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La nuova oggettività scientifica
... e la democrazia controllata dalla "fallacia epistemologica"
di Francesco Maimone
1 “… Nella scienza possono dire la loro solo quelli che per anni hanno sudato sui libri, hanno sottoposto le loro ipotesi a una rigorosa procedura di esperimenti e controlli, possiedono un metodo che consente di distinguere la verità dalla bugia …”. E di seguito, “… il nostro intuito non è sufficiente a stabilire un rapporto di causa-effetto. Per stabilirlo ci vuole la scienza, con i suoi numeri, il suo metodo, il suo rigore e soprattutto la sua statistica…” [pagg. 2 e 26]. Esplicitata la questione in tal modo a dir poco riduzionostico, per il popolo dei “somari” sembra all’apparenza non esservi davvero alcuno scampo. Ma è proprio così? Il Blog si è già occupato del problema della scienza con riferimento specifico ai vaccini obbligatori; il presente lavoro deve intendersi un approfondimento anche di quel post nel tentativo di dare, a beneficio dei lettori, una compiuta coerentizzazione sia dal punto di vista storico che filologico.
1.1 In generale, bisogna avvertire che il pensiero testualmente sopra riportato non è che un cascame di quella più generale tendenza del pensiero filosofico degli ultimi secoli di affrancarsi da ogni discorso ontologico sull’essere, sulla sua specificità e sulle sue determinazioni categoriali (nel nostro caso, sull’uomo “lavoratore sociale” con i suoi reali bisogni e che con il lavoro produce e si riproduce):
“… gli ultimi secoli di pensiero filosofico sono stati dominati da gnoseologia, logica e metodologia e il loro dominio è ben lontano dall’essere sorpassato. La preponderanza della prima di queste discipline è divenuta talmente forte da far dimenticare all’opinione pubblica che la missione storica della gnoseologia…consisteva…nel fondare e garantire il diritto alla egemonia scientifica della scienza naturale sviluppatasi a partire dal Rinascimento, ma di farlo in termini tali che restasse salvo… lo spazio ideologico che l’ontologia religiosa si era storicamente conquistato.
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"Il totalitarismo liberale". Presentazione
di Alessandro Pascale
È in uscita a inizio a dicembre 2018 “Il Totalitarismo liberale. Le tecniche imperialiste per l'egemonia culturale”. Si tratta del primo volume della collana Storia del Socialismo e della Lotta di Classe, edita da La Città del Sole e curata dal sottoscritto. Per offrire una presentazione complessiva dell'opera si riporta il seguente file dove è possibile trovare i contenuti delle prime pagine del libro, comprendenti l'Indice, la Dedica, l'Introduzionemetodologico-politica, sempre dall'Introduzione, Il paradigma totalitario e il revisionismo storico, la presentazione della collana Storia del Socialismo e della Lotta di Classe” e le indicazioni per acquistare il libro in prevendita e sostenere la raccolta fondi predisposta per finanziare la collana. Qui di seguito si riportano l'Introduzione metodologico-politica e Il paradigma totalitario e il revisionismo storico.
* * * *
Introduzione metodologico-politica
Il 15 dicembre 2017, grazie all'ausilio fondamentale di diversi collaboratori, pubblicavo sul sito www.intellettualecollettivo.it il saggio A cent'anni dalla Rivoluzione d'Ottobre. In Difesa del Socialismo Reale e del Marxismo-Leninismo. Dopo soli 6 mesi circa 2000 persone avevano scaricato l'opera, messa a disposizione gratuitamente in un non comodissimo formato di due file pdf. Mentre le principali forze politiche erano impegnate nella campagna elettorale delle elezioni politiche del marzo 2018, cominciavano presto ad arrivare i primi ringraziamenti privati, i complimenti e gli attestati di omaggio all'opera, di cui continuavano a dare notizia solo pochi canali mediatici, alcune testate di informazione “militanti” presenti con crescente successo sul web (l'associazione politico-culturale Marx21, il giornale comunista online La Città Futura, il portale Resistenze.org curato dal Centro di Cultura e Documentazione Popolare) [1].
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Su Carlo Formenti: "Femminismo di regime"?
di Alessandro Visalli
Carlo Formenti, sia in “La variante populista”, sia in un intervento su Sinistrainrete pubblicato originariamente su Il Rasoio di Occam, estende un argomento sull’uso dei movimenti da parte del capitalismo al caso del ‘femminismo’. La tesi di Formenti muove da un testo del 2014 di Luc Boltanski e Eve Chiappello, “Il nuovo spirito del capitalismo”. Un poderoso studio sul ‘nuovo spirito del capitalismo’ che ha superato il modo di produzione fordista, imperniato su organizzazioni grandi e rigide, istituzioni burocratiche che erogavano protezione richiedendo lealtà, stili di vita ordinati e prevedibili, in favore di una flessibile esaltazione della iniziativa, un bisogno di autoespressione e di autenticità, di imprevedibilità. Boltanski e Chiappello focalizzano i movimenti alla metà del secolo scorso, quando la fiammata del ’68, destruttura la famiglia e le istituzioni autoritarie e paternaliste investendole con la critica. La critica dei movimenti era un impasto instabile di una tradizionale ‘critica sociale’, che derivava dalla lunga tradizione socialista, e da una nuova ‘critica artistica’, che si imperniava su una domanda di libertà vissuta in una chiave individuale a un breve passo dall’essere individualista.
La frattura, generazionale e culturale, con le strutture consolidate della sinistra storica è uno dei fattori, nel ventennio 1968-89, che porta per Formenti e per gli autori citati[1], ad uno slittamento decisivo: la libertà come scelta individuale non è più percepita come un ideale della destra, al più del liberalismo, ma lo diventa tutto ciò che appare autoritario, oppressivo, conservatore. La ‘critica sociale’, quasi senza avvedersene, scompare dall’orizzonte mentre tutte le domande di riconoscimento identitario, di emancipazione dai vincoli gerarchici e burocratici, è identificata automaticamente come di ‘sinistra’.
