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Il Covid lungo dei banchieri centrali
di Fabio Vighi
Per tutta la vita le pecore hanno paura del lupo, ma poi vengono mangiate dal pastore.
Proverbio africano
La gestione sanitaria del COVID-19 ci appare oggi, essenzialmente, come sintomo della degenerazione del capitale finanziario. Più in generale, è il sintomo di un mondo che, non essendo più in grado di riprodursi estraendo profitto dal lavoro umano, si affida a una logica compensativa di doping monetario perpetuo. La ‘pandemia’, in altre parole, è la leva di comando delle stampanti di denaro in mano alle banche centrali (Federal Reserve in testa). Se la contrazione strutturale dell’economia del lavoro finisce giocoforza per gonfiare il settore finanziario, la volatilità di quest’ultimo può essere contenuta solo attraverso emergenze globali, propaganda di massa, e sottomissione agli imperativi della biosicurezza. Come uscire da questo circolo vizioso?
A partire dalla terza rivoluzione industriale (microelettronica negli anni ’70), il capitalismo automatizzato (ovvero a sempre più alta ‘composizione organica’, per dirla con Marx) ha gradualmente distrutto il lavoro salariato quale sua propria sostanza. Da tempo abbiamo superato il punto di non ritorno, per cui molto più lavoro viene eliminato di quanto ne venga riassorbito. A causa dell’incremento esponenziale del progresso tecnologico, il capitale è dunque sempre più impotente rispetto alla sua missione storica di spremere plusvalore dalla forza-lavoro. Con l’arrivo dell’intelligenza artificiale (quarta rivoluzione industriale), ci troviamo di fronte a una vera e propria mission impossible – game over.
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Circa “La questione comunista”, inedito di Domenico Losurdo
di Alessandro Visalli
A giugno 2018 Domenico Losurdo ci lasciava. Sulla sua scrivania, racconta Giorgio Grimaldi, riposava un testo uscito dalla stampante ed in corso di preparazione. Nelle diverse versioni in esso troviamo due indici e le tracce di un progetto ambizioso. Si trattava nel suo complesso di una trilogia sul comunismo della quale la prima parte era uscita nel 2017, per Laterza, sotto il nome di “Il marxismo occidentale”[1], la seconda era appunto “La questione comunista”[2], e la terza, ancora nella mente dell’autore e quindi persa per sempre, doveva trovare forma in un testo sul comunismo cinese.
I sottotitoli recitavano, rispettivamente, “Come nacque, come morì, come può rinascere” (il marxismo occidentale), nel libro del 2017, e “Storia e futuro di un’idea” (comunista), in questo. I contenuti del terzo libro, indispensabile per comprendere la parabola dell’impresa tentata da Losurdo, si potrebbero intuire dal progetto del capitolo 4, presente nell’Indice 1 del secondo libro, che ne trattava[3]. Leggendolo troviamo, all’avvio del progetto di capitolo, una frase di enorme peso: niente di meno che “Pensare la Cina [significa] pensare il postcapitalismo”. Proseguendo, scopriamo che questo implica ragionare sulle nozioni di ‘capitalismo autoritario’, anziché ‘democratico’ (quale è l’uno e quale l’altro? Potrebbe non essere scontato[4]); ma anche individuare la differenza cruciale tra la ‘espropriazione politica’, e quella ‘economica’; quindi di ‘economia di mercato non capitalistica’, o di ‘socialismo riformato’; infine comprendere se si è davanti una forma di ‘capitalismo di Stato’ o dello ‘stadio iniziale del socialismo’. Ancora, ragionare sui sindacati (dei padroni i dei lavoratori); l’eguaglianza (‘più perfetta’, o ‘rozza’, anziché ‘radicale’). Infine, nei capitoli finali progettati nell’Indice 1, vediamo che pensare la Cina ed il postcapitalismo significa anche trarre conclusioni su ‘politica ed economia’ guardando a ‘la Cina e il mondo’; ovvero che si tratta di inquadrare il tema in una cornice geopolitica realista, cara al nostro.
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La pianificazione economica: storia e attualità di un dibattito
di Riccardo Evangelista*
1) Le origini della controversia
Era il 1920 quando l’economista austriaco Ludwig von Mises dava alle stampe un ambizioso articolo intitolato Il calcolo economico in un’economia socialista. Inizialmente confinato a una discussione teorica nell’area germanofona e ritenuto poco più di una voce fuori dal coro della montante insoddisfazione verso il laissez faire, il saggio godette di una rinnovata fama quando venne tradotto in inglese dal suo allievo di maggior arguzia, Friedrich von Hayek, per essere ripubblicato nel 1935 in un volume collettaneo dal titolo Collectivist Economic Planning.
L’obiettivo esplicito del testo, di cui il saggio d’apertura di Mises costituiva il principale riferimento teorico, era di mettere in guardia la società europea (in particolare gli accademici, secondo gli autori molto sensibili alle mode intellettuali) da un’illusione ritenuta deleteria: che un’economia a totale o prevalente proprietà pubblica dei mezzi di produzione potesse funzionare in maniera razionale, garantendo un utilizzo efficiente delle risorse e maggiore giustizia sociale. Gli argomenti sostanziali della critica alla pianificazione economica rimarranno gli stessi anche negli sviluppi successivi del dibattito, che vedrà come principali protagonisti Lionel Robbins e lo stesso Hayek, contrapposti a Maurice Dobb e Oskar Lange. I primi si adopereranno per riaffermare le virtù irrinunciabili del mercato, i secondi tenteranno una difesa della pianificazione scientificamente rigorosa, pur confutando le tesi liberiste austriache da riferimenti teorici opposti.
Nonostante il dibattito sia stato oggi quasi dimenticato, le ragioni che l’hanno mosso e le questioni che solleva riemergono nell’attualità tra le manifestazioni sintomatiche del neoliberismo.
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La “crescita verde” è contro la natura, un saggio di Hélène Tordjman
di Jean-Marie Harribey
Riprendiamo e traduciamo dai siti di Alternatives économiques e Alencontre un’interessantissima recensione critica di J-M. Harribey ad un’opera di H. Tordjman contro la mercificazione della natura, da poco uscita in Francia. (Avremo modo di tornare a ragionare sulle intuizioni e le contraddizioni di autori quali Illich o Ellul, ai quali Tordjman si ispira.)
