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Il punto sulla crisi
Intervista a Tony Norfield, Michael Roberts e Paula Bach
Pubblichiamo la traduzione di un’intervista (già apparsa su LeftVoice e LaIzquierdaDiario) a tre importanti economisti marxisti che fanno il punto sulla più recente congiuntura economica. In realtà si tratta di studiosi non molto noti in Italia, se non in circoli ristretti. Questo nella misura in cui il dibattito teorico nella sinistra italiana è pressoché assente, da cui lo scarso interesse a rendere disponibile nella nostra lingua i lavori e gli articoli di chi invece è impegnato in serrate discussioni a livello internazionale, e in particolare in America Latina e nel mondo anglofono. Paula Bach è un’economista marxista argentina che si occupa di economia internazionale; è inoltre militante del Partido Socialistas de los Trabajadores e collaboratrice de La IzquierdaDiario e di Ideas de Izquierda. Micheael Roberts, invece, è un economista marxista britannico (con un passato “nel ventre della bestia” come analista finanziario); ha scritto alcuni importanti libri come “The Great Recession” e con Guglielmo Carchedi il recentissimo “World in Crisis”. Micheal tiene inoltre un’aggiornatissimo blog, purtroppo solo in lingua inglese, ma dal quale – prendiamo qui l’impegno – vedremo di attingere più frequentemente per delle traduzioni. Anche Tony Norfield è un economista marxista britannico “forte” di un passato nella City di Londra, del quale ha potuto giovare per scrivere un libro sul ruolo centrale che ancora svolge l’imperialismo britannico nell’architettura geo-economica e geo-politica mondiale. Il libro si chiama “The City”. Abbiamo già tradotto un’intervista a Tony QUI. Anche Tony Norfield tiene un blog molto interessante che si concentra sull’economia e sull’imperialismo.
* * * *
È difficile prevedere precisamente quando avrà luogo una recessione, ma è possibile individuare alcuni segnali, come ad esempio la tendenza all’appiattimento della curva dei rendimenti*, la quale indica che potremmo essere vicini a una nuova decelerazione.
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La Cina e la questione dell'egemonia
di Michele Nobile
L'articolo di Michele Nobile inizia una serie sulla politica estera della Repubblica popolare cinese, centrata sull’analisi della situazione nel Mar cinese meridionale. Di Nobile si veda anche «Sul “socialismo con caratteristiche cinesi“, ovvero del capitalismo realmente esistente in Cina», 10 settembre 2018
1. Il problema dell’egemonia come combinazione di forza e consenso
Gli Stati Uniti come potenza un tempo egemone ma ora condannata al declino? E la Repubblica popolare cinese (Rpc o semplicemente Cina) come potenza in ascesa e nuovo Stato egemone, se non sul piano planetario almeno in Asia, nel quadro di un sistema internazionale multipolare?
Se l’egemonia è correttamenteintesa come combinazione di forza dell’egemone e di consenso al suo ruolo internazionale da parte delle classi dominanti degli altri Paesi e, almeno passivamente, anche di una parte consistente dei loro popoli, è nel Mar cinese che si mettono alla prova le rispettive capacità degli Stati Uniti e della Cina di mantenere l’egemonia o di costruirne una alternativa.
Più precisamente, è tra i Paesi litoranei della porzionemeridionaledel Mar cinese che meglio si può verificare la tesi di una transizione dell’egemonia dagli Stati Uniti alla Cina. È lì che si confrontano direttamente la «nuova via della seta» marittima di Xi Jinping e il pivotverso l’Asia, nelle forme molto diverse assunte durante le amministrazioni di Obama e di Trump; e anche oltre il problema di Taiwan, è in quell’area che con maggiore probabilità possono verificarsi incidenti o scontri diretti tra unità militari della Rpc e degli Stati Uniti.
Se ben messa a fuoco, la generica idea di un’eventuale transizione del potere suscita numerosi interrogativi circa i modi e la forma che essa potrebbe assumere. Ad esempio: gli Stati Uniti accetteranno di riscrivere le regole dell’ordine internazionale insieme alla Cina? O è possibile che rinuncino alla posizione di egemone per riformare l’ordine liberale mondiale insieme agli altri Paesi a capitalismo avanzato? Oppure, l’egemone in declino tenterà di riprendersi il primato con ultimo colpo di coda? È che genere di grande potenza è la Rpc: è da prendere sul serio la posizione ufficiale del «pacifico sviluppo»? O si tratta di una potenza revisionista? E se sì, allora mira a costruire una sua sfera d’influenza regionale o anche a modificare le regole del sistema globale? Il futuro prospetta una grande guerra costituente tra Stati Uniti e Cina, forse una nuova guerra mondiale? O l’alternativa è un sistema bipolare tra potenze antagonistiche, caratterizzato da una condizione che non è né di pace né di guerra, del genere della guerra fredda?1
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La crisi europea, lo scontro sociale che cresce
di Dante Barontini
Quando i dati – economici e politici – confermano un’analisi sgradita, i cretini (e quelli che ci guadagnano) voltanto la testa dall’altra parte, cominciando a farneticare di “valori”. Il massimo dello sciacallaggio poi avviene su ragazzi uccisi, come il giovane giornalista italiano a Strasburgo, le cui convinzioni e/o fraintendimenti vengono ora spacciati per verità rivelate che nessuno deve osare mettere in discussione. Un po’ come fanno i generali in guerra, quando vanno in difficoltà, che esaltano il sacrificio dei ragazzi che loro stessi hanno mandato a uccidere e morire.
Il tutto mentre un “governo del cambiamento”, che doveva fare una “manovra del popolo”, sfidare l’Unione Europea e rivoltare la Ue come un calzino, si appresta a varare una legge di stabilità riscritta fino all’ultimo rigo sotto la supervisione della Commissione Europea, che intanto preparava – ad ogni buon conto – la “procedura di infrazione” per debito eccessivo.
Due cose possiamo rivendicare d’aver detto e scritto molto prima che anche nei giornali mainstream se ne accorgessero. La prima, seria e strategica, addirittura a metà maggio, è che Salvini e Di Maio erano i due nuovi Tsipras, sebbene uno fasciorazzista e l’altro neo-doroteo. La seconda, scherzosa ma altrettanto vera, è che a forza di ridurre la platea dei beneficiari di “quota 100” per le pensioni e del reddito di cittadinanza, pur di rientrare nei limiti dettati dalla Ue, alla fine daranno la “quota” all’autista di Salvini e e il reddito a un vicino di casa di Di Maio…
Per i dati, e quel comportano in termini di insorgenza sociale e fratture tra establisment e popoli, ci soccorre – ormai spesso – un editoriale di Guido Salerno Aletta, pubblicato su Milano Finanza (non sull’organo dei soviet!).
