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La statizzazione del capitale nell'Anti-Dühring

di Enrico Galavotti

index9076Engels faceva bene a dire nell'Anti-Dühring che “né la trasformazione in società anonime, né la trasformazione in proprietà statale sopprime il carattere di capitale delle forze produttive”. Che cos'è infatti una “società anonima”? È la possibilità di acquistare, da parte di chiunque disponga di capitali, di quote azionarie di una qualsivoglia azienda quotata in borsa.1

Chi compra è già un “capitalista” (anche se non ha un'azienda con operai da sfruttare); lo è perché beneficia indirettamente di un modo di produzione che lo precede nel tempo, e siccome ha fatto sua l'ideologia che lo giustifica, si aspetta che il suo investimento produca interessi significativi. Può anche non far nulla per far maturare questi interessi. Può, se ha un'impresa, affidarne la gestione a manager specializzati. Ma pretende continue rendicontazioni, in quanto, al primo accenno di crisi, vuol poter decidere liberamente sul destino delle proprie azioni. La proprietà quindi può essere suddivisa tra i capitalisti azionari (i cui nomi, peraltro, non sono resi pubblici), di cui hanno voce in capitolo solo i più importanti, quelli che hanno fatto gli investimenti più significativi (il peso delle decisioni è in stretto rapporto alle quote possedute, anche se nelle assemblee generali periodiche s'invitano tutti gli azionisti). La gestione della società è tutta capitalistica.

Lo stesso avviene a livello statale. Quando lo Stato partecipa direttamente allo sfruttamento dei lavoratori, lo fa in nome del capitalismo nazionale, offrendo p.es. capitali per le ristrutturazioni, gestendo imprese troppo grandi per i singoli imprenditori, salvando (o nazionalizzando) situazioni disperate...

E, nel far questo, utilizza le tasse dei cittadini, i quali così vengono sfruttati tre volte: anzitutto dalle imprese presso cui lavorano, relativamente al plusvalore; poi dallo Stato che estorce loro una percentuale esorbitante di tasse dirette e indirette2 ; infine da Stato e imprese insieme (cioè anche da quelle in cui non lavorano), solo perché esse ricevono, a diverso titolo, da parte dello Stato una quota-parte delle tasse di tutti i cittadini.

È uno sfruttamento continuo, quotidiano, il più delle volte del tutto immotivato, i cui protagonisti attivi non sono soltanto le imprese e lo Stato, ma anche gli Enti Locali Territoriali, con le loro tasse supplementari su immobili, sanità, immondizia, fognature..., senza poi considerare che non sempre lo Stato è in grado di garantire servizi efficienti, proporzionati alle tasse che pretende, per cui spesso i cittadini sono costretti a rivolgersi, di tasca propria, a soluzioni private (soprattutto in campo sanitario, previdenziale e anche scolastico).

In Italia il capitalismo, per poter essere vissuto senza finire in un dormitorio pubblico o a mangiare in una mensa della Caritas, esige un reddito familiare per tre persone (una coppia con un figlio in età scolare) di almeno 1.500 euro nette mensili, senza concedersi lussi o vizi di sorta e sempre che non si abbia l'affitto da pagare, perché solo quello porterebbe via la metà dello stipendio. Venire a vivere da noi, senza sapere queste cose, può diventare molto frustrante, che può indurre alla microcriminalità. Come minimo si dovrebbe pensare a una gestione comune del problema abitativo ed alimentare, sfruttando inoltre al massimo le opzioni offerte dai centri assistenziali sparsi nelle varie città, sempre che l'indigenza non sia un fenomeno abbastanza diffuso anche tra i residenti, nel qual caso è quasi impossibile evitare le cosiddette “guerre tra poveri”.

Insomma, oggi è difficile emigrare, privi di reddito, là dove il costo della vita è molto alto. Non siamo più al tempo dell'emigrazione degli europei verso il continente americano o verso il Canada, l'Australia... Oggi se gli europei emigrano verso territori dove il costo della vita è alto, lo fanno perché hanno già delle competenze da spendere (i professionisti oppure i giovani neolaureati, sostenuti finanziariamente dalle famiglie). Oppure abbiamo europei che emigrano verso Paesi dove il carovita è decisamente inferiore al nostro, ma si tratta di pensionati che vogliono star bene nell'ultima parte della loro vita con una pensione modesta, peraltro molto meno tassabile.

Tuttavia non so se Marx avrebbe detto una frase del genere: “La proprietà statale delle forze produttive non è la soluzione del conflitto, ma racchiude in sé il mezzo formale, la chiave della soluzione”. Engels a volte non si capisce: da un lato vuol far vedere che una statizzazione di talune imprese, fatte da uno Stato capitalistico, non ha nulla a che fare col socialismo vero e proprio; dall'altro però vuol dimostrare che se c'è questa esigenza, allora vuol dire che il capitalismo privato è arrivato al capolinea; dall'altro ancora non è contrario a una pianificazione statale dell'economia; poi però parla di “estinzione progressiva dello Stato” a vantaggio dei lavoratori che si autoamministrano. Quest'ultima cosa era già stata detta da Marx, per il quale aveva senso tenere in piedi lo Stato solo quel tanto che bastava per reprimere una possibile reazione furiosa della borghesia, una volta che la si è espropriata dei propri beni; ma, fatto questo, avrebbe dato ragione a Bakunin: la proprietà va “socializzata” tra i produttori, e non tanto “statalizzata”, tanto il “piano” va comunque fatto.

Engels invece sembra considerare il capitalismo monopolistico-statale come l'anticamera del socialismo statale. Ai suoi occhi la necessità di statizzare il capitalismo era un segno che la borghesia, coi suoi interessi privati, aveva perduto la propria autonomia sociale: era diventata una classe inutile, parassitaria, incapace di gestire le grandi forze produttive messe in moto.

In realtà non c'è alcuna chiave di soluzione dell'antagonismo sociale nella statizzazione del capitale. Semmai si potrebbe dire che quando il capitalismo giunge a questo livello, la lontananza dal socialismo è massima: è il perielio rispetto all'afelio. Nel senso che il capitale, per fronteggiare le proprie crisi sistemiche sempre più gravi, si dà una parvenza di eticità, affidando la gestione dei propri interessi a un'entità astratta, fatta passare come interclassista, basata sul diritto costituzionale, quello di tutti i cittadini, a prescindere dalle loro posizioni politiche. Lo Stato diventa lo strumento del grande inganno del capitale che non vuole cedere alle istanze emancipative del lavoro. L'Italia ha sperimentato questa grande illusione nel ventennio fascista e la Germania nel decennio nazista.

Tuttavia l'occidente non è abituato, per cultura e mentalità, a dare così tanta importanza allo Stato. Ecco perché il futuro del capitalismo dovrà essere gestito dai Paesi asiatici. È vero, in Europa occidentale tutto il socialismo teorico è sempre stato profondamente statalista: non solo perché era convinto di poter andare al potere seguendo la via legale e parlamentare, ma anche perché ha sempre votato i crediti richiesti dai governi borghesi per favorire il colonialismo e le guerre (regionali e mondiali), in nome di una idea di nazionalismo e di patriottismo identica a quella della destra più becera.3 Ma l'insieme degli europei, per ragioni storiche, non sono “statalisti”; semmai sono “nazionalisti”, avendo tradizioni, culture, lingue e religioni molto diverse, anche se gli imponenti flussi migratori del Novecento hanno ormai rimesso tutto in discussione. Gli europei sono fondamentalmente “individualisti”, sin dal tempo della loro nascita, come civiltà schiavistica, nel mare Egeo. Se non fossero stati così, non avrebbero potuto produrre la più grande rivoluzione tecnologica della storia.

