spesa sono più efficaci ai fini della riduzione della crescita del debito di quanto lo sia l'aumento delle tasse. Tuttavia, va notato che i costi vengono valutati solo in termini di produzione cumulativa, e viene pertanto ignorato quello che è l'impatto distributivo del taglio alla spesa rispetto all'aumento delle tasse». Alesina e gli altri sono stati a capo dei sostenitori dell'impatto positivo che l'«austerità» avrebbe sulla crescita economica, in contrasto con la montagna di prove provenienti dal FMI e dalle altre fonti che sostengono che le politiche di austerità non hanno aiutato (piuttosto ostacolato) la ripresa economica in nessuna delle maggiori economie capitaliste.
Quando Alesina e gli altri hanno pubblicato per la prima volta un documento a tal proposito, hanno calcolato che «gli aggiustamenti fiscali basati sui tagli alla spesa erano stati assi meno costosi, in termini di perdita di produzione, di quelli basi sull'aumento delle tasse. [...] gli aggiustamenti basati sulla spesa generavano recessioni assai piccole, con un impatto sulla crescita del prodotto non significativamente diversa da zero.» E «Le nostre conclusioni sembrano pertinenti a degli aggiustamenti fiscali sia prima che dopo la crisi finanziaria. Non possiamo respingere l'ipotesi secondo la quale gli effetti degli aggiustamenti fiscali, soprattutto in Europa nel 2009-13, siano stati indistinguibili da quelli precedenti».
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L’italia nell’attuale congiuntura socio-economica
Intervento a nome del collettivo la Città futura
di Stefano Paterna
Duecento anni fa nasceva un uomo che ha cambiato il mondo. E lo ha cambiato perché per la prima volta ha posto l’umanità e la sua storia, le sue lotte, su di un fondamento scientifico, materiale. Quest’uomo, iconoclasta, sottilissimamente sarcastico (“di certo, io non sono marxista!”) è stato filosofo, ma era sommamente scontento della filosofia: “I filosofi hanno variamente interpretato il mondo, ora si tratta di cambiarlo”; è stato economista, ma era piuttosto insoddisfatto dell’economia borghese, nonostante la sua ammirazione per Adam Smith e David Ricardo; è stato un grande organizzatore politico, ma era pronto a gettare tutto nel macero, nel momento in cui l’organizzazione non fosse più stata funzionale all’obiettivo: la Rivoluzione proletaria internazionale! Non conosceva cioè la grande malattia dei comunisti della nostra epoca: il patriottismo della sigla! Non aveva quindi nessun gusto per la “politique politicienne”, anzi la politica voleva abolirla, insieme allo Stato e alla società divisa in classi.
Quest’uomo, perché di uomo si tratta con le sue fisime, i suoi limiti e i suoi abbagli (non avrebbe scommesso un centesimo su una rivoluzione socialista in Russia) non avrebbe amato questo elogio: di sé diceva che “nulla di ciò che è umano mi è estraneo” e in un elogio commemorativo c’è sempre qualcosa di falso, di divinizzatorio. No, Marx non sarebbe stato contento di elogi e bicentenari. Ma noi da “buoni marxisti” non siamo obbedienti nemmeno alle sue opinioni.
Quest’uomo, dicevo, dall’89 è stato variamente oltraggiato, deriso, liquidato (Marx è morto), salvo poi essere recuperato dai suoi avversari di classe (e perfino da un alto prelato della Chiesa Cattolica tedesca) perché incapaci altrimenti di comprendere la crisi mondiale in cui siamo tutti riprecipitati dal 2008 in poi. Crisi che gli apologeti del capitalismo hanno pudicamente definito “finanziaria”, ma che è evidentemente ciò che Marx aveva visto più di 150 anni fa: ovvero una enorme crisi di sovrapproduzione, e ciò mentre milioni di esseri umani in Africa, America Latina e Asia (ma anche nel famoso “Primo Mondo” ormai) non hanno di che vivere: quando cioè viene negata loro, in nome delle ragioni superiori del mercato, la salute, il lavoro, la cultura. Questo è, al rovescio, l’orribile “elogio” che la borghesia fa a Karl Marx!
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“Il neoliberismo mina la riproduzione sociale”
Intervista a Nancy Fraser
Nancy Fraser è una filosofa e teorica femminista statunitense. Si è occupata di filosofia politica ed etica normativa. Insegna scienze politiche e sociali a New York. Ha scritto insieme a Axel Honneth “Redistribuzione o riconoscimento?” un importante testo di filosofia politica contemporanea. Di recente ha pubblicato insieme a Cinzia Arruzza e Tithi Bhattacharya Femminismo per il 99%. Un Manifesto (Laterza)
Innanzitutto grazie di essere con noi.
Grazie a voi.
Per iniziare, potresti dirci qualcosa riguardo al tuo percorso politico e intellettuale? Quali sono state le tue esperienze formative?
