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La libertà al tempo dell’Intelligenza Artificiale
di Nicolò Bellanca
Ha ancora senso trarre ispirazione, nelle nostre azioni etiche e politiche, dall’idea della libertà umana? Ha ancora senso, nell’epoca delle macchine intelligenti e dell’analisi biochimica dei nostri processi decisionali? Iniziamo evocando alcune semplici definizioni e alcuni punti del dibattito in corso di svolgimento. L’Intelligenza Artificiale (IA) esiste quando una macchina si comporta in modi che chiameremmo intelligenti se a comportarsi così fosse un essere umano.[1] Su uno degli aspetti più importanti dell’intelligenza umana, la capacità di apprendere, i computer si stanno rivelando, negli ultimi anni, altrettanto validi, o migliori, di noi in compiti come il riconoscimento vocale, la traduzione linguistica o l’identificazione delle malattie dalle analisi radiografiche.[2]
Queste formidabili prestazioni sono consentite dall’affermarsi del machine learning. A lungo i computer sono stati programmati unicamente mediante algoritmi: sequenze di istruzioni che indicano come risolvere un problema. Tuttavia, per molti dei problemi che contano nella vita – camminare, nuotare, andare in bicicletta, riconoscere un viso o capire una parola detta o scritta – non siamo in grado di scrivere un preciso algoritmo. L’IA sta superando questa difficoltà mediante un approccio basato su esempi. Esaminando molti casi di risposta ad una certa classe di problemi, il computer procede ad una generalizzazione che gli permette di affrontare anche situazioni parzialmente nuove e differenti: esso impara ad imparare sotto la supervisione di un umano, effettuando una fase di “allenamento” al termine della quale manifesta intelligenza, intesa come capacità di realizzare fini complessi, ovvero di risolvere problemi.[3]
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La rivincita delle élite
di Thomas Fazi
La politica proverbialmente surreale che contraddistingue l’Italia ha raggiunto nuove vette il mese scorso* quando il Paese, nel giro di poche settimane, è passato dall’avere il “governo più populista d’Europa” – un’alleanza improbabile e peculiare fra due partiti “anti-establishment” molto diversi tra loro, il MoVimento 5 Stelle (M5S), che si autodefinisce «né di destra né di sinistra», e la destra euroscettica rappresentata dalla Lega – all’avere un governo veementemente filo-establishment in seguito all’accordo raggiunto tra il M5S ed i liberal-centristi e filo-europeisti del Partito Democratico per la formazione di un nuovo esecutivo, dopo che il leader del Carroccio Matteo Salvini ha improvvisamente staccato la spina al precedente governo. Ed il tutto senza neanche sostituire il Presidente del Consiglio in carico, il “tecnico” Giuseppe Conte, che ufficialmente non è affiliato a nessuno dei partiti in campo.
Per quanto la mossa di Salvini abbia colto tutti di sorpresa – soprattutto considerando le tempistiche, ovverosia nel bel mezzo delle vacanze estive -, essa non era del tutto inaspettata. Nel corso dei primi sei mesi di governo, era sembrato che l’alleanza fra MoVimento 5 Stelle e Lega potesse funzionare, nonostante le differenze presenti fra i due partiti o forse, invero, proprio grazie a queste stesse discrasie.
Da un lato c’era un partito la Lega, sostanzialmente liberista – basta vedere l’insistenza ossessiva di Salvini sul taglio delle tasse: una misura che se tarata sui ceti bassi è sicuramente auspicabile ma che si situa saldamente nell’alveo delle politiche anti-interventiste – ma abbastanza anti-rigorista o comunque dotata di una certa consapevolezza, almeno a parole, della necessità di forzare i vincoli di bilancio europei.
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Nuova destra e populismo: laboratorio Italia
di Matteo Luca Andriola
Nessuno si sarebbe mai aspettato – almeno con certa repentinità e con certe dinamiche – la caduta del governo Conte che aveva unito in maniera ‘idilliaca’, o almeno era questa la narrazione corrente, la Lega di Matteo Salvini e il Movimento 5 stelle di Luigi Di Maio. Un governo controverso, che pareva unire istanze di una destra identitaria e conservatrice con quelle di un certo movimentismo dalle vaghe venature sociali, un’unione fortemente contrastata dal grosso dell’establishment politico e giornalistico (quello che veniva definito come la ‘casta’) e che sembrava andare – è questo il messaggio passato in certi ambienti intellettuali di destra – al di là della destra e della sinistra.
La nascita del governo giallo-verde aveva acceso le speranze di vasti settori dell’intellettualità ‘non-conforme’, dalla nouvelle droite francese ai settori dell’ambiente eurasiatista condizionati dalle riflessioni di Aleksandr Dugin. La motivazione era semplice: per la prima volta nella storia, un movimento esplicitamente di destra e su posizioni populiste e identitarie si alleava per governare un Paese assieme a una forza antisistema che raccoglieva senz’altro un elettorato misto, ma che si caratterizzava per temi come l’ecologia sostenibile, la democrazia diretta elettronica (o e-democracy), temi che possono avere una vaga connotazione di sinistra assieme alla critica a trattati come il TTIP – duramente contestato da Alain de Benoist in un libro edito in Italia da Arianna Editrice (1) – e il Ceta che, va detto, in Francia è stato votato da buona parte dell’esecutivo macroniano, a scapito dell’allevamento e dell’agricoltura locale (2). La convergenza di due forze così differenti è stata così salutata nell’area anticonformista europea ed eurasiatica, elevando l’Italia a laboratorio privilegiato per lo sviluppo di nuove sintesi, ora non più culturali e metapolitiche, ma addirittura politiche.