La nostra collega e amica Hélène Tordjman ha appena pubblicato La croissance verde contre la nature. Critique de l’écologie marchand (Crescita verde contro la natura. Critica dell’ecologia di mercato), La Découverte, 2021. Questo libro sarà un punto di riferimento perché raccoglie una documentazione molto aggiornata sulla concettualizzazione e lo smantellamento della natura da parte di un capitalismo sull’orlo dell’asfissia planetaria, per la natura ma anche per l’uomo. Ora che la crisi ecologica è chiara, che non si discute più del riscaldamento globale e che aumentano gli allarmi sulla perdita di biodiversità, si potrebbe pensare che sia stato detto tutto. Forse, ma riunire in un volume una sintesi così dettagliata, precisa e piena di riferimenti sia sui molteplici attacchi alla natura sia sulle false soluzioni che vengono presentate, è un grande successo.
Una critica della mercificazione della natura
La questione generale di fondo che il libro mette in luce è che intraprendere la strada di una risposta di mercato alla crisi ecologica non può avere altro effetto che approfondirla. Il libro è strutturato in sei capitoli, più una densa conclusione che è, di fatto, un settimo capitolo. Su questo tornerò.
Fin dal primo capitolo, l’autrice mette alla prova il progetto di realizzare nanotecnologie, biotecnologie, scienze dell’informazione e della conoscenza (in sigla, NBIC) delle “tecnologie capaci di aumentare le prestazioni umane” (p. 21).
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La forma del valore, la reificazione e la coscienza del lavoratore collettivo
di Alan Milchman (Mac Intosh) 1940-2021
La teoria critica di Marx ha svelato un modo di produzione, una civiltà, basata sul valore, che egli ha descritto come una «forma squilibrata» o «perversa» [verrückte Form], nella quale i rapporti sociali tra le persone sono invertiti e appaiono come relazioni tra cose. A produrre e riprodurre questa forma squilibrata, è il lavoro astratto della classe operaia. Come sostiene Max Horkheimer nel 1937, in "Teoria tradizionale e teoria critica": «Attraverso il proprio lavoro, gli esseri umani riproducono [erneuern] una realtà che li rende sempre più schiavi» [*1] È stato Georg Lukács, nel suo saggio "Reificazione e coscienza del proletariato", che fa parte della collezione "Storia e coscienza di classe" (1923), a elaborare per primo una teoria della reificazione attraverso cui gli effetti della forma valore - quella forma perversa - e il feticismo della merce che ne è parte integrante, si impadroniscono della società. La conclusione cui arriva Lukács, ancora prima che fossero stati pubblicati molti dei vasti manoscritti "economici" di Marx, è una svolta teorica, su cui il marxismo, in quanto critica negativa del capitalismo, è ancora basato. Come ha sostenuto Lukács, in maniera convincente: «Come il sistema capitalistico si produce e riproduce continuamente ad un grado sempre più alto, così nel corso del suo sviluppo, la struttura della reificazione si insinua sempre più a fondo, in modo denso di conseguenze, nella coscienza degli uomini fino a diventare suo elemento costitutivo.» [*2] Tuttavia, il concetto di reificazione di Lukács implicava anche la pretesa che il proletariato, in quanto identico soggetto-oggetto, avrebbe potuto sfuggire alla schiavitù della reificazione; cosa che Horkheimer avrebbe in seguito sottolineato.
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‘Andrà tutto bene se poi facciamo il socialismo’
Alba Vastano intervista Paolo Berdini
Intervista a Paolo Berdini sulle recenti amministrative a Roma e sulle politiche nazionali. “Sono convinto che è proprio all’interno delle città che emergeranno con ancora maggior forza le disuguaglianze sociali. Le politiche di privatizzazione del governo Draghi troveranno piena applicazione nel campo dei servizi urbani che –in ossequio alle direttive europee- verranno posti in concorrenza e, di fatto, privatizzati”
Passata questa tornata elettorale delle amministrative che vede la disfatta delle liste di sinistra radicale in quasi tutte le città in cui si è votato. Roma in primis, dove si riaffaccia superbamente l’area Pd e prende il Campidoglio. La giunta Gualtieri apporterà dei cambiamenti positivi per risollevare dalle macerie strutturali la città ridotta alle ceneri, fra crateri e cinghiali erranti per le vie, fra rifiuti e bus medievali? Con l’urbanista Paolo Berdini, candidato sindaco per la lista ‘Roma ti riguarda’, sfioriamo le cause della disfatta elettorale, ma spostiamo poi l’attenzione argomentando sulle politiche nazionali e sulle prossime ‘batoste’, che dobbiamo prepararci a digerire, da parte del cosiddetto “governo dei migliori”.
* * * *
Alba Vastano: Una breve analisi sulla sconfitta elettorale. Quali le motivazioni e le responsabilità?
Paolo Berdini: Il segnale più allarmante che è venuto dalle urne riguarda l’assenza di radicamento delle idee della sinistra nelle periferie urbane e nelle aree interne del paese. Trenta anni di dominio economico e culturale del neoliberismo hanno aumentato –lo dicono tutte le inchieste sociali- le disuguaglianze sociali e le distanze tra le aree centrali e le periferie. La risposta è stata inequivocabile: le periferie non sono andate a votare. Evidentemente la nostra proposta di costruire politiche di uguaglianza non è stata giudicata credibile.
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La manovra di Draghi: l’emergenza non passa, l’austerità resta
di coniarerivolta
Il Consiglio dei Ministri del 28 ottobre scorso ha approvato il disegno di legge di bilancio (DLB) per il 2022, il più importante atto di politica economica di un Governo. Dopo mesi di elucubrazioni sulla “vera natura” di una compagine governativa che unisce praticamente tutto l’arco parlamentare, da LeU alla Lega, guidata da una equipe di cosiddetti tecnici siamo alla prova dei fatti. La legge di bilancio, infatti, ci dice, senza possibilità di equivoci, quale sarà la posizione del Governo nei principali campi dell’organizzazione sociale ed economica del Paese per il prossimo anno.
