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gyorgylukacs

Lenin. Unità e coerenza del suo pensiero

Postilla all’edizione italiana 1967

di György Lukács

Originariamente apparso in italiano in Lenin. Unità e coerenza del suo pensiero, Einaudi , Torino 1970, ora in L’uomo e la rivoluzione, Edizioni Punto Rosso, Milano 2013

jpgQuesto volumetto fu scritto subito dopo la morte di Lenin, senza lavori preliminari, per il bisogno spontaneo di fissare teoricamente ciò che allora mi sembrava essenziale, il centro della sua personalità intellettuale. Perciò il sottotitolo Unità e coerenza del suo pensiero, indicante che intendevo soprattutto riprodurre non il sistema oggettivo, teorico, di Lenin, ma quelle forze motrici, di tipo oggettivo e soggettivo che avevano permesso questa sistemazione, la loro incarnazione nella persona e negli atti di Lenin, senza neppure tentare di spiegare per esteso e per intero questa unità dinamica nella sua vita, nella sua opera.

Se oggi c’è un certo interesse per scritti di questo genere, lo si deve soprattutto alle circostanze particolari di questi tempi. Da quando è cominciata la critica marxista del periodo staliniano, con essa è sorto anche un interesse per le tendenze d’opposizione degli anni venti. Ciò è comprensibile anche se, dal punto di vista teorico e concreto, spesso si commettono eccessi. Per quanto falsa fosse la soluzione data da Stalin e dai suoi seguaci alla crisi allora in corso della rivoluzione, non si può dire che a quel tempo qualcuno offrisse un’analisi, una prospettiva capace di servire anche da orientamento teorico per i problemi delle fasi successive. Chi oggi vuole collaborare utilmente alla rinascita del marxismo deve considerare gli anni venti su un piano puramente storico, come un periodo passato e concluso del movimento operaio rivoluzionario. Solo così potrà valutare giustamente le sue esperienze e i suoi insegnamenti in rapporto alla fase attuale, essenzialmente nuova. Proprio la figura di Lenin, come è regola nel caso di grandi uomini, ha talmente incarnato il suo tempo che i risultati, e soprattutto il metodo delle sue affermazioni e dei suoi atti, possono conservare una determinata attualità anche in circostanze ampiamente mutate.

Questo volumetto è un puro prodotto della metà degli anni venti. Perciò non è certo privo d’interesse come documento sul modo in cui uno strato di marxisti allora non insignificante considerava la personalità, la missione di Lenin, la sua posizione nel corso degli avvenimenti mondiali. Ma non si deve mai dimenticare che le idee qui esposte sono determinate dalle concezioni del momento – comprese le illusioni e le esagerazioni – molto più di quanto ne fosse determinata l’intera opera teorica di Lenin. Già la prima frase rivela questo condizionamento. Essa dice: «Il materialismo storico è la teoria della rivoluzione proletaria». Qui senza dubbio è enunciata una definizione importante del materialismo storico. Ma è altrettanto indubbio che questa non è l’unica, non è la definizione della sua essenza. E Lenin, per il quale l’attualità della rivoluzione proletaria costituiva la norma del suo pensiero e della sua prassi, si sarebbe rifiutato con tutta la passione di racchiudere in una «definizione» così unilaterale e limitata la ricchezza di contenuto e di metodo, l’universalità sociale del materialismo storico.