La statizzazione del capitale è la faccia pseudo-etica che la borghesia si vuol dare per poter difendere meglio la proprietà privata. Ma se tra Stato e borghesia privata prevalgono, in ultima istanza, gli interessi di quest'ultima, la finzione, prima o poi, si smaschera sola. Ecco perché la Cina è destinata a sostituirsi all'occidente nello sviluppo del capitalismo: lì le tradizioni statalistiche hanno radici addirittura confuciane. Se non si oppone a tale mistificazione “asiatica” la proprietà “sociale” (non “statale”) dei mezzi produttivi, il socialismo statale di mercato rischia di diventare l'arma vincente della borghesia per i prossimi secoli. Le prove generali di ciò il governo cinese, da circa vent'anni, le sta facendo in Africa e nei territori più poveri dei pianeti, con tante risorse naturali ancora da sfruttare.

Dove poi Engels vedesse tutta questa statizzazione del capitale non è dato sapere. Ai suoi tempi gli Stati aiutavano gli imprenditori privati a diffondersi nel mondo attraverso l'imperialismo, ma non entravano direttamente nella gestione dell'economia più produttiva. Se si escludono i due ultimi paesi europei che avevano compiuto l'unificazione nazionale in nome degli interessi borghesi, e cioè l'Italia e la Germania, per i quali lo Stato aveva una certa importanza, bisogna dire che nell'occidente industrializzato gli imprenditori erano in grado di provvedere da soli alle loro esigenze economiche. Italia e Germania, essendo ancora troppo deboli nei confronti di Francia, Inghilterra, Stati Uniti..., avevano bisogno del protezionismo statale, che imponesse dazi significativi alle merci straniere; avevano bisogno di crearsi prima un mercato interno, di aiuti finanziari e di altro genere, da parte dello Stato, per far decollare un sistema produttivo rimasto al palo per troppo tempo: in Germania perché la riforma luterana aveva cercato un compromesso con l'aristocrazia fondiaria, rifiutando di diventare calvinistica, cioè nettamente borghese; in Italia perché la Controriforma aveva bloccato qualunque sviluppo economico moderno.

Probabilmente Engels si riferiva proprio a questi due Paesi, anzi soprattutto al suo Paese d'origine, la Germania, da lui considerata molto più efficiente (razionale) di qualunque altro Paese europeo. L'Italia – lo sappiamo – è sempre stato un Paese troppo dominato dal clero, troppo politicamente anarcoide: non per nulla il socialismo nascerà dalla crisi dell'anarchismo. Nella sua Germania invece, creata dalla Prussia militarista, il socialismo aveva già fatto ingresso in veste utopistica quando lui era giovane, mentre ora, proprio grazie a lui e ovviamente agli studi di economia politica di Marx, si presentava in veste “scientifica”.

Sia Marx che Engels avevano contatti diretti con molti socialisti del loro Paese, alcuni intenzionati a ribaltare il sistema, altri, la maggioranza, favorevoli al solo parlamentarismo: e saranno questi ultimi a dirigere la II Internazionale.4 In quella loro fase storica, vissuta in Inghilterra, i fondatori del cosiddetto “socialismo scientifico” erano diventati molto meno rivoluzionari che nel periodo delle grandi battaglie di trent'anni prima. Erano favorevoli a una transizione più o meno indolore al socialismo, che passasse anche attraverso le istituzioni statali. Forse è stato per questa ragione che quando Engels vide in Germania una certa statizzazione del capitale, se la immaginava come l'anticamera borghese del socialismo.

In realtà prima che passi l'idea di un intervento esplicito dello Stato nell'economia privata, ci vorranno ben due guerre mondiali. Negli Stati Uniti, p.es., si dovrà attendere la profonda crisi del 1929. L'idea di “Welfare State” s'imporrà soltanto a partire dal secondo dopoguerra, in risposta alla vittoria del socialismo stalinista sul nazismo hitleriano. Questo per dire che la statizzazione del capitale è soltanto un mezzo in più che il capitale si dà per risolvere le proprie crisi irrazionali, ma è un'arma (pseudo-democratica) usata solo in extremis, di cui ci si vuole liberare quanto prima.

La borghesia occidentale, per ragioni storiche, non ama essere controllata, quando esercita i propri affari, da alcuna istituzione di potere. Lo Stato viene sempre più considerato come un salvadanaio da utilizzare nelle situazioni di emergenza. Le tasse dei cittadini servono proprio per tamponare le falle create da un'imprenditoria irresponsabile, la quale vuole sì uno Stato forte, ma non nei confronti di se stessa. Lo Stato serve soltanto per “socializzare le perdite”, confermando l'idea che i profitti vanno tenuti privati. Di qui i colossali debiti pubblici di alcuni Stati occidentali (Stati Uniti, Giappone, Italia...). In Francia e in Gran Bretagna il debito pubblico non è enorme per il semplice fatto che questi due Paesi stanno ancora beneficiando, sul piano economico, del loro grande impero coloniale del passato. La Germania, che pur non ha mai avuto un vero impero coloniale, non ha un debito del genere perché qui lo Stato vuole controllare l'economia: questo è forse il Paese capitalistico che, nella gestione dell'economia, assomiglia di più alla Cina, con la differenza che quest'ultima, approfittando del fatto che la propria borghesia è ancora debole, fa coincidere lo Stato col partito unico, sedicente “comunista”.

In Italia lo Stato sociale è meno forte che in Germania e in Cina perché qui la borghesia, per tradizione storica, ha sempre avuto uno sviluppo considerevole a livello di micro-imprese, spesso a gestione familiare.5 Queste innumerevoli imprese (oltre 4,2 milioni, cioè il 95% del totale!), che danno all'Italia una configurazione sociale di tipo anarcoide, tendenzialmente avrebbero bisogno di un maggiore appoggio statale che le aiutasse p.es. nel commercio estero. Ma in Italia lo Stato è “sociale” solo per quanto riguarda la scuola, la sanità e la previdenza: per tutto il resto è visto solo come una sanguisuga, una fonte perenne di corruzione, un carrozzone burocratico e parassitario, poco efficiente sul piano amministrativo. D'altra parte non potrebbe essere diversamente: uno Stato che, per tradizione politica, vuole essere “centralista”, senza concedere nulla al federalismo, non può indirizzare in maniera intelligente un'economia capitalistica di 60 milioni di abitanti. La Germania, che pur ne ha 20 milioni più di noi, può farlo, proprio perché ha scelto la strada del federalismo: le decisioni vanno decentrate quando la realtà diventa molto complessa. Anche il Giappone, che pur ha uno Stato centralizzato come il nostro, sta provvedendo a realizzare il federalismo fiscale (spinto, in questa decisione, dalla lunga crisi economica degli anni Novanta e dall'enorme accumulo del debito pubblico).

In Italia si è convinti che con un debito pubblico così gigantesco (circa 35.000 euro a testa, inclusi i neonati), un qualunque federalismo porterebbe lo Stato alla bancarotta, poiché si pensa che le Regioni più ricche abbandonerebbero quelle più povere al loro destino. In realtà il federalismo potrebbe essere vissuto per gestire meglio il debito pubblico, da ripartirsi tra le Regioni in rapporto al loro prodotto interno lordo e in rapporto al numero degli abitanti. Lo Stato dovrebbe lasciare alle Regioni ampia autonomia, nel senso che esse potrebbe accollarsi l'onere del suddetto debito, chiedendo in cambio di pagare molte meno tasse allo Stato. Se la Regione fosse messa in grado di autogestirsi, i propri abitanti diventerebbero più responsabili, starebbero più attenti a come le istituzioni usano le risorse comuni. E la smetterebbero d'incolpare lo Stato per ogni cosa che non funziona.