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“La Grande accelerazione” di John R. McNeill e Peter Engelke
di Paolo Missiroli
Recensione a: John R. McNeill e Peter Engelke, La Grande accelerazione. Una storia ambientale dell’Antropocene dopo il 1945, Einaudi, Torino 2018, pp. 270, 22 euro (scheda libro)
Proponiamo questa recensione come primo contributo all’interno di un breve ciclo sui problemi della crescita incontrollata per come si è data fino ad oggi. L’occasione di questo percorso è data dalla pubblicazione dell’ultimo rapporto dell’IPCC (International Panel for Climate Change), l’ente mondiale più qualificato per lo studio del cambiamento climatico. Si tratta senza dubbio del rapporto più catastrofico e disincantato di sempre. Tutti gli anni l’ente pubblica un rapporto, ma quello attuale è senza precedenti. Non solo si prospetta un maggiore tasso di distruzione ambientale a causa del cambiamento climatico già in atto (inevitabile, ormai, viene considerato un aumento medio delle temperature all’1,5%), ma si annuncia un anticipo del manifestarsi pieno (già molti sono i segnali in atto) di tale trasformazione ecosistemica. Il rapporto non lascia sperare altro che un contenimento minimo di tale crescita delle temperature (e per farlo bisognerebbe ridurre moltissimo le emissioni entro il 2030) in modo da non superare i due gradi. A titolo esemplificativo, le barriere coralline sarebbero perdute con un aumento di 2 gradi centigradi, mentre verrebbero distrutte al 70-90% con l’aumento (ormai inevitabile) di 1,5 gradi.
A fronte di dati tanto rilevanti, non si può non notare inesistenza di una discussione pubblica, almeno nel nostro paese, sul tema. Un rapporto dal tono apocalittico viene sostanzialmente ignorato. Da cosa deriva questo? Per dare qualche contributo per poter tentare una risposta a questa domanda fondamentale proveremo a illuminare, con l’aiuto di due libri da poco usciti, il contesto storico in cui la crisi ecologica assume potenza e i suoi effetti sulla dimensione globale e locale allo stesso tempo. Il primo elemento che emergerà sarà che la crisi ecologica non riguarda solo la crisi climatica, ma suscita tutta una serie di problematiche del tutto particolari, legate al fatto che l’essere umano vive effettivamente in un mondo e in un ambiente specifico, che è quantomeno quello terrestre tipico dell’Olocene (ed ora in trasformazione).
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Un ricordo di Samir Amin
di Giorgio Riolo (*)
Il marxismo di Samir Amin e il progetto di emancipazione per i popoli delle periferie del mondo
I.
Samir Amin rientra tra coloro i quali più si sono attenuti alla feconda interazione e al reciproco sostanziarsi di teoria e storia, di astratto e concreto, di conoscenza e realtà fattuale storico-sociale. È il suo un contributo di grande valore per dare coerenza teorica e categoriale a questo materiale empirico, reale. È in lui soprattutto la feconda interazione e la stretta interdipendenza di impegno politico militante e di necessaria riflessione teorica e culturale.
Il militante (comunista, terzomondista-internazionalista, antimperialista, altermondia-lista ecc.) dialoga e illumina l’intellettuale marxista. E viceversa. È un pendolo, una oscillazione tra i due poli, costante. L’intera sua parabola di vita, e il suo apporto per noi, e per questo siamo qui a svolgere questo seminario, si dispiega dalla precoce adesione ai valori (morali, etici, intellettuali) socialisti e comunisti e dalla precoce lettura di Marx fino alla recente scomparsa come continuo confronto con la storia reale, con il capitalismo, con Marx e con i marxismi storici, con la storia del movimento operaio, socialista e comunista, e dei movimenti di liberazione nazionale del Sud del mondo, con il socialismo reale e con le varie rivoluzioni nelle periferie (Cina, Vietnam, Cuba, Algeria ecc.), con la concezione generale della alternativa socialista.
II.
Il compito mio in questo seminario è pertanto quello di soffermarmi sul peculiare marxismo di Amin e sui suoi apporti al sistema di idee che origina da Marx. E sulla storia reale della sua militanza politica come apporto originale al progetto di emancipazione umana che chiamiamo socialismo, in primo luogo per i popoli e le classi subalterne delle periferie del mondo.
Così facendo, giocoforza, ritornerò a precisare alcuni caratteri del capitalismo realmente esistente. Avendo come riferimento ovviamente la relazione iniziale di Massimiliano Lepratti.
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Vaccini: la scienza, la morale, la legge
di Ivan Cavicchi
Appena uscito il libro degli amici Il Pedante e Pier Paolo Dal Monte — IMMUNITÀ DI LEGGE. I vaccini obbligatori tra scienza al governo e governo della scienza — ha ricevuto tanto successo quanto suscitato polemiche.
Walter Ricciardi — uno dei grandi sacerdoti della "scienza che non è democratica", nonché paladino dell'obbligo vaccinale, nonché sodale di Roberto Burioni, nonché Presidente dell'Istituto Superiore di Sanità —, ha chiesto una punizione pubblica esemplare per Giancarlo Pizza, presidente dell'Ordine dei medici di Bologna, colpevole di aver scritto la prefazione al libro IMMUNITÀ DI LEGGE.
E la caccia all'untore si è scatenata....
Pochi giorni fa il professor Ricciardi, presidente dell’istituto superiore di sanità (Iss) ha inviato una lettera al direttore di questo giornale (Qs 10 ottobre 2018), a mio parere, tanto assurda quanto inquietante, ma nello stesso tempo agli occhi dell’ermeneuta un “iper testo” di grande interesse fenomenologico
La lettera rivolge al dottor Giancarlo Pizza, presidente dell’ordine dei medici di Bologna, una accusa infamante per un medico ippocratico, da paragonare a quella che, a partire dall’ XI secolo per arrivare al XVI, sarebbe equivalsa ad una eresia, e ne chiede le dimissioni, cioè una punizione pubblica esemplare che, riferita allo stesso periodo storico, potrebbe essere l’equivalente del rogo, della decapitazione o dell’impalamento.
La lettera e l’accusa
La lettera del professor Ricciardi ritiene un grave reato che, un medico, presidente di ordine, scriva una prefazione ad un libro che critica le cattive politiche e le tendenze oscurantiste sui vaccini del precedente governo. Il titolo “immunità di legge” e il sottotitolo “tra scienza al governo e governo della scienza” chiarisce che non si tratta di un libro no vax.