Il quale spiega con grande sintesi, dunque con la massima efficacia, come l’ordoliberismo economico sottostante a tutti i meccanismi di regolazione Ue abbiano nel corso degli ultimi venti anni prima logorato e poi distrutto le leadership politiche dell’Europa intera (ricordiamo sempre che l’Europa è il continente in cui viviamo, la Ue una schifosa forma di governo di questo territorio; confonderle è un’infamian o un suicidio).
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Leggendo«Elogio sì, ma di quale democrazia?» di Giancarlo Paciello
di Fernanda Mazzoli
Leggendo l’ultimo libro di Giancarlo Paciello, Elogio sì, ma di quale democrazia? La rivolta o forse la rivincita del demos, non ho potuto fare a meno di pensare ad una considerazione di Antonio Gramsci sul contesto in cui era andata maturando la crisi moderna che aveva trasformato i ceti dirigenti in ceti semplicemente dominanti. Le sbarre del carcere non gli impedivano di affacciarsi curioso sulla realtà contemporanea e di osservare che «il vecchio muore e il nuovo non nasce»,[1] ad indicare la possibilità di sviluppi incerti, contraddittori e anche morbosi nella vita sociale e a suggerire il rischio di una impasse. Posto che non intendo stabilire alcun parallelismo fra gli anni vissuti da Gramsci e i nostri, mi preme cogliere di tale osservazione la capacità di fotografare in modo incisivo un momento storico che le consolidate categorie interpretative faticano a cogliere, perché dalle macerie di un certo sistema di rappresentanza politica stenta a crescere e ad imporsi un cambiamento sostanziale, capace di andare oltre la manifestazione di un netto rifiuto dell’Ancien Régime.
È quanto l’autore sottolinea già a partire dalla premessa, mettendo in guardia da troppo facili entusiasmi per il voto del 4 marzo che, se ha segnato il «redde rationem di una classe politica improvvida»,[2] non rappresenta certamente la fine dell’oligarchia che ci governa da troppo tempo, ma, sicuramente, è da leggersi come un segnale importante, l’espressione di un desiderio autentico, anche quando soggetto a pulsioni contraddittorie, di farla finita con una classe politica corrotta che ha saccheggiato il Paese, finendo, poi, per consegnarlo nelle mani di organismi sovranazionali dominati dalla finanza.
Il libro si sviluppa su due binari: da un lato, la focalizzazione sull’attualità che si sostanzia nell’analisi precisa dei sistemi elettorali dal dopoguerra ad oggi e del voto degli ultimi anni, dall’altro una ricerca intorno al significato della democrazia che si avvale del contributo fornito da eminenti studiosi, quali Vernant, Preve, Canfora, Giacché. Il percorso si snoda dalla nascita della polis, decisivo punto di partenza per una nuova modalità di vita associata, e dalle considerazioni di Aristotele sulla differenza fra oligarchia e democrazia, nonché sulla natura dell’uomo come animale politico, fino al moderno concetto di democrazia.
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Prove tecniche di convergenza gialla
di Alessandro Ferrari
Dopo l’articolo di Maurizio Gribaudi e i contributi “francesi” di Edwy Plenel e del Comitato Adama, continuano le riflessioni Effimere sui cosiddetti “gilet gialli” con Alessandro Ferrari
Una domanda provocatoria
La mobilitazione dei gilets jaunes si é ormai da alcune settimane imposta al centro del dibattito politico in Francia per la sua crescita ed ampiezza e nonostante gli appelli e gli auspici del governo il movimento non accenna a sgonfiarsi e l’atto III di questa mobilitazione che ha messo a ferro e fuoco Parigi sta qui a dimostrarlo; in questo testo non ci limiteremo né ad una semplice descrizione dei fatti e sintesi della mobilitazione né ad un’analisi esterna che tiri le somme cercando di costruire esternamente una posizione politica di fronte alla variabile rappresentata dai gilets gialli quanto piuttosto un tentativo di articolare il reale con una sua sovrainterpretazione che cerca di leggere gli aspetti tendenziali del movimento dei gilets jaunes non per provare a sovradeterminarlo politicamente quanto per azzardare una bozza di una delle sue possibili evoluzioni e del ruolo da giocare in questa evoluzione. Faremo questo attraverso una sintesi degli avvenimenti che hanno caratterizzato la mobilitazione dei gilets gialli ed insieme una radiografia progressiva delle sue evoluzioni ed obbiettivi per provare in seguito a vedere nella giornata del primo dicembre a Lyon più che a Parigi un’esemplificazione della nostra lettura tendenziale, una scelta che deriva da un lato della participazione e dalla conoscenza diretta e dall’altro lato come primo esempio di quell’azzardo interpretativo appena descritto che lega i fatti alla torsione politica della tendenza. Una lettura che piuttosto che localizzare gli ennesimi nuovi e definitivi soggetti rivoluzionari o predeterminare il progetto politico di una mobilitazione in divenire pone una semplice domanda al dibattito collettivo, non tanto una domanda voyeuristica delle lotte altrui quanto un sasso lanciato nello stagno del conflitto e del nostro lavoro politico, una domanda che sopravanza provocatoriamente e paurosamente la durezza dei fatti chiedendosi se l’esigenza smaniosa e il seme di una convergence des luttes che aleggiava nei cortei e nelle piazze attraversate dalle lotte degli cheminots e degli studenti stia finalmente vedendo la luce nella mobilitazione dei gilets gialli.
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Crescita e moneta unica: il paradosso della politica fiscale
Allegato alla “Politeia” di Savona
di J. A. Kregel
Una esauriente e approfondita scheda esplicativa sullo studio intitolato “Crescita e moneta unica: il paradosso della politica fiscale” elaborato dall’economista J. A. Kregel e allegato al documento “Una politeia per un’Europa diversa, più forte e più equa” che il Ministro Paolo Savona ha proposto come base di discussione al Consiglio europeo al fine di verificare la reale rispondenza della architettura europea agli obiettivi di crescita di piena occupazione e di stabilità che sarebbero alla base dei trattati. Il documento di Kregel, estremamente significativo, dimostra su base scientifica la natura paradossale dell’impianto della moneta unica, che con le sue regole di rigore fiscale nel lungo periodo non può che portare o a condizioni di stagnazione permanente o ad un’intrinseca fragilità finanziaria tipica di uno schema Ponzi, che si scaricherebbe sul resto del mondo. Una follia economica.