Una critica simile potrebbe essere rivolta, nello spirito di Lenin, a moltissimi passi di questo volumetto. Ma mi limito ad accennare soltanto alla legittimità e alla direzione di questa critica, giacché spero che lettori spassionati osserveranno da sé questo distacco critico. Mi sembra importante mettere in luce i punti in cui la mia posizione, ispirata dall’opera di Lenin, arriva tuttavia a risultati che anche oggi hanno conservato una certa giustificazione metodologica come momenti del superamento dello stalinismo, e nei quali dunque la devozione dell’autore alla persona e all’opera di Lenin non era sbagliata. Talvolta alcune di queste osservazioni sulla linea di condotta di Lenin contengono infatti, sottintesa, una giusta critica del successivo sviluppo staliniano, quale a quel tempo si esprimeva ormai soltanto in forma dissimulata, episodica, nella direzione del Komintern sotto Zinovev. Si pensi al crescente irrigidirsi di tutti i problemi organizzativi sotto Stalin; indipendentemente dalle circostanze e dalle esigenze della politica, si trasformava l’organizzazione di partito (addirittura richiamandosi a Lenin!) in un feticcio immutabile. Qui è citato l’ammonimento di Lenin: «Non è lecito separare meccanicamente il fattore politico da quello organizzativo», e si conclude, nello spirito di questa dinamica politica leninista: «Ogni dogmatismo nella teoria e ogni irrigidimento nell’organizzazione è fatale per il partito. Perché, come Lenin dice, “Ogni nuova forma della lotta, che comporta nuovi rischi e nuovi sacrifici, ‘disorganizza’ inevitabilmente le organizzazioni che non sono preparate a questa forma di lotta”. È dovere del partito, anche – e particolarmente – in rapporto a se stesso, di percorrere in modo libero e consapevole la strada necessaria, di trasformarsi prima che il pericolo della disorganizzazione si faccia acuto e di agire in questo modo sulle masse, proprio nel senso di trasformarle e di spingerle avanti». Oggettivamente, senza dubbio, a quel tempo questa non era più che una schermaglia durante la ritirata che la concreta mobilità rivoluzionaria degli anni decisivi doveva compiere di fronte all’avanzare delle uniformazioni e meccanizzazioni burocratiche.

Se però oggi si vuole respingere in tutti i campi il livellamento dogmatico, le esperienze degli anni venti possono dare impulsi fecondi solo per vie indirette, solo se si riconosce il loro carattere di avvenimenti passati. Ma per questo è indispensabile considerare con chiaro occhio critico la diversità tra il periodo in cui viviamo e quello degli anni venti. È ovvio che questa chiarezza critica deve restare operante anche nei confronti dell’opera di Lenin. Per chi dell’intera sua opera non vuol fare una raccolta di dogmi «infallibili», queste osservazioni non diminuiscono affatto la sua grandezza storica. Oggi per esempio sappiamo che la tesi leniniana secondo cui lo sviluppo imperialistico provocherebbe inevitabilmente guerre mondiali ha perso la sua validità generale per il tempo presente. Naturalmente è superata soltanto la necessità dello sviluppo; ma la sua riduzione a possibilità ne modifica tanto il senso teorico quanto, in particolare, le conseguenze pratiche. Allo stesso modo, Lenin generalizzava le esperienze della prima guerra mondiale («quanto è grande il segreto in cui nasce la guerra») anche in riferimento alle future guerre imperialistiche, mentre in seguito si è delineato un quadro affatto diverso.

Ho citato alcuni esempi di questo tipo proprio per mettere in luce il vero carattere peculiare di Lenin, che non ha assolutamente nulla in comune con l’ideale burocratico di una statua staliniana dell’infallibilità. Naturalmente una caratterizzazione così giusta della vera grandezza di Lenin dovrebbe essere già molto diversa da quella contenuta in questo libro. Questo è molto più legato al suo tempo dello stesso oggetto trattato. Negli ultimi anni di vita Lenin previde la conclusione del periodo iniziato nel 1917 con una chiarezza alla quale questa sua biografia non si avvicina neppure.

Tuttavia anche in questa affiora di tanto in tanto un’intuizione della vera fisionomia intellettuale di Lenin, e nelle considerazioni seguenti vogliamo partire da questa ricerca, a quel tempo ancora incerta, della verità. Si è osservato che Lenin negli studi economici non fu uno specialista quali furono, tra i suoi contemporanei, Hilferding e soprattutto Rosa Luxemburg. Eppure fu molto superiore ad essi nel giudicare il periodo come totalità. Questa «superiorità sta nel fatto di essere riuscito – e questa e una impresa teorica senza paragone – a collegare concretamente e organicamente la teoria economica dell’imperialismo con tutte le questioni politiche contemporanee; a fare della struttura economica della nuova fase un filo conduttore per l’insieme delle azioni pratiche in un orizzonte così decisivo». Di ciò si accorsero anche molti contemporanei, che quindi parlavano molto – nemici come pure seguaci – della sua abilità tattica, da «Realpolitiker».