In Italia il debito pubblico viaggia al 132% del PIL (in Germania è la metà): nessun governo è mai stato in grado di trovare misure efficaci per ridurlo in maniera progressiva. Andando avanti di questo passo, la prospettiva è quella di fare la fine della Grecia, ove si tocca quota 180% (da notare che, proprio per questa ragione, tutti sono convinti ch'essa abbia meritato d'essere strangolata dalle condizioni capestro della UE e del FMI). Senza poi considerare che la pretesa di un equilibrio di bilancio, da parte della UE, non fa che bloccare ulteriormente lo sviluppo capitalistico dei Paesi più indebitati, a vantaggio di quelli che hanno un debito molto più contenuto o delle economie più forti. Il debito nazionale è diventato un'arma di ricatto a livello europeo.

Tuttavia, se non si vuole che l'Italia fallisca, si dovrebbe almeno favorire il federalismo fiscale. In ogni caso non è possibile che agli italiani la UE riduca il potere politico col pretesto che non sanno gestire i loro soldi. Tra riserve assicurative (23,3%), azioni e partecipazioni (22,8%), contanti e depositi a vista (20,6%) gli italiani hanno un patrimonio enorme, che ammonta a 4.228 miliardi di euro, che è il doppio del loro debito. Risparmiamo senza investire. Questo vuol dire che l'enorme debito pubblico è stato causato da governi corrotti e da uno Stato inefficiente.

La UE, invece di minacciare continuamente la nostra sovranità nazionale, dovrebbe chiederci il contrario, cioè di pretendere una maggiore autonomia decisionale. Una parte del debito o anche tutto dovrebbe essere redistribuito a livello regionale, a condizione che gli italiani sappiano darsi gli strumenti per tenere sotto controllo le loro istituzioni. Questo si potrebbe fare facilmente se ci fosse il socialismo. In attesa che si realizzi, si dovrebbe almeno favorire il federalismo, che permette di ridurre le distanze tra cittadini e istituzioni. In Italia la corruzione è soprattutto politica, proprio perché i cittadini sono diventati fatalisti e lasciano che i politici facciano quel che vogliono. A partire dalle Signorie e soprattutto dai Principati di tipo machiavellico, passando per la lunga dominazione spagnola e austriaca, sostenuta dalla Controriforma di un papato assolutistico, per finire con l'autoritarismo dei Savoia, la dittatura fascista e il centralismo paternalistico della Democrazia cristiana, ereditato dalla coppia sciagurata di Craxi e Berlusconi, l'Italia è sempre stata caratterizzata da un'egemonia soffocante della politica, che ha indotto i cittadini a subire con molta rassegnazione i peggiori abusi. Ma in nessun popolo del mondo la pazienza ha dei limiti oltre i quali non sia destinata a trasformarsi nel suo contrario.


Note
1 Giusto per capire l'importanza delle società anonime quotate in borsa: quelle in Svizzera sono meno di 300, ma generano un franco su sei, pagano oltre il 40% del totale delle imposte sulle persone giuridiche e rappresentano direttamente e indirettamente circa 600.000 impieghi.
2 Si pensi solo a quella truffa legalizzata chiamata IVA, che viene fatta pagare unicamente all'acquirente, cioè alla parte più debole nella compravendita, ma anche a quelle tasse assurde relative alle successioni ereditarie, con le quali lo Stato vuol “punire” chi gli impedisce d'incamerare dei beni immobili quando mancano gli eredi.
3 I socialisti riformisti si son sempre preoccupati di non apparire antinazionalisti o antipatriottici. All'origine di questo atteggiamento avverso all'internazionalismo proletario sta l'interpretazione di Bernstein relativa al passo del Manifesto in cui è scritto che i proletari non hanno patria: non ce l'hanno perché sono messi ai margini dalla borghesia, non perché la rifiutano come principio; con le lotte se la possono guadagnare e anche difenderla meglio della borghesia dai nemici esterni. Così Bernstein. D'altra parte la socialdemocrazia tedesca usò proprio il testo di Engels, Socialismo in Germania (1891), per giustificare l'assenso ai crediti di guerra del 4 agosto 1914. La motivazione ideologica usata in quel momento fu quella di dover combattere l'autocrazia zarista. In realtà già nel 1904 i deputati socialisti si erano astenuti dal voto sui crediti di guerra chiesti dal governo per reprimere la ribellione nelle colonie africane; e nel 1913 li avevano approvati per evitare il ricorso a nuove imposte indirette. Analogo atteggiamento opportunistico del socialismo si verificò in molti altri Paesi europei.
4 In Germania vi furono scioperi di massa dopo la disgregazione dell'artigianato e dell'economia domestica avvenuta negli anni 1830-40. La stagnazione terminò intorno al 1844; poi, nel periodo 1869-73, fu la volta della classe operaia ad essere molto combattiva. Infine, con l'inizio della Grande depressione, che durò sino al 1896, inaugurando la fase imperialistica del capitalismo, i socialisti preferirono l'opzione parlamentare, salvo il breve episodio insurrezionale degli spartachisti subito dopo la I guerra mondiale.
5 Le microimprese, come noto, non hanno una vera progettualità economica e finanziaria, vivono alla giornata, in continua emergenza. È facile che l'imprenditore concentri su di sé tutte le funzioni aziendali. La ricerca di nuovi clienti, sia nazionali che esteri, è spesso affidata al caso e ad attività promozionali di basso costo, anche perché tutto ruota intorno ai prodotti, che in genere sono di ottima qualità, artigianali nella stragrande maggioranza e con poche modifiche negli anni. In un mercato globalizzato come quello attuale il rischio che vengano subissate dalla concorrenza straniera è molto forte.

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Enrico Galavotti
Saturday, 17 November 2018 19:02
È impossibile parlare di Stato in astratto. Lo Stato è stato inventato dalla borghesia. Lei gli ha dato una configurazione astratta per far credere che fosse interclassista.
Il socialismo reale non fece che utilizzare questa configurazione facendo credere che la socializzazione dei mezzi produttivi andasse fatta come “statalizzazione”. E così, invece di una classe economica, la borghesia, dominava un ceto politico e burocratico, i dirigenti del partito e i suoi funzionari periferici.
Questo socialismo è crollato perché non era democratico, indipendentemente dalla volontà dei singoli dirigenti del Pcus, che da Krusciov in poi sono stati sicuramente più umani che al tempo di Stalin, ma non per questo erano riusciti a risolvere il problema di fondo della democrazia.
Un socialismo democratico deve per forza essere locale e autogestito. Non vedo alternative. Quello mercantilistico cinese è una parodia di socialismo, anche se probabilmente tra un secolo rimpiazzerà quello privatistico americano ed europeo.
Ma un socialismo locale deve per forza basarsi sull'autoconsumo, altrimenti non potrà mai esistere la democrazia diretta. Non devono esserci entità esterne che dominano sulla comunità locale, siano esse lo Stato o il Mercato.
Qualunque rapporto tra queste comunità va deciso da loro stesse, per affrontare i problemi ad esse comuni.
Quoting Mario Galati:

Il capitalismo di stato, per es. secondo Lenin, non coincide con la nazionalizzazione integrale, nelle mani dello stato, dei mezzi di produzione. In ogni caso, parlare di stato in astratto non ha senso. E qui non intendo ripetermi.
Va bene, ammettiamo pure l'autonomia delle comunità locali. Qual è la dimensione, la cellula di base su cui si fonda l'autonomia? Il mio rione? Il mio quartiere? il mio paese? Il mio comprensorio? La mia provincia? La mia regione? Il mio territorio nazionale? Il mio continente? Escluso il pianeta terra, naturalmente, se no arriviamo allo stato mondiale e allora addio alla cara autonomia "locale".
E queste autonomie locali sono autarchiche o entrano in rapporti con le altre autonomie? E in che rapporti entrano? In rapporti di scambio, con conseguente legge del valore, o di dono di beni di consumo? Di cooperazione produttiva sulla base di accordi? Accordi vincolanti o liberi, precari? Basati sulla legge del valore e sullo scambio o sulla gratuità?
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Mario Galati
Friday, 16 November 2018 21:25
Quanto al leghismo, mi sembra di aver indicato espressamente alcuni punti dell'ideologia e delle parole d'ordine leghiste presenti nell'articolo, seppure all'interno di un preteso contesto socialista. Basta rileggere.
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Mario Galati
Friday, 16 November 2018 21:19
Il capitalismo di stato, per es. secondo Lenin, non coincide con la nazionalizzazione integrale, nelle mani dello stato, dei mezzi di produzione. In ogni caso, parlare di stato in astratto non ha senso. E qui non intendo ripetermi.
Va bene, ammettiamo pure l'autonomia delle comunità locali. Qual è la dimensione, la cellula di base su cui si fonda l'autonomia? Il mio rione? Il mio quartiere? il mio paese? Il mio comprensorio? La mia provincia? La mia regione? Il mio territorio nazionale? Il mio continente? Escluso il pianeta terra, naturalmente, se no arriviamo allo stato mondiale e allora addio alla cara autonomia "locale".
E queste autonomie locali sono autarchiche o entrano in rapporti con le altre autonomie? E in che rapporti entrano? In rapporti di scambio, con conseguente legge del valore, o di dono di beni di consumo? Di cooperazione produttiva sulla base di accordi? Accordi vincolanti o liberi, precari? Basati sulla legge del valore e sullo scambio o sulla gratuità?
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Fabio
Friday, 16 November 2018 20:07
Quoting Eros Barone:
Ancora una precisazione sulla differenza intercorrente tra le posizioni sostenute nei suoi articoli da Enrico Galavotti e condivise da Fabio: avete ragione a protestare per il fatto che io e Mario Galati vi abbiamo equiparati ai leghisti. Questi ultimi, perlomeno, non dissimulano la loro natura schiettamente e decisamente reazionaria, mentre voi avete la pretesa di far passare posizioni analoghe, nella sostanza, a quelle dei leghisti, ricoprendole sotto un falso manto di sinistra e dissimulandole con luccicanti orpelli anti-autoritari.

Ma dove l'avrei scritto o dove l'ha scritto Gavolotti ? Citami o cita Gavalotti invece di inventarti le posizioni dei tuoi interlocutori …
PS : d'accordo che l'autogestione delle fabbriche di per se non vuol dire ecc.ecc.ecc ( hai già scritto tu e siamo d'accordo ).. Ma anche anche con la nazionalizzazione di tutte le fabbriche sotto il controllo di uno Stato , siamo ancora nell'ambito capitalista... Capitalismo di Stato .
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Enrico Galavotti
Friday, 16 November 2018 19:32
Non sto parlando di “autogestione delle fabbriche da parte degli operai”. Questa cosa veniva fatta in certe esperienze del socialismo utopistico e persino all'interno della Jugoslavia di Tito.
Sto parlando di autogestione di tutti i mezzi produttivi fondamentali da parte di quella stessa comunità locale che andrà a consumare i beni che produce. Sto parlando di autoconsumo e di primato del valore d'uso su quello di scambio. Sto parlando di cose che si devono realizzare DOPO la conquista del potere e l'abbattimento del sistema. Il problema maggiore del socialismo russo è stato il DOPO, non il momento della conquista del potere, avvenuta quasi senza spargimento di sangue, salvo la successiva guerra civile scatenata dalla reazione.
Gli operai saranno parte di questa comunità locale al pari di qualunque altro suo componente. Sicché la fabbrica apparterrà a tutti. Tutti dovranno sentirsi responsabili del suo funzionamento tecnico, della sua produzione materiale, del suo rispetto dell'ambiente.
La quantità dei beni, la loro tipologia, la loro qualità andranno decisi da tale comunità locale, all'interno della quale non dovrà esistere alcuna legge del valore, alcun prezzo della merce, alcun mercato in cui la compravendita decide abusivamente un prezzo quasi del tutto indipendente dal suo valore effettivo.
Il valore di un bene dovrà essere stabilito non in maniera economica o quantitativa, in rapporto al tempo di lavoro socialmente necessario, ma in maniera qualitativa, ontologica, in rapporto all'effettivo bisogno che è in grado di soddisfare. Un bisogno che non potrà essere solo materiale ma anche culturale, perché sarà il bisogno dell'intera comunità, prescindendo dal fatto che un singolo membro consumi o non consumi un determinato bene.

Quoting Eros Barone:

L'autogestione, ossia le fabbriche gestite dagli stessi operai, possono essere entro la vecchia formazione, come osserva Marx, un primo segno di rottura di quella formazione (quantunque solo nel senso che i lavoratori, come associazione, sono capitalisti di se stessi). Tuttavia, l'autogestione riflette, e non può non riflettere nella sua organizzazione effettiva, tutti i difetti del sistema vigente.
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Eros Barone
Friday, 16 November 2018 18:16
L'autogestione, ossia le fabbriche gestite dagli stessi operai, possono essere entro la vecchia formazione, come osserva Marx, un primo segno di rottura di quella formazione (quantunque solo nel senso che i lavoratori, come associazione, sono capitalisti di se stessi). Tuttavia, l'autogestione riflette, e non può non riflettere nella sua organizzazione effettiva, tutti i difetti del sistema vigente. Qui si manifestano due linee fondamentali: una è la linea della lotta di classe, il riconoscimento del valore dell'autogestione come strumento della lotta di classe e la determinazione delle condizioni nelle quali le fabbriche autogestite possano effettivamente avere una tale funzione e non rimanere semplici imprese commerciali. In effetti, le fabbriche autogestite in sé non sono affatto organizzazioni di classe (come sono, ad esempio, i sindacati) e la loro importanza è determinata dall’uso politico che se ne fa. E' dunque un’importanza limitata, che serve a mettere in guardia contro le illusioni sul significato dell'autogestione ed ha come scopo quello di spiegare alle masse i loro compiti effettivi: la conquista del potere politico e la trasformazione dei mezzi di produzione e di scambio in proprietà sociale. L’altra è la linea
piccolo- borghese, che tenta di oscurare il problema della funzione dell'autogestione nella lotta di classe del proletariato, che estende l’importanza dell'autogestione oltre i limiti di questa lotta (confondendo, quindi, il punto di vista proletario e quello padronale sull'autogestione), che enuncia il suo significato con frasi così vaghe che anche un riformatore borghese, ideologo dei padroni progressisti grandi e piccoli, può accettarlo. Così, l'autogestione viene esaltata come una variante della "terza via" e viene presentata come una panacea sociale con frasi nebulose sulla trasformazione delle unità produttive autogestite da unioni di singoli individui in federazioni generali di associazioni, atte a preparare la 'socializzazione' dei mezzi di produzione. Pertanto, con il termine di autogestione si può intendere la trasformazione della proprietà in proprietà sociale, ma si può anche intendere, con gli ideologi del piccolo proprietario, qualsiasi misura parziale, qualsiasi riforma che si situi nel quadro del capitalismo, cominciando dalle fabbriche e dalle cooperative contadine fino ai bagni municipali e ai cessi pubblici. In realtà, il funzionamento della produzione e dello scambio futuri, preparato fin d’ora dall'autogestione, potrà aver luogo solo dopo l’espropriazione dei capitalisti. Il grande Stato centralizzato, distruggendo tutte le arcaiche barriere medievali, di casta, strettamente locali, confessionali, delle micropatrie ecc., è un enorme progresso storico sulla strada che conduce alla futura unità socialista del mondo intero. Il centralismo democratico nelle questioni economiche e politiche fondamentali viene sempre confuso, ad opera degli anarchici e dei social-liberisti, con l’arbitrio e con il burocratismo, ma non solo non esclude l’autogoverno locale e l’autonomia delle regioni in cui esistano particolari condizioni economiche e di vita, una composizione nazionale particolare ecc., ma esige viceversa, necessariamente, l’uno e l’altra. In conclusione, la superiorità dell'economia pianificata rispetto all'economia capitalistica consiste nel fatto che sostituisce la nozione di redditività massima di ciascuna azienda con la nozione di efficienza massima globale degli investimenti della comunità nazionale. Ma vi è di più: a proposito del centralismo democratico come forma istituzionale dello Stato socialista, Lenin, rifacendosi allo scritto di Engels del 1891 ("Per la critica del progetto di programma del partito socialdemocratico", in Marx-Engels,"Opere scelte", Editori Riuniti, Roma 1969, pp. 1165-1179), si pronuncia per il "centralismo democratico" e per la "repubblica una e indivisibile", in cui vede la migliore garanzia dell'indipendenza della nazione. Rifiutandosi di "eludere la questione nazionale", egli respinge la repubblica federativa e, sulle orme di Engels, riafferma la sua scelta "in favore della repubblica unitaria, democratica, centralizzata". Dopodiché aggiunge e precisa:"Ma Engels non concepisce affatto il centralismo democratico nel senso burocratico dato a questa nozione dagli ideologi borghesi e piccolo-borghesi, compresi, fra questi ultimi, gli anarchici. Per Engels il centralismo non esclude affatto una larga autonomia amministrativa locale, la quale, mantenendo le "comuni" e le regioni volontariamente l'unità dello Stato, sopprime recisamente ogni burocrazia e ogni 'comando' dall'alto" ("Stato e rivoluzione" in Lenin,"Opere scelte", Editori Riuniti, Roma 1965, pp. 906-907). Ancora una precisazione sulla differenza intercorrente tra le posizioni sostenute nei suoi articoli da Enrico Galavotti e condivise da Fabio: avete ragione a protestare per il fatto che io e Mario Galati vi abbiamo equiparati ai leghisti. Questi ultimi, perlomeno, non dissimulano la loro natura schiettamente e decisamente reazionaria, mentre voi avete la pretesa di far passare posizioni analoghe, nella sostanza, a quelle dei leghisti, ricoprendole sotto un falso manto di sinistra e dissimulandole con luccicanti orpelli anti-autoritari.
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Fabio
Thursday, 15 November 2018 18:56
Pienamente d'accordo con Galavotti ; e non si capisce dove Eros Barone e Mario Galati leggano elogi al leghismo … Se si dicono delle banalità , cioè che Marx è contro lo Stato ( certo , c'è la fase di transizione dove lo Stato ecc.ecc. ) , si vuole fare un discorso internazionalista , non incentivare una federazione di piccole comunità , di piccole patrie xenofobe ( dove l'hanno letto ? boh ) . Che sono il contrario dell'internazionalismo marxiano . Non si capisce che senso abbia inventarsi il discorso dei propri interlocutori per darsi ragione..
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Enrico Galavotti
Thursday, 15 November 2018 16:48
Eros Barone, questa cosa di cui parli dove mai è esistita dal 1917 ad oggi? Sotto il socialismo realizzato il centralismo è sempre stato gestito in maniera burocratica se non autoritaria, proprio perché diversamente non avrebbe potuto essere. Lo Stato socialista o il socialismo statale non si fida della società civile: la vuole sottomessa. È uno Stato, nel miglior dei casi, paternalistico, come quello al tempo della stagnazione sovietica.
Quando parlo di socialismo autogestito non intendo riferirmi ai leghisti piccolo-borghesi, che non rinuncerebbero MAI alla proprietà privata dei principali mezzi produttivi, ma a quelle esperienze di comunismo anteriori alla nascita delle civiltà antagonistiche.
Questo per dirti che dobbiamo ripensare completamente il cosiddetto “comunismo primitivo”, come appunto stava facendo Marx, cogli studi etno-antropologici, poco prima di morire. In quei manoscritti inizia ad attribuire al valore d'uso un primato decisivo sul valore di scambio.
Leggilo tutto “Cinico Engels” http://www.socialismo.info/wp-content/uploads/2018/10/cinico-engels.pdf Cartaceo lo trovi in Amazon.
Quoting Eros Barone:

La lunga citazione mi sembra indispensabile in quanto esprime nel miglior modo possibile l’aspetto principale della questione trattata nell’articolo: un aspetto che, essendo del tutto assente nella trattazione che tale articolo svolge, ne determina la sterilità cognitiva e il carattere volgarmente ideologico (nel senso della “falsa coscienza” localistica, regressiva ed autoritaria del federalismo filo-leghista), come ha ben sottolineato nei suoi ampi ed articolati commenti Mario Galati. Dunque, «la proprietà statale delle forze produttive non è la soluzione del conflitto, ma racchiude in sé il mezzo formale, la chiave della soluzione», afferma Engels con l’abituale rigore e con una chiarezza esemplare. Detto in altri termini, la statalizzazione delle forze produttive è il primo passo per giungere alla socializzazione delle forze produttive e risolvere, seguendo questo processo storico-dialettico, una delle contraddizioni fondamentali - e, nella fase di transizione, quella principale - del modo di produzione capitalistico: la contraddizione tra la pianificazione nella fabbrica e l’anarchia nel mercato (contraddizione che si risolve estendendo il lato dialetticamente progressivo, cioè la pianificazione, a tutta la società). Così, la «regolamentazione socialmente pianificata della produzione», cioè la pianificazione socialista, pur non determinando da sola il passaggio alla fase comunista (vi sono infatti più contraddizioni di cui occorre tener conto!), ne è la condizione di base essenziale. La pianificazione socialista appare quindi come la spina dorsale di una società nuova: espressione di una libertà conquistata e mezzo per consolidarla ed estenderla senza posa. Una società, per dirla con Gramsci, in cui tutti dirigono o controllano chi dirige. In conclusione, il massimo della centralizzazione statale (laddove questa è indispensabile per mettere fine a quello “sviluppo ineguale” del sistema capitalistico che i fautori dell’autogestione e del federalismo vorrebbero perpetuare, cristallizzando in forme cinesi la forbice tra regioni ricche e regioni povere di una nazione), insieme con il massimo del controllo popolare e del decentramento (laddove questi sono altrettanto indispensabili per coinvolgere tutti i produttori nella pianificazione nazionale ed elevare la loro coscienza in quanto individui che sono “esseri sociali”). La pianificazione diviene perciò, in una società socialista in marcia verso il comunismo, il principio razionale di ogni scelta di vita e l’espressione della massima libertà compatibile con l’allargamento della frontiera del ricambio organico tra natura e società umana.
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Enrico Galavotti
Thursday, 15 November 2018 16:33
Non è vero che il centralismo può essere democratico o burocratico in astratto. Quello democratico serve per compiere la rivoluzione, perché contro il sistema ci vuole un partito organizzato militarmente, altrimenti non si vince (questa la lezione di Lenin). Ma subito dopo la rivoluzione fu proprio Lenin a dire che il governo sovietico stava rischiando la burocratizzazione. Solo che, essendo alle prese con la guerra civile e l'interventismo straniero, avendo subito un attentato di non poco conto, ed essendo stato colpito da un primo ictus nel 1922, non fece in tempo a porre le basi per scongiurare questa deviazione, di cui gli stalinisti, cioè i marxisti dogmatici, seppero approfittare.
Il leghismo piccolo-borghese è quello che NON VUOLE la socializzazione dei mezzi produttivi, ma solo un maggior potere della borghesia a livello locale. Non c'entra niente col socialismo democratico e autogestito.
Quoting Mario Galati:

Il solito P.S.: ma è un caso se nell’articolo che commentiamo il socialismo “ecologico” “locale” “autogestito” e “democratico”, non centralista, finisce per rivelarsi leghismo piccolo borghese?
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Enrico Galavotti
Thursday, 15 November 2018 16:20
È proprio questo il punto, che dobbiamo smettere di pensare a un'organizzazione centralizzata che “governa” la società. La rivoluzione politica è solo uno strumento che deve permettere alla società di “autogestirsi”, in quanto sin dai tempi della nascita dello schiavismo non è più in grado di farlo. Qualsiasi entità esterna alla società, sia essa lo Stato o anche solo il mercato, va tolta di mezzo, progressivamente ma con decisione.
Il che non vuol dire che le varie comunità locali debbano restare chiuse in se stesse, ma vuol dire che se esse si danno un organismo che le sovrasta, deve essere in via temporanea, per risolvere problemi specifici, trasversali alle varie comunità. Non può esserci un'entità ipostatizzata, astratta, che necessariamente diventa burocratica, a prescindere da qualunque volontà soggettiva.
Il giovane Marx non era affatto centralista. Basta leggersi la sua Critica della filosofia hegeliana del diritto, dove dice che la liberazione dell'uomo non dipende da una partecipazione politica all'attività dello Stato, ma da un rivolgimento sociale che porti all'autogoverno, dove la direzione stessa è espressione della comunità.
Il centralismo va bene nel momento in cui si fa la rivoluzione e si combatte la reazione delle classi privilegiate, ma non funziona dopo la fine della guerra civile. Abbiamo già visto l'esempio del socialismo reale.
La grande differenza tra Marx e Bakunin stava proprio nel modo di conquistare il potere, non nel modo di gestire il potere già conquistato e consolidato, tant'è che accettarono gli anarchici nell'Internazionale. Gli anarchici non hanno mai saputo fare alcuna rivoluzione, perché sono refrattari alla disciplina, ma là dove parlano di autogestione e autoconsumo hanno pienamente ragione. Anche perché non c'è modo migliore di rispettare la natura.
Quoting Mario Galati:

Ciò non vuole affatto significare che si distrugge ogni organizzazione generale centralizzata (ho scritto proprio centralizzata. Marx era centralista, e anche Engels. Solo che essere centralisti non vuol dire essere autoritari “dall’alto”
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Eros Barone
Thursday, 15 November 2018 11:27
Dopo aver analizzato il modo di produzione capitalistico che, se ha permesso un grande sviluppo delle forze produttive, si è dimostrato impotente a dominarle per porle al servizio dell’uomo, essendo incapace di assicurarne la crescita se non nel quadro dell’anarchia e dell’irrazionalità imposte dal profitto, Engels mostra che queste forze produttive, «una volta che siano comprese nella loro natura, [...] nelle mani dei produttori associati, possono essere trasformate da demoniache dominatrici in docili serve. [...] Quando le odierne forze produttive saranno considerate in questo modo, conformemente alla loro natura finalmente conosciuta, all’anarchia sociale della produzione subentrerà una regolamentazione socialmente pianificata della produzione. [...] Ma né la trasformazione in società anonime né la trasformazione in proprietà statale sopprime il carattere di capitale delle forze produttive. [...] lo Stato moderno è l’organizzazione che la società capitalistica si dà per mantenere il modo di produzione capitalistico di fronte agli attacchi sia degli operai che dei singoli capitalisti. Lo Stato moderno, qualunque ne sia la forma, è una macchina essenzialmente capitalistica, uno Stato dei capitalisti, il capitalista collettivo ideale. [...] Il rapporto capitalistico non viene soppresso, viene invece spinto al suo apice. Ma giunto all’apice, si rovescia. La proprietà statale delle forze produttive non è la soluzione del conflitto, ma racchiude in sé il mezzo formale, la chiave della soluzione» (cfr. “Antidühring” in “Opere scelte”, Editori Riuniti, Roma 1969, pp. 1032 sgg.). La lunga citazione mi sembra indispensabile in quanto esprime nel miglior modo possibile l’aspetto principale della questione trattata nell’articolo: un aspetto che, essendo del tutto assente nella trattazione che tale articolo svolge, ne determina la sterilità cognitiva e il carattere volgarmente ideologico (nel senso della “falsa coscienza” localistica, regressiva ed autoritaria del federalismo filo-leghista), come ha ben sottolineato nei suoi ampi ed articolati commenti Mario Galati. Dunque, «la proprietà statale delle forze produttive non è la soluzione del conflitto, ma racchiude in sé il mezzo formale, la chiave della soluzione», afferma Engels con l’abituale rigore e con una chiarezza esemplare. Detto in altri termini, la statalizzazione delle forze produttive è il primo passo per giungere alla socializzazione delle forze produttive e risolvere, seguendo questo processo storico-dialettico, una delle contraddizioni fondamentali - e, nella fase di transizione, quella principale - del modo di produzione capitalistico: la contraddizione tra la pianificazione nella fabbrica e l’anarchia nel mercato (contraddizione che si risolve estendendo il lato dialetticamente progressivo, cioè la pianificazione, a tutta la società). Così, la «regolamentazione socialmente pianificata della produzione», cioè la pianificazione socialista, pur non determinando da sola il passaggio alla fase comunista (vi sono infatti più contraddizioni di cui occorre tener conto!), ne è la condizione di base essenziale. La pianificazione socialista appare quindi come la spina dorsale di una società nuova: espressione di una libertà conquistata e mezzo per consolidarla ed estenderla senza posa. Una società, per dirla con Gramsci, in cui tutti dirigono o controllano chi dirige. In conclusione, il massimo della centralizzazione statale (laddove questa è indispensabile per mettere fine a quello “sviluppo ineguale” del sistema capitalistico che i fautori dell’autogestione e del federalismo vorrebbero perpetuare, cristallizzando in forme cinesi la forbice tra regioni ricche e regioni povere di una nazione), insieme con il massimo del controllo popolare e del decentramento (laddove questi sono altrettanto indispensabili per coinvolgere tutti i produttori nella pianificazione nazionale ed elevare la loro coscienza in quanto individui che sono “esseri sociali”). La pianificazione diviene perciò, in una società socialista in marcia verso il comunismo, il principio razionale di ogni scelta di vita e l’espressione della massima libertà compatibile con l’allargamento della frontiera del ricambio organico tra natura e società umana.
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Mario Galati
Wednesday, 14 November 2018 09:02
Lascio Fabio tranquillamente nelle sue convinzioni.
Esplicito meglio una cosa.
Il centralismo può essere democratico o burocratico, come segnalava Gramsci nella sua polemica con Bordiga. I partiti comunisti si organizzavano secondo il modello del centralismo democratico. Il centralismo democratico rappresentava la sintesi dialettica unitaria delle varie posizioni e tra la base e la dirigenza. Centralismo, in questo caso, non equivale affatto a imposizione autoritaria “dall’alto”. Nella polemica con gli anarchici bakuninisti per l'organizzazione dell'Internazionale, Marx respingeva la tesi per cui l'Internazionale dei lavoratori dovesse essere soltanto un centro di corrispondenza, lasciando libere ed autonome le varie organizzazioni locali. Pretendeva che, invece, fosse una organizzazione “centralizzata” (cioè con un centro di convergenza di tutto il proletariato europeo e mondiale, di sintesi e di direzione) politica vincolante, anche oltre lo stesso coordinamento. Si tratta di tesi elaborate intorno a questioni “organizzative”. Ma molti sapranno meglio di me, vista la ricchezza di citazioni che dimostrano, che le questioni organizzative sono anche questioni di merito e dipendono dalle concezioni generali e dal sistema di pensiero.
Faccio un altro esempio circa le distorsioni cui può andare incontro il metodo “citazionista” (quello dei versetti, per intenderci):
“Tale dialettica spingerà un numero sempre più crescente di persone, nel corso della società umana, a riflettere sul fatto che la realizzazione personale può essere possibile solo se le necessità superiori della specie sono accettate come un dovere dell’individuo”.
“Direi che ora gli obiettivi marxisti nel comunismo dovrebbero esser tali da far permettere all’uomo di liberarsi dall’intrappolamento del silenzio della specie, in proporzione alla sua capacità di scorgere la realizzazione individuale nei compiti inerenti all’accettazione del suo posto come membro della specie”.
A chi appartengono le frasi citate? Chi le ha profferite è un organicista, un olista, uno che scambia Marx per un determinista totalitario biologico? Provengono da un rossobruno (visto che oggi è di moda scorgere ovunque rossobrunismo) o da un fascista mascherato?
Sono frasi di Lukàcs contenute nell’intervista pubblicata su questo sito di recente: “Crisi parallele”.
Se prese isolatamente potrebbero (uso il condizionale, perché in realtà, anche in se stesse, sono più complesse di quanto appaiano superficialmente) prestarsi ad una polemica di questo tipo, ma se si inseriscono nella concezione complessiva del suo autore e si sa la cosa elementare che nella concezione del suo autore e del marxismo la specie umana, la natura umana, hanno la peculiarità di essere nella storia e la personalità dell’uomo è concepita come un complesso di relazioni sociali, oltre la pulsionalità inconsciente, una polemica di questo genere sarebbe sciocca (ma tutti i piccolo borghesi desideranti postmodernisti o liberali mascherati da socialisti non mancherebbero di farla o di inorridire). Visto che l’accusa di organicismo e di olismo rivolta al marxismo è ancora di moda tra gli “antitotalitari” liberali (cioè, tra i totalitari liberali, che è la stessa cosa), queste frasi fuori contesto potrebbero essere benissimo utilizzate per sostenere questo genere di accuse.
Mi sbaglierò, ma nell’uso delle citazioni fatto da molti compagni intravedo questo vizio di fondo.
Il solito P.S.: ma è un caso se nell’articolo che commentiamo il socialismo “ecologico” “locale” “autogestito” e “democratico”, non centralista, finisce per rivelarsi leghismo piccolo borghese?
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Fabio
Tuesday, 13 November 2018 21:31
Le miei citazioni dimostrano che il tuo Marx non esiste , te lo sei inventato . Sei vuoi sostenere che Marx fosse un centralizzatore statalista, dovresti dimostrarlo . Ma non puoi ; chiunque abbia studiato Marx sa che non puoi . PS. Ho citato Marx , non Bakunin .
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Mario Galati
Tuesday, 13 November 2018 20:01
E cosa vorresti dimostrare con queste citazioni? Intaccano minimamente il mio ragionamento?
La centralizzazione dello stato borghese, in quanto apparato coercitivo speciale separato, non è la Centralizzazione con la maiuscola; non è la centralizzazione della funzione sociale da parte della collettività sociale tutta intera, coerente col pensiero di Marx ed Engels. L'eventuale piano produttivo-sociale non è la risultante di realtà frammentate che si accordano tra loro. L'organizzazione consiliare è, o può essere, piramidale, ma non gerarchica. È unitaria e, in quanto tale, centralizzata. Mi sembra di averle già specificate queste cose. Perché usare citazioni e parole, magari fuori contesto, che, a mio avviso, non confutano affatto ciò che ho scritto e si muovono su di un piano parallelo? Il fatto che Marx critichi lo stato borghese centralizzato, apparato speciale e separato dalla società civile, che impone la sua forza alla società, implica che Marx fosse contro la "Centralizzazione" riferita a qualsiasi organizzazione sociale?
Ma era un caso se Marx ed Engels erano in forte polemica con Bakunin? Adesso vedo riproporre tranquillamente tesi bakuniniane e spacciarle per pensiero di Marx.
Forse dovremmo smettere di salmodiare recitando versetti marxiani assunti in modo superficiale.
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Fabio
Tuesday, 13 November 2018 15:17
Quoting Mario Galati:
Ciò non vuole affatto significare che si distrugge ogni organizzazione generale centralizzata (ho scritto proprio centralizzata. Marx era centralista, e anche Engels.