Certo. Sono una sessantottina, cresciuta a Baltimora, nel Maryland, che è una città in cui vigevano le leggi Jim Crow, leggi di segregazione razziale. L’esperienza politica formativa della mia gioventù è stata la battaglia per la desegregazione – che è un classico percorso della new left. Ho fatto parte del movimento per i diritti civili durante le scuole medie e superiori. All’università, bhe anche prima di iniziarla, ho partecipato al movimento contro la guerra in Vietnam, nell’ala di sinistra, anti imperialista, poi agli Studenti per una Società Democratica (SDS) ed infine il femminismo e così via. Durante questo percorso sono diventata una marxista non ortodossa e ho fatto attività politica per un po’ dopo aver terminato l’università. Poi ho deciso di tornare all’università per un dottorato in filosofia, ma ho portato con me la mia nuova visione di sinistra e devo dire che non penso che il mio impegno e i miei valori fondamentali siano cambiati dagli anni ‘60 ad oggi. Poi ho iniziato a lavorare sulla democrazia, i diritti sociali, il multiculturalismo, la redistribuzione, il riconoscimento, la critica al capitalismo, la teoria femminista, ecc.
Oggi sei a Bologna per presentare ‘Femminismo per il 99%: un manifesto’. Qual è lo scopo del manifesto e a chi è rivolto?
Penso che sia rivolto a un pubblico eterogeneo. Il caso più ovvio è rappresentato da chi è già coinvolto o interessato al femminismo e a quanti si stiano proponendo un cambio di direzione, una rottura con il femminismo liberale mainstream e una svolta verso un femminismo che sia davvero anticapitalista e di sinistra.
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Minibot, debito pubblico e monete complementari: di che cosa stiamo parlando?
di Andrea Fumagalli
La discussione che si è aperta sui cosiddetti Minibot può consentire di fare un minimo di chiarezza sui due temi sempre più spesso all’ordine del giorno: il finanziamento del debito pubblico e i ruoli che la moneta può svolgere oltre a quelli tradizionali di mezzo di scambio e di unità di conto.
Il finanziamento del debito pubblico, prima dell’avvento delle teorie monetariste e del monopolio di emissione della moneta da parte della Banca Centrale Europea (BCE), poteva contare su due strumenti, fra loro complementari: il ricorso ai mercati finanziari tramite la vendita di titoli di Stato (di diversa natura e durata) per rifinanziare i titoli venuti a cadenza e/o finanziare nuovo deficit e le Operazioni di Mercato Aperto, ovvero il finanziamento diretto da parte della Banca Centrale. Lo Stato italiano era l’unico soggetto economico che poteva, infatti, disporre di un conto corrente presso la Banca Centrale (definito Conto Corrente di Tesoreria), a cui attingere nei casi di necessità senza ricorrere ai mercati finanziari. Tale possibilità implicava la creazione di nuova moneta pari all’ammontare del debito creato.
Alla fine degli anni Settanta, in seguito ai diktat delle teorie monetariste che predicavano l’esistenza di un nesso diretto di causa ed effetto, tra creazione di moneta e dinamica inflazionistica, e quindi dopo il noto divorzio tra Banca d’Italia e Ministero del Tesoro (come si chiamava allora l’odierno Ministero dell’Economia), la possibilità di un finanziamento del debito da parte della Banca Centrale viene meno, sino a scomparire del tutto con l’introduzione dell’Euro e con la costituzione della BCE.
Come ci ricorda Massimo Amato in un recente articolo pubblicato su Valori.it, l’attuazione di politiche di Quantitative Easing adottate dalla BCE ha creato un elevato aumento di creazione di moneta: “La crisi di liquidità del 2008 è stata curata con iniezioni di liquiditàsenza precedenti. La quantità di moneta è pressoché triplicata in Europa, eppure il target dell’inflazione del 2% non è stato ancora raggiunto”.
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Trump e il “momento fascista” del capitalismo
di George Caffentzis*
Molti provvedimenti di Trump sono in continuità con quelli di Obama, ma va analizzata con attenzione la teoria economica su cui si basa, che dà espressione politica allo spirito del capitalismo del nostro tempo
Malgrado l’introduzione di rigide misure di austerità, applicate soprattutto seguendo le direttive del Washington Consensus [espressione coniata nel 1989 dall’economista John Williamson per indicare una serie di indicazioni del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale destinate ai paesi in crisi, ndt], sembra che il sistema capitalistico globale sia entrato in un periodo di stagnazione, caratterizzato dalla caduta del tasso di profitto, dalla riluttanza delle grandi compagnie a investire, e dall’introduzione da parte dei governi di tassi di interesse molto bassi o vicini allo zero. Tutto ciò è sorprendente, dal momento che la fine della Guerra Fredda, nel 1989, avrebbe dovuto dare il via a un periodo di prosperità capitalista. Invece, come abbiamo visto, il sistema è entrato in una crisi prolungata su più fronti, ravvivando la discussione sulla «stagnazione secolare» tra gli economisti al massimo livello.
Quali sono state e quali sono le cause di questo declino? Io sostengo che la politica economica dell’amministrazione Trump sia una risposta a questa stagnazione. Che dietro al suo comportamento fuori dalle righe ci sia la decisione di incrementare i patrimoni del capitalismo statunitense, restaurarne l’egemonia e stimolare la crescita del sistema capitalistico sotto la bandiera del «Make America Great Again» (Maga).