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Siria: chi ha vinto, chi ha perso. E chi sono i curdi
Medioriente: yankee go home
di Fulvio Grimaldi
Cosa ne viene da Sochi
Del miscione che gli arnesi stampati e videoriprodotti del colonialismo 2.0 ci rifilano, confondendo in obnubilante simmetria rivolte contro il Potere e sommosse gestite dal Potere, da Libano e Iraq a Ecuador, Cile e Bolivia, parleremo nel prossimo articolo. Prima, ci interessa evidenziare con grande soddisfazione la rabbia da rettili pestati sulla coda con cui i media reagiscono agli esiti della soluzione (positiva, ma parziale, s’intende) che Putin, con il concorso obtorto collo di Erdogan, ha saputo imporre al branco di sbranatori della Siria. Media tra i quali riconosciamo il ruolo da mosca cocchiera al giornaletto anticomunista “il manifesto”. La vocina vernacolare del Governo Parallelo Usa (obamian-clintoniani, Intelligence, Pentagono, Wall Street, lobby talmudista), si è distinta per accanimento a stigmatizzare come imperialismo russo la difesa vincente della (quasi) integrità territoriale e della stessa sopravvivenza della Siria, aggredita e maciullata, e il ridimensionamento drastico degli appetiti degli aggressori (Turchia, illuministi coronati del Golfo, esportatori di diritti umani americani e israeliani).
Il grande lamento degli amici degli amici
Per questo pifferaio di carta, che è riuscito a trascinare nel baratro la colonna sperduta dei bambinelli di sinistra, l’esito del vertice di Sochi è una catastrofe planetaria. Catastrofe, ovviamente, per chi si riprometteva, come l’augusta fondatrice Rossanda ai tempi della Libia, uno Stato libero, sovrano, prospero ed equo cancellato dalla faccia della terra per mano di sicari tagliagole, scatenatigli contro dal meglio delle pluto-mafio-psicopatocrazie occidentali.
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Giovanni Arrighi, “Adam Smith a Pechino”, parte II
di Alessandro Visalli
Nella prima parte di questa lettura dell’ultimo libro di Giovanni Arrighi era stata fondamentalmente inquadrata la prospettiva teorica dalla quale è inquadrato il declino dell’egemone americano e la crescita dello sfidante cinese. In primo luogo appare la pertinenza di una frattura entro la stessa tradizione marxista, cui l’autore per buona parte della sua esistenza si è riferito. Frattura che può essere letta con gli occhiali di Losurdo come conflitto di paradigmi tra il “marxismo occidentale”[1] e “orientale”, rispettivamente risalenti a Marx, Engels e seguaci, ed a Lenin, Castro, Ho Chi Min, Guevara, e via dicendo. La decisione dell’autore in proposito è di accettare la definizione di “marxismo neosmithiano” proposta criticamente da Robert Brenner nel 1977 (contro l’ultima versione del secondo genere di marxismo espressa nella “teoria della dipendenza”), ma di ribadirne invece la validità come chiave di lettura dei fatti.
Richiamandosi ad elementi della lettura del grande filosofo scozzese, si tratta per Arrighi di comprendere quindi che cosa volle proporre effettivamente, al di là della semplicistica vulgata della “mano invisibile”, Adam Smith nel 1776 e misurare la fecondità delle sue intuizioni, mettendole in relazione con le ragioni del successo cinese. Questo sarà il compito della Seconda e Terza Parte del lungo testo. Utilizzandole si può rovesciare la percezione, che coinvolse in fondo anche Marx, di una sorta di naturalità del sentiero di sviluppo occidentale, mettendone in luce anche più di come comunque fece il grande tedesco la violenta natura. Riconoscere quindi la fondazione del capitalismo nell’estrazione di valore dalle periferie coloniali (per ma verità sia esterne sia interne[2]) e la capacità di alimentare e nutrirsi degli squilibri e delle dissimmetrie che esso stesso coltiva[3].
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Karl Polanyi oggi: un nuovo volume dedicato a suoi scritti editi e inediti
di Michele Cangiani
Karl Polanyi, L’obsoleta mentalità di mercato. Scritti 1922-1957, a cura di M. Cangiani, Trieste, Asterios Editore, 2019, pp. 330, €19,00
24 saggi, articoli e manoscritti di Polanyi raccolti in questo volume dal 1922 al 1957 possono giovare alla comprensione di un autore sempre più citato, non senza semplificazioni e distorsioni del suo pensiero. All’analisi della “trasformazione” nel periodo fra le due guerre mondiali è dedicato il paragrafo conclusivo dell’Introduzione, qui in buona parte riprodotto.
* * * *
Partendo dalla crisi del capitalismo liberale ottocentesco, Polanyi ci offre una chiave interpretativa dello sviluppo susseguente, fino ai giorni nostri. Una volta escluso il cambiamento in direzione della democrazia socialista, l’inevitabile trasformazione […] non poteva consistere che nel passaggio a un diverso assetto istituzionale del capitalismo. Economia e politica dovevano cessare comunque di fungere da baluardi contrapposti della lotta di classe: dovevano ritrovare una coerenza, un’“integrazione”. Ciò implicava, secondo Polanyi, che la democrazia, anche dove non veniva abolita da regimi fascisti o autoritari, rispettasse i vincoli imposti dall’organizzazione capitalistica del sistema economico. […]
In articoli e manoscritti degli anni Venti e Trenta, e infine nella Grande trasformazione (1944), Polanyi analizza le diverse modalità della trasformazione ovvero “il capitalismo nelle sue forme non liberali, cioè corporative,” che gli consentono di “continuare indenne la sua esistenza assumendo un nuovo aspetto” (Polanyi, “L’essenza del fascismo”, 1935). I due articoli del 1928, tradotti nel cap. 3 di questo libro, analizzano la riorganizzazione corporativa proposta in Inghilterra dal Rapporto della Liberal Industrial Enquiry, commissionato dall’ala sinistra del Liberal Party. Collaborò all’Inchiesta anche Keynes, che ne aveva suggerito alcuni temi nel famoso articolo “La fine del laissez faire” del 1926.
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Maschere del populismo: su "Joker" di Todd Phillips
di Antonio Tricomi
A ben vedere, già l’ambiguità sociale, ancor più che morale, del Batman rimodulato da Nolan si rivelava anche l’esito dell’estrazione di classe del personaggio. Specie nel primo episodio della trilogia sull’uomo pipistrello realizzata dal cineasta inglese, notavamo infatti una Gotham City, e dunque – fuor di metafora – una New York e un Occidente intero, scivolati sull’orlo del baratro per due ragioni sì diverse e, tuttavia, complementari. Perché minacciati, è vero, da uno spietato nemico esterno. Ed è forse superfluo ricordare che Batman Begins intendeva anche proporsi quale implicita, e comunque partigiana, riflessione sul clima da “guerra dei mondi” generatosi, negli Stati Uniti come in Europa, all’indomani dell’11 settembre 2001. Noi occidentali, compiutamente moderni e democratici, da un lato; i musulmani, fanaticamente medievali e assassini, dall’altro: questo allora postulava, né manca oggi di ribadire, un’incresciosa retorica pubblica affermatasi sia nel vecchio sia nel nuovo continente. E però, se il film di Nolan le immaginava a un passo dalla catastrofe, è in primo luogo perché riteneva le nostre società governate da clan, sempre meno nutriti, di spregiudicati capitalisti abili a consacrare, quale sola legge in esse vigente, quella del mero profitto. Una legge per di più reputata universale da simili schiere di eletti e quindi da loro parimenti imposta a tutte le civiltà altre, in tal modo ridotte alla mercé dell’Occidente.