L’accusa è interessante, soprattutto da un punto di vista logico, infatti essa non è, null’altro, che un sillogismo fondato su una arbitraria quanto intransigente regola transitiva, quella meccanica tipica che è, nello stesso tempo, alla base del pregiudizio e di certi processi sommari:
- siccome…il dottor Pizza ha firmato una prefazione ad un libro critico non nei confronti dell’obbligo vaccinale, attenzione, ma nei confronti delle convinzioni personali per quanto scientifiche del professor Ricciardi che considera l’obbligo vaccinale una strategia profilattica fondamentale…,
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Gramsci e il populismo*
di Salvatore Cingari
1. Introduzione
Il tema del populismo è ovviamente di grande attualità1. Indagare quale fosse l’effettivo utilizzo del termine da parte di Antonio Gramsci è utile al dibattito teorico-politico contemporaneo, se pensiamo alla riattivazione di questo lemma nel campo del radicalismo di sinistra ad opera di Ernst Laclau. È significativo osservare che l’attenzione di Laclau per Gramsci trae origine dal motivo opposto a quello che ha dettato, più di cinquant’anni fa, il rifiuto del giovane Asor Rosa in Scrittori e popolo. In questo libro veniva denunciata la visione non rigidamente economicistica del concetto di “classe”, che in Gramsci portava alla sua de-sostanzializzazione e dunque a una valorizzazione dell’idea di “popolo” (ma anch’esso non entificato), non strettamente legata alla sua connotazione operaia.
L’egemonia come trascendimento della dimensione corporativa, al di fuori di una prospettiva essenzialistico-classistica, è invece proprio ciò che a Laclau interessa. Non è qui il luogo per discutere dell’utilizzo delle categorie gramsciane da parte del filosofo argentino2. Quel che qui ci limitiamo a mettere in luce è che mentre per il Laclau3 di La ragione populista il termine “populismo” si sovrappone all’idea stessa del “politico”, a sua volta inteso come luogo in cui si costruisce un “popolo” contro un nemico “interno”, attivando un conflitto che si sottrae alle forme differenzianti della gestione istituzionale del potere, in Gramsci, invece, “populismo” significa tutt’altro. La parola ha, cioè, una connotazione, come vedremo, interna a quella di stampo marxista- leninista (che poi sarebbe stata assorbita, nel secondo dopoguerra, anche dal lessico liberal- democratico): una ideologia politica che esalta le doti del “popolo”, senza però fornire a esso strumenti per una sua reale emancipazione. L’esempio storico da cui trae origine la parola sono i populisti russi. Quel che è però interessante, come vedremo, è che il Gramsci dei Quaderni utilizza il termine anche in un’accezione più affine all’utilizzo contemporaneo: e cioè per riferirsi a emergenze di stampo borghese e persino conservatore rivolte al “popolo”.
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Del comune, dell’alienazione e di altre cose del capitalismo
di Andrea Fumagalli e Lelio Demichelis
Due libri apparentemente diversi già nel titolo, due libri invece concretamente molto vicini. Il primo è La grande alienazione, di Lelio Demichelis, da poco uscito per Jaca Book; il secondo, di Andrea Fumagalli, è L’economia politica del comune, pubblicato da DeriveApprodi. Il primo ha per sottotitolo: Narciso, Pigmalione, Prometeo e il tecno-capitalismo; il secondo: Sfruttamento e sussunzione nel capitalismo biocognitivo. Entrambi gli autori hanno una lunga storia intellettuale di analisi del capitalismo e della tecnica, il primo è sociologo, il secondo economista. Invece di una classica recensione dei due libri, Alfabeta ha chiesto ai due autori di dialogare tra loro e di aiutare i lettori a capire com’è cambiato e ancora sta cambiando il capitalismo e perché l’alienazione non è scomparsa come sembra, ma è ancora ben presente in tutti i processi tecnici e capitalistici in cui stiamo vivendo.
* * * *
Andrea Fumagalli. Il tema da cui partire è l’individuazione dei sentieri di valorizzazione del capitalismo contemporaneo. A mio avviso, tali sentieri sono costituiti dalle produzioni immateriali che vanno a costituire la nuova frontiera tecnologica (bio-tecnologie, bio-genetica, intelligenza artificiale, big data, eccetera) e dal ruolo della finanza come “carburante” dell’accumulazione (finanziamento, distribuzione del reddito: finanziarizzazione del welfare e moltiplicatore finanziario). È un’interpretazione condivisibile?
Lelio Demichelis. Assolutamente sì. Il capitalismo neoliberale e tecnico – quello che definisco come tecno-capitalismo – è storicamente nato con la fase della produzione (tutti dovevano diventare produttori e proletari), passando poi alla fase del consum(ism)o (tutti dovevano imparare a consumare). Oggi siamo nella terza fase (più che nella quarta rivoluzione industriale) dell’innovazione irrefrenabile e del micro-capitalismo diffuso, in cui tutti devono innovare, farsi imprenditori di se stessi a prescindere dalla utilità sociale dell’innovazione. Chi pensava che con la rete si creasse il general intellect marxiano non vedeva l’essenza di un tecno-capitalismo – di una tecnica, soprattutto – che si faceva grande narrazione globale nel tempo della fine delle grandi narrazioni novecentesche. Io scrivo di tecno-capitalismo. Tu parli di capitalismo bio-cognitivo…
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Fare politica con Marx
di Alessandro Somma
In Marx eretico (il Mulino, 2018), Carlo Galli, pur restituendo il pensatore del Capitale al contesto storico-intellettuale in cui ha maturato le sue posizioni, ne indaga le ultime potenzialità politiche, legate alla critica dell'individualismo neoliberale
Storicizzare Marx
Nell’anno in cui si celebra il bicentenario della sua nascita, Karl Marx è tornato a ispirare una produzione letteraria di tutto rispetto, almeno se confrontata con quella che ha caratterizzato i decenni del riflusso. I contributi sono evidentemente eterogenei per qualità e soprattutto per approccio: si va dalla prosa con andatura osannante alla critica feroce, passando per una vasta gamma di tentativi più o meno espliciti di fondare sul pensiero del filosofo di Treviri progetti di riscatto della sinistra.
In questo panorama spicca l’ultima fatica di Carlo Galli[1], il cui filo conduttore sembra essere proprio la messa in guardia dagli usi e abusi di Marx, innanzi tutto perché incompatibili con il profilo intellettuale del filosofo di Treviri: filosofo “eretico”, la cui opera è “incompiuta” e dunque “aperta” e non solo perché in gran parte abbozzata. Occorre insomma una notevole dose di cautela nell’utilizzare un pensiero ferocemente in “lotta contro l’auctoritas”, contro “gli equilibri, le forme e i limiti di una dominante architettura di pensiero e di potere” (14). Un pensiero, oltretutto, che “sposta la Verità nella dimensione pratica, affidandola allo svolgersi della storia reale e delle lotte concrete, dei conflitti” (18): che oltre a essere costitutivamente antidogmatico, è anche inutilizzabile per qualsiasi forma di attualismo, ovvero di utilizzazione di un pensiero del passato senza considerazione per i mutamenti di contesto: come se il trascorrere del tempo non ci ponesse per ciò solo di fronte a oggetti diversi.