Per sostenere questa tesi prendo in esame due elementi del pensiero politico ed economico di Trump sulla moneta e lo scambio, e cioè il suo supporto al ripristino del sistema aureo [un sistema monetario nel quale il valore della moneta è fissato dall’oro, ndt] e la sua determinazione nel porre fine alla cosiddetta «santità del contratto».
Trump è un normale politico capitalista?
È stato fatto notare che, sotto molti aspetti, le politiche di Trump sono in continuità con quelle dell’amministrazione Obama, che a loro volta, al contrario delle apparenze, non si erano allontanate molto dal Washington Consensus. Ci sono elementi significativi di continuità tra Obama e l’amministrazione Trump – così come c’erano tra l’amministrazione Carter e quella Reagan.
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Sul protezionismo
Antitesi n.6
La guerra commerciale è parte della guerra imperialista
“Gli Usa stanno aprendo il fuoco sul mondo”. Così recitava, a inizio luglio, il comunicato del ministero del commercio della Cina, in riferimento ai dazi varanti da Trump contro Pechino. Effettivamente, le misure protezioniste varate dall’attuale presidenza degli Usa hanno decisamente rappresentato una svolta nelle relazioni economiche internazionali, aggravando la contraddizione tra potenze imperialiste, in primis quelle tra Washington e Pechino, e ponendo in discussione come non mai negli ultimi decenni la concezione globalista e liberoscambista del capitalismo.
Infatti, secondo l’ideologia neoliberista, affermatasi a partire dalla fine degli anni settanta del secolo scorso come ispiratrice delle agende economiche delle principali potenze imperialiste, la libera circolazione di merci e capitali aldilà delle frontiere degli Stati è alla base dello sviluppo capitalistico mondiale e delle singole nazioni. Si tratta di un dogma che rientrava in quella sorta di “pensiero unico” liberista diventato definitivamente egemone sopratutto dopo il crollo dell’Urss e l’affermazione degli Usa come incontrastata potenza globale. In realtà, il liberoscambismo rientrava in una svolta delle strategie economiche capitalistiche, resa necessaria dalla fase di crisi apertasi all’inizio degli anni settanta e al fallimento, nel contrastarla, delle politiche keynesiane. [1] Attraverso la libera circolazione di merci e di capitali a livello globale, abbattendo limiti, tariffe e regolamentazioni, la borghesia imperialista si riproponeva il conseguimento di più ampi margini di valorizzazione del capitale, conquistando nuovi mercati, nuova forza lavoro e aprendo spazi alla circolazione finanziaria, via via più deregolamentata, per ottenere remunerazione fittizia dei capitali nella fase in cui il plusvalore e il profitto nell’economia reale tendevano a cadere.
Il protezionismo alle origini del capitalismo
Non sempre, però, il liberoscambismo ha contrassegnato il procedere dell’economia capitalistica. Fin dagli albori del capitalismo, la libera circolazione di merci e capitali si è alternata a misure per limitarla, di modo che i capitalisti di un singolo paese (cioè una singola formazione capitalistica nazionale), potessero tutelare i propri profitti a danno degli altri.
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Cosa accadrà adesso?
di Leonardo Mazzei
Cresce in Europa l'interesse per le vicende italiane dopo le elezioni europee. Cosa accadrà adesso? Ci saranno elezioni anticipate? Quali sono le vere intenzioni del governo giallo-verde riguardo all'Unione europea? Davvero saranno lanciati i MiniBoT? Reggerà l'alleanza M5s Lega? Di che natura è il populismo di Salvini? A queste ed altre domande poste dal sito in lingua tedesca EUREXIT risponde Leonardo Mazzei del Comitato centrale di P101. L'intervista è di Wilhelm Langthaler.
* * * *
Le elezioni europee hanno rovesciato i rapporti di forza nel governo populista. Perché è avvenuto?
I rapporti di forza interni si sono invertiti, ma la maggioranza giallo-verde ha perfino guadagnato consensi. Alle elezioni politiche del 2018 aveva il 50,03% dei voti, alle europee ha ottenuto il 51,40%. Considerato che per il governo non è certo stato un anno facile, si tratta di una differenza minima ma significativa.
Credo che il rovesciamento dei consensi sia da attribuirsi a tre fattori. In primo luogo la Lega ha potuto incassare molti consensi grazie allo stop all'immigrazione clandestina nel Mediterraneo. In secondo luogo, mentre il Reddito di cittadinanza ha prodotto una forte delusione nell'elettorato M5S, l'intervento sulle pensioni — "Quota 100" — voluto in primo luogo dalla Lega, ha spinto molti lavoratori a votare per la prima volta questo partito. In terzo luogo, non bisogna dimenticarsi del ruolo dei media, che per un anno intero hanno fatto ricorso ad ogni argomento per attaccare i Cinque Stelle ancor più che il governo nel suo insieme.
Come se non bastasse, Di Maio ha sbagliato tutto nell'ultima parte della campagna elettorale quando, per dimostrare la propria autonomia da Salvini, ha operato una sorta di "svolta a sinistra". Purtroppo questa sterzata includeva anche un profilo assai più europeista di quello tradizionale del movimento. Una mossa pagata nelle urne.