Ma con ciò siamo ancora ben lontani dal nocciolo della questione. Si tratta piuttosto di «una superiorità teorica vera e propria nel giudicare il processo complessivo». In Lenin questa capacità di giudizio fu sempre teoricamente profonda e fondata su ampie basi. La sua cosiddetta «Realpolitik» non era quella di un pratico empirista, ma il culmine pratico di un atteggiamento essenzialmente teorico. Solo che in lui questo culminava sempre nella comprensione dei precisi elementi storico-sociali di ogni situazione in cui occorreva agire. Per il marxista Lenin «l’analisi concreta della situazione concreta non si contrappone alla teoria “pura”, al contrario: è il punto culminante della teoria autentica, il punto in cui la teoria si attua realmente, in cui essa – pertanto – si converte in prassi». Si potrebbe affermare senza esagerazione che nella persona e nell’opera di Lenin ha trovato la più adeguata incarnazione l’ultima e conclusiva tesi di Marx su Feuerbach: finora i filosofi hanno solo interpretato il mondo, si tratta però di mutarlo. Marx enunciò questa esigenza e la soddisfece nel campo della teoria. Egli dette un’interpretazione della realtà sociale, come base teorica appropriata per la sua trasformazione. Ma solo in Lenin – senza abolizione, senza sopraffazione della teoria – questa essenza teorico-pratica della nuova concezione diventò forma operante nella realtà storica.

Certo, in questo libretto si trova solo un timido avvio verso una simile comprensione della vera natura di Lenin. Vi mancavano tanto le motivazioni teoricamente profonde e ampie, quanto il ritratto di Lenin come tipo umano. Anche a tutto ciò qui possiamo soltanto accennare. Nella serie dei rivolgimenti democratici moderni il tipo del dirigente rivoluzionario appare sempre polarizzato: figure come Danton e Robespierre impersonano i due poli nella realtà e nella grande poesia (per esempio in Georg Büchner); gli stessi grandi tribuni popolari della rivoluzione operaia, come Lassalle e Trockij, presentano certi tratti dantoniani.

Solo con Lenin appare qualche cosa di affatto nuovo, un tertium datur di fronte ai due estremi. Lenin possiede, fino nelle reazioni nervose spontanee, la fedeltà ai principi propria dei precedenti grandi asceti della rivoluzione, mentre nel carattere non è neppure sfiorato da un’ombra di ascetismo. È gioviale, ha senso dello humor, gode tutto ciò che la vita gli può offrire, dalla caccia, la pesca, il gioco degli scacchi, fino alla lettura di Puškin e Tolstoj, fino alla devozione verso uomini autentici. Nella guerra civile questa fedeltà ai principi può diventare durezza spietata, ma resta sempre immune da odio. Se è necessario, Lenin combatte le istituzioni – e naturalmente anche gli uomini che le rappresentano – fino alla distruzione completa. Ma la considera una necessità umanamente spiacevole, inevitabilmente oggettiva, alla quale – nella data situazione concreta – non può sottrarsi. Gorkij ha registrato le parole assai caratteristiche da lui dette dopo avere ascoltato l’Appassionata di Beethoven: «“Non conosco nulla di più bello dell’Appassionata e l’ascolterei ogni giorno. È una musica stupenda, sovrumana! Penso sempre con orgoglio e forse con ingenuità: ecco i miracoli di cui sono capaci gli uomini!” Poi, socchiusi gli occhi, aggiunse con un sorriso malinconico: “Ma non posso ascoltare troppo spesso la musica. Agisce sui nervi, vien voglia di dire stupidaggini e di carezzare gli uomini che, vivendo in un sudicio inferno, riescono a creare tanta bellezza. Ma oggi non si possono fare carezze a nessuno. Vi sbranerebbero la mano. Oggi bisogna picchiare sulle teste, picchiare senza pietà, anche se sul piano ideale siamo contrari a ogni violenza. Ehm, ehm, il nostro e un compito diabolicamente difficile”».

