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Classi medie e proletari nel "movimento dei gilet gialli"
di Agitations
La mobilitazione proletaria e interclassista dei "gilet gialli" suggerisce che esista una rabbia che si cristallizza sotto forme e discorsi differenti a seconda dei blocchi e degli spazi, creando una sorta di atonia critica, se non degli appelli romantici ad essere popolo. Di fronte a questo movimento, non rimane altro da fare che un lavoro noioso: quello di interessarsi ad una settimana di mobilitazioni attraverso quelle che sono le strutture spaziali e demografiche che lo attraversano e che ci danno informazioni a proposito della sua composizione sociale
Sotto i gilet gialli, delle magliette gialle
Pur non essendo di massa, la partecipazione alla mobilitazione di sabato 17 novembre è stata importante (sebbene più debole di quella di sabato 24 novembre). Le modalità originali di partecipazione erano minime: indossare un gilet giallo oppure metterlo sotto il parabrezza. Nel corso di questa mobilitazione, dei proletari, vestiti da "popolo", manifestavano insieme a dei piccoli padroni e a dei piccoli sfruttatori, al punto che, a prima vista, rimane difficile capire su quali basi profonde affondasse le sue radici l'appello al blocco. Dal momento che qui non si tratta né di un semplice essere stufi delle tasse, né di una jacquerie (e questo, detto al di là dell'anacronismo di tale analogia). Fondamentalmente, questo movimento contesta la diseguale distribuzione dell'imposizione fiscale sui dipendenti salariati e sui commercianti, e ne contesta soprattutto la sua forma indiretta (IVA, aumento globale delle tasse...), ritenuto come «il più ingiusto». Tale movimento avviene in un contesto di stagnazione dei salari, delle pensioni e dei sussidi che si trovano al di sotto del livello dell'inflazione, e in un contesto di diminuzione degli aiuti (APL [sussidio abitativo], Assurance chômage [Cassa di Disoccupazione], CSG [Contribuzione Sociale Generalizzata]), allo stesso tempo in cui «il costo della vita» (alloggi, trasporti, generi alimentari) aumenta. I primi ad essere colpiti da queste inuguaglianze sono gli operai e i dipendenti delle aree suburbane e delle zone rurali, ma possiamo domandarci legittimamente se questi ultimi possono mobilitarsi rispetto a dei luoghi da bloccare che talvolta sono lontani, e mentre il costo per arrivarci potrebbe dissuadere alcuni entusiasti.
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Crisi economica e disordini mondiali
di Michel Husson
Dieci anni dopo il crollo della Lehmann Brothers, si moltiplicano i contributi, attorno a due questioni: come è successo? Può succedere di nuovo? Ma quasi tutti sono centrati sulle derive della finanza, passate o future. Il punto di vista adottato qui è leggermente diverso, poiché cerca di identificare le radici economiche dei disordini mondiali. Il suo principio guida è il seguente: l’esaurimento del dinamismo del capitalismo e la crisi aperta dieci anni fa conducono a una globalizzazione sempre più caotica, portatrice di nuove crisi, economiche e sociali*.
1. Il capitalismo senza fiato
Il dinamismo del capitalismo poggia in definitiva sulla sua capacità di ottenere incrementi di produttività, in altre parole di far crescere il volume di beni prodotti per ora lavorata. A partire dalle recessioni generalizzate del 1974-75 e del 1980-82, gli incrementi di produttività si sono tendenzialmente rallentati. Siamo passati da ciò che alcuni hanno chiamato «Età dell’oro» (per sottolineare la natura eccezionale del periodo) al capitalismo liberista, oggi minacciato da una «stagnazione secolare». Durante quel periodo, il capitalismo ha ottenuto il risultato spettacolare di ripristinare la redditività, nonostante il rallentamento degli incrementi di produttività illustrato nel grafico 1 [1].
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Non è l’ignoranza a generare diffidenza per la scienza, ma il burionismo
di Francesco Coniglione
Nelle polemiche sulla scienza in Italia si sono contrapposte come figure paradigmatiche da una parte Barbara Lezzi, dall’altra Roberto Burioni; la prima come la rappresentante politica adeguata dell’ignoranza che alberga negli italiani in merito alle questioni scientifiche, il secondo come la sana e autorevole voce della scienza, che dovrebbe risvegliare dal sonno dogmatico gli italiani e distoglierli da insane idee antiscientifiche. Il presupposto di questa rappresentazione è che la scienza fa fatica a farsi strada a causa della indigenza culturale degli italiani che, educati a base di retorica e materie letterario-umanistiche, non riescono proprio a capire nulla di scienza; come si suol dire, proprio “non ce la fanno”, nonostante gli eroici sforzi di divulgazione degli Angela. E la terapia è semplice: massicce dosi di tecnologia, scienza, matematica, da somministrare nelle scuole e in ogni occasione.
Purtroppo questa rappresentazione è falsa, non tanto perché Burioni sia un cattivo scienziato o un ciarlatano (anzi non mettiamo in discussione la sua competenza e caratura scientifica), ma perché a monte di tale quadro v’è una carenza di riflessione sulle origini della diffidenza verso la scienza e sul modo in cui questa dovrebbe essere comunicata. E inoltre, non è affatto vero che sia una peculiarità italiana l’ignoranza scientifica e l’atteggiamento di rifiuto verso la scienza, essendo questo un problema che esiste da decenni e del quale si sono occupati i governi nazionali e gli organismi internazionali, sin dal momento in cui è stata impostata la Strategia di Lisbona (2000). Già in questa occasione era emersa la consapevolezza della necessità di riannodare i nessi che legano democrazia, pubblico e scienza, in quanto «l’immagine che gli europei hanno della scienza si è deteriorata rispetto al passato.