Di qui, in Batman Begins, la particolare configurazione assunta da Gotham City. Abitata da una cospicua massa di individui privati dei diritti civili appunto perché estromessi dal mercato del lavoro o comunque immiseritisi, dunque incapaci di produrre o consumare ricchezza.
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Gramsci e l’idea di critica
di Marco Gatto
Nella Italia più culta, e in alcune città della Francia ho cercato ansiosamente il bel mondo ch’io sentiva magnificare con tanta enfasi: ma dappertutto ho trovato volgo di nobili, volgo di letterati, volgo di belle, e tutti sciocchi, bassi, maligni; tutti. Mi sono intanto sfuggiti que’ pochi che vivendo negletti fra il popolo o meditando nella solitudine serbano rilevati i caratteri della loro indole non ancora strofinata.
Ugo Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis (1802)
La lezione di Gramsci in materia di critica letteraria e di critica della cultura risiede nel proporre un’alternativa teorica e politica all’idea, non solo romantica e non solo crociana, di un’autonomia dell’arte e della sfera estetica. E la rilevanza – per non dire l’attualità – di questa lezione sta nell’allestimento di una produttiva dialettica tra il riconoscimento della specificità dei problemi letterari e artistici, e dunque della necessità di un terreno di comprensione disciplinare, e il loro inserimento nel quadro di una proposta politica complessiva, che contribuisce a ridefinirne i contorni, se non a potenziarne i presupposti. Lontano dalla logica schematica dei “distinti” di Croce, anche e soprattutto nel processo critico, Gramsci stabilisce una compenetrazione (ovviamente, non pacificata, ma costantemente dinamica) tra una dimensione, per così dire, settoriale dell’agire intellettuale e una dimensione appunto pubblica, dunque ideologica e politica, dell’intrapresa culturale. Cosicché, nei termini restituiti dai Quaderni, il giudizio su un testo, su una categoria estetica o su un problema culturale si muta, al netto di una sua analisi condotta attraverso lo strumentario della disciplina di riferimento (la filologia, ad esempio), nell’occasione politica di una trasformazione: da una nuova idea dell’arte promana un’idea nuova di civiltà, e dunque un nuovo modo di intendere i rapporti sociali.
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Autovalorizzazione, etica della devozione, profilazione
di Margherita Croce
Intervento alla presentazione del libro “Quattro passi” del 5 ottobre 2019 al Nido di Vespe
Uno dei nodi che abbiamo voluto mettere a fuoco con questo libro riguarda il processo in atto di femminilizzazione di tutta la società. Con questo termine intendo riferirmi al fatto che i meccanismi di oppressione specificamente patriarcali informano oggi le dinamiche relazionali tra individui e tra individui e istituzioni e sono usati per disciplinare tutto il corpo sociale, a prescindere dalle differenze di genere.
Per affrontare i vari singoli aspetti di questo processo occorre partire da una domanda e chiedersi cosa sia il patriarcato e in che rapporti esso sia con il capitalismo neoliberista.
Molto sinteticamente, il patriarcato, per come è stato definito negli anni ’70 del Novecento – quando anche le femministe hanno impostato l’analisi dell’esistente in prospettiva materialista, cioè guardando all’effettivo funzionamento dei rapporti di produzione e riproduzione che strutturano l’economia e la società – è un modello economico che prevede un nucleo produttivo gerarchizzato, in cui il maschile e il femminile vengono definiti e ordinati in vista di una produttività ottimale. Con la nascita del capitalismo si può parlare di una accumulazione della differenza sessuale come selezione della capacità lavorativa interna al corpo sociale tale per cui si separa la forza lavoro adatta e destinata alla produzione di merci dalla forza lavoro adatta e destinata alla riproduzione di forza lavoro (lavoro di cura complessivamente inteso). Così vengono attribuite una serie di qualità e caratteri al maschile e una serie di altre qualità e caratteri al femminile (su questo processo di accumulazione primaria è sempre fondamentale la lettura di “Calibano e la strega”).
Su questa configurazione di base, il neoliberismo ha innestato delle variazioni.
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Verso la moneta digitale pubblica
L’audacia di Christine Lagarde e la prudenza di Mario Draghi
di Enrico Grazzini*
Christine Lagarde, attuale direttore del Fondo Monetario Internazionale e prossimo Presidente della Banca Centrale Europea, vorrebbe che le banche centrali adottassero rapidamente sistemi di emissione di monete digitali aperte al pubblico, ai cittadini e alle aziende, mentre Mario Draghi, l’attuale presidente della BCE, è assai più prudente e afferma che la BCE non ritiene ancora opportuno sviluppare progetti sulla moneta digitale aperta a tutti.
Sarà interessante capire se Lagarde alla BCE avanzerà concretamente nella direzione che lei stessa ha indicato nella veste di direttore del FMI. Se procederà nella rotta che ha tracciato muteranno radicalmente non solo le funzioni della BCE ma anche tutto il sistema bancario e finanziario. Si verificherà una vera e propria rivoluzione monetaria.
Finora praticamente solo le banche possono detenere conti presso la Banca Centrale che, appunto, viene chiamata “banca delle banche”. La politica monetaria delle BC passa quindi solo per il canale bancario e la nuova moneta viene quindi emessa e distribuita al pubblico principalmente come “moneta bancaria”, ovvero come moneta-debito per chi la riceve in prestito con l’impegno di restituirla con gli interessi. Le banche commerciali possono “creare moneta dal nulla” concedendo prestiti, come ha spiegato chiaramente la Bank of England[1], e il 90% circa della moneta totale in circolazione è moneta bancaria. Anche le banconote – che sono l’unica moneta legale e l’unica moneta che la BC emette per il pubblico – vengono distribuite dalle banche solo a chi ha già un conto corrente bancario. In pratica sono le banche commerciali a dominare il circuito e la circolazione della moneta nell’economia. Le BC possono condizionare l’attività bancaria soprattutto grazie alla fissazione del tasso di interesse principale, cioè del prezzo imposto dalla BC sulla moneta di riserva delle banche.