Anche nel considerare una dichiarazione così spontanea e sentimentale di Lenin si deve sempre tenere presente che non è una sortita degli istinti contro la sua «condotta di vita», ma che anche qui egli segue con rigore i suoi imperativi ideologicamente elaborati. Alcuni decenni prima di questo episodio il giovane Lenin scrisse articoli polemici contro i narodniki e i loro critici marxisti legali. Nel giudicare questi ultimi egli parla dell’oggettivismo da loro osservato nel dimostrare «la necessità di una data serie di fatti» e dice che ne deriva facilmente il pericolo di «finire nel punto di vista dell’apologeta di questi fatti». L’unico rimedio gli sembra essere la maggiore coerenza del marxismo nella conoscenza della realtà oggettiva, il mettere in luce le vere basi sociali nei fatti stessi. La superiorità del marxista sul puro oggettivista è fondata su questa coerenza; egli «attua più a fondo e più completamente il suo oggettivismo». Solo da questa oggettività intensificata nasce ciò che Lenin chiama partiticità: «in ogni valutazione di un avvenimento, porsi direttamente e apertamente nel punto di vista di un determinato gruppo sociale». Così la presa di posizione soggettiva nasce sempre dalla realtà oggettiva e torna ad essa.

Ciò può provocare conflitti, se le contraddizioni della realtà si accentuano fino a diventare contrapposizioni esclusive, e ogni persona interessata deve risolvere in se stessa questi conflitti. Ma vi è una differenza di principio, a seconda che entrino in conflitto due convinzioni o sentimenti fondati nella realtà, nel rapporto dell’individuo, o che in tale conflitto l’uomo senta messa in pericolo la sua interiore esistenza umana. In Lenin quest’ultima possibilità non si avvera mai. Amleto dice a Orazio, come massima lode: «… beati coloro / in cui sangue e giudizio sono così ben mescolati / che essi non servono da zampogna su cui il dito della Fortuna / possa suonare il tasto che vuole».

Sangue e giudizio: il loro contrasto e la loro unità derivano dalla sfera biologica solo come base generale e immediata dell’esistenza umana. Sviluppati nella concretezza, entrambi esprimono il suo essere sociale: l’armonia o la dissonanza della sua posizione rispetto al momento storico, e tanto sul piano teorico come su quello pratico. In Lenin sangue e giudizio sono giustamente mescolati perché la sua conoscenza della società era rivolta in ogni momento all’agire che proprio allora era socialmente necessario, perché la sua prassi era sempre la conseguenza necessaria della somma e del sistema delle vere conoscenze accumulate fino a quel momento.

Perciò la sua personalità non conosce nulla che anche remotamente possa apparire come un autocompiacimento, nessun successo poteva provocare in lui una vanità, nessun fallimento gettarlo nella prostrazione. Egli nega che possano esistere situazioni alle quali l’uomo non sia in grado di reagire praticamente. È uno dei grandi uomini ai quali, nella prassi della loro vita, è riuscito di realizzare moltissimo, di realizzare l’essenziale. Tuttavia, o proprio per questo, nessuno come lui ha riflettuto in modo così freddo e per nulla patetico sugli errori possibili e reali: «Il saggio non è chi non commette errori. Persone simili non esistono e non possono esistere. È saggio chi non commette errori troppo essenziali e sa correggerli presto, con facilità». Questa concezione quanto mai prosaica del successo nell’azione esprime il suo atteggiamento sostanziale più adeguatamente di quanto potesse fare ogni confessione patetica. La sua vita è un agire continuo, una lotta incessante in un mondo in cui, secondo la sua convinzione più profonda, non esiste situazione senza scampo, né per lui né per l’avversario. Perciò il suo metodo di vita è questo: essere sempre preparati all’azione, all’azione giusta.