Sei sicuro ?

“Il potere statale centralizzato, con i suoi organi dappertutto presenti - esercito permanente, polizia, burocrazia e magistratura - trae la sua origine dai giorni della monarchia assoluta, quando servì alla nascente società delle classi medie come arma potente nella sua lotta contro il feudalesimo (..) Dopo ogni rivoluzione che segnava un passo avanti nella lotta di classe, il carattere puramente repressivo del potere dello stato risultava in modo sempre più evidente.”
(Karl Marx, La guerra civile in Francia, 1871, Capitolo III)


“Il fatto che gli operai vogliono instaurare le condizioni della produzione cooperativa , significa soltanto che essi lavorano al rivolgimento delle attuali condizioni di produzione, e non ha niente di comune con la fondazione di società cooperative con l'aiuto dello Stato. Ma, per ciò che riguarda le odierne società cooperative, esse hanno un valore soltanto in quanto sono creazioni operaie indipendenti, non protette né dai governi né dai borghesi”
(Karl Marx, Critica del programma di Gotha, 1875, III)


“Non va dunque assolutamente conferito un peso particolare alle misure rivoluzionarie proposte alla fine della Parte II [del Manifesto ].(..) la Comune ha dimostrato che “la classe operaia non può semplicemente prendere possesso dell'apparato statale così com'è e metterlo al servizio dei propri fini" (si veda: La guerra civile in Francia. Indirizzo del Consiglio generale dell'Associazione Internazionale dei Lavoratori, dove tale concetto è ulteriormente sviluppato).
(Karl Marx e Friedrich Engels, Prefazione all'edizione tedesca del Manifesto del 1872)


“Non è punto scopo degli operai, che si sono liberati dal gretto spirito di sudditanza, di rendere libero lo Stato. Nel Reich tedesco lo "Stato" è "libero" quasi come in Russia. La libertà, consiste nel mutare lo Stato da organo sovrapposto alla società in organo assolutamente subordinato ad essa, e anche oggigiorno le forme dello Stato sono più libere o meno libere nella misura in cui limitano la "libertà dello Stato."
(..)
“l'intero programma è continuamente ammorbato dallo spirito di fede servile nello Stato, proprio della setta lassalliana, o, ciò che non è meglio, dalla fede democratica nei miracoli, o è piuttosto un compromesso tra queste due specie di fede nei miracoli, entrambe ugualmente lontane dal socialismo.”
(..)
“Si domanda quindi: quale trasformazione subirà lo Stato in una società comunista? In altri termini: quali funzioni sociali persisteranno ivi ancora, che siano analoghe alle odierne funzioni dello Stato? A questa questione si può rispondere solo scientificamente, e componendo migliaia di volte la parola popolo con la parola Stato non ci si avvicina alla soluzione del problema neppure di una spanna.”
(Karl Marx, Critica del programma di Gotha, 1875,IV)