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Iran: è guerra all’Eurasia
Stranamore, stranammorati, stranamorini
di Fulvio Grimaldi
Hannibal ante portas? Non è più procurato allarme
Ne va della potenza egemonica, dell’eccezionalismo, del “Destino manifesto”, della globalizzazione a direzione unica, del governo mondiale, della controffensiva colonialista fondata su migrazioni che svuotano di energie umane e professionali il Sud da predare. Il Golfo Persico è il pettine al quale questi nodi vengono. E quando gli scienziati nucleari mettono l’orologio dell’Apocalisse a due minuti da mezzanotte, più o meno dove stava nell’immediato post-Hiroshima e Nagasaki, c’è stavolta poco da parlare di procurato allarme.
Chi segue meticolosamente le uniche fonti di notizie e analisi affidabili, che ormai sono quasi solo in rete (finchè dura e Facebook chiude un occhio), legge e vede da almeno un paio di lustri l’annuncio dell’imminente terza e ultima guerra mondiale. Giulietto Chiesa, addirittura, annunciava l’imminenza del conflitto totale fin dai primi anni del nuovo millennio. Al punto che, ripetuta in conferenza su conferenza, intervista su intervista, la funesta certezza decadeva in giaculatoria a cui più nessuno dava peso. Una specie di al lupo al lupo che si inseriva inconsapevolmente in una strategia della paura, anzi del panico, che pian piano sfiancava e distraeva da ogni altro fronte di lotta. Tipo il capitalismo. Un po’ come la questione climatica da GretaThunberg universalizzata in minaccia globale, peraltro priva di responsabilità identificate, che tutte le altre riassume (e annulla) in sé. Qualcuno ha parlato di nuovo oppio dei popoli, come quello, che mai si è cessato di fumare, della religione.
False Flag, la bandiera dell’Occidente
Tuttavia, a partire dalle micce posate nel Golfo Persico da chi conduce guerre e genocidi, e ne campa, da trecento anni a queste parti, il tema ha acquistato una pregnanza senza precedenti, anche perché si appoggia ad accadimenti analoghi che in molti casi alla guerra guerreggiata hanno portato. Parliamo di provocazioni, oggi dette “False Flag”, messe in atto onde vantare davanti all’opinione pubblica un buon, anzi un irrinunciabile, motivo per commettere qualche grossa efferatezza, altrimenti impossibile da giustificare. A molti verranno in mente le nostre stragi di Stato, da Piazza Fontana, attribuito ad anarchici, a Moro fatto far fuori alle BR, e agli attentati della “trattativa”, con manovalanza mafiosa e, a monte, Gladio, servizi nostri e atlantici, la cupola anti-Urss.
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Come l’euro alimenta la divergenza tra i paesi europei
di Domenico Moro
Relazione all’assemblea “Ue e euro: dalle promesse di pace e stabilità alla realtà dei trattati e dell’austerità”, presso l’Istat, il 12 giugno 2019
L’integrazione economica e valutaria europea (Uem), secondo i suoi artefici, avrebbe dovuto condurre alla convergenza tra le economie dell’Europa ed essere di aiuto nell’affrontare le crisi economiche. In realtà, a distanza di vent’anni dall’introduzione della moneta unica, le divergenze tra i Paesi europei si sono accresciute. Inoltre, a più di dieci anni dallo scoppio della crisi economica si è dimostrato come le economie europee siano ancora stagnanti e anzi sempre pronte a ripiombare nella crisi. Di recente, infatti, l’Istat ha valutato come probabile una nuova contrazione del Pil italiano nel secondo semestre dell’anno in corso1.
Tutti gli indicatori più importanti ci mostrano come la divergenza tra Germania, da una parte, e gran parte dei Paesi dell’area euro si sia accresciuta. Di particolare evidenza è la divergenza tra Germania e Italia. Per quanto riguarda il Pil pro capite, calcolato a prezzi costanti e a parità di potere d’acquisto, la differenza, che nel 1998 era minima, nel 2018 è più che decuplicata. Infatti nel 1998 il Pil pro capite italiano rappresentava il 119,2% del Pil pro capite della Ue mentre quello della Germania era il 121,7%, con una differenza di poco più di due punti percentuali. Nel 2018, invece, il Pil italiano rappresentava appena il 93,7% del Pil Ue, mentre quello tedesco di attestava al 120,8%, con una differenza di 27 punti (Graf.1).
Graf. 1 – Confronto Italia Pil Pro capite a prezzi costanti e a parità di potere d’acquisto (in % su Pil pro capite Ue; Fonte: nostre elaborazioni su dati Oecd)
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Keynes, il costo morale del rischio
di Massimo De Carolis
Avere presagito, fin dall’alba, il tramonto del neoliberalismo riporta all’attualità la «Teoria generale dell’occupazione» del grande economista inglese, ora in un Meridiano con testi inediti
All’indomani di una crisi economica globale, tuttora lontana dall’aver esaurito la sua spinta destabilizzante, non può sorprendere che un’opera come la Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta torni oggi alla ribalta, accendendo di nuovo l’interesse non solo degli economisti di professione, ma di chiunque si sforzi di capire cosa stia succedendo nel mondo. Dopotutto, il trattato di Keynes era nato a sua volta sull’onda della grande depressione, quando il dissesto dell’economia globale e l’avanzata dei totalitarismi avevano reso non solo legittimo, ma addirittura urgente un programma di completo rivoluzionamento delle teorie economiche e delle politiche di stampo liberale.