Il modo migliore per prevenire il dogmatismo e la forzata attualizzazione è dedicarsi al riconoscimento e alla sottolineatura delle coordinate spazio-temporali entro cui maturano i pensieri.
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Libertà di stampa e libertà di parola
Su Wikileaks
di Fulvio Grimaldi
“Tre cose non possono essere nascoste a
lungo: la Luna, il Sole e la Verità”. (Wikileaks)
Fulvio e Julian: si parva licet componere magnis
Il personale è politico, si diceva qualche lustro fa e tanto lo hanno preso sul serio quelli contro cui il concetto era diretto da aver ridotto il nostro personale, ora detto privacy, a setaccio per il quale precipita nel raccoglitore CIA, NSA, piattaforme digitali e nostri servizi, ogni bruscolino della nostra vita. Parto comunque da quel meme per compiere il passaggio da una mia esperienza privata a quella di portata generale, internazionale, planetaria ed epocale di Julian Assange, il detenuto da sei anni in quell’isola di Montecristo che è l’ambasciata dell’Ecuador a Londra.
Loro erano stati i segretari dell’Usigrai, sindacato di sinistra dei giornalisti RAI e poi sono stati e sono segretari della Federazione Nazionale della Stampa, il nostro sindacato. Loro sono Roberto Natale e Beppe Giulietti. Loro raccontavano di essersi dati molto da fare per farmi assumere al TG. Io credo che a favorire il mio passaggio da occasionale interprete simultaneo in Rai, nei tempi del mio ostracismo professionale dovuto alla direzione di Lotta Continua (senza pentimenti alla Sofri), a giornalista dell’azienda, sia stato Piero Badaloni, conduttore di Italiasera e poi di Uno Mattina, ottimo alla macchina, meno in video, che aveva apprezzato i miei trascorsi professionali e ignorato quelli politici.
Comunque, ai tempi in cui ricorsi al sindacato per ottenerne protezione dei miei diritti conculcati da Fausto Bertinotti mediante cacciata su due piedi da “Liberazione”, c’era Roberto Natale, poi opportunamente transitato a portavoce di Laura Boldrini presidente della Camera.
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Venaus, 17 e 18 novembre: da Flint a Flint passando per la Valsusa e il Salento
di Sandro Moiso
Non ho mai apprezzato particolarmente l’opera cinematografica di Michael Moore, ma mi pare che in occasione dell’incontro tra i movimenti che si terrà a Venaus in Valsusa il 17 e il 18 novembre, due dei suoi film, il primo e l’ultimo, possano costituire un ottimo punto di partenza e di arrivo per le riflessioni inerenti alle battaglie che attendono tutti coloro che, sempre più spesso, si contrappongono spontaneamente al modo di produzione corrente e alle sue malfamate “grandi opere”, in nome della difesa dell’ambiente, dei territori e dalla specie umana nel suo complesso.
Nel primo, Roger and Me (1989), sono ricostruite le vicende legate al licenziamento di 30.000 lavoratori dagli stabilimenti della General Motors della città di Flint, situata nel Michigan a poco più di cento chilometri da Detroit, le cui conseguenze hanno portato quella località ad essere, da insediamento industriale legato al ciclo dell’auto qual era, una delle città meno vivibili degli Stati Uniti, con conseguente crescita della criminalità e diminuzione del numero degli abitanti.
Nell’ultimo, Fahrenheit 11/9 (2018), all’interno della descrizione del processo di nazificazione della società americana dell’era Trump, Flint torna in scena sia per il dramma scatenatosi, ufficialmente a partire dal 2014, con l’inquinamento da piombo delle acque distribuite dall’acquedotto locale, sia per l’utilizzo del suo territorio (fabbriche dismesse e quartieri abbandonati tutt’altro che distanti da quelli ancora abitati) come luogo di esercitazione anti-guerriglia da parte dell’esercito americano, con l’utilizzo di armi, esplosivi ed autentiche tempeste di fuoco e di piombo scatenate dagli elicotteri d’assalto.
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Il feticismo e la sua attualità
di Adriano Voltolin
Il paragrafo della prima sezione del Capitale che ha per titolo Il carattere di feticcio della merce e il suo arcano1, è stato, non casualmente, uno degli scritti che hanno rivestito una notevole importanza nel grande movimento che era iniziato in Europa alla metà degli anni sessanta del novecento. La sottolineatura implicita nello scritto dell’importanza degli aspetti teologici e di quelli ideologici che si sviluppano come sapere all’interno della società e che appaiono essere non semplicemente una sovrastruttura, ma una parte essenziale di quella cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica che è la merce, poneva su un piano diverso la lotta culturale ed ideale nella società rispetto al suo confinamento ad un piano di minore importanza rispetto a quella contro la struttura economica del capitale. Come era stato, nell’Europa tra la prima e la seconda guerra mondiale, con quello che venne chiamato il marxismo occidentale e che aveva trovato, oltre che in Lukàcs2, un esponente importante in Karl Korsch3, così nel 1963 il lavoro di Karel Kosik del 1963 sulla Dialettica del concreto4 riannodava le fila di un marxismo critico5 che ha rappresentato per circa ottanta anni l’interesse della cultura e della filosofia marxiana per gli aspetti ideologici della società6.
Marx in questo scritto rileva in primo luogo che quello dominato dalla merce è un mondo nel quale realtà e ideologia si sostituiscono l’una all’altra cosicché i prodotti del lavoro socialmente determinati scompaiono come tali per riapparire come rapporto sociale tra oggetti esistenti al di fuori di essi produttori7. Questo capovolgimento fa inoltre sì che per essere capito appieno è necessario addentrarsi nella regione nebulosa del mondo religioso Qui, continua Marx, i prodotti del cervello umano paiono figure indipendenti dotate di vita propria.
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Fabrizio Marchi, “Contromano”
di Alessandro Visalli
“L’interferenza” è una coraggiosa rivista on line di cui è direttore responsabile Fabrizio Marchi e che fa parte di una crescente e vivacissima area critica con lo stato delle cose presenti, in particolare con l’indirizzo del progetto europeo in quanto parte promotrice della destrutturazione che ci circonda.