Ringraziamo il curatore della scheda Beppe Vandai, che ha spesso collaborato con Vocidallestero traducendo articoli di particolare rilevanza. Beppe, di formazione filosofica, vive da 32 anni in Germania e ha fondato ad Heidelberg il circolo di discussione politico-culturale Volta la Carta!! e a Treviso il circolo Risorse, sui temi dell’economia.
Scheda a cura di Beppe Vandai sul documento di Jan A. Kregel* “Crescita e moneta unica: il paradosso della politica fiscale”
*Jan A. Kregel è un importante economista post-Keynesiano, direttore del programma «Politica monetaria» presso il Levy Economic Institute of Bard College e professore di Development Finance presso la Tallinn University of Technology. Ex professore di Economia Politica presso l’Università degli Studi di Bologna ed ex professore di Economia Internazionale presso il Johns Hopkins University’s Paul Nitze School of Advanced International Studies, dove è stato anche direttore associato del Bologna Center dal 1987 al 1990.
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Il discorso di Macron, la risposta di Mélenchon, il futuro del movimento
di Giacomo Marchetti
Alle otto di lunedì sera, Emmanuel Macron ha pronunciato il suo atteso discorso alla nazione; dopo poco Jean-Luc Mélenchon, deputato e leader della France Insoumise, ha “risposto” per punti alle affermazioni del messaggio del Presidente.
Dopo avere considerato il “botta e risposta” tra il Macron e Mélenchon, dobbiamo approfondire l’analisi su questo movimento per comprendere come i pochi palliativi macroniani non avranno probabilmente gli esiti sperati.
L’aumento del salario minimo intercategoriale di 100 euro (in realtà 64 in più rispetto all’aumento automatico previsto in conseguenza all’indicizzazione), la defiscalizzazione per il lavoratore e per l’impresa delle ore straordinarie, un premio delle imprese ai lavoratori per la fine dell’anno – comunque facoltativo e comunque defiscalizzato – e per ultimo l’innalzamento della CSG per le pensioni inferiori a 2.000 euro, sono le uniche misure concrete di cui ha parlato Macron nel suo discorso, e si inseriscono nel solco della sua filosofia di governo, tesa a sposare la tesi dello “sgocciolamento” e a legittimare il rapporto plebiscitario che esacerba i tratti più autoritari della Quinta Repubblica in un rapporto Presidente – o meglio monarca repubblicano – e cittadini, riportati a sudditi, al di là di un generico ascolto di facciata dei corpi democratici.
La risposta a Macron del leader della France Insoumise, in un intervento di poco più di cinque minuti, si articola in 5 punti.
Come premessa viene fatto rilevare che nel discorso del presidente non compare alcuna scusa per le violenze delle forze dell’ordine, mentre è netta la condanna delle violenze dei manifestanti.
Macron si illude che “la distribuzione di soldi possa calmare l’insurrezione dei cittadini che è scoppiata”, afferma Mélenchon, che comunque lascia che sulle parole del Presidente si esprimano direttamente i GJ.
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Comunismi paralleli e altri viaggi nell’utopia
di Giovanni De Matteo
Siamo nel 1927 e in tutta l’Unione Sovietica fervono i preparativi per i festeggiamenti del decennale della Rivoluzione d’Ottobre. Denni è una ragazza dal passato misterioso che arriva a Mosca dalle sperdute regioni del sud. Sta seguendo le tracce di un padre scomparso e, quando si presenta alla porta dell’Istituto Trasfusionale, per il direttore Aleksandr Bogdanov (figura storica realmente esistita), che già si sta misurando con gli esiti frustranti della rivoluzione, comincia la sfida più incredibile della sua carriera che lo porterà a fare i conti sia con il suo ruolo personale nella Storia che con un caso medico che da subito rivela caratteri straordinari.
Il personaggio immaginario di Leonid Voloch, il padre che Denni non ha mai conosciuto, è stato delegato al soviet di San Pietroburgo, militante irriducibile e compagno di lotta di Bogdanov: scomparso nel 1907 dopo una rapina a Tbilisi a cui prendeva parte lo stesso Stalin, sarebbe riapparso solo a distanza di diversi mesi, sottoposto a giudizio dai compagni in esilio a Capri per sospetto tradimento e graziato da Bogdanov, che aveva riconosciuto nel suo comportamento i segni di un disturbo post-traumatico riconducibile alla conclusione violenta proprio di quella rapina. La ragazza versa in condizioni di salute precarie e, dagli accertamenti condotti all’istituto, risulta portatrice di un batterio apparentemente legato a una forma sconosciuta di tubercolosi. Trovare Voloch diventa così una corsa contro il tempo, non solo per permetterle di ricongiungersi con quello che resta della sua famiglia, ma anche per salvarle la vita.
“Bogdanov resta in silenzio. Quella sfida lo affascina. Un elemento sconosciuto è giunto a turbare le loro certezze. Ora li attende un periodo eccitante, fatto di disordini e divergenze, di contraddizioni e aggiustamenti, finché il sistema non troverà una nuova stabilità. Crisi, differenziazione, equilibrio. La dialettica in versione tectologica, che muove ogni progresso”
(Wu Ming, 2018).
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Sul concetto di valore
di Emanuela Fornari
Prendiamo le mosse da una premessa autoevidente del linguaggio comune. «Valore» è un termine polisemico in duplice senso. La sua polisemia è manifesta in ragione del diverso significato che il concetto di valore assume nei due ambiti in cui indiscutibilmente regna: l’ambito dell’economia e quello della morale. Si tratta di due ambiti distinti, ma per altro verso interconnessi: Adam Smith, il fondatore dell’economia politica moderna – la nuova scienza fondata sulla saldatura di due dimensioni che la cultura classica aveva tenuto ben distinte (l’oikos e la polis, lo spazio della produzione-riproduzione di beni di sussistenza e quello della praxis intesa come attività di governo della Città) per porre come fine e fonte di legittimazione di uno Stato non più la «vita buona» ma il benessere e the wealth of nations – teneva insieme i due insegnamenti della Political Economy e della Moral Philosophy. Ma la polisemia, in secondo luogo, è presente anche all’interno dello stesso ambito economico propriamente inteso: dove il concetto di valore assume significati diversi nella macroeconomia (o politica economica), nella microeconomia (o economia aziendale) e nella finanza.
Una volta fissati questi presupposti di partenza, occorre però adesso porre la questione della genealogia. In che modo, attraverso quali passaggi complessi, si è giunti a definire tramite il ricorso al concetto di valore quello che nel mondo classico era invece rappresentato, in autori quali Platone e Aristotele, dall’idea di arché: di un principio inteso al contempo come criterio-guida e «principato», come principio ordinatore oggettivo, indiscutibilmente superiore e universalmente riconosciuto? La tesi che intendo prospettare in questa rapida sintesi è che il passaggio dalla logica del Principio a quella del Valore ha innescato, a partire dall’età moderna, un’irreversibile tendenza dissolutiva e deoggettivante, rappresentata da una dinamica di progressiva soggettivazione della logica del valore. Vediamo allora di procedere con ordine, prendendo avvio dall’etimologia del termine.