Per Keynes erano almeno due i mitologemi da cui il pensiero economico andava rapidamente affrancato: da un lato, la fiducia cieca nella «mano invisibile» del mercato e nella sua supposta capacità di autoregolazione; dall’altro la certezza dogmatica che non potesse esistere una disoccupazione del tutto involontaria, perché il sistema tenderebbe in ogni caso a stabilizzarsi al livello ottimale, nel quale tutte le risorse sono utilizzate al meglio. In quegli anni di crisi, questi due pregiudizi erano platealmente smentiti dai fatti. Entrambi erano però talmente radicati nell’edificio dell’economia di mercato, che solo un ripensamento sistematico dell’intero castello, compresa la sua «cittadella» centrale, poteva consentire di sfatarli senza dover rinunciare a ogni forma plausibile di razionalità economica e senza rischiare, così, di spingere il liberalismo verso la bancarotta.
Rimosso negli anni ’80
Sotto il profilo teorico, la Teoria generale fu l’apice di un percorso lungo e articolato, di cui il Meridiano Mondadori appena uscito (Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, a cura di Giorgio La Malfa e Giovanni Farese, pp. 1328, euro 80,00) offre un panorama completo, grazie alla preziosa ricostruzione introduttiva di Giorgio La Malfa e all’ampio corredo di testi brevi, che precedono e seguono l’opera maggiore, molti dei quali inediti in lingua italiana. Sotto il profilo invece strettamente pratico, i frutti della rivoluzione keynesiana non maturarono che nel Dopoguerra, nei trent’anni «gloriosi» durante i quali, in tutto l’Occidente, i parametri economici registrarono un balzo in avanti senza precedenti.
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Con le elezioni sconfitta la politica europea
di Antonio Lettieri
I risultati elettorali testimoniano il fallimento della linea adottata negli ultimi dieci anni. Un cambiamento radicale è richiesto e possibile. Ma rimane incerto
Uno dei meriti più evidenti di un regime democratico è che il periodico svolgimento delle elezioni consente di definire la continuità o l'alternanza dei governi. Ciò è particolarmente evidente nel sistemi bipartisan come negli Stati Uniti e, con alcune variazioni, in Giappone e, fino in tempi recenti, in Germania nel Regno Unito, dove uno dei due partiti principali può, da solo o in coalizione con un secondo partito, formare un nuovo governo.
Nel caso dell'Unione europea, la maggioranza del Parlamento europeo è stata stabilmente formata, nel corso di 40 anni, da due partiti dominanti: il conservatore e il socialdemocratico. La novità è che con le elezioni di maggio questi due partiti per la prima volta non hanno più la maggioranza assoluta. Una svolta storica importante. Ma che non impedisce la creazione di una nuova maggioranza, ricorrendo a uno o due partiti collaterali su una piattaforma comune sostanzialmente orientata alla continuità della vecchia politica europea.
Tomasi di Lampedusa, autore del "Gattopardo", avrebbe potuto ribadire, riferendosi alle elezioni europee di maggio, che "se vogliamo che le cose rimangano come sono, le cose dovranno cambiare".
Qualche interrogativo
Ma i risultati elettorali ci forniscono effettivamente un quadro in grado di avvalorare una prospettiva di pura continuità? Se diamo uno sguardo ai principali quattro paesi dell’Unione europea, che da soli comprendono la maggioranza della sua popolazione, i colori diventano molto più sfumati e il futuro molto meno certo.
Per cominciare, in Gran Bretagna il Brexit Party di Nigel Farage ha stravinto la prova elettorale col 31 per cento dei voti. Non sappiamo se l'uscita della Gran Bretagna dall'UE sarà decisa entro il prossimo autunno o se sarà aperto un nuovo negoziato. Ma qualcosa di nuovo è già successo: i Laburisti e i Conservatori, da oltre mezzo secolo tra i protagonisti della politica europea, escono dalla prova elettorale con la più grave sconfitta della loro storia.
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Giochi di specchi ed equivoci: il caso della Lega
di Alessandro Visalli
Il 4 marzo 2018 una improvvisa slavina si è staccata dal ghiacciaio della sinistra che da lungo tempo rimandava sinistri scricchiolii. In una elezione che sperimentava non a caso un sistema elettorale più vicino al proporzionale abbandonato da decenni tutti i partiti della “seconda repubblica” sono arretrati di schianto. Sia i partiti di centro, vagamente colorati a sinistra o a destra più che altro per estetica, sia i partiti della anemica sinistra ‘radicale’. Tutta la sinistra è arrivata a qualcosa come il 15% degli elettori e alcune parti non sono entrate neppure in parlamento.
Si è trattato di una molla che si stava caricando almeno da dieci anni, mentre parte maggioritaria della popolazione italiana veniva respinta sul margine del sistema economico e perdeva ogni possibilità di controllare le proprie vite. È scivolata verso il basso almeno il 20% della popolazione italiana, in soli dieci anni e quindi in modo assolutamente percepibile, cosa che ha condotto i tranquilli e garantiti ad essere per la prima volta da decenni la minoranza del paese.