In questo libro sono raccolti numerosi articoli usciti sulla rivista che si sviluppano intorno ad alcuni centri tematici ed una tesi-chiave che provo a rendere in questo modo: le varie versioni del ‘politicamente corretto’ sono l’ideologia funzionale allo stato della tecnica e di un modo di produzione che da lungo tempo ha dismesso i ferri vecchi della triade Dio-Stato-Famiglia.
Il punto di partenza dell’argomentazione del testo è che man mano che la società si è fatta “liquida”[1], almeno nel nostro occidente ‘sviluppato’, la centralità della “forma merce”[2] è diventata universale. Ciò che dunque serve all’autoriproduzione di questa società, ed in particolare del suo motore, la valorizzazione del capitale[3], è un umano ‘non sociale’[4], che viene in qualche modo messo a disposizione dalla ideologia del ‘politicamente corretto’[5] che in questo senso è ‘falsa coscienza’[6].
All’autoritarismo delle forme tradizionali si sovrappone e sostituisce, certo gradualmente, una forma sottile, ma più ferrea, di autoritarismo del mercato. In altre parole, la questione non è tanto del “plusvalore non pagato” o di appropriarsi del potere giuridico di disporre della proprietà privata, ma di ridefinire la “forma sociale del valore stesso”, ed il suo feticismo che mette in concorrenza tra di loro tutte le classi e gli individui entro esse, siano essi maschi o femmine.
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Autostrade ai privati. Come invertire la marcia
di Simone Gasperin
La storia delle principali infrastrutture stradali italiane è l'emblema dell'interesse pubblico che cede il passo alla rendita. Ma esistono alternative alla speculazione dei privati
Al minuto 25:55 di un compiaciuto documentario sulle autostrade italiane si intravede il ponte Morandi con un “buco” a metà. Ma il fotogramma appare in uno sgranato bianco e nero. Si tratta di un filmato degli anni Sessanta, quando il viadotto Polcevera doveva ancora essere ultimato. Queste le parole trionfanti del narratore: “La Società Autostrade ha completato il raddoppio e l’ammodernamento della Genova-Serravalle, che allacciandosi alla Serravalle-Milano, ha sbloccato le correnti di traffico provenienti dal nord e ha ormai portato a termine anche l’autostrada che arriva a Savona”. Una rasserenante musichetta stile-jazz in sottofondo sembra persino banalizzare un elemento di eccezionale significato per l’economia italiana.
La rete autostradale in Italia evoca una storia di orgogliosa ricostruzione e di progresso materiale, successivamente mutata nello sconforto tipico delle fasi di decadenza e recentemente culminata con il tragico crollo del ponte genovese. Per questi motivi, la vicenda delle autostrade italiane non può essere esclusivamente ricondotta a specialistiche questioni di natura ingegneristica. Essa intreccia innanzitutto il susseguirsi delle strategie di sviluppo economico, o presunte tali, adottate delle autorità pubbliche nel corso degli ultimi decenni.
Fino agli anni Settanta, parlare di autostrade in Europa era semplicemente sinonimo di Italia. Come aveva potuto questo paese ancora semi-arretrato costruire una moderna rete di autostrade su un complesso territorio nazionale, collegando il nord al sud, il Piemonte al Friuli, il litorale adriatico a quello tirrenico? Questo si chiedevano gli osservatori ed esperti di tutto il continente. La risposta, tanto scontata quanto annacquata dalla distanza storica, conduce a individuare un attore protagonista: la Società Autostrade Concessioni e Costruzioni Spa.
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Samir Amin, un teorico militante
di Remy Herrera*
Samir Amin si è sempre definito marxista. Il suo lavoro è stato informato, non senza riflessione critica, dalle teorie dell'imperialismo (in particolare quelle proposte da Paul Baran, Paul Sweezy e Harry Magdoff) come opere pionieristiche sullo sviluppo (come quelle di Raúl Prebisch o, in una certa misura, di François Perroux). Ma si differenzia molto chiaramente dal corpus marxista "ortodosso". Come gli altri grandi teorici del sistema mondiale capitalista, tra cui Immanuel Wallerstein, Giovanni Arrighi e André Gunder Frank, Samir Amin ha prodotto una serie di analisi globali che articolano relazioni di dominio tra nazioni e relazioni di sfruttamento tra classi, e che prendono come oggetto e concetto il mondo moderno come un'entità storico-sociale concreta che forma un sistema, formando un assemblaggio - strutturato da complesse relazioni di interdipendenza - di diversi elementi di una realtà in un insieme coerente e autonomo, posizionandoli dando loro un senso.
Uno dei principali contributi scientifici di Samir Amin è che egli mostra che il capitalismo come sistema mondiale realmente esistente è molto diverso dal modo di produzione capitalista su scala globale. La questione centrale che guida il suo lavoro è capire perché la storia dell'espansione capitalistica si identifica con la storia della polarizzazione globale tra le formazioni sociali centrali e periferiche. La sua risposta mira a cogliere la realtà di questa polarizzazione nella sua interezza, a integrare lo studio delle sue leggi in termini di materialismo storico, cercando di combinare teoria e storia e di tenere insieme i campi economico, politico e ideologico. L'unità di analisi per comprendere i principali problemi delle società è quindi il sistema globale - possibile oggetto di una coerente indagine scientifica olistica a questo livello -, meglio delle formazioni sociali che lo compongono.
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Marx, Engels, l’utopia
di Gian Mario Bravo
1.
Inizio con il titolo dell’opuscolo celebre di Friedrich Engels (condiviso anche da Marx), L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza (1882), diventato uno dei documenti più noti e diffusi del nascente e affermantesi “marxismo” (il marxismo di Marx, dall’inizio del Novecento si parlerà però di marxismi). Il testo era stato redatto qualche anno avanti e pubblicato in un’impegnativa e complessa opera polemica, l’Antidühring, poi estratto da essa con titolo Socialismo utopistico e socialismo scientifico, infine aveva ottenuto la denominazione citata. Tenendo conto solo di quest’opera, potrei - paradossalmente - interrompere il saggio e, con evidente presunzione, affermare che secondo Marx ed Engels, essendosi il socialismo «evoluto» da una visione precedente, utopistica, ed essendo diventato una «scienza», vale a dire il «socialismo scientifico», conseguentemente, si dovrebbe, parlare del rifiuto e anche del superamento di ogni forma di utopia da parte dei due pensatori.