Per questo la schietta semplicità di Lenin trascinava le masse. Diverso anche in ciò dai tipi precedenti dei grandi rivoluzionari, egli è un tribuno popolare incomparabile, ma senza essere sfiorato da un’ombra di retorica (si pensi anche qui a Lassalle e Trockij). Per questo nella vita pubblica e privata egli avversò profondamente tutte le frasi vuote, ogni ostentazione, ogni eccesso. Ma è significativo, ancora una volta, che in lui questo rifiuto politico-umano di tutto ciò che è «esorbitante» ricevesse una motivazione filosofico-oggettiva: «Infatti ogni verità… se la si esagera, se si superano i limiti del suo valore reale, può diventare un’assurdità, anzi, in tali circostanze deve diventare inevitabilmente un’assurdità».

Ciò significa che per lui anche le categorie filosofiche più generali non avevano mai una generalità contemplativo-astratta, ma erano pronte in ogni momento come veicolo per la prassi, per la preparazione teorica di essa. Nel dibattito sui sindacati, opponendosi alla posizione mediatrice, ambigua ed eclettica di Bucharin, egli si appoggiava alla categoria di totalità. Ma è molto caratteristico il modo in cui egli usa una simile categoria filosofica: «Per conoscere realmente un oggetto, bisogna afferrare e indagare tutti i suoi lati, tutti i nessi e le “mediazioni”. Non ci arriveremo mai del tutto, ma l’esigenza dell’universalità ci preserverà da errori e dall’irrigidimento». È istruttivo vedere come qui una categoria filosofica astratta, completata da riserve gnoseologiche riguardo alla sua applicabilità, serva senz’altro come imperativo per la giusta prassi.

Questo atteggiamento di Lenin si esprime anche più corposamente, se possibile, nella discussione sulla pace di Brest Litovsk. Che sul piano della «Realpolitik » egli avesse ragione contro i comunisti di sinistra, che per considerazioni internazionalistiche chiedevano di appoggiare con una guerra rivoluzionaria l’imminente rivolgimento tedesco, e in cambio erano pronti a mettere in gioco l’esistenza della repubblica russa dei consigli, oggi è già diventato un luogo comune storiografico. Ma in Lenin questa giusta prassi si fondava su un’analisi teorica profonda della specificità nel processo complessivo dello sviluppo della rivoluzione. La priorità della rivoluzione mondiale su tutti i singoli avvenimenti, egli dice, è una verità autentica (e quindi pratica) «se non si perde di vista la strada lunga e difficile che porta alla vittoria completa del socialismo». Ma, aggiunge, considerando la specificità teorica nella situazione concreta di allora: «ogni verità astratta si trasforma in discorso vuoto se viene applicata a qualsiasi situazione concreta». La verità come base della prassi e il vuoto discorso rivoluzionario si distinguono dunque in ragione della loro incidenza e non incidenza teorica sulla specificità della situazione rivoluzionaria di volta in volta necessaria e possibile. Il sentimento più sublime, la dedizione più generosa si trasformano in mera fraseologia se l’essenza teorica della situazione (la sua specificità) non permette un’autentica prassi rivoluzionaria. Non è detto che questa debba essere incondizionatamente coronata dal successo. Nella prima rivoluzione, dopo la sconfitta dell’insurrezione armata di Mosca, Lenin combatte con passione il punto di vista di Plechanov: «Non si doveva ricorrere alle armi», perché anche questa sconfitta fu di stimolo al processo complessivo. Ogni tentativo di trovare analogie, ogni confusione tra l’astratto e il concreto, tra la storia universale e l’attualità, porta invece alla vuota chiacchiera. Ciò valeva per qualsiasi confronto tra la Francia del 1792-1793 e la Russia del 1918, quale affiorava spesso nel dibattito sulla pace. Così Lenin avrebbe detto ai comunisti tedeschi, che dopo il putsch di Kapp (1920) avevano adottato tesi autocritiche molto accorte come norme di condotta per il caso di una sua ripetizione: come sapete che la reazione tedesca lo ripeterà?