La rivolta degli elettori (Spannaus, 2016) che ha portato nel mondo alla Brexit, alla vittoria di Trump, all’esito delreferendum che ha interrotto la carriera politica di Renzi, ed ancora prima aveva fornito l’avvertimento inascoltato dell’avanzata del M5S nel 2013, le elezioni francesi con la dissoluzione dei socialisti e la contrapposizione élite/popolo rappresentata dallo scontro al ballottaggio tra Macron e Le Pen (con France Insoumise vicina all’impresa), era in movimento.
Dal 2016 il sistema politico europeo, insomma, è entrato in una fase di instabilità che è disponibile ad esiti diversi per piccoli spostamenti di umore. A “botta calda” Carlo Formenti parlò di rabbia delle ‘periferie’ in particolare verso le sinistre che si sono rifugiate nella difesa dei vincenti. Ovvero delle classi colte e benestanti che vedono la mondializzazione come un destino ed un progresso semplicemente perché ne traggono cospicui benefici.
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“Il demone della politica. Antologia di scritti (1958-2015)” di Mario Tronti
di Giulio M. Cavalli
Recensione a: Mario Tronti, Il demone della politica. Antologia di scritti (1958-2015), a cura di Matteo Cavalleri, Michele Filippini e Jamila M. H. Mascat, Il Mulino, Bologna, 2017, pp. 656 (scheda libro)
La recensione che qui presentiamo inaugura una collaborazione con Prospettive italiane, gruppo di ricerca promosso da alcuni studenti di filosofia dell’Alma Mater Studiorum-Università di Bologna. Questa recensione traccia, seguendo le diverse sezioni dell’antologia in questione, un profilo complessivo del percorso filosofico-politico di Mario Tronti. Sarà successivamente integrata da una serie di articoli che approfondiranno le diverse fasi del suo pensiero, qui delineate nelle loro linee generali.
* * * *
Ospitata nella collana «XX secolo» diretta da Carlo Galli e Alberto De Bernardi per i tipi del Mulino, Il demone della politica è la prima antologia ragionata e sistematica degli scritti di Mario Tronti (Roma, 1931), uno tra i maggiori intellettuali italiani del secondo Novecento. L’antologia, curata da Matteo Cavalleri, Michele Filippini e Jamila M. H. Mascat, dal punto di vista editoriale ha il grande merito di fornire per la prima volta una panoramica completa dell’evoluzione del pensiero trontiano fin dai primi interventi nel dibattito marxista italiano (1958-1959), raccogliendo in tutto ventinove testi, molti dei quali difficilmente reperibili perché sparsi in riviste e collettanee, attentamente annotati e preceduti da un’utilissima introduzione a sei mani.
I curatori hanno opportunamente suddiviso gli scritti in quattro sezioni, che seguono un ordine cronologico che è anche tematico, e che si configurano quindi come le quattro principali tappe evolutive del pensiero di Tronti. La sezione più ampia è dedicata agli scritti immediatamente successivi alla stagione operaista, quasi a voler ricordare al lettore che Tronti non è stato soltanto «il padre nobile dell’operaismo italiano» (p. 11), ma un filosofo a tutto tondo, tanto radicale – come si vedrà – da mettere più volte in questione le sue stesse idee con estrema lucidità. Quando ci si trova davanti a un percorso intellettuale così complesso e tortuoso è allora quanto mai opportuno, come dichiarano in apertura i curatori, «offrire un’immagine quanto più completa possibile dell’itinerario dell’autore, segnalandone continuità e discontinuità, senza per questo pretendere una coerenza assoluta della traiettoria trontiana o, inversamente, sviluppare una critica serrata di ogni suo passaggio» (p. 11).
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Le asimmetrie della zona euro. Ci vuole più Europa e meno Europa?
di Sergio Farris
Il processo di aggregazione dei paesi europei è il portato dell’ideologia del libero mercato, condotta ai suoi estremi. L’unificazione monetaria rappresenta l’apice di tale processo.
La storia che ha condotto all’euro è una storia tutta incentrata su tentativi di ricostituire un accordo di cambio valutario dopo la cessazione del sistema di Bretton Woods, avvenuta nel 1971. Risiede alla sua base il postulato che – innanzitutto – l’integrazione dei mercati incentivi gli scambi internazionali e rechi vantaggi generalizzati; oltreciò, tale risultato si otterrebbe tramite l’abolizione di fattori di impedimento o di incertezza per gli scambi commerciali e la circolazione finanziaria.
L’euro, in particolare, è il risultato di diverse esigenze, condensate in un compromesso: da un lato la Germania – da sempre titubante per via della propria concentrazione sul pericolo dell’inflazione -, la quale ha acconsentito all’istituzione della moneta unica dopo varie proposte avanzate nei decenni, da parte francese. Pare che, alla fine, la Germania abbia acconsentito all’istituzione della moneta unica con l’occhio rivolto alla possibilità di difendersi dalle svalutazioni competitive dei vicini e, si dice, anche per ottenere il via libera alla riunificazione. Dall’altro lato la Francia, con le sue mire rivolte a contenere il potere del marco e altri paesi – come l’Italia – preoccupati dell’inflazione, dovuta anche alle svalutazioni e alle fluttuazioni dei tassi di cambio (oltre che mossa dalla richiesta padronale di frenare la dinamica salariale).