Studiare una legge di bilancio significa concentrare l’attenzione su due aspetti dell’intervento pubblico in economia: da un lato, l’ammontare delle risorse stanziate; dall’altro, come e dove queste sono allocate. Il primo aspetto si studia attraverso la Nota di aggiornamento del Documento di Economia e Finanza (NADEF) e il Documento Programmatico di Bilancio (DPB), che stabiliscono il perimetro della manovra – il DLB – in termini di saldi di bilancio pubblico. Il secondo aspetto, il contenuto della manovra, si evince dalla legge di bilancio, un provvedimento appena definito nei suoi aspetti salienti (con il relativo disegno di legge, per l’appunto), ma che sarà oggetto di numerose revisioni da qui alla fine dell’anno nel suo iter parlamentare.
Il primo aspetto da analizzare è dunque il suo peso specifico: a prescindere dal contenuto delle misure fiscali, il Governo decide di spendere molto o poco? Rispondendo a questa domanda, saremo in grado di valutarne, a grandi linee, l’impatto macroeconomico, cioè il suo effetto sulle grandezze aggregate dell’economia, in primis il PIL e l’occupazione.
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Il “modello” dietro la legge di bilancio del governo Draghi
di Roberto Artoni
Dall’analisi della Nadef, risulta chiara l’impostazione del governo Draghi basata sulla crescita del settore privato o meglio ispirata al modello della “supply side economics” che tanti danni ha causato in Italia fino alla pandemia
Negli anni ’60 e ‘70 del secolo scorso la Relazione annuale della Banca d’Italia era oggetto di attenta analisi da parte di illustri economisti: si voleva enucleare il “modello” analitico alla base delle scelte dell’istituto di emissione. Senza pretendere di giungere allo stesso livello di approfondimento, non è forse inutile tentare di evidenziare le linee essenziali dei documenti programmatici alla base del disegno di legge di previsione del bilancio dello Stato per il triennio 2022-202.
Conviene partire dagli obiettivi dell’azione di finanza pubblica chiaramente enunciati nella premessa alla Nadef 2021 (pag. V):
la strategia di consolidamento della finanza pubblica si baserà principalmente sulla crescita del PIL stimolata dagli investimenti e dalle riforme previste dal PNRR. Nel medio temine sarà altresì necessario conseguire adeguati avanzi primari. A tal fine, si punterà a moderare la dinamica della spesa pubblica corrente e ad accrescere le entrate fiscali attraverso il contrasto all’evasione. Le risorse di bilancio verranno crescentemente indirizzate verso gli investimenti e le spese per ricerca, innovazione e istruzione.
Tutto ciò trova conferma nel quadro programmatico di finanza pubblica. All’elevato indebitamento indotto dalla pandemia (9,4% in termini di Pil nel 2021) dovrebbero seguire anni di aggiustamento che nel 2024 ridurrebbero lo squilibrio al 3,3%. Tutti i saldi di finanza pubblica migliorerebbero sensibilmente. Il saldo primario dovrebbe essere nel 2024 marginalmente negativo (-0,8) contro il 6% del 2021. Il rapporto debito prodotto dovrebbe scendere di quasi dieci punti rispetto al massimo raggiunto nel 2020 (155,6). Il riequilibrio dovrebbe poi proseguire negli anni successivi, quando si manifesteranno pienamente, nelle valutazioni del governo, gli effetti del Pnrr, sia per gli interventi diretti, sia per le riforme annunciate in molti settori della vita nazionale.
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Il lavoro offeso. Lottiamo per la dignità
di Cristina Quintavalla
L’esercito francese aveva subito la più cocente delle sconfitte: l’imperatore Napoleone III era stato catturato, l’esercito prussiano era giunto sino a Parigi e aveva imposto una resa disonorevole alla Francia imperiale, che pure sembrava proiettata grazie a vent’anni di fasti e successi verso l’egemonia del continente europeo.
Il governo Thiers, nel mezzo di una devastante crisi economica, sociale, politica, chiese proprio al nemico prussiano di liberare 100.000 prigionieri di guerra per disporre delle forze necessarie per reprimere la Comune di Parigi e dare la caccia ai comunardi. Proprio così: fu ricercata un’ intesa col nemico, che aveva così sprezzantemente umiliato e messo in ginocchio la Francia, contro i lavoratori francesi in lotta.
Nemico sui campi di battaglia, ma alleato contro la classe proletaria in quella che fu definita “la settimana di sangue”, nel corso della quale fiumi di sangue irrorarono le strade parigine e la più vile caccia all’uomo fu perpetrata. La mattanza presentò il suo conto: 20.000 i morti , 7500 le condanne ai lavori forzati e le deportazioni.
Si tratta di una delle pagine più efferate della storia, ma che dovrebbe rimanere scolpita nelle nostre menti, quasi una bussola, soprattutto per coloro che si illudono sulla possibilità di conciliare gli interessi contrapposti di classi contrapposte. Di chi si illude di stringere patti sociali, accordi nel mutuo interesse, di chi farnetica di “pace sociale”, di presunte/sedicenti regole della democrazia, volte solo a camuffare la legalità borghese.
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La dialettica tra “vecchio e nuovo”. Gramsci e la marcia dell’universalità nelle note di Domenico Losurdo
di Gianni Fresu (Universidade Federal de Uberlândia/Università di Cagliari)
Losurdo inscrive la transizione di Gramsci dal liberalismo al comunismo critico nella lunga marcia dell’univer- salità, in quella interminabile dialettica tra vecchio e nuovo all’interno della quale si situano contraddizioni e salti qualitativi immanenti al divenire storico. Le prospettive di trasformazione radicale della società, attorno all’idea di integrale emancipazione umana, sarebbero uno sviluppo del principio di universale dignità dell’uomo (in contrapposizione al particolarismo giuridico aristocratico-feudale) al centro dei rivolgimenti politici di fine Settecento e inizio Ottocento. Gramsci non intende fare del socialismo un becchino della società borghese ma il suo erede. In tal senso si pone in termini dialettici, concependo l’avvento del nuovo ordine come superamento del vecchio, non come la sua semplice negazione. Così, anche in una fase storica segnata dalla grave crisi del libera- lismo italiano, disposto a mettere da parte le proprie istituzioni e i suoi valori ideali pur di impedire il cambia- mento dell’ordine sociale, Gramsci concepisce il socialismo all’interno di un processo ascendente e progressivo apertosi con la distruzione del vecchio ordine feudale, trovando in Hegel il filosofo che con maggior sistematicità ha saputo concettualizzare il trapasso dal vecchio Stato patrimoniale per caste chiuse al moderno Stato etico