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Global Compact for safe, orderly and regular Migration
La grande pianificazione e il diritto internazionale privatizzato
di Francesco Maimone
“Dobbiamo consentire ai migranti di diventare membri a pieno titolo delle nostre società evidenziando il loro contributo positivo”
(Global Compact for Safe, Orderly and Regular Migration)
1 In questi giorni sta tenendo banco sui Social e nei media il tema riguardante l’approvazione del Global Compact for Safe, Orderly and Regular migration (per brevità, GCSORM), ovvero l’accordo promosso in sede ONU e che sarebbe finalizzato a dare una risposta globale al fenomeno della migrazione. Tra le voci che si sovrappongono a favore e contro detto accordo, sembra soprattutto passare inosservato il fatto che il GCSORM non è una misura estemporanea partorita improvvisamente dal nulla, ma costituisce un documento inserito in una logica e ben congegnata “sequenza procedimentale” per dare specifica attuazione ad un disegno molto più vasto che l’Ordine sopranazionale dei M€rcati ha tracciato già da tempo.
2 In questa sequenza, ed evitando di risalire troppo nel tempo (per esempio, alla International Conference on Population and Development tenutasi nel lontano 1994 al Cairo), bisogna innanzi tutto prendere le mosse dalla distopica volontà di “trasformare il nostro mondo” contenuto in quel capolavoro cosmetico chiamato “Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile” adottata all’unanimità (quindi anche con il contributo del rappresentante italiano pro tempore) dall’Assemblea Generale dell’ONU con Risoluzione del 25 settembre 2015, entrata in vigore il 1° gennaio 2016 e che ha il compito di orientare i successivi sviluppi per i prossimi 15 anni. Come risulta da documenti parlamentari, l’Agenda “ha sostituito i precedenti Obiettivi di Sviluppo del Millennio (Millennium Development Goals) che avevano orientato l’azione internazionale di supporto nel periodo 2000-2015”. La nuova Agenda globale si propone, in particolare, di raggiungere i seguenti 17 obiettivi pubblicizzati alla stregua di un nuovo e meraviglioso paese di Bengodi, obiettivi ai quali sono associati “169 traguardi … che sono interconnessi e indivisibili” (così al punto 18, pag. 6, dell’Agenda):
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Perché dopo la crisi del 2008 l’agenda neoliberale è ancora dominante?
di Massimo De Minicis
La crisi del 2008 ha dimostrato che le politiche economiche mainstream sono dannose e fallimentari, ma la “retorica” neoliberale riesce ancora dominare il dibattito e le istituzioni e ad imporre pericolosamente la sua agenda
Dalla metà degli anni ’90, nel sistema a capitalismo avanzato, una crescente interdipendenza e accresciuta competizione tra le nazioni, identificata nel concetto teorico della globalizzazione ha determinato le basi concettuali per identificare nello stato sociale del periodo post-bellico europeo un lusso non più sostenibile: “nel dibattito svedese, è normale ritenere che l’egualitarismo degli anni ’70 non sia sostenibile e che l’uguaglianza debba, in una certa misura, essere sacrificata sull’altare dell’efficienza” (Crouch, Streek 1996).
Negli stessi anni gli ambienti politici dell’Unione europea hanno rappresentato un costante discorso teorico secondo cui la globalizzazione esponeva i paesi comunitari ad una serie di sfide di fronte alle quali dovevano essere riorganizzate le modalità di governance del welfare e del sistema delle relazioni industriali. Ciò sembra aver determinato una serie di vincoli esterni per le forme istituzionali prodotti attraverso un processo di persistente normalizzazione di tali presupposti teorici. Si è andata, così, consolidando una sorta di traiettoria neoliberale (Baccaro, Howell, 2011) che ha percorso anche i processi di integrazione europea per rispondere in maniera efficace agli imperativi dell’economia globale. Procedendo a rideterminare il peculiare “modello sociale europeo” emerso e consolidatosi nel primo dopoguerra (Hay, 2003). Una serie di posizioni ideali, che prefiguravano nella variante neoliberale di integrazione comunitaria la forma migliore per rispondere ai nuovi imperativi economici, hanno assunto effetti costrittivi e vincolanti per le società europee in assenza di manifeste conferme empiriche: “gli effetti reali dei discorsi economici sulla globalizzazione sono qualcosa di indipendente dalla veridicità delle analisi” (Hay, 2001).
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I gilets jaunes e la soggettività al tempo della crisi
di Franco Romanò
Il documento presentato dai Gilet jaunes alla stampa merita una grande attenzione perché è la prima volta che un movimento di tale ampiezza e consenso sociale arriva alla formulazione di un’agenda politica di rivendicazioni che vanno molto aldilà della causa efficiente che ha dato vita al movimento e cioè le accise sui carburanti le tasse cosiddette ecologiche. L’interesse sta proprio in questa relazione fra una lotta e una piazza reali e non immaginarie, virtuali o di pura opinione e un’agenda politica ampia che nasce nel contesto di quella lotta. Nel merito dei 41 punti presentati due giorni fa in conferenza stampa e che pubblico alla fine di questa riflessione, ognuno potrà farsi una propria idea. Credo sia utile, invece, discutere una questione preliminare e cioè quale tipo di soggetto s’è affacciato improvvisamente nel cuore dell’Europa, con un’azione politica di massa, diffusa e dirompente e circondata dal consenso da parte di un popolo forse meno afflitto di altri da cretinismo legalitario, per ragioni storiche. La questione è prioritaria perché di lotte ne esistono un po’ ovunque in Europa e nel mondo e anche in Italia: dalla nuova ondata mondiale dei movimenti femministi, alle lotte territoriali, dalle fabbriche recuperate e occupate agli scioperi nel settore della logistica e dei riders o a forme più tradizionali di conflitto operaio piuttosto che le mobilitazioni di studenti e insegnanti. In che cosa consiste la diversità del soggetto dei gilet jaunes e anche del tipo di soggettività che si è espresso in Francia in queste quattro settimane? Senz’altro la difficoltà di ricondurlo a categorie certe o almeno note, il che ha messo in crisi un po’ tutti. Lasciamo perdere chi me parla come di un movimento delle classi medie impoverite o addirittura della piccola borghesia e crede con questo di avere chiuso il problema: sono gli stessi che hanno preteso per decenni di sostenere che la lotta di classe era un residuo del passato e poi si scoprono a dare risposte sociologiche classiste del tutto fuorvianti e ridicolmente superficiali.