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L’Europa difende i risparmi delle famiglie (e allora lo spread?)
di Thomasmuntzerblog
In questi giorni, in Francia, alcune decine di migliaia di persone hanno protestato in maniera auto-organizzata in seguito all’aumento dei prezzi del carburante. La protesta coinvolge in larga misura persone che abitano in zone periferiche delle grandi città e non possono fare a meno di spostarsi in macchina per andare a lavorare. Ciò che trovo più ipocrita della misura del governo francese è la giustificazione secondo cui bisogna disincentivare le persone dal prendere o comprare la macchina perché inquina. Credere alla giustificazione verde del provvedimento denota infatti una certa superficialità, per il semplice fatto che chi è obbligato a utilizzare la macchina, continuerà a prenderla se non viene potenziato il trasporto pubblico prima di tassare macchine e/o carburanti. L’unico effetto quindi sarà quello di impoverire queste persone senza alcun beneficio per l’ambiente. Sarà un effetto collaterale o è il vero fine del provvedimento? Per capirlo bisognerebbe tornare ai fondamentali…
Invece di occuparci delle vicissitudini d’oltralpe vorremmo però affrontare tre storielle bizzarre che trovano molto spazio nei media nostrani e che meritano un po’ di attenzione:
1) l’innalzamento dello spread è dovuto alla perdita di fiducia dei mercati;
2) l’Europa garantisce i risparmi delle famiglie italiane;
3) un deficit eccessivo mette a rischio la stabilità dell’intera Eurozona.
Stando a queste storielle, il governo dovrebbe retrocedere sulle cifre della manovra e obbedire a Moscovici. Dovrebbe farlo
1) per riguadagnare la fiducia dei mercati e finanziare la sua spesa;
2) salvaguardare i risparmi;
3) non mettere in pericolo l’Eurozona,
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URSS, una storia che non possiamo rimuovere
di Fabio Ciabatti
Sviluppo e declino dell’economia sovietica, a cura della redazione di Countdown. Studi sulla crisi, Asterios 2018, pp. 365, € 29,75
Di fronte alla rapida dissoluzione dell’URSS, con il classico senno di poi, il senso comune liberale ha decretato che la crisi era inevitabile e iscritta sin dall’inizio nelle fondamenta di un sistema sostanzialmente contronatura. Questione chiusa. E con ciò si è preteso di chiudere anche ogni prospettiva di modifica radicale degli assetti politico-economici dominanti. Che ci piaccia o no il crollo dell’Unione Sovietica ha dato un contributo essenziale a consolidare la convinzione che “non c’è alternativa” al sistema capitalistico. Non è un caso che di fronte alla crisi iniziata nel 2008, la più grave dopo quella del ‘29, siano state proposte solo pallide repliche di un riformismo keynesiano. Per tornare a parlare in modo credibile di una ipotesi di trasformazione reale sarebbe stata necessaria un’elaborazione collettiva della vicenda storica dell’Unione Sovietica. La questione, invece, è stata sostanzialmente rimossa. Ci sono però delle lodevoli eccezioni tra cui la redazione di Countdown che ha curato la raccolta di saggi dal titolo Sviluppo e declino dell’economia sovietica.
I curatori del volume hanno un consolidato gusto per la provocazione nei confronti delle più radicate convinzioni della sinistra. Cosa che traspare dal giudizio che viene dato dei soviet nell’articolo di Paolo Giussani: “Strumenti di lotta e sistemi di riferimento per la massa dei lavoratori, erano del tutto estranei al funzionamento dell’economia” e dunque non potevano essere altro che organismi adatti a un “rivoluzionamento politico”.1 La presa del potere da parte di un governo rivoluzionario è però soltanto la premessa per la gestione associata dei produttori dell’apparato produttivo e distributivo. Per raggiungere questo scopo occorrono forme politiche adeguate che dovrebbero essere elaborate, almeno in parte, nel corso della presa del potere politico.
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Cose che si devono sapere sulla bocciatura europea della manovra italiana
di Andrea Fumagalli e Roberto Romano
Mercoledì 21 novembre 2018 la Commissione Europea ha bocciato la manovra economica italiana per il 2019. È la prima volta che succede da quando, nel 1999, si è costituita l’Unione Monetaria Europea. L’accusa è di violare le norme relative al controllo del bilancio pubblico. Non si fa riferimento al rapporto deficit/Pil (il cui livello viene fissato al 2,4% negli obiettivi del Def italiano, quindi al di sotto del livello massimo consentito dal Patto di Stabilità – 3%) ma al mancato rispetto del rapporto debito/Pil (il cui limite massimo del 60% è più che doppio nel caso italiano), con l’argomentazione che proprio per l’elevato debito pubblico, l’Italia deve intraprendere politiche di forte riduzione anche del rapporto deficit/Pil. Se, quando l’euro è nato, 20 anni fa circa, il 30% dei paesi non rispettava quest’ultimo parametro (Italia, Grecia, Belgio…), oggi il loro numero è più che raddoppiato (alla lista si sono aggiunti Spagna, Portogallo, Francia…). Eppure, è l’Italia il primo paese a rischiare la procedura di infrazione. In questo articolo si analizzano le ragioni del pregiudizio europeo sull’Italia – che non debbono fare dimenticare le ombre sulla manovra italiana stessa.
* * * *
In un recente articolo pubblicato su Effimera relativo al “Grande business sul debito italiano” e in un contributo di Giovanni Giovannelli, si era posta la necessità di indagare non solo le cause dell’incremento dello stesso debito e le pretese delle autorità europee di “governare” il debito italiano, ma anche affrontare il secondo punto dello scontro in atto tra governo gialloverde e Commissione europea. Ovvero non solo il target del 2,4% del rapporto deficit/Pil ma le stime della crescita economica italiana del 2019, che tale target dovrebbero garantire.
Lo facciamo ora, limitandoci solo alle previsioni di crescita per il 2019.
Secondo il Def governativo, l’economia italiana dovrebbe crescere nel 2019 all’1,5%. Tale crescita dovrebbe rendere realistico un rapporto deficit/Pil in crescita ma non superiore al 2,4%.
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Armi di distrazione di massa
Ipocrisie, decerebramenti, spopolamenti
di Fulvio Grimaldi
“La storia della nostra razza e ogni esperienza individuale sono cucite dalla prova che non è difficile uccidere una verità e che una bugia detta bene è immortale”. (Mark Twain)
https://vimeo.com/300013842 (link a una miaa intervista sulla Grecia realizzata da Patrick Mattarelli. Per aprire il link la password è Ful18vio)
Femminicidi. Non solo.
Metto le mani avanti, ricordando che ho dedicato gran parete di un mio documentario, visto da migliaia di persone, al femminicidio, massima espressione della violenza sulle donne. Se ora dico che al momento parrebbe che, schiacciati a terra e ridotti a pezzetti dall’uragano politico-mediatico sulla violenza sulle donne, noi uomini dobbiamo convincerci che, come tali, uccidiamo a gogò, ma non ci ammazza mai nessuno e che, in nessun caso, potremmo avanzare l’inaudita pretesa di essere, a volte, anche noi vittime. Non delle donne, di qualche donna. Sfido la crocefissione morale se dico che questa, come molte altre ondate di unanimismo di classe femminista, fin dagli anni della Grande Contestazione, potrebbe nutrire il sospetto di trattarsi, nell’intenzione dei noti amici del giaguaro, di grande operazione di distrazione di massa? Ho detto sospetto, non certezza. Vediamone gli spunti.