Per poter agire così, la vita di Lenin dovette divenire un processo di apprendimento ininterrotto. Dopo lo scoppio della guerra, nel 1914, egli arrivò in Svizzera superando varie avventure poliziesche; e una volta che vi fu arrivato, ritenne che il sue primo compito fosse di utilizzare giustamente questo «congedo» e di studiare la Logica di Hegel. E dopo gli avvenimenti del luglio 1917, mentre viveva illegalmente in casa di un operaio, lo sentì fare questo elogio del pane prima di colazione: «Ora “loro” non osano darci pane cattivo». Lenin fu sorpreso e incantato da questa «valutazione classista delle giornate di luglio». Pensò alle proprie analisi complicate di questi avvenimenti e dei compiti che ne derivavano. «Io, che non avevo mai conosciuto la miseria, al pane non avevo pensato… A ciò che sta alla base di tutto, alla lotta di classe per il pane, il pensiero, attraverso l’analisi politica, arriva per una via eccezionalmente complicata e intricata». Così, per tutta la vita, Lenin imparò sempre e dovunque; non aveva importanza, che si trattasse della Logica di Hegel o del giudizio di un operaio. Questo continuo apprendere, questo continuo imparare dalla realtà, è un tratto essenziale della priorità assoluta della prassi nella condotta di vita di Lenin. Già questo, ma soprattutto il modo d’imparare, frappone una barriera insuperabile tra lui e tutti gli empiristi e «Realpolitiker». Infatti il suo richiamo alla totalità come base e unità di misura non ha solo un senso polemico-pedagogico. Lenin pone a se stesso imperativi molto più rigorosi che ai compagni di lotta più stimati. Universalità, totalità e irripetibilità concreta sono determinazioni decisive della realtà in cui si deve agire; il grado di avvicinamento alla sua conoscenza decide dunque la vera efficacia di ogni prassi.

Naturalmente la storia può creare situazioni che contraddicono le teorie conosciute fino a quel momento. Possono anzi sorgere situazioni che rendono impossibile un’azione secondo i principi veri e riconosciuti come veri. Già prima dell’ottobre 1917, per esempio, Lenin previde giustamente che nella Russia economicamente arretrata era indispensabile una forma di transizione del tipo della futura NEP. Tuttavia la guerra civile e gl’interventi imposero ai soviet di ricorrere al cosiddetto comunismo di guerra. Lenin si piegò alla necessità dei fatti, senza però rinunciare alla sua convinzione teorica. Egli attuò il meglio possibile tutto il «comunismo di guerra» che la situazione imponeva, ma, a differenza della maggior parte dei suoi contemporanei, senza riconoscere neppure per un istante nel comunismo di guerra la vera forma di transizione al socialismo; era fermamente deciso a tornare alla linea teoricamente giusta della NEP, appena la guerra civile e gli interventi fossero finiti. In entrambi i casi non si comportò né da empirista né da dogmatico, ma da teorico della prassi, da realizzatore pratico della teoria.

Se Che fare? è un titolo simbolico per tutta la sua attività di scrittore, l’idea teorica centrale di quest’opera è una sintesi anticipata di tutta la sua visione del mondo. Là egli afferma che la lotta di classe spontanea degli scioperi, anche di quelli organizzati con cura, realizza solo i germi della coscienza di classe nel proletariato. Qui manca ancora «il riconoscimento dell’irriducibile antagonismo tra i loro interessi [degli operai – G. L.] e tutto l’ordinamento politico e sociale contemporaneo». Anche qui è la totalità che indica la giusta direzione alla coscienza di classe orientata verso una prassi rivoluzionaria. Se non ci si orienta sulla totalità non c’è prassi storicamente autentica. Ma il riconoscimento della totalità non è mai spontaneo. Esso deve sempre essere trasmesso a coloro che agiscono «dall’esterno», cioè teoricamente.