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La frammentazione del lavoro
di Francesco Ciafaloni
Nel corso della sua esistenza terrena, un’idea, sempre e dovunque, opera contro il suo significato originario e perciò si distrugge.
Marianne Weber, Max Weber: A Biography
1. La situazione presente
La frammentazione del lavoro, la sua rarefazione, è sotto gli occhi di tutti. Non è svanita solo la fabbrica tayloristica; sono sparite le aziende come enti giuridici che tengono insieme progettazione, produzione, vendita, gestione del personale, contabilità, come era normale qualche decennio fa. Non solo le piccole aziende fanno gestire la contabilità all’esterno, ma ciò che resta delle aziende grandi è tenuto insieme solo dal marchio e dal controllo finanziario. I singoli stabilimenti possono essere entità autonome, con contratti diversi. Sotto lo stesso tetto, a contatto di gomito, ci sono lavoratori impegnati nella stessa attività produttiva che dipendono da aziende diverse, mentre lo stesso gruppo o conglomerato, lo stesso ente finanziario, può svolgere le attività più disparate.
Molti lavori non sono scomparsi, si sono solo spostati dove il lavoro viene pagato poco o nulla. Anche lavori in cui la lingua è fondamentale, come i call center, vengono trasferiti dove ci sono abbastanza lavoratori in grado di parlare la lingua del paese destinatario. Vale anche per lingue non veicolari, come l’italiano. Lo sappiamo dai giornali, per le vertenze, come quelle di Almaviva, e ce ne rendiamo conto dalle telefonate promozionali non richieste, con un forte accento, che riceviamo.
Si può dire che è il mercato, bellezza! Che è la globalizzazione. Che così va il mondo e a questo dobbiamo abituarci; che così le merci e i servizi vengono prodotti in modo più efficiente, che costano di meno; che se molti posti di lavoro si distruggono con l’automazione e l’informatica, molti altri, più qualificati, se ne creano. È il capitalismo, la distruzione creatrice!
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Il paradosso del doppio legame UE
di Nicoletta Forcheri
Funziona così, l’ingiunzione paradossale. Amami, detto con voce di odio. Abbracciami, detto con le braccia incrociate. Oppure: Aumenta il PIL! Detto con l’ordine di ridurre il deficit/pil e la spesa pubblica netta!
L’Italia si trova sotto ingiunzione paradossale, in quello che gli psicologi chiamano il doppio legame. Io lo chiamerei doppio cappio. Doppiamente illegittimo: anticostituzionale e anti trattati UE. Per uscirne basta evidenziarne il paradosso e la contraddizione di chi, dall’UE, ingiunge ordini cinici e schizofrenici.
Premesso che dai Trattati firmati, come Maastricht in primis e MES, che prevedono un rapporto debito/PIL 60% e un deficit/PIL di massimo il 3%, niente si evince della legittimità dell’obbligo di rimanere sotto il 2% del rapporto deficit/PIL.
Non contenti, i nostri politicanti hanno firmato il Fiscal Compact nel 2012, in Italia con un governo NON eletto, Monti dopo il golpe a Berlusconi, anzi illegittimo e dichiarato tale dalla Corte costituzionale. Il Fiscal Compact, è un trattato aggiuntivo NON inserito nel corpo dei trattati UE e TFUE e a cui, ad esempio, la Repubblica ceca e la Gran Bretagna non hanno aderito. Così come è stato sottoscritto, può senza problemi essere rescisso, a differenza dei trattati UE, la cui revoca è più complessa, non per questo non auspicabile né impossibile, almeno da Maastricht in poi.
Noi abbiamo aderito in situazione di scacco, ricatto e golpe politico: il governo Monti che, ripeto, era illegittimo. Sempre con questo governo imposto dall’alto, è stato adottato dal Parlamento, lo sfregio alla Costituzione nell’articolo 81 con l’obbligo di pareggio di bilancio nei conti pubblici. Sempre il Fiscal Compact (1), introduceva l’obbligo, più severo ancora rispetto ai criteri di Maastricht e al Trattato di Stabilità che istituiva il MES nel 1997, di ridurre di 1/20 l’anno il rapporto debito/PIL.
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Gilet gialli, rossi e Negri
di Militant
Dopo un mese di mobilitazione, è ormai luogo comune entusiasmarsi per le vicende francesi. Se invece del sostegno politico ci spostassimo sulla riflessione cosciente, la cosa meno improbabile è stata scritta da Toni Negri (L’insurrezione francese). Dal punto di vista politico, però, occorre sgomberare il terreno dalle parodie deliro-marxistiche che, come quasi sempre, corrono in soccorso del potere costituito: “non è una rivolta di classe”, ammoniscono solerti difensori di ogni status quo. Come se nelle rivolte di classe fosse mai apparsa, in qualche angolo della storia, quella purezza alla quale tali pensatori rimandano: «si comincia, poi si vede», diceva Lenin riprendendo Napoleone. Ed è dentro questo spirito che tutte le forze rivoluzionarie si sono sempre mosse: nell’occasione, che non è né predeterminata né socialmente definita. Fatta dunque la premessa che in una rivolta politico-sociale ci si sta fino a che la finestra di possibilità rimane aperta, anche fosse un solo spiraglio, se al contrario volessimo tentarne un’analisi occorrerebbe frenare i facili entusiasmi che circolano ormai in tutte le gradazioni della politica, da Forza Italia all’estrema sinistra (esclusa, come detto, la parodia gendarme celata dietro prose marxiste).
E qui Toni Negri coglie nel segno. Negri non ha l’entusiasmo del neofita, che si impressiona di ogni simulacro di rivolta sociale. Riconosce che lo spazio «dell’insurrezione», come lui la definisce, va lasciato aperto, va allargato e organizzato, più che richiuderlo attraverso scomuniche libresche. Eppure ci sono fattori particolari alla base di una rivolta simile che vanno tenuti in considerazione. Questa è una rivolta che ha ragioni generali, legate al processo di straordinario impoverimento determinato dalla fase neoliberale, ma ha anche ragioni specifiche, «francesi», che la rendono difficilmente replicabile altrove. Partiamo dalle ragioni generali.