1. Tra rivoluzione e restaurazione.
Occupandosi di singoli autori o di intere tradizioni filosofiche, Domenico Losurdo non ha mai confinato le proprie ricerche a uno specifico campo disciplinare, né limitato le sue riflessioni all’insieme degli avvenimenti immediatamente riconducibili all’argomento trattato. Al di là del concepire il marxismo come visione unitaria e autosufficiente del mondo, i suoi studi sono caratterizzati da un approccio complesso che chiama in causa questioni estremamente articolate di carattere filosofico, storico, giuridico, sociale, economico e politico. In tal senso, per comprendere in profondità le sue riflessioni su Antonio Gramsci è necessario inserirle all’interno del discorso complessivo sviluppato da Losurdo nella sua vasta e ricca produzione intellettuale, avendo ben chiara la natura organica e unitaria delle battaglie filosofiche e politiche di cui è stato protagonista. All’interno di questo percorso intellettuale, Losurdo ha costantemente sottolineato l’importanza della filosofia di Hegel per comprendere premesse e eredità delle due più grandi rotture della storia moderna e contemporanea: la Rivoluzione francese e la Rivoluzione russa. Ciò ha significato anche porre in evidenza la stretta relazione tra dimensione teoretica e finalità normative nelle argomentazioni concettuali utilizzate dal vasto fronte ideologico contrappostosi alla funzione storica assolta prima dai giacobini e poi dai bolscevichi1.
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L’anno degli anniversari. 1961 – 2021: Origine e funzione della forma partito
di Sandro Moiso
Apparentemente è cosa da poco, un testo comparso su «Il Programma comunista» n° 13 del 1961, e molti si chiederanno perché dedicargli un anniversario. Il testo in questione, redatto da Jacques Camatte, militante francese della Sinistra Comunista, di cui si narra fu lo stesso Amadeo Bordiga a insistere per la sua pubblicazione sull’organo quindicinale del Partito Comunista Internazionale potrebbe, però, rivelarsi ancora utile per l’attuale disordinato, carente e, talvolta, asfittico dibattito sulle forme organizzative che molti militanti antagonisti da tempo cercano di sviluppare o perseguire intorno alle odierne realtà di lotta.
Si è ritenuto pertanto utile farne una sintesi commentata su queste pagine, pur tenendo conto della distanza temporale e di linguaggio che separa il presente dal tempo in cui Origine e funzione della forma partito fu concepito. La lettura che se ne darà non terrà conto dei riferimenti specifici alle controversie dell’epoca (sia sociali che interne al Partito Comunista Internazionale), né tanto meno ai numerosi riferimenti alle polemiche con il movimento anarchico dell’epoca in cui Marx scriveva e ancora di quella in cui il testo fu elaborato da Camatte.
Ma ora si aprano le danze, affermando fin da subito che l’ABC del partito rivoluzionario non inizia da Lenin.
Il testo, infatti, costringe il lettore a misurarsi con le formulazioni riguardanti il problema organizzativo espresse principalmente da Marx ed Engels nel corso della loro vita e della loro lunga militanza nelle file della lotta di classe per l’abolizione del modo di produzione vigente.
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La politica della rabbia
Una conversazione di Franco Palazzi con Alessandro Mantovani*
Quando Alessandro Magno si accorse che tra i personaggi illustri di Corinto, l’unico che non si era presentato per omaggiarlo era il filosofo Diogene di Sinope, andò lui stesso a cercarlo. Trovatolo disteso al sole, l’imperatore si offrì di esaudire qualunque richiesta e così il filosofo rispose che, sì, Alessandro poteva fare qualcosa per lui: spostarsi, dal momento che gli stava facendo ombra.
Questo celebre episodio narrato da molti storici antichi è passato alla storia come emblematico nella comprensione di quel poco della filosofia cinica che è sopravvissuto alla storia. Proprio in questa corrente, tesa al primato della vita pratica su quella teorica, l’autore del Tascabile Franco Palazzi rintraccia la radice di un atteggiamento antagonistico che fa dell’oppressore il bersaglio della rabbia e di un’irriverenza dissacrante in grado di produrre una postura radicale dell’agire politico.
La politica della rabbia. Per una balistica filosofica è un saggio che si prefigge di risemantizzare la rabbia all’interno del discorso politico. A partire dal modello dei cinici rintraccia tre modelli coerenti con questa prospettiva (Valerie Solanas, Malcom X e Audre Lorde) e passa poi a definire e individuare come una prassi rinnovata della rabbia esista oggi e possa esistere nel futuro, calcando le orme di movimenti contemporanei, in particolar modo quello femminista di Non Una di Meno.
* * * *
Nel tuo saggio scrivi che la filosofia intrattiene una relazione “mancata” con la rabbia, da sempre indagata “con la lente della condotta morale individuale, senza interrogarsi sulle implicazioni più propriamente politiche”; eppure il tuo testo – il cui intento è peraltro sbilanciare il rapporto tra teoria e prassi in favore di quest’ultima – è puntellato di riferimenti teorici a Benjamin, Foucault, Cartesio e altri. Perché oggi necessitiamo di una filosofia della rabbia?
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Riflessioni sul PCI
di Marino Badiale
1. Introduzione.
Questo intervento espone alcune riflessioni su aspetti di fondo della storia del Partito Comunista Italiano. Si tratta di temi sui quali sono andato interrogandomi a lungo, in parte per motivi legati alla mia storia personale. Le tesi che esporrò hanno carattere ipotetico, e sottolineo questo aspetto: esse andrebbero intese come stimoli a discussioni e ricerche di tipo storico, finalizzate a corroborarle o limitarne la validità o confutarle.