Ne è emerso un modello fondato sull’esasperazione della concorrenza e sull’ossessione per l’inflazione (i sistemi di cambio valutario fisso hanno infatti – quale costante giustificazione, il timore per l’inflazione e per i presunti danni che l’incertezza derivante dalle oscillazioni del cambio arrecherebbe alle relazioni di mercato).
Nell’ambito del mercato comune è, come si sa, consentito il libero movimento di capitali, lavoro, beni e servizi. La politica monetaria è unica, è cioè valida per l’intera unione.
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Nemico (e) immaginario. La morte, l’oblio e lo spettro digitale
di Gioacchino Toni
Il sopraggiungere della morte comporta per ogni essere umano un, più o meno lento, scivolamento nell’oblio. Per certi versi ciò che sembra spaventare maggiormente gli esseri umani, per dirla con Antonio Cavicchia Scalamonti, è «la morte in quanto oblio»1 e, proprio per differire l’oblio, nel corso del tempo l’umanità ha tentato in ogni modo di costruire una memoria duratura.
Anche a causa dell’entrata in crisi delle promesse religiose, almeno in Occidente, il rischio di scivolare nell’oblio velocemente pare essere percepito dall’essere umano con crescente inquietudine. Risulta pertanto particolarmente interessante, in una società iperconnessa come l’attuale, interrogarsi circa il significato che assume il concetto di “immortalità” sul web.
Spunti di riflessione su tali questioni, ed in particolare sulla Digital Death, sono offerti da alcuni episodi di Black Mirror (dal 2011), produzione audiovisiva seriale ideata da Charlie Brooker che, scrive Alessandra Santoro nel libro collettivo dedicato alla serie curato da Mario Tirino e Antonio Tramontana,2 con acume e lucidità disarmante sembra «portare iperbolicamente all’esterno le paure, le dissonanze, le ferite aperte e le crepe di un mondo dominato da una crescente deriva tecnologica. Deriva che riflette non tanto una società governata dai media, quanto un futuro distopico e pessimista dominato dagli uomini attraverso i media» (p. 157).
Affrontando nel volume il lemma “Morte”, scrive Santoro: «la cultura digitale, oggi, sembra […] impegnata nel tentativo di mettere in discussione la stasi che deriva dall’interruzione che la morte porta nello scorrere del tempo, e lo fa offrendo la possibilità concreta di accumulare tracce con l’intento di conservare una memoria digitale (o eredità digitale) di quello che siamo stati e, in alcuni casi, si propone di rielaborare l’insieme dei tratti accumulati nel corso dell’esistenza nel tentativo di realizzare una sorta di immortalità digitale: far sopravvivere i defunti sotto forma di “spettro digitale”, fornendo tecnologicamente un’autonomia vivente ai nostri dati, i quali, sottratti dalla sostanza corporea che li animava e incarnando la nostra identità personale, proseguirebbero la vita, in versione digitale, che la morte ha spezzato» (pp. 159-160).
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Simmel e il denaro
di Salvatore Bravo
Filosofia e pensiero radicale
Il pensiero filosofico dev’essere radicale, ovvero deve cogliere il fondamento del movimento fenomenico, solo con tale lavoro concettuale la filosofia raggiunge con lo scandaglio della filosofia la verità immanente della storia. La filosofia per sua disposizione cognitiva è amica della verità: verità eterna nella storia, e verità nella contingenza, nella congiuntura storica in cui gli esseri umano sono situati. La filosofia relativista è una contraddizione epistemologica, perché essa cerca la verità nelle sue espressioni polimorfe, nelle sue forme storiche, la insegue per il orientamento gestaltico di cui l’umanità ha sempre bisogno. La filosofia vive con gli esseri umani, è eterna come la verità, perché gli esseri umani cercano la verità, la abbattano, la fondano, la trascendono, ma l’umanità vive in tensione con la verità, dunque dove vi è filosofia, vi è umanità e verità.
Il mercato come religione dello spavento
L’attuale congiuntura storica caratterizzata dal capitalismo assoluto vorrebbe sostituire la verità e l’esercizio della ragione con il mercato, sostituire la ricerca della verità con la ricerca del mercato e per il mercato significa rompere gli ormeggi con la tradizione, per consegnarsi alla tempesta di un’impossibile navigazione. A tal fine il mercato dev’essere velato dal velo di Maya dell’ignoranza. Si dev’essere servi, e per servire il padrone è necessario renderlo incomprensibile, ipostasi, altare su cui sacrificare il logos e la verità in nome del PIL. L’imperativo categorico del mercato impone di vivere da stranieri-migranti, da creature marginali, servi che adulano il mostro che potrebbe divorarli. Il mercato per velarsi si pone come religione cosmica e pagana: tempo ciclico in cui il futuro è assente, ma l’attimo ritorna eternamente nella forma della quantità come qualità sottratta, e timore reverenziale verso il dio sconosciuto che tutto può ed a cui tutto si deve. La religione dello spavento è la condizione del mercato a briglia sciolta, la deregulation è il ricatto a cui i popoli sono sottoposti.