Fatta salva la sacrosanta protesta contro gli ottusi reazionari e facilitatori delle mammane che puntano a rimettere in discussione la 194 e mettere le zampe sull’autodeterminazione delle donne, abbiamo assistito a un tripudio di ipocrisia. Proprio come quella, del tutto analoga e inserita dalle note manone nella stessa strategia, che vede perorare l’accoglienza universale dei migranti e vituperare chi vi avanza qualche riserva. Come quella che nota lo svuotamento di un’Africa e di un Medioriente infestati da guerre innescate ad arte, o assegnati a multinazionali predatrici, e i relativi traffici di gente da spostare da più o meno nobili trafficanti. Svuotare l’Africa, far tracimare l’Europa mediterranea.
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La questione della transizione nell’era del capitale globale
di Lorenzo Procopio
Riflettere oggi sulla questione della transizione dal capitalismo al comunismo per ripartire da Marx e ribadire l’unicità del processo di trasformazione rivoluzionario. Ripensare la transizione anche per criticare, dal punto di visto del marxismo rivoluzionario, quelle tesi del neo-operaismo che ipotizzano di superare il capitalismo attraverso lo sviluppo della moneta del comune
Trattare oggi il problema della transizione potrebbe apparire un’inutile disquisizione accademica senza alcun legame con la realtà che ci troviamo quotidianamente a vivere sotto il tallone di ferro imposto dalla borghesia e del suo omologante “pensiero unico”. Il problema della fase di transizione dal capitalismo al comunismo, che in passato è stato oggetto di frammentarie quanto appassionate discussioni tra i massimi teorici del movimento comunista, oggi è quasi del tutto ignorato anche da chi si richiama al marxismo rivoluzionario. Lo sforzo teorico che stiamo compiendo in questi ultimi anni e l’attenzione su alcuni punti qualificanti e nodali della questione transizione hanno la funzione di rompere l’assordante silenzio e rappresenta, a nostro avviso, un fattore importante che potrebbe permettere la ripresa della discussione sull’argomento e contribuire in tal modo a rilanciare il progetto dell’alternativa comunista. Riprendere il filo del discorso sulla transizione appare altrettanto importante per contrastare alcune tesi, attualmente in voga nelle file del variegato mondo neo-riformista e neo-operaista, che ipotizzano addirittura la possibilità di costruire un circuito monetario alternativo a quello capitalista, finalizzato a sostenere lo sviluppo del “comune-ismo”. Ci riferiamo nello specifico al filone neo-operaista che, tra le altre cose, arriva a sostenere la tesi che nel capitalismo bio-cognitivo, in cui il comune, ossia
“il rapporto dialettico, tra parola e lingua, ovvero tra lavoro vivo e lavoro morto incorporato nello stesso corpo/essere umano, esito della pratica del linguaggio e della relazione soggettiva e umana, la combinazione tra animale che sa parlare e animale politico che definisce la natura umana1”,
subisce una sussunzione vitale al capitale, si aprono potenzialmente degli spazi per la creazione di circuiti monetari (vedi le cripto monete) alternativi a quelli del capitale, che, se adeguatamente sostenuti e sviluppati, potrebbero creare i presupposti per un superamento dello stesso modo di produzione capitalistico.
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L’Italia nella crisi dell’eurozona
di Antonio Lettieri
Molte cose potranno accadere dopo l’accelerazione della crisi che ha seguito la svolta politica nel nostro paese. Non è facile prevederne gli esiti. Ma qualcosa è già successo. Una lunga e sfortunata fase politica dell’eurozona è al tramonto. E sarà difficile rimpiangerne la fine, dopo un decennio perduto
Apparentemente, l’attacco della Commissione europea contro il governo italiano non ha senso. L'argomento riguarda il livello del deficit di bilancio per il prossimo anno. Nel corso del confronto col governo italiano sembrava che la Commissione potesse accettare un deficit dell'1,9% del PIL. Non è andata così. Com’è noto, il progetto di bilancio definitivo presentato dal governo italiano prevede un deficit di bilancio per il 2019 del 2,4 per cento.
Il deficit in questione
C'è una spiegazione? Circa un terzo del deficit è finalizzato a scongiurare l'aumento dell’IVA , un vecchio vincolo assunto dai governi passati per non incorrere nelle sanzioni della Commissione europea. Circa un altro terzo del deficit è stato stanziato per finanziare il reddito di cittadinanza a beneficio dei cittadini che vivono in condizioni di estrema povertà - a condizione che accettino una delle tre offerte di lavoro provenienti dai centri per l’impiego adeguatamente rafforzati.
Un’altra parte importante del deficit è destinata alla spesa pensionistica, con l’obiettivo di consentire alle persone di almeno 62 anni e con 38 anni di contributi di poter accedere alla pensione - una disposizione mirante nelle intenzioni anche a creare mezzo milione di posti di lavoro a favore di giovani disoccupati. Una quota minore del disavanzo è destinata a incrementare il capitolo di spesa precedentemente destinato a investimenti pubblici per circa 15 miliardi rimasti inattivati.
Perché, per la prima volta nella storia dell'UE, la Commissione europea ha respinto un progetto di bilancio, minacciando di aprire una procedura di infrazione contro l’Italia?
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I lunghi anni Sessanta, non ancora finiti?
di Emiliana Armano e Raffaele Sciortino
Introduzione a Revolution in our Lifetime, conversazione con Loren Goldner sul lungo Sessantotto, a cura di Emiliana Armano e Raffaele Sciortino, ed. Colibrì, 2018
Non voglio parlare di me, ma seguire il secolo, il rumore e l’evolvere del tempo
Osip Mandel'štam
Molto è già stato scritto sul Sessantotto, di memorialistica come di analisi storico-politica, eppure a distanza di anni quel processo-evento continua a sollecitare domande e a dividere i fronti tra chi l’ha vissuto ma anche tra chi si occupa o è attivo nei movimenti sociali. Evidentemente ha lasciato qualcosa d’irrisolto, e di rilevante a tutt’oggi, se non altro perché è stato l’ultimo movimento di ribellione radicale a scala globale1.