La discussione svolta in questo articolo non riguarda l’intera storia del PCI, ma si concentra su quel periodo nel quale esso è effettivamente un agente storico fondamentale nella costruzione dell’Italia attuale. Si tratta del periodo che va dal 1943 (con l’inizio della Resistenza) agli anni Settanta. I pochi accenni ai primi vent’anni di vita del Partito serviranno solo per segnalare alcuni aspetti rilevanti per le mie argomentazioni. Per quanto riguarda invece la parte finale della storia del PCI, cioè gli anni Ottanta, ritengo che essa non apporti nessuna autentica novità: come cercherò di argomentare più avanti, il declino del PCI inizia negli anni Settanta e si esprime nella disgraziata politica del “compromesso storico” che il partito sceglie allora di perseguire. Gli anni Ottanta, con la scomparsa finale del partito comunista in quanto tale, sono solo la stanca conseguenza delle scelte precedenti.
2. Quale doppiezza?
Il periodo sul quale mi concentrerò, dall’inizio della Resistenza agli anni Settanta, è quello nel quale il PCI si radica nella realtà del nostro paese, acquista un seguito di massa e diventa il primo partito della sinistra italiana, caratteristica che, mi pare, distingue il nostro paese da ogni altro paese occidentale.
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Facebook che diventa Meta e il lato oscuro del digitale
di Biagio Carrano
Chi crede che Zuckerberg con Meta voglia farci dimenticare i suoi problemi di credibilità, magari facendoci tornare a giocare con gli avatar come su Second Life, ha capito poco delle strategie del colosso di Menlo Park.
La creazione di Meta Platforms Inc. sottende invece il tentativo di giungere a una radicale trasformazione della condizione umana come è stata definita dall’uso della scrittura ad oggi, negli ultimi 5500 anni. Come la scrittura ha rappresentato un salto nella capacità dell’homo sapiens sapiens di comprendere se stesso, pensare il mondo e relazionarsi con esso, allo stesso modo la visione e gli obiettivi di Zuckerberg come di gran parte dei teorici della Silicon Valley, dalla Singolarità di Raymond Kurzweil, director of engineering in Google, alle prospettive transumaniste diffuse da filosofi come Nick Bostrom, non riguardano più lo sviluppo di imprese enormemente profittevoli, ma la pretesa di imporre un nuovo salto antropologico, la definizione di una nuova condizione umana basata su nuove tecnologie che definiranno non più una totalità organica, ma una totalità digitalizzata. Si arriva così alla sussunzione totale dell’essere umano in un infosistema pervasivo, ubiquo, ad altissima densità sensoriale, “collassato” come quando in astrofisica si ha un enorme addensamento di particelle subatomiche, perché, spiega il filosofo Cosimo Accoto, risultato di “operazioni di sensing, networking, mining, sorting e rendering che evocheranno di volta in volta anche ambienti sintetici saturanti ad alta e altra dimensionalità (x-reality)”.
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Politica e Destino
di Mario Tronti
Il 6 dicembre 2001 Mario Tronti teneva la lectio magistralis con cui lasciava l’Università di Siena. Un’ultima, straordinaria lezione, su un grande tema. Politica e Destino: «due maiuscole, due sostantivi, un rapporto alla pari, un conflitto sul campo, e non c’è soluzione, né definitiva né provvisoria». La lezione è stata successivamente rielaborata in forma scritta, pubblicata nel volume Politica e Destino (Luca Sossella, 2006), che raccoglie anche altri contributi. La riproponiamo per la sua inattualità, cioè per la sua capacità di un’azione sul tempo, contro il tempo e per un tempo a venire. Da qui, da questi problemi e riflessioni, bisogna passare per pensare e ripensare l’agire politico
Noi moderni preferiamo dire con Napoleone: il destino è la politica...
Johann Wolfgang Goethe
Il destino è solo il nemico e l’uomo gli sta ben di contro come forza che lo combatte.
il giovane Hegel
Hölderlin chiama «senza destino» gli dei beati.
Walter Benjamin
L’idea di destino richiede un’esperienza vissuta e non quella dello scienziato, richiede una forza di visione e non un calcolare, profondità non intellettualismo.
Oswald Spengler
[…] quello che noi chiamiamo destino esce dagli uomini, non entra in essi da fuori.
Rainer Maria Rilke
Chi esce dal proprio destino senza farvi ritorno vedrà morta la propria anima.
Chuang-tzû
Queste sono parole dette, che poi sono state scritte. Rimane come una esitazione nella forma, che si scioglie leggendo-ascoltando. Adoro scrivere quasi quanto odio parlare. E tuttavia la frase di Max Weber: io sono nato per la tribuna e per i giornali, mi ha sempre intrigato. Ogni pensatore politico è stretto dentro questo paradosso. Il suo scrivere è un parlare per l’agire. Due occhi aperti sul proprio tempo: uno che bada alla logica del discorso, l’altro attento alle conseguenze delle parole. Convinzione e responsabilità in divergente accordo.
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Un prospettiva sulle mobilitazioni contro il Green Pass a Trieste
Seconda parte
di alcune compagne e compagni di Trieste
Qui la prima parte
Dopo i tumultuosi eventi delle ultime due settimane, sentiamo l’urgenza di riprendere il filo dei discorsi che avevamo interrotto alla vigilia del blocco del porto di Trieste [1]. Lo facciamo per condividere elementi e cronache in modo da far emergere le dinamiche che forse potrebbero riproporsi in altri luoghi.
Come avevamo annunciato in quel testo, quello a cui stavamo assistendo era un processo assolutamente grezzo di ricomposizione politica attorno all’opposizione al green pass, non per via culturale (sulla base di schemi e codici prestabiliti), ma per via sociale, con tutte le contraddizioni del caso che stavano venendo alla luce.
I fatti del Porto hanno da una parte arricchito questo movimento e dall’altra gli hanno impresso una direzione particolare, determinata da una serie di fattori esterni alla realtà triestina che vorremmo provare a ricostruire.