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Paradigma della Tecnica e paradigma del Capitale
Editoriale del n. 6 di Consecutio rerum
di Roberto Finelli*
Il numero 6 di «Consecutio rerum» è dedicato a Techne, Tecnica, Tecnologia, con lo scopo di riaprire un discorso di antropologia critica sulla nostra contemporaneità, alla luce della gigantesca rivoluzione digitale che sta connotando sempre più il nostro vivere sociale e individuale.
A proposito di questa tematica va ricordato che alla fine degli anni ’70 del secolo scorso il marxismo e gli studi su Marx scomparvero improvvisamente e improvvidamente dall’ambito degli insegnamenti e delle ricerche universitarie italiane e, di conseguenza, dal dibattito culturale e politico dell’intero paese. Le cause di quella decadenza ed estinzione di quella che era stata una vera e propria Weltanschauung, una organica visione del mondo, nella cui koinè di valori, di linguaggio, di costumi e pratiche, una certa parte, più avanzata e civilmente più impegnata, della popolazione italiana si era riconosciuta, sono state di diversa e complessa natura.
Nel nostro ambito, che è quello di una rivista filosofica, oltre alle insufficienze del marxismo storicistico italiano, che da Antonio Labriola in poi si era voluto troppo autosufficiente e in sé concluso, e dello stalinismo democratico che limitava profondamente il dibattito delle idee nel PCI, vale ricordare due di quelle cause, più propriamente teoretiche e filosofiche: da un lato l’estenuazione della scuola dellavolpiana, insidiata fin dal suo sorgere da una troppo semplicistica riduzione della tradizione dialettica e della filosofia di Hegel a una presunta tematica occultamente religiosa e arcaicamente neoplatonica, e dall’altro, per quello che qui maggiormente c’interessa, dalla repentina sostituzione delle analisi di Marx, sull’organizzazione moderna del lavoro di fabbrica e sulla tecnologia nella sua intrinseca dipendenza dall’accumulazione del Capitale, con la teoria della tecnica, avanzata da Martin Heidegger, come rivelazione e destinazione dell’Essere.
Già l’incapacità di elaborare criticamente i limiti e le aporie della tradizione dialettica aveva spinto buona parte dell’intellettualità di sinistra durante la prima metà degli anni ’70, a gettarsi nelle braccia di L. Althusser, senza avere la chiara consapevolezza di quanto lacanismo ci fosse alle spalle del pensatore francese e senza ben comprendere quanto il processo senza soggetto e la critica strutturalista alla totalità dialettica di L. Althusser implicasse una rinuncia definitiva a intendere il Capitale come Soggetto Unitario della modernità e la sua destinazione strutturale a generare processi di totalitarismo sociale.
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Lettera aperta a Roberto Fico, presidente della camera dei deputati
di Fulvio Grimaldi
“Se libertà significa qualcosa, significa il diritto di dire alla gente ciò che non desidera sentire”(George Orwell)
Caro Presidente Roberto Fico,
Ti scrivo da elettore e sostenitore dei 5 Stelle, sperando nel grado di credibilità che mi potrebbero conferire sessant’anni di professione giornalistica, con oltre 150 processi per reati di stampa in regime democristo-pidino, e che Alessandro Di Battista ha avuto la generosità di accreditare inserendomi in un elenco di “giornalisti liberi”.
Molti, nell’attuale temperie di neolingue e di capovolgimento di molti termini lessicali, ti definiscono “il Cinque Stelle rosso”, quello di sinistra. Credo che, provenendo da fonti che di sinistra sanno quanto un Aglianico del Cilento sa di patata irlandese, o da altre che il rosso hanno iniziato, ere or sono, a confonderlo con l’arcobaleno a stelle e strisce, anche tu nutra qualche riserva sul cappello messoti in capo.
Tanto più che tue parole e tuoi fatti all’origine di quell’abbaglio nei tanti che campano la vita affetti da compulsione ossessiva di sbattere fuori dall’universo mondo il Movimento a cui appartieni, ma salvando te, di sinistro o rosso nel senso incontaminato, museale, del termine, a me pare non abbiano niente. A dispetto del pugno chiuso, oggi spesso simbolo dei golpe striscianti Usa (vedi Otpor).
Rottura tra Camera italiana e Camera egiziana
Paradosso? Forse che sì, forse che no. Vediamo. Il tuo gesto di maggiore risonanza, accanto alla cauta discrezione osservata dai tuoi amici e colleghi, è stata la rottura dei rapporti tra la Camera che presiedi e il parlamento egiziano. Non so se un tale gesto di portata geopolitica spettasse alle tue competenze. Forse, prevaricava opinioni difformi di qualche eletto. In ogni caso spostava da una Camera di eletti, la tua, su un’altra camera di eletti materia di esclusiva attinenza giudiziaria. Cosa c’entrano i deputati egiziani con il caso Regeni, se non in termini puramente pubblicitari e demagogici?
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