L’onnipotenza dominante della prassi è dunque realizzabile soltanto sulla base di una teoria orientata in senso onnicomprensivo. Ma la totalità oggettivamente dispiegata dell’essere è infinita, come Lenin sa bene, e quindi non può mai essere compresa adeguatamente. Così qui l’infinità della conoscenza e l’imperativo sempre attuale del giusto agire immediato sembrano dare origine a un circulus vitiosus. Ma ciò che non ha soluzione teorico-astratta, in pratica può essere tagliato come il nodo gordiano. L’unica spada adatta per farlo è ancora una volta un comportamento umano che anche qui possiamo opportunamente definire solo con parole shakespeariane: «L’essere pronti è tutto». Uno dei tratti più fecondi e caratteristici di Lenin è che egli non cessò mai d’imparare teoricamente dalla realtà e che in pari tempo era sempre pronto ad agire. Da ciò derivava una qualità singolare, in apparenza paradossale, del suo atteggiamento teorico: non ritenne mai di avere finito d’imparare dalla realtà, ma in pari tempo la conoscenza così acquisita era in lui sempre così ordinata e orientata da permettergli di agire in qualsiasi momento.

Io ho avuto la fortuna di assistere a uno degli innumerevoli momenti di questo genere della vita di Lenin. Era nel 1921. Si riuniva la commissione ceca del III Congresso del Komintern. Le questioni erano estremamente complicate, le opinioni inconciliabili. All’improvviso intervenne Lenin. Tutti lo pregarono di esporre la sua opinione sui problemi cechi. Egli rifiutò; aveva cercato di studiare a fondo il materiale, ma erano intervenuti affari di stato così urgenti che era riuscito soltanto a dare una scorsa a due giornali che teneva infilati nella tasca della giacca. Solo dopo molte insistenze si dichiarò disposto a esporre almeno le sue impressioni sui due numeri di giornale. Lenin li levò di tasca e cominciò la sua analisi affatto asistematica, improvvisata, cominciando dall’articolo di fondo per finire con le ultime notizie. Questo abbozzo improvvisato fu l’analisi più profonda della situazione cecoslovacca di allora e dei compiti del Partito comunista.

In questa interazione di teoria e prassi Lenin – che incarnava la prontezza nell’azione e la continuità – naturalmente decise sempre per la priorità della prassi. Un esempio lampante sta nella conclusione della sua principale opera teorica del primo periodo rivoluzionario, Stato e rivoluzione.La scrisse nel suo nascondiglio illegale dopo le giornate di luglio, ma non poté terminare l’ultimo capitolo sulle esperienze delle rivoluzioni del 1905 e 1917: lo sviluppo della rivoluzione non glielo permise. Lenin dice nel poscritto: «È più piacevole e più utile partecipare alle “esperienze della rivoluzione” che scrivere su di essa». Questo è detto con assoluta sincerità. Sappiamo tuttavia che egli aspirò sempre a completare quanto qui aveva tralasciato. Se non gli fu possibile, ciò dipese dal corso degli avvenimenti, non da lui.

Una svolta importante nel comportamento umano degli ultimi secoli sta nel fatto che l’ideale del «saggio» stoico-epicureo ha fortemente influenzato le nostre concezioni etico-politico-sociali, molto al di là della cerchia della filosofia di scuola. Ma questo influsso è stato altresì una trasformazione interna: in questo tipo esemplare la componente attiva sul piano pratico si è rafforzata molto oltre le concezioni dell’antichità. La «prontezza» permanente di Lenin è l’ultima fase di questo sviluppo, finora la più alta e la più importante. Se oggi, quando la manipolazione divora la prassi e la deideologizzazione divora la teoria, questo ideale non è tenuto in grande onore dalla maggioranza degli «specialisti», rispetto alla storia questo e soltanto un episodio. Al di là dell’importanza dei suoi atti e delle sue opere, la figura di Lenin, come incarnazione del continuo «esser preparati», rappresenta un valore incancellabile come tipo nuovo di atteggiamento esemplare di fronte alla realtà.

Budapest, gennaio 1967

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