“… l'emancipazione politica non è la forma completa e perfetta dell'emancipazione umana. Il limite dell'emancipazione politica si mostra subito in questo, che lo Stato si può liberare da un limite senza che l'uomo ne risulti realmente libero, che lo Stato può essere uno Stato libero, senza che l'uomo sia un uomo libero.”
(Karl Marx, La questione ebraica, 1844)

“Ciò vuol dire forse che dopo la caduta dell'antica società ci sarà una nuova dominazione di classe, riassumentesi in un nuovo potere politico? No.
La condizione dell'affrancamento della classe lavoratrice è l'abolizione di tutte le classi, come la condizione dell’affrancamento del « terzo stato », dell’ordine borghese, fu l’abolizione di tutti gli stati e di tutti gli ordini.
La classe lavoratrice sostituirà, nel corso del suo sviluppo, all'antica società civile una associazione che escluderà le classi e il loro antagonismo, e non vi sarà più potere politico propriamente detto, poiché il potere politico è precisamente il riassunto ufficiale dell'antagonismo nella società civile.”
(Karl Marx, Miseria della filosofia, 1847, Parte II, )

“Una volta sparite, nel corso di questa evoluzione, le differenze di classe, e una volta concentrata tutta la produzione nelle mani degli individui associati, il potere pubblico perderà il suo carattere politico. Il potere pubblico in senso proprio è il potere organizzato di una classe per soggiogarne un'altra. Quando il proletariato inevitabilmente si unifica nella lotta contro la borghesia, erigendosi a classe egemone in seguito a una rivoluzione, e abolendo con la violenza, in quanto classe egemone, i vecchi rapporti di produzione, insieme a quei rapporti di produzione esso abolisce anche le condizioni di esistenza della contrapposizione di classe, delle classi in genere, e così anche il suo proprio dominio in quanto classe.
Al posto della vecchia società borghese con le sue classi e le sue contrapposizioni di classe, subentra un'associazione in cui il libero sviluppo di ciascuno è condizione del libero sviluppo di tutti.”
(Karl Marx e Friedrich Engels, Manifesto del Partito Comunista, 1848, Parte II)
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Mario Galati
Tuesday, 13 November 2018 10:23
Quanto alle presunte incoerenze e contraddizioni nel pensiero di Engels circa la questione dello stato, siamo ai soliti "Da un lato..., ma dall'altro lato...", tipico dell'eclettismo, come osservava e denunciava Lenin.
Poi, dal completo equivoco e dall’incomprensione del concetto di stato, di ciò che potrebbe designare la parola stato, nel pensiero marx-engelsiano (col trattino, volutamente), si traggono conclusioni totalmente errate.
Ciò che si dovrà estinguere è "lo stato nel senso proprio della parola", "lo stato nel suo significato politico". Ossia, nella prima accezione, lo stato come organizzazione separata e coercitiva sorta con la divisione in classi e strumento del dominio di classe, cioè, lo stato come organizzazione che riguarda tutte le società divise in classi della storia e, per quanto riguarda lo stato moderno borghese, nella seconda accezione, lo stato politico, l'organizzazione separata della diade società civile/stato politico, produttore/cittadino, produttore concreto/cittadino astratto. Lo stato moderno capitalistico è una particolare forma storica organizzativa del dominio di classe che va soppressa nel senso della distruzione della macchina statale coercitiva e nel senso della ricomposizione della frattura cittadino/produttore (per Gramsci, i consigli, i soviet, rappresentano proprio la forma dell'organizzazione dei lavoratori come produttori, non più come cittadini astratti).
Ciò non vuole affatto significare che si distrugge ogni organizzazione generale centralizzata (ho scritto proprio centralizzata. Marx era centralista, e anche Engels. Solo che essere centralisti non vuol dire essere autoritari “dall’alto”, per usare una terminologia che non appartiene a loro. Marx, come Engels, non aderisce affatto alle tesi bakuniniane del "dal basso verso l’alto", dell'autonomia locale, dell'autogestione della piccola comunità) della società a favore di cellule autorganizzate locali frammentate che entrano in rapporti volontari tra loro e compongono un “piano” attraverso accordi. Questa non è altro che la riproduzione della contrattualistica borghese su scala diversa. L’organizzazione consiliare, sovietica, è piramidale (ma non in senso gerarchico. E non è una organizzazione rappresentativa, ma organizzazione diretta dei produttori; non è una organizzazione dal basso verso l’alto. Non c’è un basso e un alto nei consigli che si raccordano attraverso i loro delegati nell’organizzazione generale centralizzata) e si conchiude nello “stato mondiale” internazionale, secondo Gramsci.
Gramsci parla di “stato” mondiale. E’ un idolatra statalista? Lo fa anche sulla scia di Marx (“il futuro stato della futura società comunista”). E’ un idolatra statalista anche Marx, oppure è incoerente con la sua stessa idea dell’estinzione dello stato? Certo, anche in questo caso si può ragionare nei termini eclettici del “Da un lato…, ma dall’altro lato…”. Ma se invece di ricavare i concetti dalla terminologia (c’è il termine stato? Allora è ovvio che si parla sempre della stessa cosa, di un Ente, non di una organizzazione storica concreta che va letta nel contesto storico concreto. Questo è il modo di ragionare ipostatico dei critici dell’incoerenza di Engels o di Marx).
Questo stato mondiale, però, non è più l’organizzazione separata coercitiva del dominio di classe, il comitato di affari della borghesia, lo strumento che difende e mantiene le condizioni del dominio capitalistico anche trascendendo l’interesse dei singoli capitalisti e si comporta come capitalista collettivo (è questa la sostanza del capitalismo di stato), la condizione del dispiegarsi dei “liberi” rapporti contrattuali tra privati cittadini, ma è l’autogoverno dei produttori fondata sull’adesione spontanea, possibilmente, alle regole sociali (che non scompariranno a favore dell’autodeterminazione degli “individui” desideranti. Stiano tranquilli i radicali postmodernisti e gli anarchici bakuniniani e liberali incalliti) e non sulla coercizione esterna. C’è bisogno di dire che non si deve immaginare l’adesione spontanea degli individui, il conformismo proposto e non imposto, per dirla con Gramsci, sotto le condizioni strutturali capitalistiche, con tutte le conseguenze che ne conseguono in termini di formazione della personalità e antropologici? Tutto ciò è possibile solo in una società senza classi.
Stabilire la coerenza e la giustezza teorica del pensiero di Marx ed Engels non vuol dire reclamare la realizzazione immediata di un modello. Tra la teoria e la storia, tra la teoria e i modelli organizzativi che si adattano alle concrete situazioni storiche, a parte i modelli di transizione previsti, può esserci uno scarto imprevisto. Ma questo scarto non necessariamente va bollato come incoerenza, errore o, peggio, tradimento. La teoria, però, rimane sempre il faro che illumina il percorso verso l’obiettivo strategico di lungo corso.
A fronte di tutto ciò, le categorie statalismo/antistatalismo perdono ogni valore. Sono categorie che appartengono interamente al pensiero liberale.
Una considerazione sparsa (per tacere d’altro): se il capitalismo, per fronteggiare le sempre più gravi crisi sistemiche, ha bisogno di affidare la gestione dell'economia ad un soggetto collettivo, seppure suo strumento di dominio, vuol dire esattamente ciò che sosteneva Engels: che è arrivato al capolinea (anche se non vi è nessun crollo automatico).
P.S. Vedo che, infine, da tutto questo sforzo teorico per discorrere del giusto socialismo fa capolino un criptoleghismo che non si è affatto estinto ed emerge impetuoso con tutto il suo armamentario di federalismo fiscale, debito pubblico generato da governi corrotti e stato inefficiente, autonomia e responsabilizzazione delle cicale, ecc.
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