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Lezioni dall’Ecuador: la lotta paga, l’austerità arretra
di coniarerivolta
In questi giorni abbiamo assistito a forti insurrezioni popolari in Ecuador. Per comprendere meglio il quadro politico, occorre fare un piccolo passo indietro nel tempo, partendo da una figura centrale per quel Paese, l’ex presidente Rafael Correa.
Nel suo primo mandato, Rafael Correa fece riscrivere, attraverso la convocazione di un’assemblea costituente, la Costituzione del paese per poter aumentare il controllo pubblico sull’economia. In questo modo, durante la sua presidenza (2007-2017), l’Ecuador sperimentò una fase storica e politica estremamente favorevole per le classi più povere. Per dare una misura dei traguardi raggiunti, tra il 2008 e il 2016, il governo ha aumentato di cinque volte la spesa sanitaria media annua rispetto al periodo 2000-2008. Sono stati costruiti nuovi ospedali pubblici, il numero di dipendenti pubblici è aumentato significativamente così come gli stipendi. Nel 2008, il governo ha introdotto una copertura previdenziale universale e obbligatoria. Per quanto riguarda i risultati economici, il livello di povertà nel 2007 in termini di reddito è stato del 36,7% e nel 2015 era sceso al 23,3%, indicando che più di un milione di ecuadoriani hanno superato la soglia di povertà; per ciò che concerne l’indicatore della povertà estrema, l’Ecuador ha registrato una diminuzione di otto punti percentuali rispetto al 2007, attestandosi nel 2015 all’8,5%, secondo l’Istituto Nazionale di Statistica e Censimenti nella sua indagine nazionale del 2015. Tra il 2007 e il 2013, il paese sudamericano ha abbassato il suo coefficiente Gini (un indice che misura la disuguaglianza dei redditi) di 6 punti (da 0,55 a 0,49), mentre nello stesso periodo l’America Latina l’ha ridotto di soli due punti (da 0,52 a 0,50).
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Giovanni Arrighi, “Adam Smith a Pechino”. Parte I
di Alessandro Visalli
L’ultimo libro di Giovanni Arrighi[1] conclude un lungo percorso nel quale il sociologo ed economista italiano passa dall’adesione al marxismo e vicinanza all’operaismo, alla svolta sistemica degli anni ottanta, quando insieme ad altri si sforza di generalizzare il punto di vista della ‘teoria della dipendenza’[2], che aveva contribuito a fissare nel decennio precedente insieme a Gunder Frank[3] e Samir Amin[4], in una teoria molto più comprensiva dei “sistemi mondo”[5]. In questo sforzo Arrighi, lavorando sulla traccia di Braudel e in associazione a Immanuel Wallerstein[6], tenta di produrre delle generalizzazioni feconde. Ovvero teorie e modelli in grado di gettare una luce nuova sul passato ed il presente, ed immaginare possibili futuri. La sua fama diventa larga dalla pubblicazione de “Il lungo XX Secolo”[7] nel 1994, e poi di “Caos e governo del mondo”[8], con Beverly Silver, nel 1999, ma le sue prime pubblicazioni sono sul sottosviluppo in Africa[9], quindi alcuni studi di diretta ispirazione marxista sull’imperialismo[10], alcuni studi sul mezzogiorno italiano[11], e relativi alla svolta[12].
Questo testo chiude il percorso e la trilogia di studi sui “sistemi-mondo”, a pochi mesi dalla morte dell’autore, e ne è sia un seguito sia una rielaborazione. Il tema chiave è il tentativo, compiuto dall’amministrazione Bush, di reagire alla minaccia di declino che si era presentata sin dalla crisi sistemica degli anni settanta con una forte proiezione imperiale in grado di aprire un nuovo “secolo americano”, essenzialmente tramite il controllo diretto, manu militari, delle regioni chiave per le economie industrializzate. Come si dice sinteticamente, “guerre per il petrolio”, ma in realtà “guerre per il mondo”. Il primo tema è dunque il lancio, prima, ed il fallimento, poi, di questo progetto di “dominio senza egemonia”.
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Negazionismo, scetticismo o resistenze: dove va l’ecologia politica?
di Turi Palidda
Questo documento, a cura di Salvatore Palidda, è condiviso con alcuni ricercatori del progetto CREMED – Collective Resilience Experiences facing risks of sanitary, environmental and economic disasters in the MEDiterranean
È indiscutibile che la posta in gioco maggiore del XXI secolo riguardi la previsione o la negazione dei rischi per il futuro dell’umanità e del pianeta, rischi certamente percepiti come ben più seri della fine del mondo profetizzata da diversi ciarlatani del passato. Nel corso di questi ultimi anni la maggioranza dell’opinione pubblica mondiale sembra seguire i diversi punti di vista riguardanti tali rischi. Ma i popoli del mondo sono consapevoli di tali rischi o al contrario sono piuttosto dalla parte dei negazionisti e ancor di più degli scettici?
Per cercare di capire la portata della posta in gioco è utile passare in rassegna i diversi punti di vista o prospettive interpretative o riflessioni critiche nel campo dell’ecologia politica così come si sono espressi dagli anni Settanta e soprattutto dal 2010. A questi punti di vista corrispondono diverse pratiche che sono determinanti se non decisive rispetto al futuro.
Proveremo quindi a mostrare che le reazioni dei dominanti e dei dominati di fronte all’allarme sul destino dell’umanità e del pianeta Terra si configurino come IL fatto politico totale[1] per eccellenza. Che lo si neghi o che si pretenda controllarlo o trovarvi rimedio o che si dica che «non c’è nulla da fare», intellettuali, esperti, autorità internazionali e nazionali, lobby e buona parte della popolazione mondiale, tutti sono costretti a confrontarvisi, ancor di più di quanto avvenne rispetto alle due guerre mondiali del XX s. e rispetto al rischio di guerra nucleare (che di fatto si pensava poco probabile ma assai utile alla competizione tra le due superpotenze dopo il 1945). Fatto politico totale perché vi si intrecciano aspetti riguardanti tutti e tutto: i mondi animale, vegetale, minerale e l’atmosfera, quindi gli aspetti economici, sociali, culturali e politici (secondo alcuni in particolare religiosi). Ne consegue che le reazioni a tale fatto siano disparate e rivelatrici dell’attuale geografia politica, e dunque del rapporto tra dominanti e dominati, tra le loro culture e i loro comportamenti.