Che cosa ha spinto i giovani degli anni Sessanta, nei più differenti contesti, alla militanza politica attiva? Quali strade, quali punti di svolta e convinzioni maturarono a supporto delle loro scelte? E che cosa ha permesso ad alcuni, pochi, di loro di diventare poi marxisti e comunisti eretici? Quali le conseguenze per i loro percorsi nei decenni successivi? E soprattutto, a distanza di oramai cinquant’anni, che cosa ci dice tutto ciò oggi per interpretare e intervenire nel presente?
Attraverso alcune conversazioni con il marxista statunitense Loren Goldner, questo libro ricostruisce il processo di politicizzazione di un giovane militante della Nuova Sinistra statunitense degli anni Sessanta, che nel 1968 partecipò all’occupazione del campus di Berkeley (è l’episodio evocato nell’immagine di copertina). Da questo racconto la conversazione si estende poi a temi che continuano ad essere meritevoli di approfondimento teorico e politico. In che maniera il movimento del Sessantotto è maturato come fenomeno globale? Quali i problemi che dovette affrontare e come cercò di risolverli? Che cosa ci dicono oggi i legami che all’epoca si strinsero, o non si strinsero, tra le lotte studentesche e quelle delle altre molteplici componenti sociali che costituivano il movimento? Ma, soprattutto, quali le rotture e quali le continuità con i cicli di lotta precedenti e successivi? Sono alcune delle questioni di fondo che vengono sollevate o per lo meno evocate.
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“L’ho sempre saputo”
Un viaggio ai confini del tempo e della storia
di Vincenzo Morvillo
È in uso, tra i grandi giornalisti bellamente accomodati alla mensa del potere, recensire, con lodi sperticate, mediocri libercoli scritti da potenti politici, ricchi signori del mondo o importanti “intellettuali” di regime, dai quali ottenere, in comodato d’uso, il diritto di parola, subordinato alla vendita della propria coscienza, della propria dignità, della propria libertà.
Noi ci pregiamo, invece, di recensire, da queste pagine, L’ho sempre saputo – ultima fatica letteraria di Barbara Balzerani, edita da DeriveApprodi – e di accomodarci accanto a questa donna che, insieme ai suoi compagni delle Brigate Rosse, quei potenti, quei signori e quegli intellettuali – tutti pateticamente rinserrati nella celebrazione narcisistica del proprio Ego smisurato – ha fatto tremare, per oltre un decennio, mettendone a ferro e fuoco le ragioni e, con esse, il sistema di rapporti di produzione e conoscenza, su cui si fondava – e ahimè, purtroppo, continua a fondarsi – il loro arrogante privilegio di comando.
Una donna forte, caparbia, finanche dura, ma non certo priva di quella tenerezza di sguardo e predisposizione alla fratellanza – sociale, mai clericale – con i reietti ammassati nelle periferie delle megalopoli, con i deportati delle banlieue, con i plebei delle baraccopoli di tutti i Sud del pianeta, che ne hanno fatto, ieri, una guerrigliera comunista; oggi, una scrittrice dalla sensibilità lacerante e crudele, dal tratto realistico e magico, dallo stile scarno e spigoloso, seppur ricercato nell’uso di una parola dai profondi echi simbolici e di costrutti densi di coltissime risonanze; e dall’impronta inequivocabilmente marxista.
Fratellanza e tenerezza, dunque, si diceva, alimentate nel silenzio sofferto delle ingiustizie del mondo. Un mondo oppresso dal furore distruttivo del capitale e del profitto, e di cui a pagare dazio sono, da sempre, proprio i dannati della terra.
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Alcune precisazioni sull'anti-lavoro
di Bruno Astarian
[hicsalta-communisation.com, dicembre 20161 ]
Introduzione
Sul concetto di anti-lavoro regna una certa confusione. Nemmeno il mio opuscolo Aux origines de l’anti-travail (Échanges et Mouvement, Parigi 2005) vi sfugge. La confusione consiste nel non specificare in maniera sufficiente questo concetto. Essa porta, da un lato, a collocare nella categoria dell'anti-lavoro alcuni comportamenti, come l'indolenza del lavoratore salariato che cerca generalmente di fare il meno possibile, oppure il fatto di preferire al lavoro la disoccupazione (indennizzata) o la vita ai margini. Queste pratiche di rifiuto del lavoro, di resistenza, sono vecchie come il proletariato, e non definiscono l'anti-lavoro moderno. Dall'altro, la confusione consiste nel ricondurre alla categoria dell'anti-lavoro delle pratiche di resistenza allo sfruttamento che in realtà sono pro-lavoro, come ad esempio il luddismo. Ora, io ritengo sia meglio riservare il termine «anti-lavoro» alle lotte della nostra epoca (a partire dagli anni intorno al '68), le quali indicano che il proletariato non è più la classe che si affermerà nella rivoluzione come la classe del lavoro egemonico, come la classe che renderà il lavoro obbligatorio per tutti e sostituirà la borghesia alla direzione dell'economia.
Per meglio comprendere la specificità che bisogna accordare al termine «anti-lavoro», è necessario rimettere la questione in una prospettiva storica. Precisiamo che in questa sede ci interesseremo alle lotte che si svolgono in fabbrica, contro le modalità abituali del rapporto fra i lavoratori ed i loro mezzi di produzione (assenteismo, sabotaggio, indisciplina in generale).
1. Il luddismo
Il luddismo viene spesso identificato con una reazione spontanea e rabbiosa degli operai inglesi dell'inizio del XIX secolo, contro l'introduzione di nuovi macchinari. Il fatto che abbiano distrutto delle macchine fa pensare a certe forme moderne di sabotaggio, in particolar modo nell'ambito del lavoro alla catena di montaggio. Questa valutazione, tutt'altro che esatta, spiega il fatto che il luddismo venga talvolta assimilato all'anti-lavoro.