Il ragionamento, pur logico e lineare, condurrebbe a una visione rigida del tema oggetto di discussione e contrasterebbe in gran parte con le convinzioni che Marx ed Engels manifestarono nel corso della loro pluridecennale riflessione sul tema, ben più autonoma e ampia. Sicuramente, una percezione ideologizzata e positivista del marxismo (continuo a parlare del solo marxismo di Marx) fu quasi sempre dominante nel dibattito della sinistra, in Occidente come in Oriente. Così accadde nella discussione della socialdemocrazia tedesca e del socialismo italiano prima della Grande guerra, nel marxismo sovietico durante l’intera sua esistenza, e non solo nell’età di quella che può essere definita la degenerazione staliniana, e così via.
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La crisi del ciclo progressista
Panorama sull’America Latina nell’epoca di Trump
di Tommaso Nencioni
Alla fine del primo decennio del XXI secolo governi progressisti erano insediati nella pratica totalità degli Stati latinoamericani. Dall’Argentina kirchnerista al Brasile di Lula, dall’Ecuador di Rafael Correa alla Bolivia di Evo Morales, dall’Uruguay del Frente Amplio al Nicaragua neosandinista, dal Paraguay dell’ex Vescovo Fernando Lugo al Salvador guidato dal FMLN, la Patria Grande era unificata sotto le bandiere delle sinistre. La leadership riconosciuta dell’intero processo spettava al presidente venezuelano Hugo Chavez. La rivoluzione bolivariana assumeva caratteri via via più radicali, quella cubana godeva di rinnovate credibilità e legittimità internazionali. Venivano ripresi e implementati processi di integrazione regionale come il MERCOSUR e la CELAC, ed erano le forze popolari alla guida di questi processi, mentre le destre per lo più vi si opponevano. Altri ne nascevano su basi totalmente inedite, come l’ALBA. Perfino all’interno dell’OSA – l’organizzazione panamericana estesa ai Paesi al nord del Rio Grande – la posizione degli Stati Uniti rimaneva spesso isolata. Un progetto di zona di libero scambio estesa a tutto il continente su basi neo-liberiste e promossa da Washington – l’ALCA – era stato sdegnosamente respinto dai presidenti di Argentina, Brasile, Uruguay e Venezuela a Mar del Plata nel 2004. Governi che si erano insediati con programmi timidamente liberali – è il caso di quello hondureño di Manuel Zelaya – finivano per entrare nell’orbita di influenza progressista.
Negli ultimi anni stiamo però assistendo ad un netto rovesciamento dei rapporti di forza nel Subcontinente. Il peronismo argentino ha ceduto il potere ad una coalizione di destra guidata da Mauricio Macri. Di destra anche il governo peruviano. I governi di Paraguay, Honduras e soprattutto Brasile sono stati rovesciati da manovre parlamentari al limite della costituzionalità – si parla apertamente di Golpe.
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Marx e la politica
di Franco Romanò
Il recente film Il giovane Marx ha posto l’attenzione, fra l’altro, su un periodo cruciale della storia europea, che gli storici e anche i programmi scolastici definiscono come Restaurazione. Secondo Mario De Micheli, invece, i trent’anni successivi al Congresso di Vienna1 vanno visti come il tempo in cui si diffondono in tutta Europa gli ideali rivoluzionari che prepareranno il ’48, sia da un punto di vista politico, sia artistico e culturale. Dentro questa temperie, si colloca anche il lavoro del giovane Marx e quello di Engels sulla classe operaia inglese. Il culmine di questo periodo, durante il quale nasce anche la loro profonda amicizia, sarà, nel ’47, la stesura del Manifesto del partito comunista, che sarà pubblicato nel 1848 qualche mese prima dello scoppio dei movimenti rivoluzionari in tutta Europa; un evento che Marx ed Engels avevano previsto. Qual è e come cambia nel tempo il loro rapporto con la politica, tema di questo scritto?
Occorre prima di tutto considerare un problema preliminare e cioè che noi vediamo il rapporto con la politica da post bolscevichi e post socialisti. Uso l’espressione in senso ampio e non la riferisco solo a chi è stato comunista o socialista o che lo è ancora, perché i partiti socialisti e poi Lenin e i bolscevichi non hanno creato solo i loro organismi politici, ma hanno inventato il partito politico moderno novecentesco, un modello che è stato seguito più o meno da tutti, con qualche distinguo per quelli inglesi e una più ampia differenziazione per quelli statunitensi. Può sembrare a prima vista sorprendente tale affermazione, ma se storicizziamo alcuni passaggi, il quadro che ne esce apparirà forse meno sorprendente. Risaliamo allora al periodo successivo alla Comune di Parigi e poi, specialmente, al 1902, quando Lenin scrive Che fare.
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Dal popolo-nazione al populismo: Gramsci e Laclau
di Pasquale Voza
Vorrei partire da un passo del Quaderno 11, in cui Gramsci mostrava come la costruzione dell’«intellettuale nuovo» avesse bisogno di liberarsi da quello che andava considerato «l’errore dell’intellettuale»:
L’errore dell’intellettuale consiste nel credere che si possa sapere senza comprendere e specialmente senza sentire ed essere appassionato (non solo del sapere in sé, ma per l’oggetto del sapere) cioè che l’intellettuale possa essere tale (e non un puro pedante) se distinto e staccato dal popolo-nazione, […] non si fa politica-storia senza questa passione, cioè senza questa connessione sentimentale tra intellettuali e popolo-nazione (Q 11, 68, 1505)1.
Rispetto al corrispettivo testo A, in cui parlava di popolo, qui Gramsci adopera la nozione di popolo-nazione, che chiamava in causa la peculiarità, la determinazione storica dell’intreccio e della interazione Stato-società civile e alludeva alla costruzione di un nuovo «blocco storico» e perciò di una egemonia alternativa. È interessante rilevare come tale nozione diventi nei Quaderni un ricorrente, se pur spesso implicito, criterio interpretativo delle «forme» e dei «limiti» (com’egli diceva) del Risorgimento italiano e della costruzione dello Stato unitario. La specificità della rivoluzione passiva del Risorgimento italiano risiedeva nella angustia-insufficienza delle «forze progressive», che rendeva possibile la circostanza per cui «il gruppo portatore delle nuove idee non è il gruppo economico, ma il ceto degli intellettuali» e per cui, ad opera di tale ceto, si forma una astratta e separata concezione dello Stato, «come una cosa a sé, come un assoluto razionale» (Q 10, 61, 1360-1, corsivo mio, p.v.): una concezione, in quanto tale, del tutto distaccata dal popolo- nazione.