Prima di tutto, però, alcune considerazioni, anche di metodo:
a) La violenza dispiegata dalle forze dell’ordine durante lo sgombero del presidio permanente al varco 4 del Porto Nuovo di Trieste sono un fatto inedito, almeno in anni recenti, nella storia di Trieste. Uso di idranti, piogge di lacrimogeni ad altezza uomo (finendo tutti i candelotti disponibili entro il tardo pomeriggio), spinte e manganellate su un ponte: la cifra dell’operazione poliziesca, con un dispiegamento di mezzi e uomini enorme, è la dimostrazione dell’alto valore, non solo simbolico, della piazza triestina, diventata il fronte più avanzato dell’opposizione al green pass (con buona pace di Roma), crediamo per ragioni non casuali e profondamente intrecciate all’evoluzione del movimento triestino.
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Patto di stabilità. Il trucco dei falchi per far cadere l’Italia in trappola
Lorenzo Torrisi intervista Sergio Cesaratto
Si continua a discutere, ma non in Italia, del futuro della governance europea. Il nostro Paese rischia di rimanere intrappolato in regole all’apparenza convenienti
Nella settimana che si è appena conclusa è tornato a galla il tema del futuro delle regole del Patto di stabilità e crescita al momento ancora sospese. Il quotidiano tedesco Handelsblatt ha pubblicato in esclusiva i contenuti di un documento messo a punto dagli economisti del Mes, nel quale si suggerisce una modifica del parametro debito/Pil per portarlo dal 60% al 100%, lasciando invariato quello relativo al deficit/Pil al 3%.
Per l’Italia si tratterebbe di una modifica positiva? Secondo Sergio Cesaratto, Professore di Politica monetaria e fiscale europea all’Università di Siena, che ha appena pubblicato “Sei lezioni sulla moneta – La politica monetaria com’è e come viene raccontata” (Diarkos), «una proposta del genere potrebbe essere ingannevole in quanto apparentemente più realistica. La riduzione in 20 anni del rapporto debito/Pil sino al 60% prevista dal Fiscal compact del lontano 2012 è rimasta misura inapplicata in quanto irreale.
Essa avrebbe comportato surplus di bilancio primari (surplus una volta pagati gli interessi sul debito) tali da far crollare la domanda interna e l’economia rendendo, peraltro, ancora più lontano quell’obiettivo. La natura surreale del provvedimento l’ha reso lettera morta. Rendendolo apparentemente più realistico lo si vorrebbe rendere operativo. Ma gli effetti drammatici sull’economia sarebbero i medesimi sia che si voglia arrivare al 60% che al 100%. Le regole non vanno ideate a tavolino».
* * * *
Il nostro debito pubblico andrà pur ridotto…
Ci si deve domandare se e quanto è possibile all’Italia ridurre il debito pur mantenendo una stance fiscale espansiva, chiedendosi non solo cosa deve fare il nostro Paese, ma quali politiche devono adottare gli altri Paesi e la Bce per agevolare una comunque lentissima riduzione.
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Il compitino tecnocratico di Draghi
di Mario Barbati
Il governo Draghi vara la sua prima legge di bilancio, rompe l’incantesimo con le parti sociali sul tema delle pensioni, alla vigilia del più grande piano d’investimenti pubblici dal dopoguerra. Ma se guardiamo alla sua visione generale della ripresa post-pandemica, non si vedono i segni di un cambiamento sociale, economico e quindi politico
Aumentano il Pil come paradossalmente povertà e lavoro precario. Degli oltre 830mila nuovi posti di lavoro creati nell’ultimo anno il 90% sono a termine, solo l’1% dura più di un anno. Tolto il salario minimo legale dal Pnrr, smantellato il ‘decreto dignità’ che limitava i contratti a termine, vengono messi in discussione i redditi di sostegno e le pensioni ma si omette un contrasto ai 203 miliardi di economia sommersa, che sarebbero decisivi se davvero si volesse attuare una redistribuzione della ricchezza. Rinviata ancora la plastic tax, in omaggio alla transizione ecologica.
Legge di bilancio – Una manovra da 30 miliardi che Draghi definisce “espansiva”. Si alleggerisce la pressione fiscale con 12 miliardi, di cui 8 per il taglio delle tasse su società e persone, senza ripartizioni però che “saranno definite insieme al Parlamento nelle prossime settimane” (dove però la maggioranza di centrodestra più Italia viva sono sensibili alle sirene confindustriali). Rinviata la riforma delle pensioni, quota 102 è solo un compromesso che non risolve una questione che dura da anni e alimenta una narrazione, peraltro falsa, che il lavoro per i giovani si crei innalzando l’età di pensionamento, mettendo lavoratori di diverse generazioni contro.
La riforma degli ammortizzatori sociali affronta la questione dell’universalismo e a suo modo è un intervento storico. Prevede misure protettive nel mondo del lavoro per tutti: cassa integrazione per i datori di lavoro con più di 15 dipendenti, Naspi allargata ai lavoratori discontinui, ammortizzatori e disoccupazione per autonomi e cococo. Poca però la dote per partire: solo 4,5 miliardi (il ministro Orlando ne aveva chiesti 8).
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La questione nazionale e la sinistra sovranista
di Alessandro Barile (Sapienza Università di Roma)
Note attorno al libro di Michael Löwy, Comunismo e questione nazionale. Madre- patria o Madre terra?, Meltemi, Milano 2021
Necessario corollario del fenomeno populista dell’ultimo decennio è la questione nazionale. In qualche modo l’uno spiega l’altra e viceversa: difficile stabilire i confini, ragionare sui nessi causali, e lo scivolamento (più o meno lento, forse non inevitabile) del populismo in sovranismo esplicita il legame unificando i due concetti. Il populismo organizza in posizione politica una pulviscolare richiesta di maggiore “protezione sociale”, sia questa declinata in senso progressivo (ovvero “dal basso” delle popolazioni impoverite contro “l’alto” dei mercati globali), o in senso regressivo (recupero o difesa di un’identità da usare contro minacce esterne alla comunità locale e “sovrana”). Non per caso allora dalla crisi dei mutui sub-prime, l’ascesa di Syriza e Podemos e l’affermazione del Movimento 5 stelle in Italia (fenomeni originati in un arco di tempo che va dal 2008 al 2013), le scienze sociali e il mercato editoriale sono stati invasi da pubblicazioni attorno al tema della sovranità nazionale1. Dove è andata a situarsi in tempi di globalizzazione ed europeismo? Se una certa rassegnazione teleologica considerava inevitabili tanto questa globalizzazione quanto questo europeismo, cosa è successo quando ambedue questi processi storici sono entrati in una crisi strutturale e a quel punto considerata, altrettanto finalisticamente, come “irreversibile”? Dopo la globalizzazione non poteva che esserci un ritorno alla nazione, veniva affermato con la sicurezza di chi andava sostituendo Marx con Polanyi, così credendo di aver risolto le presunte aporie della teoria marxista. Sempre non a caso il marxismo di questo decennio è andato in confusione. Perché se la recessione economica sembrava continuare a confermare le previsioni marxiane sull’inevitabilità della crisi, il riaffacciarsi della questione nazionale ha presentato questi problemi su di un terreno scivoloso e ambiguo, collegato ad una delle principali “zone di discomfort” del pensiero marxista.