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Argentina: torna il liberismo. Se ne era mai andato?
di Roberto Lampa
Per capire il ritorno prepotente della crisi economica in Argentina vanno analizzate le scelte scellerate del governo di centro-destra di Macri ma anche i limiti del cosiddetto ciclo progressista (o populista) dei governi Kirchner
“Argentina di nuovo a rischio: possibile default in stile 2002” (Il Sole 24 Ore, 4 settembre)
“L’Argentina sprofonda nella crisi” (Financial Times, 26 settembre)
“Gli investitori farebbero bene a stare alla larga dall’Argentina” (Wall Street Journal, 4 ottobre)
Tra titoloni apocalittici e resoconti di stampa sempre di più simili a necrologi, l’Argentina è tornata prepotentemente a far parlare di sé. Nell’ultimo anno il valore del peso argentino è precipitato più di ogni altra valuta al mondo (il tasso di cambio con il dollaro è aumentato del 122%), la produzione industriale è in caduta libera (-5,6% in agosto), la disoccupazione è ormai prossima al 10% (nonostante le controverse statistiche argentine considerino occupati anche i titolari di partite Iva e coloro i quali percepiscono un sussidio di lavoro), e ben il 30% della popolazione è tornata a vivere sotto la soglia della povertà. Se da un lato ciò non può certo sorprendere i lettori più attenti delle tormentate vicende latino americane (negli ultimi 200 anni, ben sette sono stati i default argentini), dall’altro rimane molto difficile spiegare come sia stato possibile che un paese con un debito estero prossimo allo zero passasse a mendicare un accordo di oltre 50mila milioni di dollari – per di più firmato in condizioni emergenziali e a dir poco sfavorevoli – con il Fondo Monetario Internazionale, in meno di tre anni.
Tra le conseguenze del default del 2001, il più grande della storia del capitalismo (causato dall’impossibilità del paese di far fronte ad un’enorme mole di debito emesso in dollari statunitensi e che aveva ridotto oltre il 50% dei suoi abitanti a vivere sotto la soglia di povertà), ve ne era stata infatti almeno una (parzialmente) positiva: il sostanziale divieto per l’Argentina di emettere bond nei mercati finanziari internazionali fino a che non fosse stato raggiunto un accordo con tutti i creditori vittime dei c.d. tango bond.
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Francia, novembre 2018: altro che ‘900
di Michele Castaldo
“Così dunque il tempo modifica la natura del mondo, […]Impotente a produrre ciò che prima poteva, ma capacedi creare quel che prima non poteva”
Tito Lucrezio Caro
Che succede in Francia? Una protesta spontanea di comuni cittadini che indossano gilet gialli come segno di identificazione e scendono in piazza bloccando strade, autostrade, centri urbani e addirittura depositi di carburante e raffinerie. Il motivo è fornito dall’aumento del prezzo dei carburanti, ma poi strada facendo diventa un movimento di opposizione contro le élite e contro la riduzione del potere d’acquisto, contro le tasse e le imposte, i salari troppo bassi e i servizi pubblici non abbastanza efficienti. Altrimenti detto: è lo scoppio improvviso di un malessere che covava sotto la cenere.
Sgomento e frustrazione fra i commentatori dei notiziari, la stampa è allarmata, cominciano le solite girandole delle tavole rotonde e dei talk show e l’attenzione si focalizza immediatamente su due questioni: a) un movimento improvviso; b) un movimento senza leader. E si cerca immediatamente un paragone con il movimento che per oltre un secolo ha caratterizzato la lotta degli oppressi e sfruttati in Occidente, quel movimento che fu catalogato come novecentista, ovvero quello che partì come Quarto stato nella Francia repubblicana, in Inghilterra, poi successivamente negli Usa e così via, fino all’esaurirsi con la fine degli anni ’80, sancito dalla caduta del muro di Berlino e dalla dissoluzione dell’Urss.
A mio parere fanno bene a preoccuparsi i pensatori e intellettuali filo-sistema, perché siamo ad una straordinaria svolta storica, si avete capito bene, una straordinaria svolta storica, lontana anni luce dal ‘900 e dalle sue mobilitazioni affluenti nei confronti di un sistema – un modo di produzione – che cresceva, e una parte di esso, il proletariato, chiedeva quota parte per il suo contributo allo sviluppo.
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La falsa sfida di Lega&Cinquestelle all'Unione europea
E la vera sfida da lanciare al governo, all'Ue e ai "mercati"
di Il cuneo rosso
Ci siamo: la Commissione europea boccia la finanziaria del governo Salvini/Di Maio e i due demagoghi a pettinfuori (o quasi) giurano: non retrocediamo di un millimetro. Su tutto possiamo transigere, sulla difesa dei poveri e dei pensionandi no. Prima i proletari! Salvini-Di Maio/Lega-Cinquestelle in armi contro la perfida UE, dunque. Avanti fino in fondo, sia quel che sia. E boia chi molla.
Che c'è di vero in questa sceneggiata meneghino/napoletana?
Per l'essenziale, nulla.
Perché:
1) il Fiscal Compact, il patto strangolatorio inserito in Costituzione che impone il pareggio di bilancio e il dimezzamento del debito di stato, non viene in alcun modo messo in discussione. Anzi non viene neppure nominato;
2) perché il Def (Documento di economia e finanza) del governo in carica garantisce per i prossimi anni l'avanzo primario; garantisce cioè, al pari dei precedenti governi, che lo stato spenderà meno di quanto incasserà. E lo farà per tutelare al meglio i suoi grandi creditori-piranha (quest'anno incassano 62 miliardi di interessi), cioè proprio i famigerati mercati e/o investitori, quelli di cui i "nemici" Juncker e Moscovici sono portaborse e portavoce;
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Una critica del capitalismo per il XXI secolo
Con Marx, oltre Marx: il progetto teorico del gruppo «Exit!»
di Gruppo Exit!