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‘Tutto il potere ai Soviet!’. Parte quarta
Tredici a due: i bolscevichi di Pietrogrado discutono le Tesi di aprile
di Lars T. Lih
Si veda anche, in calce a questo stesso post, l’appendice ‘Le Tesi di aprile: i bolscevichi mettono le cose in chiaro’
Ovunque e in ogni momento, quotidianamente, dobbiamo mostrare alle masse che sin quando il vlast non sarà trasferito nelle mani del Soviet dei deputati degli operai e dei soldati, non vi sarà speranza di una conclusione a breve della guerra, né possibilità alcuna per la realizzazione del loro programma.
– Sergei Bagdatev così spiegava le sue apprensioni circa le Tesi di aprile di Lenin nel corso della Conferenza di aprile del partito bolscevico.
In quasi tutti i resoconti delle attività del partito bolscevico, nella primavera del 1917, si troverà una frase che afferma quanto segue: le Tesi di aprile di Lenin risultarono a tal punto scioccanti per i membri del partito che, nel corso di una riunione del Comitato di Pietrogrado tenutasi l’8 aprile, vennero respinte con un voto di tredici a due (e un astenuto). Un episodio al quale viene dedicata niente più che una singola frase, ma una frase che, anche solo presa di per sé, costituisce certamente un pugno nello stomaco. Tredici a due! – I bolscevichi dovevano essere rimasti davvero scandalizzati dal nuovo e radicale approccio di Lenin.
Il potere di una buona storia non dovrebbe essere sottovalutato. L’aneddoto sul voto di tredici a due, dopo il rientro di Lenin, si può collocare a giusto titolo accanto a quello sulla presunta “censura” delle sue Lettere da lontano prima del suo ritorno in Russia. Lo statuto di questi due aneddoti quali fatti indiscussi, probabilmente, conferisce alla consueta narrazione del riarmo più sostegno di qualsiasi seria argomentazione. Precedentemente, in questa serie di testi, prendendo in esame l’episodio delle Lettere di Lenin, ho dimostrato come si tratti di un “documento volubile”, che cambia dunque aspetto laddove messo in questione.
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Il proletariato e la rivoluzione comunista nell’epoca del robot
di Giorgio Paolucci
La rivoluzione comunista o sarà opera del proletariato o non sarà e in tal caso sarà la rovina dell’intera società
Nelle aspettative dei suoi cantori, nel suo inarrestabile sviluppo, il progresso tecnico e scientifico avrebbe dovuto sconfiggere la povertà e regalare agli uomini tantissimo tempo libero da dedicare alla cura di sé e del proprio spirito. Per esempio, Keynes, nel suo famoso saggio del 1930 Possibilità economiche per i nostri nipoti, pur mettendo in guardia dai rischi della disoccupazione tecnologica conseguente ai miglioramenti apportati al sistema delle macchine impiegate nella manifattura, era convinto che il maggior problema dei suoi nipoti, vale a dire le generazioni odierne, non sarebbe stato quello economico ma: “ Come impiegare la loro libertà dalle cure economiche più pressanti, come impiegare il tempo libero che la scienza e l’interesse composto gli avranno guadagnato, per vivere bene, piacevolmente e con saggezza.”
Poi, con l’introduzione della microelettronica e dell’informatica nei processi produttivi e gestionali è sembrato davvero che il sogno fosse ormai a portata di mano; è accaduto esattamente il contrario. I lavoratori si sono sempre più impoveriti e i ricchi sono diventati ancora più ricchi. Negli Stati Uniti, per esempio, Walmart “Paga i suoi lavoratori, se includiamo anche quelli part-time 8,80 dollari l’ora. Adesso – suggerisce di fare il professore e segretario del lavoro della presidenza Clinton, Robert Reich - confrontate questo dato con quello del 1955, quando il maggior datore di lavoro degli Stati uniti era la General Motors, che pagava, in media, i suoi lavoratori l’equivalente di quelli che sarebbero 37 dollari oggi.”[1]
Di contro ormai solo otto persone detengono la ricchezza di metà umanità mentre dieci anni fa erano 385.[2]
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Cottarelli, il fascino discreto dell’austerità
di Marta Fana e Lorenzo Zamponi
Ogni domenica appare in prima serata su Raiuno, affabilmente intervistato da Fabio Fazio. Incarna il mito conservatore del "tecnico" che riduce l'economia ad equilibrio dei conti pubblici
Appare ogni domenica sera, in prima serata, su Raiuno. Affabilmente intervistato dall’ingenuo e sornione Fabio Fazio, mostra tabelle, elenca voci di spesa, snocciola dati. Carlo Cottarelli è diventato ormai una presenza fissa sull’ammiraglia della tv pubblica. Recita il suo Angelus finanziario poche ore dopo quello di papa Francesco, segnando la fine del weekend e il ritorno alle preoccupazioni della quotidianità feriale. “L’economia in prime time non si pensava potesse essere un argomento – ha esordito Fazio domenica 21 ottobre – invece si sta comprendendo quanto sia vitale nella vita di ciascuno di noi”. Un progetto didattico, quindi, di informazione scientifica, con l’idea di fare dell’ex commissario della spending review una specie di Piero Angela dell’economia. Una scelta non casuale e rivelatoria. La promozione di Cottarelli a divulgatore economico per eccellenza della tv di stato, voce neutra e autorevole, in quanto “tecnica”, della scienza che governa le vite di tutti, ci dice parecchio sull’idea di economia che domina il dibattito pubblico, sull’ossessione diffusa per i conti pubblici e il rigore di bilancio e sulla completa rimozione di dettagli come lavoro, produzione, moneta, e lo stesso mercato dall’idea di economia pubblicamente discussa in Italia.
L’uomo dei conti
Chi è Carlo Cottarelli e come è arrivato a occupare lo spazio tra Flavio Insinna e Luciana Littizzetto nella domenica sera degli italiani? Laurea a Siena, master alla London School of Economics, incarichi tra la Banca d’Italia e l’Eni, poi nel 1988, giovanissimo, vola a Washington, dove inizia una lunga e fortunata carriera al Fondo Monetario Internazionale, l’istituzione protagonista dei famosi “programmi di aggiustamento strutturale” nel sud del mondo, e più recentemente dell’imposizione di misure di austerità senza precedenti alla Grecia.