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Credere nella scienza
di Andrea Zhok
Se c’è una cosa che può mettere a repentaglio ogni residua salute mentale è sentire i supporter del Green Pass che rivendicano di parlare a nome della “Scienza”.
Ora, si può comprendere, psicologicamente, che qualcuno abbia l’incontenibile desiderio di credere alle rassicurazioni del governo per immaginare un “ritorno alla normalità” e che perciò sia disposto a credere a qualunque cosa pur di scrollarsi di dosso la vicenda pandemica.
Che questa spinta psicologica conduca a un abbassamento delle difese critiche è umano, dannoso per sé e per gli altri, ma umano.
Ma rivendicare di essere “dalla parte della scienza” contro, si suppone, il “pregiudizio antiscientifico”, questo è semplicemente troppo.
A ben veder chi prende queste posizioni di solito si esprime dicendo di “Credere nella scienza”, e già l’uso delle parole qui è significativo. Ciò che qui viene invocato sotto il nome della “Scienza” ha più l’aspetto di una versione aggiornata del vitello d’oro: un idolo enigmatico cui prosternarsi e tributare onori nella più perfetta passività. La Scienza sembra essere immaginata come dispensatore di verità rivelate, erogate da una sorta di clero remoto, etereo, neutrale e biancovestito. Della natura reale della scienza, della sua tormentata storia, del fatto che essa debba tutte le sue qualità migliori all’adozione di un metodo critico, che include fallibilità, apertura alla libera discussione e consolidamento solo nel lungo periodo, di tutto ciò non sembrano sapere nulla.
Ecco, se già sentire parlare di “fede nella scienza” appare un ossimoro indigeribile, sentirla invocare a sostegno del Green Pass è cosa da uscirne pazzi.
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Il ritorno della politica di classe
di Maxi Nieto
Da “El Viejo Topo”, 23 ottobre 2021. “Cumpanis”, nello spirito di collaborazione e scambio reciproco di articoli e saggi con la prestigiosa rivista spagnola “El Viejo Topo”, pubblica questo interessante Prologo di Maxi Nieto al libro di Jesús Rodríguez Rojo Las tareas pendientes de la clase trabajadora (I compiti futuri della classe operaia). A cura di Liliana Calabrese
Parlare oggi, a braccetto con Marx, di classi sociali, rivendicandone la centralità per l’analisi sociale contemporanea, costituisce una via privilegiata di accesso alla comprensione teorica del modo di produzione capitalistico come vera totalità strutturale – con una propria logica di funzionamento e leggi oggettive del movimento –, e con esso anche alla precisa conoscenza della sua manifestazione attuale, già pienamente globalizzata. E rappresenta quella via privilegiata di discernimento teorico perché, in tempi di regressione sociale globalizzata e di ricomposizione politica delle forze sociali in conflitto, l’analisi di classe ha oggi più che mai l’inestimabile virtù di delimitare con chiarezza e immediatezza i campi di confronto del mondo nel dibattito che attraversa tutte le scienze sociali interessate all’emancipazione umana, schematicamente, e in definitiva, tra marxismo e post-marxismo, rivela direttamente le implicazioni e le potenzialità politiche di ciascuno.
A differenza di quanto accade con gli approcci sociologici all’uso (a cui partecipano anche i molti vari rappresentanti del post-marxismo che egemonizza il pensiero di sinistra degli ultimi quattro decenni), le classi sociali nella ricerca di Marx non forniscono una mera rappresentazione tassonomica delle stratificazione nelle economie in cui dominano i rapporti di produzione capitalistici, una classificazione che coesisterebbe senza poter rivendicare alcuna preminenza teorico-politica con molte altre linee di frattura e di ordinamento sociale.
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Cento miliardi di galassie
di Daniele Burgio, Massimo Leoni e Roberto Sidoli
Per un realismo resiliente della praxis
Introduzione di Alessandro Testa
K. Marx, ottava tesi su Feuerbach: “La vita sociale è essenzialmente pratica. Tutti i misteri che sviano la teoria verso il misticismo trovano la loro soluzione razionale nell’attività pratica umana e nella comprensione di tale prassi”.
Una battaglia sotterranea infuria da secoli, una battaglia senza quartiere di cui però pochi sono consapevoli, e della quale persino quei pochi “iniziati” avvertono l’esiziale importanza: la battaglia tra idealismo e materialismo. Fanfaluche da filosofi, direte voi cari lettori, divertissements che possono permettersi solamente coloro che “hanno la pancia piena ed i piedi al caldo”, come maliziosamente insinuava Voltaire. Tutt’altro, lasciateci dire.
Se c’è una battaglia fondamentale, una battaglia degna di essere combattuta, è proprio questa. Se non si vincerà questa battaglia, se non si sconfiggerà la tabe sempiterna dell’idealismo, eradicandolo completamente non solo dal panorama filosofico ma, forse più radicalmente, dal comune pensare e soprattutto dalle categorie della scienza e della tecnica, non sarà mai possibile costruire una filosofia della scienza realmente materialista, non sarà mai possibile descrivere la realtà concreta con quei termini materialisti dialettici che, come Engels acutamente sottolineava, non sono altro che la filosofia di Hegel rimessa coi piedi per terra.