A partire dalla fine degli anni '80, si assiste, su scala mondiale, all'agonia del marxismo, del socialismo, del movimento operaio e dei movimenti di liberazione nazionale. Per quel che riguarda il classico Stato sociale borghese, ormai è andato in rovina, e lo ha fatto nello stesso momento in cui il paradigma keynesiano è diventato solo una nostalgia insieme ai regimi dello «sviluppo» del Terzo Mondo , che crollano in quelle che sono le loro varianti filo-occidentali. Il vecchio antagonismo: riforma o rivoluzione, che è stato dominante in seno alla sinistra, non ha più senso, dal momento che lo sviluppo ed i movimenti sociali non condividono più alcun orizzonte comune. Dappertutto, i resti delle istituzioni rimaste a seguito delle vecchie lotte sociali rivendicative issano la bandiera bianca della capitolazione. Il concetto di «riforma sociale» si è trasformato nel suo contrario, ed è stato semanticamente investito dalla controriforma neoliberista che, poco a poco, liquida quelle che sono state le acquisizioni sociali, il sistema previdenziale ed i servizi pubblici. Il paradigma neoliberista non è più un punto di vista particolare, bensì costituisce un consenso che va al di là dei partiti e che penetra in gran misura la sinistra. E la resistenza diventa sempre più debole. Anche i grandi scioperi e i pochi movimenti sociali che esplodono qua e là si concludono regolarmente con la sconfitta e la rassegnazione. Sembra che il capitalismo abbia vinto su tutta la linea. E non solo in quanto potere repressivo esterno, ma anche all'interno dei soggetti stessi. La pretesa «legge naturale» del mercato, e l'universalità negativa della concorrenza, nonostante le loro devastanti conseguenze, umilianti ed insopportabili, vengono viste come se fossero delle condizioni insuperabili dell'esistenza umana. Più appare chiaro che quest'ordine sociale planetario equivale all'autodistruzione sociale ed ecologica, più gli individui si aggrappano con tutte le loro forze alle categorie ed ai criteri di questa forma negativa di socializzazione, che ormai hanno interiorizzato.
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Scuola e lavoro: l’uomo filosofo e il gorilla ammaestrato
di Anna Angelucci
Mi convince molto l’affermazione con cui Roberto Ciccarelli, autore di Capitale Disumano. La vita in alternanza scuola lavoro, apre le sue riflessioni: “Siamo tutti in alternanza scuola lavoro. Non solo il milione e mezzo di studenti delle scuole superiori obbligati a partecipare a un nuovo esperimento sociale, il più grande nella storia della scuola italiana”[1].
Siamo tutti in alternanza scuola lavoro: perché è altissima la percentuale di giovani e meno giovani, in Italia – diplomati, laureati, specializzati – che vivono in una condizione di precarietà professionale, che svolgono attività sottodimensionate rispetto alle proprie qualifiche e titoli di studio; lavori spesso occasionali o su richiesta, quasi sempre sottopagati e non di rado non remunerati, soprattutto quando si tratta di lavoro intellettuale, con rapporti a brevissimo termine (3 mesi la media), privi di tutele contrattuali nel presente e di prospettive di prosieguo nel futuro. E che nell’alternanza tra un lavoretto e un altro (un Mc Job e un Bullish Job, come efficacemente vengono definiti oggi lavori dequalificati o del tutto inconsistenti) continuano a collezionare esperienze formative potenzialmente spendibili nel mercato del lavoro: nella neolingua contemporanea si chiama ‘lifelong learning’, società dell’apprendimento costante, ma è una specie di giostra impazzita dell’accreditamento costante da cui non si può mai scendere.
Un milione e mezzo di studenti coinvolti in un massiccio esperimento sociale, davvero il più grande nella scuola italiana, di cui si possono mettere a fuoco i contorni e le implicazioni – in termini di cause e effetti – soltanto ampliando il contesto storico, economico, antropologico in cui si colloca questa gigantesca operazione biopolitica (per dirla con Foucault) o psicopolitica (per usare le parole del filosofo coreano Byung-Chul Han) di formazione dell’homo oeconomicus fin dai banchi di scuola, del soggetto auto-imprenditore, del battitore senza reti di protezione in competizione anche con se stesso, dell’essere umano come unità produttiva, dell’individuo, bambino e adolescente, configurato, psichicamente prima che professionalmente, come un’autopoietica start up.
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Dissoluzione del linguaggio e della comunità
L'ateismo del capitalismo assoluto in Preve
di Salvatore Bravo
La violenza della globalizzazione passa per il linguaggio, nel linguaggio è sedimentato il potenziale antiumanistico del capitalismo assoluto. La comunità è il luogo dei linguaggi, delle prospettive culturali ed interpretative che si codificano in linguaggi comunicanti. Al contrario la comunità dissolta del capitalismo assoluto è oggetto di processi di dissoluzione ed alienazione per sottrazione. Le parole devono essere sottratte dalla circolazione ed al loro posto si struttura la società dei bisogni in cui circola e si espande la merce, le mercificazioni con i soli linguaggi specialistici organici alla tecnocrazia. Le parole residue (si consideri il linguaggio contratto delle nuove generazioni curvato sulla lingua inglese da televendita), sono spesso ulteriormente depauperate del loro significato attraverso operazioni accademiche e mediatiche. Il mantra delle accademie struttura il nichilismo relativistico dello scambio spesso con una confusione lessicale scientemente organizzata e nel contempo diffusa dalla rete mediatica. I poteri “dell’incultura capitale” si sovrappongono, si sostengono, si configurano per sostenere i processi nichilistici della globalizzazione. Il relativismo nichilistico attuale non è da comparare con il relativismo nichilistico delle grandi scuole di pensiero, ma semplicemente si diffonde in quanto nega ogni argomentazione e logos per catalizzarsi intorno alle sole logiche della valorizzazione alienata. Protagora il padre del relativismo, secondo la manualistica corrente, in realtà era ben consapevole degli effetti del relativismo nella comunità, pertanto alla verità universale sostituì l’utile da intendersi quale sintesi dei bisogni di tutti i membri della comunità per imedire l’atomizzazione della polis.Il nichilismo attuale argomenta con i numeri, aliena con la chiacchiera, ed è volutamente incapace di porsi in modo consapevole e critico dinanzi agli effetti esiziali del suo agire. Prevale l’azione macchinale e meccanica, il sistema si autoriproduce meccanicamente specie nelle sue stratificazioni più basse.
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Come far crescere l'economia senza scontrarsi con Ue e mercati
Appello al governo Conte
di Enrico Grazzini
Il governo Conte potrebbe - e dovrebbe - cessare lo scontro frontale con la Unione Europea e con gli operatori del mercato finanziario. Senza rinunciare a espandere l'economia, il governo potrebbe – e dovrebbe - ridurre il deficit pubblico nella misura dello 0,8% come vogliono la Commissione UE, l'Eurogruppo, la Banca Centrale Europea e i mercati. Il governo Conte ha il diritto e il dovere di fare crescere l'economia nazionale e di abbandonare la politica di assurda austerità imposta dalla Commissione UE e dall'Eurozona che produce solo disoccupazione e povertà. Ma la dura lotta che si è scatenata sul deficit pubblico italiano tra il governo da una parte, e dall'altra la UE, la BCE, la diarchia franco-tedesca e i mercati finanziari, è assolutamente impari: è meglio evitarla. Difficilmente lo stato italiano può vincere questa battaglia in campo aperto, e comunque questo scontro frontale con la grande finanza e le istituzioni europee è troppo costoso. Per fortuna esiste un'alternativa meno rischiosa e più efficace per imprimere una decisa svolta all'economia e fare ripartire lo sviluppo nel rispetto delle (pur assurde) norme stabilite dai Trattati europei e dall'eurozona.
