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Fantapolitica
di Alberto Bagnai
(...non metto link, tanto è un raccontino, non c'è nulla di vero, è un'opera di fantasia, e poi chi è di queste parti sa di cosa sto parlando, e chi non è di queste parti è arrivato senz'altro troppo tardi per impedire che la fantasia diventi realtà, e forse anche per riconoscere questa realtà quando gli si parerà davanti, cioè entro un anno...)
L'Unione Europea è un progetto statunitense. Serviva, come sappiamo, a rendere coeso il fronte orientale, quello verso il nemico sovietico.
Poi il nemico si sfaldò, e con esso c'era il timore che si sfaldasse anche il fronte. Sai com'è, quella storia della tesi: senza antitesi, non c'è sintesi...
Aggiungi che serviva anche un bell'impulso, l'impulso definitivo, a quella globalizzazione finanziaria che tante soddisfazioni stava dando al capitalismo, schiacciando ovunque i salari. In Europa questi resistevano: per opporsi al comunismo in modo efficace si era infatti dovuto creare un credibile welfare, e assicurare una bassa disoccupazione. Tutte cose che rendevano i salari piuttosto coriacei, ma non tanto da non poter essere scardinati dalla moneta unica.
Certo, l'euro aveva anche dei costi, proprio per quel sistema finanziario, e per quel blocco geopolitico, che legittimamente si aspettavano di trarne vantaggi.
Ubi commoda... Il fottuto latino!
I costi in termini economici erano noti e ovvi: squilibrando la distribuzione del reddito, la moneta unica provocava una ipertrofia del credito che rendeva il sistema finanziario più fragile, anziché più stabile come promesso.
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Capitale in affanno e "lavoro agile"
Ultimo ritrovato, in ordine di tempo, per l’aumento dello sfruttamento lavorativo
Carla Filosa
Come terza volta in cui proviamo ad affrontare il cosiddetto “smart work” – le prime due pubblicate su “La Città futura” e poi sul blog di “Contraddizione” con i titoli ‘La “nuova svolta” lavorativa’ e ‘“Smart working”: sfruttamento illimitato alla costrizione al lavoro’ – si tenterà ora di mettere a fuoco le origini storiche più lontane, nonché vicine, per cogliere appieno il senso e la funzione attuale di questa parvente riorganizzazione del lavoro. Più che nuova organizzazione, si deve intendere, nell’uso ideologico di “agile”, una pedissequa continuità e perfezionamento degli obiettivi che da sempre il sistema di capitale ha perseguito, ultimamente attraverso le ristrutturazioni – quelle sì - del taylorismo prima, del toyotismo o onhismo poi, confluite solo attualmente in questa dicitura anglofona non a caso senza paternità teoriche definite. Emergono nella trovata “agilità” solo consulenti e apprendisti realizzatori, o controllori di un prêt à porter dell’ultima ora, autolegittimantisi con innovazioni informatiche, peraltro aspecifiche per il modo di produzione capitalistico tuttora in vigore.
In questi lunghi anni di crisi del sistema la disoccupazione a livello mondiale è aumentata a un ritmo crescente rispetto alla rivoluzione tecnologica continuamente in atto, limitandone in parte la piena estensione nei settori produttivi e improduttivi di tutti i paesi.
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La filosofia del “limite” nel secolo del nichilismo
F. Postorino intervista Remo Bodei
Il concetto del «limite» come è stato interpretato nelle diverse epoche e, in particolare, nella modernità?
Diversamente dal mondo antico, dove l’andare oltre i confini stabiliti dalla divinità è hybris che viene punita, la modernità è un andare al di là dei limiti, un plus ultra, un navigare verso l’ignoto. Nelle sue avventure spirituali e nello slancio verso la scoperta di terre incognite, il pensiero moderno ha infranto i divieti di indagare sui misteri della natura, del potere e di Dio, rivalutando così la curiosità prima condannata come “concupiscenza degli occhi”. Sebbene non si debba avere una concezione trionfalistica della modernità, come innovazione pura, completa rottura dei ponti con il passato, essa certamente ha sfidato molti tabù imposti dalla tradizione, specie quelli segnati dalla religione cristiana.
Il lungo, ma oggi accelerato processo della cosiddetta globalizzazione ha ovviamente portato mutamenti radicali all’idea di limite. I confini degli Stati sono diventati “porosi”, civiltà prima lontane o indifferenti si intersecano, si incontrano e si scontrano. I mezzi di comunicazione di massa e le migrazioni mutano il panorama. Ma le principali civiltà contemporanee hanno davvero cancellato tutti i limiti? O non è meglio sostenere che alcuni li hanno addirittura riproposti e perfino violentemente rafforzati mediante la restaurazione dogmatica di fedi, mentalità e comportamenti del passato (come nel caso dell’applicazione letterale della sharia, che significa, appunto, ritorno alla “strada battuta”)? Ci sono limiti da rifiutare e limiti da conservare. Per distinguerli occorre coltivare l’arte del distinguere, lasciandosi guidare, nello stesso tempo, da un’adeguata conoscenza delle specifiche situazioni, da un ponderato giudizio critico e da un vigile senso di responsabilità.