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Le mani su Machiavelli. Una critica dell’Italian Theory
di Pier Paolo Portinaro
[È uscito in questi giorni, per Donzelli, Le mani su Machiavelli. Una critica dell’Italian Theory di Pier Paolo Portinaro. Ne presentiamo alcune pagine. «Italian Theory», si legge nel risvolto del libro «è espressione, non priva di ambiguità, che riassumerebbe un presunto tratto comune della filosofia italiana, racchiudendo in un unico orizzonte Machiavelli e Gramsci fino all’operaismo e alla biopolitica. È proprio quest’ultima, invece, oggi, ad aver generato un terreno favorevole al diffondersi di quella postura antipolitica che è esattamente l’opposto della lezione del Segretario fiorentino. Ma alla lezione di Machiavelli può essere più sobriamente ricondotto quel filone di pensiero elitistico che ha accompagnato criticamente la via italiana alla democratizzazione – un altro Italian Style, potremmo dire, quello dei maestri del disincanto democratico: Salvemini, Bobbio, Miglio, Sartori, Pizzorno. È questo altro filo del pensiero politico italiano che Pier Paolo Portinaro ricostruisce nel volume: seguendo il quale, secondo l’autore, l’enigma dell’eterna crisi italiana può essere meglio decifrato, senza ricorrere a troppo inclusive – e impropriamente apologetiche – letture metapolitiche della storia»].
* * * *
[…]. Questo – risulterà evidente fin dalle prime battute – è uno scritto polemico e idiosincratico, di cui è bene circoscrivere fin d’ora le finalità. Non intendo infatti contestare che nei decenni passati molti ingegni italici si siano spesi con serietà e competenza all’interno della comunità transnazionale degli studiosi, quella che un tempo si chiamava «repubblica dei dotti», e per questo abbiano trovato rispettosa e partecipe accoglienza in essa. Né intendo sottostimare il fatto che la straordinaria fioritura della letteratura italiana tra Dante Alighieri e Torquato Tasso abbia creato le condizioni, e non da ieri, per una ricerca multidisciplinare sulla specificità della cultura italiana e della sua forza di proiezione nel mondo. O ancora che autori come Alessandro Manzoni e Giacomo Leopardi siano stati determinanti nel conferire una cifra e una tonalità di pessimismo storico alla letteratura italiana contemporanea.
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Il canone minore
di Giacomo Foglietta
R. Ronchi, Il canone minore. Verso una filosofia della natura, Feltrinelli 2017
Il canone minore. Verso una filosofia della natura di Rocco Ronchi ci pone subito di fronte ad un’idea insolita per chi si occupa di filosofia. La storia del pensiero filosofico conosce un canone ‘maggiore’ ma, al contempo, anche un canone minoritario, una chiave di interpretazione alternativa delle grandi domande teoretiche. Tradizione di pensiero che – sostiene Ronchi senza mezzi termini – sarebbe l’unica a poter fregiarsi propriamente del titolo di filosofia. Per cominciare a capire la proposta di Ronchi può essere utile allora provare a mettere in chiaro di cosa parliamo quando parliamo di canone maggiore. Quali sono e quali sono state le caratteristiche del pensiero filosofico dominante? Se è la filosofia a determinare la natura della modernità, allora per rispondere alla suddetta domanda bisognerà innanzitutto chiedersi che cosa significhi essere moderni in filosofia. Secondo Ronchi la contemporaneità, da Kant in avanti, ha assunto rispetto a questo problema una posizione ben precisa facendo della finitezza la chiave di interpretazione della realtà e della verità. La finitezza come dato immediato e come condizione di accesso all’ente è diventata la cifra della modernità filosofica, la quale ha visto nella millenaria consapevolezza della nostra mortalità, del nostro limite costitutivo, una nuova forma di assoluto. In questo nuovo orizzonte di riferimento la mancanza strutturale dell’essere umano, la sua sottomissione al desiderio, alla limitatezza della ragione, lo identifica quindi come l’unico essere veramente finito e come tale depositario di una comprensione più profonda della verità.
L’alternativa proposta da Ronchi si prefigge allora in prima istanza proprio la messa in discussione di questo dominio della finitezza e, di conseguenza, la messa in discussione dell’eccezione umana. Ronchi sceglie una via antica, frequentata prima di lui da teologi speculativi, filosofi della natura rinascimentali e, in epoca contemporanea, anche da autori pienamente moderni.
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Capitalismo 2018. L’anno delle ricette impossibili e delle paure riemergenti
di Antonio Carlo
1) Bilancio 2017 dagli squilli di tromba al terrore per il crollo prossimo venturo
A) I risultati del 2017. Ripresa solida o recessione in agguato?
Nel 2017 il PIL mondiale cresce del 3,7% con punte del 6,5% (Cina), del 2,4% in USA e nella UE, mentre il Giappone si ferma all’1,8%1 . I primi commenti sono assai positivi, la ripresa è solida, si dice, non più fragile e modesta come si sosteneva per gli anni precedenti, eppure dopo poco il prof. Feldstein, capofila degli economista conservatori americani, osserva che negli USA una nuova recessione è alle porte2 , gli fa eco il noto politologo Bremmer per cui il mondo trema ancora a 10 anni dal crac del 20083 e con lui esponenti del mondo degli affari USA4 . Forse la stroncatura più dura della ripresa posteriore alla crisi del 2008 la leggiamo in un giornale non certo sospettabile di anticapitalismo come “Il Corriere della sera”, con toni degni di un marxista radicale e con argomenti che chi scrive avanza dal 20055 , se non dagli anni ’80 del secolo passato6 . Scrive Salvatore Bragantini: “La causa profonda e negletta della lunga crisi è lo spostamento di ricchezza a danno dei ceti medi che l’ha preceduta. Raghiram Rajan, non un sovversivo né uno sprovveduto, scrisse in Fault Lines (2010) che i 2/3 di tutto il reddito addizionale, prodotto tra il 1977 ed il 2007 in USA è andato al famigerato 1%. Solo lì sono affluiti i guadagni di produttività che prima erano spartiti con i lavoratori dipendenti, via via politicamente indeboliti dalla metà degli anni ’80; essi hanno trovato nella droga del debito il sostegno di un tenore di vita inesorabilmente in calo. Parola di Ben Bernake, governatore della Banca Centrale USA al tempo del crac: “L’origine è indietro nel tempo, decenni di stagnazione dei salari, diseguaglianze …”.
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