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Per un altro Marx
di Michele Figurelli
L’einaudiano Karl Marx biografia intellettuale e politica 1857-1883 è una prima felicissima conclusione di un lungo viaggio compiuto da Marcello Musto dentro il laboratorio di Marx. La prima novità del libro è proprio questa: lo scavo tra manoscritti anche inediti, quelli preliminari e poi di scrittura e riscrittura e di correzioni continue del Capitale, lo scavo tra i 200 quaderni di appunti delle sue ricerche multidisciplinari e delle sue tantissime letture, che accende una luce nuova anche sui moltissimi suoi articoli di analisi degli avvenimenti vicini e lontani della sua epoca. Si tratta di un mare magnum di scritti che mediante riscontri continui sono stati da Musto contestualizzati in quelle straordinarie registrazioni che l’ epistolario completo contiene sia dello svolgimento dei fatti sociali politici e culturali sia della militanza e della lotta politica sia della drammatica sua esistenza di esule e della “vita senza pace”(p. 55) di una famiglia molto amata : Jenny sua moglie, la più bella di Treviri, e le figlie Eleanor (detta Tussy), Laura e Jenny, e “la pupilla dei suoi occhi” (p. 171) il nipotino Johnny.
I riscontri e le contestualizzazioni di Musto consentono di leggere Marx dentro il work in progress ma senza fine della sua critica dell’economia politica, dentro il divenire di una ricerca tanto appassionata quanto tormentata, dentro le sue domande, i suoi ripensamenti, e le revisioni continue, risultato dopo risultato, di un lavoro antidogmatico per eccellenza. Il libro ci fa vedere un Marx vivo, quasi come quello del bel film di Raoul Peck tanto applaudito dai giovani per la capacità di trasformare una riproduzione filologicamente accurata di documenti e di testi in scene ed immagini assai suggestive, come ad esempio quelle di un bosco, il bosco dei cosiddetti furti di legna, dove immediatamente si riconoscono le differenze tra quelli che erano raccoglitori dei rami caduti e quelli che invece distruggevano gli alberi e li facevano a pezzi.
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Ancora su i dieci anni che sconvolsero il mondo
di Piero Pagliani
Raffaele Sciortino, I dieci anni che sconvolsero il mondo. Crisi globale e geopolitica dei neopopulismi, Asterios, Trieste 2019, pp. 312, euro 25,00
I libri che permettono di orientarsi tra quanto sta succedendo, non sono poi molti. Sono invariabilmente scritti da autori che non si concentrano su un solo punto – tipicamente l’economia – ma prendono in considerazione la complessità delle società umane e della loro storia.
A parte il II e III libro del Capitale di Marx, che io consiglio sempre di ripassare, per quanto riguarda la letteratura contemporanea non italiana suggerirei per iniziare coi lavori di Giovanni Arrighi, Karl Polanyi, Samir Amin, David Harvey e Michael Hudson (non specifico le opere perché si trovano facilmente con una ricerca sul web).
Per quanto riguarda l’Italia la scelta ricade su pochi autori che condividono una particolare caratteristica “esogena”: non essere noti al pubblico che si forma sulle pagine culturali, economiche o politiche dei media mainstream.
Ma l’Italia è un Paese dove si stanno ancora a sentire due economisti che quando la Lehman Brothers fallì scrissero su un prestigioso quotidiano che non ci sarebbe stato alcun contagio, che la crisi dei subprime sarebbe stata passeggera ed era dovuta sostanzialmente al fatto che il pubblico statunitense non sapeva calcolare il montante quando chiedeva un prestito.
Non sapendo nulla di economia, ma conoscendo quasi a memoria i lavori degli autori sopra citati, io affermai invece (assieme a pochi altri) che c’era da aspettarsi una crisi almeno decennale. Non ci voleva in realtà un grande sforzo d’immaginazione e fui persino troppo ottimista.
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Siria, Russiagate, Ucrainagate al tempo del Ministero della Verità
The Donald non va alla guerra? Impeachment!
di Fulvio Grimaldi
“La bussola va impazzita all'avventura e il calcolo dei dadi più non torna” (Eugenio Montale, “La casa del doganiere”)
Giornalisti e sinedri
Di certezze, in questo mondo di spinte e controspinte in costante e confusa moltiplicazione, che lo fanno sembrare un cesto di serpenti in fregola di libera uscita, ce ne sono poche. Ce l’hanno in esclusiva inconfutabili mediatici che questo mondo lo interpretano con la saggezza, l’indipendenza e la competenza che gli assegna l’Ufficio delle Risorse Umane del rispettivo datore di lavoro, a sua volta responsabile verso qualche sinedrio molto in alto e poco conoscibile. Sinedrio che, tra gli altri, cura il ministero della “Difesa” e quello, di orwelliana definizione, della “Verità” (“Miniver”). Noi che ritenevano come i giornali di opposizione dovessero criticare e contestare l’esistente e il governante, nel caso “il manifesto” o “Il Fatto Quotidiano”, ci dobbiamo rassegnare al dato che quell’ufficio delle risorse umane e quel sinedrio non permettono giri di valzer a nessuno. Su quel che conta nel sinedrio, il coro è uno e unico. E allora la possibilità di una ricerca, non tanto di certezze, ma di qualche brandello di probabilità sfuggito al coro di queste eccellenze ministeriali, si riduce a un criterio molto primitivo, rozzo, ma di discreta approssimazione.
Anche per quei due giornali si può tranquillamente ragionare, al netto delle oneste penne, non intinte nel veleno di quegli altri rettili, che insistono a fornirgli foglie di fico, su un criterio di questo tipo: ciò che essi sostengono e promuovono, va avversato e respinto; viceversa, ciò che li irrita e li muove al vituperio, ha ogni probabilità di meritare consenso e appoggio.