La soluzione esiste: proponiamo una manovra espansiva molto innovativa ma concretamente praticabile ed efficace, che non potrebbe essere giuridicamente contestabile da parte della UE e che sarebbe con ogni probabilità promossa dalla BCE e dai mercati.
Per finanziare il suo programma economico, e più in generale per rivitalizzare l'economia, il governo italiano potrebbe emettere titoli utilizzabili per avere sostanziosi sconti fiscali (non subito, ma al quarto anno dall'emissione). Il governo dovrebbe assegnare questi Titoli di Sconto Fiscale a imprese, famiglie e enti pubblici.
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Fondi pensione e welfare contrattuale: affare o trappola?
di Punto Critico
Lo chiamano ‘welfare contrattuale’ e sta diventando la strategia prediletta dalle aziende per pagare i dipendenti, in particolare alcune voci presenti in busta paga come gli aumenti contrattuali e i premi di produttività, riducendo il costo del lavoro. In che modo? Invece di versarle direttamente ai propri dipendenti quelle somme vengono erogate a fondi che forniscono previdenza, sanità e altri servizi integrativi rispetto al welfare pubblico oppure vengono ‘pagati’ ai lavoratori offrendo loro pacchetti di servizi che vanno dall’asilo dei bambini alla palestra fino addirittura ai ticket per la benzina. Le aziende ci guadagnano perché su quelle somme non pagano le tasse. Ma i lavoratori?
PuntoCritico ha raccolto dati e testimonianze per provare a capire questo nuovo scenario e le conseguenze di questa trasformazione.
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A giudicare dai dati sull’adesione ‘volontaria’ (si tenga presente questo termine) al welfare contrattuale i lavoratori non ne sembrano entusiasti. Tanto che le organizzazioni di categoria degli imprenditori e il sindacato stanno utilizzando il grimaldello della contrattazione nazionale per finanziare fondi pensione e mutue integrative prelevando i soldi alla fonte, cioè direttamente dalle buste paga. Ma non è solo una questione economica. Per il sindacato fondi pensione, mutue integrative ed enti bilaterali stanno diventando, insieme a CAF e patronati, il volano di un nuovo modello organizzativo e un’alternativa alla crisi che lo sta investendo. Un sindacato che si sposta dalla rappresentanza e dalla contrattazione verso la gestione di pezzi di sanità, di previdenza, di ammortizzatori sociali, ma non solo.
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Crisi dell’eurozona, competitività e manovra 2019
di Riccardo Realfonzo
Manovra 2019 | Legge di stabilità | Presentiamo di seguito, con alcune note esplicative, le slides della conferenza tenuta da Riccardo Realfonzo al convegno dell’associazione Asimmetrie “Euro, mercati, democrazia 2018”, svoltosi a Montesilvano l’11 novembre 2018
1. La crisi dell’eurozona
L’Unione monetaria europea si presenta oggi come una unione incompleta. Abbiamo una moneta unica ma non una banca centrale che funzioni da prestatore di ultima istanza (garantendo sempre l’acquisto di titoli del debito pubblico e quindi assicurando l’impossibilità del default degli Stati dell’Unione). Inoltre, non abbiamo un bilancio significativo dell’Unione né una politica fiscale unitaria e dotata di strumenti di debito dell’Unione (es.: eurobond) e di meccanismi redistributivi che riparino i Paesi aderenti dagli shock che li colpiscono in modo asimmetrico. Si tratta di scelte politiche che hanno avuto come conseguenza la forte dinamica degli spread tra i rendimenti dei titoli del debito pubblico e che hanno accentuato i processi spontanei di divergenza che portano lo sviluppo a concentrarsi in alcune aree di Europa.
Unione incompleta: La speculazione, La crisi dell’eurozona (SLIDE 1)
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Razzismo di Stato e Capitalismo
Django Renato intervista Iside Gjergji
L’attuale fase politica segnata dal governo Lega-5Stelle, un governo che ha il suo marchio di fabbrica nella manipolazione di temi reazionari e in primis del razzismo per coprire la sua sostanziale subalternità al grande capitale e all’UE capitalista, impone un approfondimento teorico e politico, necessario anche nella misura in cui l’opposizione legata all’associazionismo o alla “sinistra” tradizionale spesso non riesce ad andare oltre un astratto anti-razzismo (se non cede, addirittura, alla retorica del “controllo dell’immigrazione”). In questo solco, abbiamo intervistato Iside Gjergij, sociologa (attualmente tiene un corso alla Stanford University), ma soprattutto compagna, impegnata da tempo nello studio dei legami tra migrazioni, razzismo, politiche di Stato e capitalismo (qui sono disponibili alcuni suoi lavori). Giovedì la seconda parte dell’intervista
LVDL: Nel senso comune il razzismo è concepito come l’ “idea della superiorità biologica di una razza su un’altra”, come un fenomeno strettamente culturale, magari risultato del difficile incontro tra popoli, dell’ignoranza etc., dal quale possono al limite derivare determinate politiche statali. Sul piano storico invece il rapporto sembra ribaltato: il razzismo viene teorizzato per la prima volta quando gli europei entrano in contatto con i popoli indo-americani, la cui inferiorità è giustificata in quanto essi non basavano la propria convivenza sulle istituzioni che all’epoca si affermavano nel vecchio continente (agli albori dello sviluppo capitalistico): la proprietà privata e lo Stato territoriale. Anche oggi il rapporto Stato-Razzismo è più stretto di quanto appare; infatti autori come te non parlano mai di Razzismo in astratto, ma di Razzismo di Stato: potresti approfondire questo concetto?