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C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi d’antico
La République en marche ... jaune
di Fulvio Grimaldi
https://www.youtube.com/watch?v=AH0Fl09RG-E https://vimeo.com/305306130 (Torino No Tav)
https://www.zerohedge.com/news/2018-12-08/paris-lockdown-watch-live-hundreds-arrested-tear-gas-deployed-during-fourth-week?mc_cid=6e7bf29f37&mc_eid=741abab6a2 (Parigi, Gilet Jaunes, 4. Giornata)
Terrorismo di distrazione di massa
Sempre più grossolani, sempre più faciloni. Tanto c’è la rete mediatica sotto gli spericolati. In Francia è in atto un’insurrezione che, dopo aver bloccato e sconvolto il paese per un mese, non si ferma. Un’insurrezione approvata dai due terzi dei francesi, non di classe, ma di popolo che si è fatto, è stato fatto fare, proletariato. Un’insurrezione che si vuole limitata al rifiuto di un aumento dei prezzi, ma che si è rivelata contro il governo, l’Unione Europea, il neoliberismo, il colonialismo interno ed esterno. Tutti gli occhi, malevoli e benevoli, sono puntati su questo fenomeno di massa dai tratti epocali.
Tutti gli occhi, al quinto giro della lotta, si spostano, vengono diretti, verso Strasburgo, dove, naturalmente, il solito pregiudicato radicalizzato (ricostruito in carcere), naturalmente sotto osservazione per sospetto di terrorismo (!), con la casa piena di granate perquisita il giorno prima (!), assediato in un palazzo e, naturalmente, per miracolo fuggito, fa una nuova strage terroristica, naturalmente in pieno milieu natalizio, di pace e festa, e naturalmente qualcuno lo ha sentito urlare “Allah–U-Akbar”, talché nessuno pensasse che fosse un terrorista basco, o ceceno, o delle FARC, o laico. Naturalmente raccapricciante. Spazza via da occhi, orecchie, coscienza, riflessione, ogni altra cosa, anche la più grossa. Così, ratatatatà-clang!, è scesa la saracinesca su un mondo che, come per altri versi aveva cantato Ivan Della Mea mezzo secolo fa pensando a Mao, da rosso si era fatto giallo.
Repetita juvant
Macron era al 23% dei consensi. Hollande era messo anche peggio quando capitarono Bataclan e affini. In Belgio lo scazzo al vertice è tale che non si riesce più a mettere insieme un governo: ed ecco una bella raffica di attentati.
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Perché il ’68 è stato sconfitto
di Eros Barone
La borghesia non riesce a educare i suoi giovani (lotta di generazione): i giovani si lasciano attrarre culturalmente dagli operai e addirittura se ne fanno o cercano di farsene i capi («inconscio» desiderio di realizzare essi l'egemonia della loro propria classe sul popolo), ma nelle crisi storiche ritornano all'ovile.
Antonio Gramsci
Non c’è eredità senza eredi, non si è eredi se non si sa di esserlo e se non ci si situa in prospettiva fra un ieri e un domani, un donde e un dove.
Franco Fortini
Un quesito che spesso mi viene posto dai giovani che conosco è quello concernente le ragioni della sconfitta del ’68. Proverò ad abbozzare una risposta nelle note che seguono.
In primo luogo, occorre tenere presente che, dopo il grande ciclo di lotte operaie, popolari e studentesche degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, durissima fu la reazione delle classi dominanti: la trama reazionaria (il ‘filo nero’ che percorre tutta la storia dello Stato italiano) si concretò in stragi (a partire da quella di piazza Fontana, che ebbe luogo a Milano il 12 dicembre 1969), attentati, tentativi golpisti, repressione e intimidazioni senza fine. La sanguinosa ‘strategia della tensione e del terrore’ fu l’arma con cui le classi dominanti cercarono di intimorire e disorientare il proletariato e le masse studentesche per fermarne il movimento di lotta. Il gruppo dirigente del Pci, intimorito dalla reazione borghese e dal colpo di Stato militare in Cile, che aveva dimostrato il fallimento delle teorizzazioni riformiste sulla ‘via pacifica al socialismo’, elaborò, a questo punto, per impulso e sotto la direzione di Enrico Berlinguer, la strategia del ‘compromesso storico’, cioè del patto di governo con la Dc.
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Valori occidentali, valori cinesi e valori universali
di Maria Morigi
Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Nel gennaio del 2015 il Ministero dell’Istruzione cinese annunciava l’intenzione di bandire dalle aule universitarie i materiali d’insegnamento che “diffondevano i valori occidentali”.
Le autorità cinesi erano dunque ostili nei confronti dell’occidentalizzazione? Ci si chiede anche se in Cina è riconosciuta una sorta di equivalenza tra valori occidentali = valori liberali, ovvero princìpi di governo e ideali politico-sociali, quali libertà, uguaglianza, autonomia individuale e autogoverno repubblicano, con cui l’Occidente definisce la propria identità liberale e democratica. O forse i valori occidentali erano incompatibili con la “grande rinascita della nazione cinese” con cui erano stati promossi i “valori cinesi”?.
La stampa ufficiale intervenuta tempestivamente (Vedi Guangming online:
“Cosa c’è di sbagliato a non far circolare i valori occidentali nelle università socialiste”, 31-01-2015) chiariva: “I valori occidentali principalmente si riferiscono, nella Cina di oggi, alle idee errate provenienti dal mondo capitalista occidentale e in particolare a quelle idee e valori politici propagandati dai paesi capitalisti occidentali rappresentati in primis dall’America, come la democrazia costituzionale, i valori universali, la società civile, il neoliberalismo, il nichilismo storico…”.
Per capire le dimensioni del problema dobbiamo fare molti passi indietro, perché in Cina la storia contemporanea –a partire dalle Riforme dei 100 giorni (1898) dell'imperatore Guangxu- è segnata da un lato dalla promozione dell’occidentalizzazione, che chiedeva una costituzione e un parlamento per garantire ai cinesi uguali diritti e doveri e per partecipare alla costruzione della nazione; dall’altro lato è segnata dalla difesa dei valori autoctoni. Tale contesa culturale e ideologica era motivata dall’aspirazione a creare un moderno sistema democratico, pur assecondando l’esigenza di conservare un sistema autocratico che fosse espressione della tradizione cinese di Stato-civiltà.
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Fazi e Mitchell, “Sovranità o barbarie”
di Alessandro Visalli
Un libro importante e coraggioso, che affronta alcuni dei nodi fondamentali oggi davanti ai nostri occhi e che bloccano la nostra azione, costruito con un profondo sguardo storico e capace di ripercorrere in poche e dense pagine gli snodi che hanno costituito il presente. Il presente come storia, dunque.