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Governo eurista? Finanziaria recessiva
di Leonardo Mazzei
Liberarsi dalla gabbia dell'euro e dell'Ue è la vera emergenza: la Legge di Bilancio 2020 è lì a dimostrarlo
Sabato scorso abbiamo manifestato a Roma per liberare l'Italia dalla gabbia eurista. Ieri, invece, il governo ha diligentemente inviato a Bruxelles il DPB (Documento Programmatico di Bilancio), che anticipa ai signori dell'Ue quel che i parlamentari italiani dovranno approvare nel dettaglio nella Legge di Bilancio vera e propria.
Quale sia il legame tra questi due eventi è facile da capirsi. Senza rompere la gabbia eurista l'Italia non ha futuro. E la Finanziaria del Conte-bis (chiamiamola così, all'antica, che ci capiamo meglio) è lì a ricordarcelo. Tutti sanno che con l'attuale crescita zero, che annuncia una probabile recessione alle porte, sarebbe stato necessario rilanciare gli investimenti, la spesa pubblica ed i i consumi. Avviene invece l'esatto contrario: gli investimenti (peraltro del tutto insufficienti) sono rinviati ad un non meglio precisato futuro, la spesa pubblica subirà nuovi tagli, mentre le nuove tasse peseranno per circa 13 miliardi (md) di euro. Auguri vivissimi agli italiani, al popolo lavoratore in primo luogo, ma è chiaro che questa politica non solo non contrasta la recessione, al contrario la alimenta.
Come naturale, nella manovra firmata Gualtieri non mancano, qua e là, misure sensate ed approvabili, come l'abolizione del super ticket o quella del cosiddetto "bonus facciate" per le ristrutturazioni condominiali. Ma si tratta appunto di cose di facciata. Piccole caramelle inserite nella solita legge-monstre che, spaziando quest'anno dai 23 md dell'IVA alla tassa sulle bibite zuccherate, consente ad ognuna delle forze di governo di intestarsi questa o quella misura, lasciando ovviamente quelle più impopolari - la stragrande maggioranza - senza padri né madri.
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Educazione e istruzione
di Paolo Di Remigio
Riceviamo e volentieri pubblichiamo (M.B.)
Educazione e istruzione, da sempre necessarie per lo sviluppo della libera personalità, sembrano essere diventate opposte e incompatibili da quando i pedagogisti pretendono che l’insegnante non debba istruire gli allievi tenendo lezioni e verificandone lo studio, ma debba educarli senza nulla aggiungere a quanto già sanno, limitandosi a stimolarne gli interessi e la creatività, così che la scuola, finora un carcere per la ‘trasmissione’ di inutili e comunque evanescenti conoscenze teoriche, si trasfiguri in un giardino gioioso in cui fioriscono flessibilità mentale e competenze pratiche. Non è la prima volta che la pedagogia polemizza con l’istruzione; già Rousseau, che nel suo «Emilio» proclamò di odiare i libri, progettava un’educazione che eludesse le astrattezze della teoria e condizionasse il fanciullo con la segreta manipolazione del suo ambiente; già in lui il rigetto della civiltà diventò divieto di istruire e l’educazione assunse accenti totalitari[1]. In ogni caso è un segno di estrema decadenza che, entro la civiltà ai cui inizi è sbocciata la libera filosofia, si diffami la conoscenza teorica come fonte di corruzione dei giovani. Un simile rovesciamento di valori suggerisce l’opportunità di qualche considerazione altrimenti scontata sul senso dei due concetti.
Educazione si riferisce in genere all’ambito morale, all’acquisire le abitudini che consentono alle persone una convivenza senza troppi attriti. La prima convivenza degli individui è la famiglia. Diretta ai bambini dalla loro nascita, l’educazione familiare procede per lo più muta, per lo più grazie all’imitazione; e quando prende la parola è per lo più proibitiva. Poiché il suo lato positivo consiste nell’imitazione e il suo lato negativo nella proibizione, essa non è più spontanea e creativa dell’istruzione; al contrario, essa limita in silenzio l’ambito dell’esperienza possibile e la spontaneità per proteggerle dalle conseguenze lesive.
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La morte degli eroi: per agire al di là del bene e del male
Considerazioni a partire da Joker
di Gigi Roggero
“Per il momento viviamo ancora estranei e celati a noi stessi. Per molte altre ragioni ci sarà necessario vivere da solitari e anche portare maschere – ci troveremo quindi male nella ricerca dei nostri simili. Vivremo soli, conosceremo probabilmente tutte le torture delle sette solitudini.”
(F. Nietzsche, 1885)
Questa non è una recensione. La lasciamo a chi è più competente, a chi può parlare correttamente di cinema, a chi può analizzare la fotografia e il montaggio, a chi coglie i particolari e i dettagli, i riferimenti e i collegamenti con altri film. Se diciamo che questa non è una recensione non lo facciamo per abbassare l’asticella delle pretese nel campo della cultura, ma per alzare l’asticella delle pretese nel campo che ci interessa, quello centrale: il campo politico. Non per modestia individuale, ma per ambizione collettiva.
Di che parliamo? Ma di Joker, ovvio. Che palle, ecco che anche quelli di Commonware dicono la loro. Ok, probabilmente avete ragione. Però sappiate che non ce ne frega niente di dire la nostra sul film. A noi interessa utilizzare il film. Senza rispetto per la supposta correttezza interpretativa. Allora liquidiamo ciò che riguarda strettamente i commenti sul film, sul suo regista, sui suoi attori, o meglio sull’unico attore: Phoenix è straordinario, ma non è questo il punto. Non lo è qui per noi, sia chiaro.
E perché vi interessa così tanto utilizzare questo ennesimo prodotto hollywoodiano? Perché come altri grandi prodotti hollywoodiani, e probabilmente più della maggior parte dei grandi prodotti hollywoodiani, ci parla di quella maledetta cosa che si chiama società capitalistica, o ancor meglio civiltà capitalistica. Più precisamente, ci parla della crisi di questa civiltà. La crisi non è lo stadio prima del crollo, niente affatto. La crisi è la verità della civiltà capitalistica. È la civiltà capitalistica nella sua forma esplicita, senza veli e senza fronzoli.