ISIDE: C’è una frase, attribuita al poeta basco Miguel de Unamuno, che si ripete e diventa virale sui social ogniqualvolta vi è la necessità di comprendere e opporsi a un episodio razzista: «Il fascismo si cura leggendo e il razzismo si cura viaggiando». Al di là delle intenzioni del poeta, la frase è storicamente falsa, oltre che fuorviante. Falsa perché il razzismo contemporaneo non ha a che fare, in primo luogo, con le credenze, l’ignoranza e l’alterità, e fuorviante perché, nascondendo le radici storico-materiali del razzismo contemporaneo ci indica, come piano di opposizione a esso, soltanto quello culturale. Il danno che ne deriva, da un punto di vista politico, è enorme.
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La nuova oggettività scientifica
... e la democrazia controllata dalla "fallacia epistemologica"
di Francesco Maimone
1 “… Nella scienza possono dire la loro solo quelli che per anni hanno sudato sui libri, hanno sottoposto le loro ipotesi a una rigorosa procedura di esperimenti e controlli, possiedono un metodo che consente di distinguere la verità dalla bugia …”. E di seguito, “… il nostro intuito non è sufficiente a stabilire un rapporto di causa-effetto. Per stabilirlo ci vuole la scienza, con i suoi numeri, il suo metodo, il suo rigore e soprattutto la sua statistica…” [pagg. 2 e 26]. Esplicitata la questione in tal modo a dir poco riduzionostico, per il popolo dei “somari” sembra all’apparenza non esservi davvero alcuno scampo. Ma è proprio così? Il Blog si è già occupato del problema della scienza con riferimento specifico ai vaccini obbligatori; il presente lavoro deve intendersi un approfondimento anche di quel post nel tentativo di dare, a beneficio dei lettori, una compiuta coerentizzazione sia dal punto di vista storico che filologico.
1.1 In generale, bisogna avvertire che il pensiero testualmente sopra riportato non è che un cascame di quella più generale tendenza del pensiero filosofico degli ultimi secoli di affrancarsi da ogni discorso ontologico sull’essere, sulla sua specificità e sulle sue determinazioni categoriali (nel nostro caso, sull’uomo “lavoratore sociale” con i suoi reali bisogni e che con il lavoro produce e si riproduce):
“… gli ultimi secoli di pensiero filosofico sono stati dominati da gnoseologia, logica e metodologia e il loro dominio è ben lontano dall’essere sorpassato. La preponderanza della prima di queste discipline è divenuta talmente forte da far dimenticare all’opinione pubblica che la missione storica della gnoseologia…consisteva…nel fondare e garantire il diritto alla egemonia scientifica della scienza naturale sviluppatasi a partire dal Rinascimento, ma di farlo in termini tali che restasse salvo… lo spazio ideologico che l’ontologia religiosa si era storicamente conquistato.
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"Il totalitarismo liberale". Presentazione
di Alessandro Pascale
È in uscita a inizio a dicembre 2018 “Il Totalitarismo liberale. Le tecniche imperialiste per l'egemonia culturale”. Si tratta del primo volume della collana Storia del Socialismo e della Lotta di Classe, edita da La Città del Sole e curata dal sottoscritto. Per offrire una presentazione complessiva dell'opera si riporta il seguente file dove è possibile trovare i contenuti delle prime pagine del libro, comprendenti l'Indice, la Dedica, l'Introduzionemetodologico-politica, sempre dall'Introduzione, Il paradigma totalitario e il revisionismo storico, la presentazione della collana Storia del Socialismo e della Lotta di Classe” e le indicazioni per acquistare il libro in prevendita e sostenere la raccolta fondi predisposta per finanziare la collana. Qui di seguito si riportano l'Introduzione metodologico-politica e Il paradigma totalitario e il revisionismo storico.
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Introduzione metodologico-politica
Il 15 dicembre 2017, grazie all'ausilio fondamentale di diversi collaboratori, pubblicavo sul sito www.intellettualecollettivo.it il saggio A cent'anni dalla Rivoluzione d'Ottobre. In Difesa del Socialismo Reale e del Marxismo-Leninismo. Dopo soli 6 mesi circa 2000 persone avevano scaricato l'opera, messa a disposizione gratuitamente in un non comodissimo formato di due file pdf. Mentre le principali forze politiche erano impegnate nella campagna elettorale delle elezioni politiche del marzo 2018, cominciavano presto ad arrivare i primi ringraziamenti privati, i complimenti e gli attestati di omaggio all'opera, di cui continuavano a dare notizia solo pochi canali mediatici, alcune testate di informazione “militanti” presenti con crescente successo sul web (l'associazione politico-culturale Marx21, il giornale comunista online La Città Futura, il portale Resistenze.org curato dal Centro di Cultura e Documentazione Popolare) [1].
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Su Carlo Formenti: "Femminismo di regime"?
di Alessandro Visalli
Carlo Formenti, sia in “La variante populista”, sia in un intervento su Sinistrainrete pubblicato originariamente su Il Rasoio di Occam, estende un argomento sull’uso dei movimenti da parte del capitalismo al caso del ‘femminismo’. La tesi di Formenti muove da un testo del 2014 di Luc Boltanski e Eve Chiappello, “Il nuovo spirito del capitalismo”. Un poderoso studio sul ‘nuovo spirito del capitalismo’ che ha superato il modo di produzione fordista, imperniato su organizzazioni grandi e rigide, istituzioni burocratiche che erogavano protezione richiedendo lealtà, stili di vita ordinati e prevedibili, in favore di una flessibile esaltazione della iniziativa, un bisogno di autoespressione e di autenticità, di imprevedibilità. Boltanski e Chiappello focalizzano i movimenti alla metà del secolo scorso, quando la fiammata del ’68, destruttura la famiglia e le istituzioni autoritarie e paternaliste investendole con la critica. La critica dei movimenti era un impasto instabile di una tradizionale ‘critica sociale’, che derivava dalla lunga tradizione socialista, e da una nuova ‘critica artistica’, che si imperniava su una domanda di libertà vissuta in una chiave individuale a un breve passo dall’essere individualista.
La frattura, generazionale e culturale, con le strutture consolidate della sinistra storica è uno dei fattori, nel ventennio 1968-89, che porta per Formenti e per gli autori citati[1], ad uno slittamento decisivo: la libertà come scelta individuale non è più percepita come un ideale della destra, al più del liberalismo, ma lo diventa tutto ciò che appare autoritario, oppressivo, conservatore. La ‘critica sociale’, quasi senza avvedersene, scompare dall’orizzonte mentre tutte le domande di riconoscimento identitario, di emancipazione dai vincoli gerarchici e burocratici, è identificata automaticamente come di ‘sinistra’.
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