A me pare che una delle chiavi interpretative del testo sia da rintracciare nella dialettica delle durate, proposta da Braudel nel 1949[1], tra increspature superficiali, movimenti lenti dati dalle trasformazioni dei rapporti di produzione e mutamenti del sentire collettivo ed evoluzioni tecnologiche[2], e, al fondo, trasformazioni del sistema naturale, lentissime ma potenti. Quel che compiono gli autori, per gran parte del testo, è quel che Cervantes[3] chiama scrivere di storia, “madre della verità”. Storia, cioè, come verità narrata; non ciò che avvenne, ma ciò che giudichiamo essere avvenuto[4]. Una narrazione nella quale compare il problema del nesso tra la volontà dei singoli, nella loro interazione reciproca, e i fattori determinanti inerenti le ‘durate’ più lente, le strutture nella loro dialettica. Quanto valgono i piani dei capi nello svolgimento di una battaglia? Quanto conta che Kutuzov si addormenti mentre altri fanno complessi piani in “Guerra e pace”[5]?
Ancora più, la storia narrata da Fazi e Mitchell è storia militante; serve, la loro narrazione, a scopi evidenti nel testo. Ma il pathos narrativo che appare evidente in ogni pagina (con la loro partecipazione emotiva e la tensione morale) è esso stesso strettamente parte della storia narrata. Perché, come sostengono gli autori, questa storia, la sua verità, ci riguarda e ci contiene.
Si sta parlando dunque del nostro presente, incorporato nell’imperialismo dell’economico e nella onnipresenza di una dinamica di contrazione (e di espansione per pochi privilegiati) che origina nella ‘crisi’ degli anni settanta. O meglio, come scrivono, “almeno” degli anni settanta.
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Il movimento dei “gilet gialli”
di Il Pungolo Rosso
Abbiamo selezionato dei materiali sul movimento dei “gilet gialli” in Francia per i visitatori di questo blog (che riprendiamo dal sito alencontre.org, su cui è presente un’ampia e aggiornata documentazione).
Il primo è un articolo di Alain Bihr, che consideriamo l’analisi più attendibile della composizione di classe del movimento e della sua essenziale spontaneità, e un’altrettanto attendibile presa d’atto della distanza da esso della sinistra liberal-democratica o riformista, ma anche di buona parte della sinistra sindacale e politica che si professa anti-capitalista (questo, a prescindere dal concordare o no con le sue indicazioni e raccomandazioni politiche). Il secondo è un elenco delle rivendicazioni emerse dai diversi comitati (che hanno differenti composizioni sociali).
Questo movimento è partito da una rivendicazione assai limitata (e certo inter-classista) riguardante l’aumento del prezzo del carburante, e ha poi espresso, nel corso del suo ampliamento e della sua radicalizzazione, una serie di rivendicazioni che rispecchiano in pieno il malessere, la rabbia, le aspettative e le istanze di strati sociali appartenenti a due distinte classi sociali (classe lavoratrice/proletariato, piccola borghesia).
E’ un movimento meno ampio di quello contro la Loi Travail, ma più arrabbiato, almeno finora più determinato, se è vero che non è arretrato davanti ad una repressione statale massiccia e non ha ceduto alle prime avances del governo e di Macron. Ma è certamente minato al suo interno da questa eterogeneità originaria, dato che non esistono le indistinte “moltitudini”, né gli indistinti “popoli” evocati dai “sovranisti”. Proprio su questa eterogeneità fa leva l’establishment per provocarne il rinculo e lo sfaldamento.
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La scienza degli “ignoranti” e quella dei “sapienti”. Ovvero, dove sta la vera indigenza cognitiva
di Francesco Coniglione
È interessante fare un’analisi delle reazioni che si hanno su Facebook [questo thread, per esempio] quando si vengono a toccare temi particolarmente impegnativi e che si riferiscono a convinzioni profondamente radicate nei lettori. È quanto accaduto – dopo il mio primo articolo su “Scienza, antiscienza e Barbara Lezzi” – al secondo articolo sull’ignoranza, la scienza e il burionismo: si leggono sulle pagine di FB e nei commenti al post un certo numero di argomenti e atteggiamenti ricorrenti che sarebbe superficiale non prendere in considerazione. La prima cosa che salta agli occhi è che una parte dei lettori esibisce il comportamento del toro cui si sventola davanti il drappo rosso: appena si toccano certi capisaldi delle loro convinzioni gli scatta la compulsione da tastiera e scrivono commenti più o meno piccati, ma che spesso hanno in comune la caratteristica di aver letto male o di aver poco capito (o a volte di non aver letto affatto) quanto è stato scritto. Questi rappresentano quella che si potrebbe definire la “minoranza rumorosa”: la gran parte delle persone che ha letto l’articolo e lo ha condiviso non ha bisogno di argomentare la propria condivisione (gli argomenti sono contenuti già in ciò che si condivide, li si fa propri) e così esprime di solito il proprio apprezzamento che con un “like”. Mentre chi invece non condivide, sente il bisogno di dirlo (non esiste un “I don’t like”), e spesso di urlare la propria disapprovazione. Così, se vogliamo fare i conti, i “critici critici” sono molto più visibili ma in effetti sono spesso una sparuta minoranza rispetto a coloro che hanno “likeizzato” e condiviso, almeno in parte, un articolo.
Inoltre risulta ovvio che ciascuno ha una sua posizione peculiare e che non si può essere d’accordo su tutto. Così nelle risposte io, come anche De Nicolao, abbiamo criticato chi ripete sempre le stesse obiezioni, dimostrando di non aver ben letto quanto scritto oppure scambiando il fuscello per la trave.
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La controrivoluzione del capitale umano
di Daniel Blake
La costruzione del capitalista umano è l’obiettivo delle politiche del workfare. A partire dal libro Capitale Disumano di Roberto Ciccarelli, una riflessione sulla radice teorica delle politiche attive e sulla loro funzione di disciplinamento della forza lavoro
Quelle che seguono sono brevi riflessioni a partire dall’ultimo libro di Roberto Ciccarelli, Capitale Disumano. La vita in alternanza scuola lavoro (manifestolibri, 2018, pp. 222, € 16). Un testo che propone un’efficace critica della nozione beckeriana di capitale umano, incardinata all’interno del paradigma neoliberale delle politiche attive. Sin dalle prime pagine si chiarisce che a sperimentare l’alternanza scuola lavoro non sono solo 1,5 milioni di studenti obbligati a partecipare a questo programma (introdotto in Italia nel 2015), ma complessivamente l’intera forza lavoro sempre più spesso incentivata, o talvolta obbligata, a muoversi tra continui momenti di accumulazione di competenze e occupazioni precarie.
Affrontare la critica del capitale umano all’incrocio con le politiche attive ha una serie di vantaggi, tra cui quello di individuare le istituzioni del welfare che contribuiscono a fabbricare socialmente il «capitalista umano». Secondo questa prospettiva, il capitalista umano smette di essere il prodotto spontaneo di una serie di dispositivi economici, sociali, culturali, simbolici – come talvolta viene superficialmente presentato anche in una certa letteratura critica – per diventare il risultato di politiche di workfare che regolano il funzionamento del mercato del lavoro in tutte le economie avanzate.