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L’accumulazione e la donna. Storie di genere e di oppressione
Una lettura di “Calibano e la Strega” di Silvia Federici
di Massimo Maggini
“Il capitalismo è il paradosso di un onere straordinario permanente. Si trattava di convertire l’intero processo riproduttivo sociale in un unico processo di «creazione di denaro» o di «moltiplicazione del denaro» e gli uomini in astratte macchine da lavoro e rendimento astratto di questa «legge» inizialmente esteriore e imposta. Questa mostruosità si rappresentava come stato di necessità costituente o come lo stato di eccezione che funzionò da levatrice del capitalismo, la cui funzione fu quella di spezzare una volta per tutte la volontà di autonomia sociale. La storia di questa brutalizzazione delle relazioni sociali, senza precedenti nella storia dell’umanità, nonostante il capitolo del Capitale di Marx sull’«accumulazione originaria» e le ricerche del primo Foucault, è ancora ben lungi dall’essere stata scritta”
-Robert Kurz, Weltordungskrieg
“Nella forma del proto-mercato mondiale, nel contesto del sistema coloniale il capitale fu davvero il «dio straniero» (Marx) che sopraggiunse attraverso le società mentre simultaneamente si sviluppavano, in queste stesse società, la statalità centralizzata, la struttura della dissociazione sessuale moderna e le corrispondenti ideologie (protestantesimo); nel senso di un orientamento degli individui e di una fondazione anche simbolico-culturale del nuovo rapporto complessivo capitalistico, la dissociazione sessuale marcò una dimensione profonda, eclissata, assolutamente non a caso, dalle riflessioni più tarde”
-Robert Kurz, das Weltkapital
È apparsa nell’estate 2015, per merito ancora una volta della casa editrice Mimesis, la riedizione di un libro fondamentale per aiutare a comprendere la genesi del capitalismo: Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria.
Questo libro, partorito dalla vitale e generosa mente di Silvia Federici, cui va il nostro riconoscimento e plauso per aver tratteggiato le linee di una storia misconosciuta ma quanto mai centrale per la nascita di uno dei più feroci – se non il più feroce – fra i sistemi sociali che l’umanità abbia mai conosciuto, rappresenta un contributo estremamente prezioso per approfondire il meccanismo attraverso il quale questo sistema si è insediato e ha preso possesso delle nostre vite.
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Problemi falsi, soluzioni vere
di Il Pedante
For a problem can only be solved by a principle.
(G. K. Chesterton)
Esiste una percezione diffusa, che la politica oggi sarebbe incapace di offrire soluzioni ai «problemi dei cittadini» perché troppo lontana dalla «gente». È una percezione che anch'io condivido ma in cui si annida un rischio, di credere che esista davvero un «bene del Paese» indistinto e non invece un sovrapporsi di interessi e bisogni che si limitano a vicenda, in certi casi si escludono. Si negherebbe altrimenti la possibilità di esistere di una politica come scelta di campo possibile tra le tante possibili, di un equilibrio più o meno sbilanciato tra le forze sociali secondo visioni, convinzioni e condizioni diverse.
L'idea di considerare il politico come il luogo di risoluzione o lenimento dei problemi «dei cittadini» produce la convinzione che i suoi fallimenti coincidano con il fallimento delle sue soluzioni. Ma è il contrario. L'elaborazione politica si distingue in modo fondamentale dall'amministrazione perché è chiamata a formulare i problemi, non a risolverli, a stabilire cioè un progetto da affidare all'esecuzione dei tecnici. Quel progetto può essere espresso implicitamente indicando, appunto, i problemi che occorre risolvere per realizzarlo progressivamente. L'approccio di dichiarare i problemi e non direttamente gli obiettivi sottesi ha un vantaggio pragmatico: i primi (ad es. i salari bassi, la disoccupazione, la denutrizione, la mancanza di servizi ecc.) sono concreti e presenti, i secondi (ad es. un livello di vita dignitoso per tutti) sono astratti e lontani e devono in ogni caso scomporsi in una visione problematica che fornisca stimoli all'azione.
La formulazione del problema implica anche la sua collocazione all'interno di una rete di relazioni causali che, a sua volta, disegna sullo sfondo una certa visione della realtà tra le tante possibili.
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M. Cacciari, La mente inquieta
Recensione di Giulio Gisondi
M. Cacciari, La mente inquieta. Saggio sull’Umanesimo, Einaudi, 2019
L’ultimo lavoro di Massimo Cacciari, La mente inquieta. Saggio sull’Umanesimo, vuol essere un tentativo di ripensare il contenuto filosofico dell’Umanesimo. Lontano dal diluire o dal ricondurre, come spesso ha fatto una certa filosofia contemporanea, l’esperienza culturale del Quattrocento italiano all’esclusivo ambito artistico-letterario, da un lato, e alla pratica erudita e filologica degli studia humanitatis, dall’altro, l’autore riconosce, invece, all’Umanesimo la sua piena identità e dignità filosofica. E lo fa esplicitando, sin dalle prime pagine, il debito nei confronti della lezione di Eugenio Garin, di quell’idea di Umanesimo civile compreso come «età di crisi […], in cui il pensiero si fa cosciente della fine di un Ordine e del compito di definirne un altro, drammaticamente oscillante tra memoria e oscuri presagi, crudo scetticismo e audaci idee di riforma» (Introduzione ). Proprio il riconoscimento dell’Umanesimo quale momento disarmonico, disincantato, tragico e conflittuale, di rottura delle cattedrali metafisiche scolastiche, rappresenta uno dei maggiori risultati della ricerca e della prospettiva gariniana, a partire dalla quale questo saggio prende le mosse.
Tuttavia, nonostante il lavoro di ricostruzione storico -filosofica e filologica avviato nel dopoguerra dalla scuola di Garin, di Cesare Vasoli, e proseguito dai loro allievi, Cacciari osserva come ancora oggi molte siano le riserve, le diffidenze e le incomprensioni relative al senso, al significato e al valore filosofico dell’Umanesimo. Una delle ragioni di tale incomprensione è legata all’abitudine, di una pur grande storiografia, di porre il problema dell’Umanesimo considerandolo sempre in funzione della propria posizione teoretica. È questa, ad esempio, la prospettiva all’interno della quale l’Umanesimo è stato considerato da autori come Giovanni Gentile o Ernst Cassirer, ovvero quale presupposto o momento della maturazione del loro stesso pensiero.