Diceva Sun Tzu: “Conosci il tuo nemico”: da questo vorremmo partire, dall’inquadramento della natura profonda dell’idealismo nelle sue molteplici forme di presentazione, siano esse ontologiche, gnoseologiche, storiche, etiche o politiche, dalla sua sostanziale negazione della realtà materiale, dalla sua affermazione del dominio del pensiero dell’uomo, misura e metro della realtà, dell’idea astratta come dominus e criterio di verità cui la realtà e la materia debbono inevitabilmente sottomettersi.
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La politica ai tempi del colera, appunti su teoria e prassi
di Pier Paolo Dal Monte
L’articolo di Moreno Pasquinelli, apparso qui l’8 settembre u.s., tratta un tema assai importante, ovvero quello della necessità, delle possibilità e delle condizioni per la creazione di un soggetto politico. Questo tema è particolarmente cogente nella situazione attuale, nella quale la più parte della popolazione è, di fatto, priva di rappresentanza politica. A tal proposito egli elenca alcuni presupposti necessari (anche se non sufficienti).
È evidente a chiunque sia dotato di una seppur minima facoltà di pensiero che il “governo dei tecnici”, o meglio dello specialista in tecnica bancaria, non sia che l’espressione del commissariamento di questo paese da parte di forze che nulla hanno a che fare con il libero esercizio della prassi politica.
Sotto quest’ottica, è facile dare una risposta alla domanda circa la sussistenza della prima delle condizioni che sono elencate nell’articolo in oggetto, ossia se esista «un contesto sociale che “chiede” che un nuovo partito sorga».
Data l’assenza, quasi totale, di forme organizzate di rappresentanza politica, intese come portatrici delle reali istanzi dei cittadini, ci pare che questa precondizione sia soddisfatta.
Le formazioni che, in questo momento storico, pretendono e millantano di ricoprire questa funzione, sono, fondamentalmente, dei meri contenitori di consenso che inscenano una falsa dialettica fatta esclusivamente (quando va bene) di istanze prepolitiche: dalla lotta alla cosiddetta “corruzione”, (in realtà, semplice stigmatizzazione verbale), all’indipendenza della Padania (declinata nella forma, più al passo coi tempi, del regionalismo differenziato); o, ancora, nelle tenzoni posticce sull’immigrazione, sulla moltiplicazione dei generi o sul vangelo secondo Greta, tutte superate dal “grande livellatore” dello stato di eccezione pandemico (che ha preso il posto di quello economico e sarà sostituito da quello climatico).
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“L’essenza, per le fondamenta”
I diversi destini del PCC e del PCI all’ombra della fine dell’URSS
Intervista a Fulvio Bellini*
Il 2021 è stato l’anno di due importanti anniversari: quello della nascita dei partiti comunisti cinese e italiano. Molto si è scritto e dibattuto su questi temi. Qual è la tua opinione?
La prima riflessione sembra banale, ma solo apparentemente: salta all’occhio il destino diametralmente opposto che questi due partiti hanno avuto nel medesimo arco di tempo. Entrambe le organizzazioni politiche sono nate tra mille difficoltà, in Italia a causa del subitaneo avvento del ventennio fascista, in Cina a causa dell’inevitabile avversione delle potenze occidentali che là spadroneggiavano, dell’occupazione giapponese e dell’ostilità del Kuomintang di Chiang Kai-shek. Entrambi i partiti hanno avuto ruoli centrali nelle rispettive guerre di liberazione nazionali, e non si può negare che anche nel dopoguerra, in considerazione dei diversi contesti politici internazionali, e di collocazione rispetto ai propri governi, sia il PCC che il PCI hanno svolto ruoli centrali nella storia dei rispettivi paesi.
Ruoli sempre propositivi, comunque tesi al raggiungimento dell’obiettivo supremo che, a mio avviso, un partito socialista deve avere nella sua azione politica: come viene prodotta la ricchezza e come viene distribuita, che in altri termini possiamo definire come la lotta della supremazia tra il potere economico e quello politico.
La svolta che ha decisamente divaricato la storia dei due partiti è avvenuta certamente agli inizi degli anni Novanta, ed è coincisa con la fine dell’epopea dell’Unione Sovietica. Quell’evento ha determinato due conseguenze opposte: ha segnato la fine del Partito comunista italiano come soggetto politico di massa, mentre ha spronato i comunisti cinesi ad imprimere la svolta che ha portato il gigante asiatico ad essere la grande potenza che oggi conosciamo.
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Il caro-bollette per la ripresa dei profitti e il prezzo dell’energia ostaggio del mercato
di Domenico Cortese
Il rincaro delle bollette di luce e gas rischia di diventare uno dei principali fattori di aumento del costo della vita nel medio periodo per lavoratori e classi popolari. Il rincaro ha un portata ancora incerta in virtù di possibili interventi governativi tutti da analizzare ma ciò che è certo è che le misure non basteranno ad azzerare del tutto i rincari1. Un primo sguardo a questi aumenti può aiutare, pur senza pretesa di esaustività, a inquadrare la dinamica in atto e fornire spunti di indagine sui diversi aspetti.
Il forte aumento dei costi delle materie prime – in continua crescita da inizio 2021 in concomitanza con la ripresa economica dopo i ribassi dovuti la pandemia – nonché la decisa crescita dei prezzi dei permessi di emissione di CO2 hanno portato già nel terzo trimestre dell’anno un aumento di circa il 10% della bolletta dell’elettricità2. Un aumento non scongiurato dal contenuto dei provvedimenti di urgenza annunciati dal governo per diminuire la necessità di raccolta degli oneri generali in bolletta, utilizzando parte di quanto ricavato dalle aste del mercato europeo dei permessi di emissione di CO2 o destinando parte delle risorse della legge di Bilancio3. Il rialzo definitivo è stato a luglio del 9,9% per la bolletta dell’elettricità e del 15,3% per quella del gas per le famiglie aderenti al servizio di maggior tutela, che garantisce al consumatore l’erogazione di energia elettrica e gas alle condizioni economiche e contrattuali stabilite dall’Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente (Arera) e che costituirà un’alternativa al mercato libero fino al primo gennaio 2023.
Le cause e gli effetti di questi aumenti del prezzo dell’energia hanno, entrambi, una connotazione di classe che sfavorisce, come accennato, lavoratori e classi popolari in contrasto con l’aumento dei profitti dei capitalisti (dell’energia e non solo) nel momento del ritorno della crescita economica.
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