Proviamo a interrogare il libro a partire da una specifica domanda: all’interno di questo ciclo reazionario globale come stanno cambiando i programmi di politica attiva e come vanno trasformandosi in particolare i dispositivi workfaristici di costruzione del capitale umano?
L’active labour market policy e le teorie del capitale umano
Quando in genere si parla di politiche attive ci si riferisce a un complesso sistema di politiche pubbliche che oltre a promuovere la formazione o altri interventi più rivolti al capitalista umano, hanno complessivamente lo scopo di aumentare i tassi di attivazione nel mercato del lavoro.
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Gilets Jaunes, Macron e i ritardi della sinistra
di Lorenzo Battisti
Pubblichiamo come contributo alla discussione
Il movimento dei gillet gialli, che ha attraversato la Francia nell’ultimo mese ha avuto una grossa eco anche in Italia, accompagnata come sempre da disinformazione e da superficialità. Il movimento è espressione della Francia socialmente periferica. E se rischia di cadere a destra, è solo grazie ai ritardi della sinistra.
L’ecologismo di classe del presidente dei ricchi
Il movimento prende il via da una protesta contro la tassa ecologica sui diesel, volta a finanziare il passaggio ecologico verso automobili meno inquinanti. L’idea di Macron era quella di prelevare dai cittadini che utilizzano auto inquinanti (diesel in particolare) per finanziare il passaggio ad auto elettriche e ibride, con finanziamenti di 4 o 5000 euro per chi avesse acquistato una di queste automobili.
Il problema è che, sotto la patina ecologica, si celava l’ennesima manovra di classe. Chi utilizza queste vecchie auto inquinanti (un tempo peraltro ritenute meno inquinanti di quelle a benzina in termini di Co2) sono cittadini che si trovano in difficoltà economiche e che non possono quindi acquistare auto nuove. Neanche con gli aiuti promessi dal Presidente: anche con 5000 euro di finanziamenti, se ne hai meno di 1000 euro sul conto, non ci fai niente. E, al contrario di quelli che vivono nei centri urbani, non puoi sfoggiare il tuo lato ecologico andando in bici al lavoro e non ci sono metro o servizi pubblici adeguatamente flessibili e veloci da essere un’alternativa all’auto.
L’aumento delle accise si trasforma quindi semplicemente nell’ulteriore imposta sul consumo, che come tutte le imposte indirette (come l’Iva) pesa proporzionalmente di più sui redditi bassi, che hanno percentuali di risparmio più basse e che quindi ne portano il peso molto più dei ricchi. E in più, il gettito sarebbe stato usato per finanziare l’acquisto di auto da parte di chi di soldi li ha. Una vera e propria redistribuzione verso l’altro.
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A lezione da Keynes, ripensando la macroeconomia
Recensione de “La scienza inutile” di F. Saraceno
di Daniela Palma
Francesco Saraceno: La scienza inutile: Tutto quello che non abbiamo voluto imparare dall’economia,Luiss University Press (2018), https://www.luissuniversitypress.it/pubblicazioni/la-scienza-inutile
Tra le conseguenze della crisi che ormai da un decennio sta attraversando l’economia mondiale, non si contano solo fallimenti finanziari e una diffusa stagnazione delle attività produttive. Lo stupore con cui la regina Elisabetta nel novembre del 2008 chiedeva ad autorevoli professori della London School of Economics come mai nessuno fosse stato in grado di prevedere un evento di proporzioni così rilevanti, ci ha avvisati infatti della crisi che stava per investire la scienza economica corrente e segnatamente la macroeconomia. Bene fa perciò Francesco Saraceno con il saggio “La scienza inutile” a lanciare la sua provocazione, per poi subito precisare che si può imparare dall’economia (e molto) purché la si legga con le lenti giuste.
Quella compiuta dall’autore è innanzitutto una scelta di metodo, che però va diritta al merito delle risposte che l’economia intesa come scienza è in grado di fornire. Ed è proprio questo il punto in cui si incardina tutto il ragionamento di Saraceno. Va ricordato infatti che i fenomeni economici non sono l’espressione di “leggi universali che regolano il comportamento umano”, ma si inquadrano in contesti storicamente determinati che condizionano nel tempo e nello spazio l’agire dei diversi soggetti. Respingendo l’approccio storico, la teoria economica tuttora dominante si rifà ai principi della cosiddetta scuola neoclassica, secondo la quale il sistema economico è l’espressione delle scelte ottimizzanti di individui razionali e tende a convergere verso uno stato di equilibrio di piena occupazione delle risorse.
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I gilet gialli. Modernità “à la Macron”, democrazia diretta e ideologia
di Maurizio Gribaudi
Rilanciamo un articolo uscito per storiamestre.it a proposito delle lotte dei cosiddetti “gilet jaunes”, di Maurizio Gribaudi, direttamente da Parigi, . Questo è il primo di una serie di interventi sul tema che Effimera ospiterà, quale occasione di approfondimento riguardo a delle proteste tanto discusse quanto facilmente liquidare e liquidabili nei dibattiti correnti
1. Ecco che persino la Francia, a quanto sembra, comincia a imboccare le stesse strade percorse dai vari demagoghi che hanno occupato la scena pubblica in molte democrazie occidentali. Con uno slancio tanto forte quanto inedito, i messaggi lanciati in rete da cittadini e cittadine disperati hanno dato vita a un movimento nazionale che scuote la maggioranza di governo e preoccupa, a ragion veduta, la Francia umanista e libertaria, inquieta per gli sviluppi che questo movimento potrà avere. Infatti, dietro la massa indistinta dei gilet gialli, alcuni credono di scorgere i foschi contorni della destra conservatrice e reazionaria e dei populismi.
In un contesto del genere, c’è davvero molto su cui interrogarsi. La Francia si sta forse accodando, inesorabilmente, a Orban, Putin, Trump, Salvini, agli inglesi della Brexit o ancora al sinistro Bolsonaro? Interpellato direttamente dai manifestanti, il presidente Emmanuel Macron ha risposto con un messaggio che voleva essere allo stesso tempo fermo e rassicurante. Fermo nell’ostentata certezza di non aver commesso né «errori strategici di governo» né «errori di fondo», e quindi di non dover fare alcun «cambiamento di rotta». Rassicurante nella promessa di impegnarsi, nei mesi a venire, a «riconciliare il popolo francese con i suoi dirigenti».
Eppure il suo messaggio contiene tutte le aporie insite nella visione del presidente, come del resto in quella della quasi totalità dei responsabili politici delle democrazie occidentali.
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