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Chi ha paura del… Totalitarismo?
di Carla Filosa
Cancellare il diritto materiale degli oppressi alla rivoluzione: ecco il senso ultimo di (non)concetti come quello di totalitarismo, a proposito della indecente risoluzione del parlamento UE
Per chi ha incontrato nella propria infanzia i fumetti dei tre porcellini (anni ’50), era consuetudine leggere ripetutamente la loro rassicurante canzoncina “chi ha paura del lupo?”, riferito a Ezechiele Lupo, il cattivo minaccioso attentatore alla vita dei porcellini perpetuamente destinato a soffrire la fame, nel finale buonista. Il potere di oggi di molti governi mondiali ha bisogno di rinnovare aggravate le vecchie paure, di fronte al rigurgito fascistoide diffuso unito al pericolo di ribellione di masse sempre più espropriate perfino dei territori su cui vivere, avendo però l’accortezza di sostituire al “lupo”- metafora, il non-concetto di “totalitarismo”.
Sotto questo ombrello infatti, oltre alla genericità sempre ambigua, si annida ancora il concetto invece di lotta di classe – sebbene mascherato – da esorcizzare definitivamente. Il riferimento qui è alla non nuova risoluzione del Parlamento Europeo del 19.09.20019, che ha approvato la “valutazione… riguardo ai crimini e agli atti di aggressione perpetrati dai regimi totalitari comunisti e dal regime nazista” (art.5). Questa richiede ora una riflessione meno semplicistica sull’equiparazione di nazismo e comunismo ivi di fatto contenuta, e una presa di posizione di fronte alla storia passata, ferma perché consapevole.
La domanda su “chi ha paura del totalitarismo” non solo è pertanto lecita ma soprattutto doverosa, perché riguarda la definizione e la tenuta delle nostre cosiddette democrazie, dove la virulenza dell’imperialismo mondiale viene invece sottaciuta e distolta mentre si innalzano muri e si armano guerre itineranti dall’apparenza locali. Il finale buonista, per questo imperialismo sempre più famelico, non è per niente scontato.
Accomunare comunismo e nazismo forse va fatto risalire ai tragici anni ’30 del secolo scorso, come scrive lo storico Eric J. Hobsbawm in Il secolo breve:
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Illusione Matematica
di Claus Peter Ortlieb
Con il testo "Illusione Matematica", Claus Peter Ortlieb torna a quelli che sono i fondamentali di una critica delle scienze matematiche della natura. Si sa che, in particolare le scienze naturali, rivendicano per sé una oggettività che pretende di non aver niente a che vedere con i soggetti investigati, né con il loro specifico interesse sociale alla conoscenza, né niente a che vedere con la forma sociale; viene assunta, per così dire, la «visione del nessun luogo» (Elisabeth Pernkopf). Ortlieb si oppone all'idea, ampiamente generalizzata e diffusa in quelle che sono le scienze esatte, secondo cui la realtà è, nella sua essenza, di natura matematica, per cui la matematica e le leggi formulate nel suo linguaggio sarebbero, pertanto, una qualità naturale, indipendente dalle persone e dalla loro visione del mondo. Un'accurata analisi di quello che è l'indagine matematico-scientifica reale prova questa idea è erronea. Si tratta di un feticismo, che proietta quella che è la sua propria forma di conoscenza storicamente specifica, insieme a quelli che sono i suoi propri strumenti, sull'oggetto della conoscenza, rendendo quelli proprietà di questo. La connessione con il feticismo delle merci è ovvia, e si può anche dimostrare che la conoscenza matematica della natura ha come suo presupposto la dissociazione del femminile. (Presentazione del testo sul n°15 di exit! del mese di aprile del 2018). Il testo che segue è la versione scritta ed ampliata di un intervento alla conferenza: «Matematica Generale: Matematica e Società. Prospettive filosofiche, storiche e dialettiche», Schloss Rauischholzhausen, 18-20 giugno 2015.
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Quando si guarda il mondo indossando occhiali di color rosa, esso appare di colore rosa. E, quindi, chiunque guarderà il mondo attraverso gli occhiali della matematica vedrà strutture matematiche dappertutto. [*1] Ora, il colore rosa non è ovviamente una proprietà del mondo, ma semmai degli occhiali.
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Retorica e realismo di un (grande) poeta borghese: Giosuè Carducci
di Eros Barone
«Il signor Settembrini è letterato» commentò Joachim, un po’ impacciato. «Ha scritto per giornali tedeschi il necrologio di Carducci... Carducci, sai?» E rimase ancora più impacciato, poiché suo cugino lo guardò stupito come per dire: che ne sai tu di Carducci? Tanto poco quanto me, suppongo.
Thomas Mann, La montagna incantata, Cap. III, “Satana”.
Scrive Pietro Gibellini nella sua pregevole Introduzione a Tutte le poesie del Carducci: «La fortuna di molti scrittori ha l’andamento delle montagne russe dei vecchi luna-park: qualche ondulazione e sobbalzo all’avvio, quindi una ripida ascesa in vita (e di solito nell’immediato ‘post mortem’) fino ai vertici della gloria, poi una caduta precipitosa verso l’abisso del discredito o, peggio, dell’oblio. Si pensi a Monti, la cui fama grandissima, durante l’esistenza, mai compromessa dal tempestoso alternarsi dei regimi, fu intaccata dopo la morte dal confronto obbligato con Foscolo (...). Si pensi a D’Annunzio, asceso alla gloria letteraria e al successo mondano durante la sua “vita inimitabile” e precipitato poi, con le polverose rovine del regime cui, a ragione o a torto, era stato associato, nel vallone oscuro dove è rimasto fino a tempi recenti. Il diagramma della fortuna del Carducci appare ancor più nitido, poiché alla linea progressivamente ascendente succede, con netto contrasto, quella discendente altrettanto progressiva. Le sue quotazioni si mantennero alte come quelle dell’ammirato Monti, ma per un periodo ancor più lungo; il suo declino, a differenza di quello di D’Annunzio, appare, almeno sino a ora, irreversibile (...). Da decenni Carducci non ha quasi più lettori, nemmeno nel luogo deputato delle aule scolastiche. Bello scacco, per quello che da Thovez in poi si suole chiamare il “poeta professore”!». 1
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