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Sparare agli orologi ai tempi del #fertilityday
di Militant
In passato, l’orologio biologico delle donne era anche la vicina/parente impicciona che chiedeva insistentemente novità alla sposina. Oggi in periodo di comunicazione politically correct occorre spiegare, informare in modo capillare e continuativo, portare a conoscenza delle donne e degli uomini che la fertilità è una curva gaussiana che comincia a scendere molto prima che la donna consideri la questione come una opportunità.
[Piano nazionale per la fertilità]
Eccoci qua. Rientrati dalle ferie, per chi ha avuto la fortuna di godersele, troviamo un bel regalino di inizio anno: l’istituzione, nientemeno, del Fertility Day, una giornata pensata apposta per incrementare la scarsa natalità italiana. Una campagna che si dà come dichiarazione di intenti la diffusione di informazioni sulla prevenzione e la cura di patologie legate alla sterilità ma che, nella realtà, cerca di mettere una pezza a colori sul fatto che in Italia, mentre l’età media si alza e la vita media si allunga, il numero di nuovi nati diminuisce di anno in anno: ed è così che assistiamo alla traslazione semantica, forse per influenza della lingua inglese, per cui il termine “fertilità” – condizione biologica che indica la potenzialità riproduttiva di un individuo – diventa sinonimo di “fecondità”, di promozione della natalità e addirittura di “maternità”.
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L’economia dell’informazione e la partita del futuro
di Andrea Ventura
Uno strano paradosso investe le economie dell’Occidente. Da un lato, a dispetto di stimoli monetari senza precedenti, la crescita economica è precaria e stentata: anche negli Stati Uniti, dove la politica monetaria è stata accompagnata da politiche fiscali espansive, la crescita del Pil è rimasta sotto le attese, generando un aumento del rapporto debito/Pil dal 64% del 2007 al 106% del 2015; Larry Summers, economista e potente politico americano, assieme ad altri ha recentemente avanzato l’ipotesi che i paesi avanzati stiano attraversando una fase di “stagnazione secolare”. Questa crescita insufficiente si accompagna però ad un flusso d’innovazioni scientifiche e tecnologiche senza precedenti che sta radicalmente modificando il nostro modo di produrre, consumare, lavorare, comunicare.
Stagnazione secolare da un lato, innovazione e progresso dall’altro. Eppure la crescita economica è sempre stata favorita dalle scoperte scientifiche e tecnologiche: il telaio meccanico ha avviato la prima rivoluzione industriale inglese, poi motore a vapore, ferrovie, telegrafo e piroscafi hanno spinto la seconda. Catena di montaggio e consumi di massa hanno infine caratterizzato l’economia americana e, nel secondo dopoguerra, la crescita del continente europeo. L’informatizzazione dei processi produttivi, la diffusione della rete, la scoperta di nuovi materiali e la biologia molecolare sembrano invece incapaci di sostenere un nuovo ciclo di crescita economica.
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Il capitale portatore d'interesse, la bolla speculativa e la crisi della moneta
di Robert Kurz
Questo estratto è l'introduzione (pp. 321-328) fatta da Robert Kurz ad una serie di passaggi relativi al Marx esoterico del VII capitolo del libro "Lire Marx. Les textes les plus importants de Karl Marx pour le XXIe siècle. Choisis et commentés par Robert Kurz", La balustrade, 2002. Le numerose riflessioni, sulla società del lavoro, la crisi inerente ai fondamenti del capitalismo, la teoria del capitalismo come barbarie, la globalizzazione, ecc., rimandano a dei capitolo precedenti che si possono consultare sul sito "Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme"
Nella discussione sulla teoria di Marx, si dimentica spesso che il concetto di modo di produzione capitalista che egli sviluppa soprattutto nel primo libro del "Capitale" dapprima espone solo la logica elementare del capitale e le sue condizioni storiche e sociali. Di contro, le manifestazioni empiriche immediate per mezzo delle quali la società capitalista si presenta all'osservatore dall'esterno non coincidono del tutto con la logica dell'essenza del capitale, ma subiscono in qualche modo molteplici mutamenti. Se, come dice Hegel, è l'essenza ciò che appare, essa non appare esattamente in maniera diretta e in quanto tale, ma "trasmessa", modificata, "incorrettamente" rifranta dalle influenze per mezzo delle quali è emersa. Vale a dire che, da una parte, l'essenza, per il suo concetto e la sua logica, deve innanzitutto essere distillata dalla diversità delle sue manifestazioni, e che, dall'altra parte, a partire dal concetto di capitale e dalla logica della sua essenza ottenuta, bisogna successivamente discutere intorno al contesto concreto della sua trasmissione e spiegare come e perché tale essenza si presenta nel modo in cui appare attraverso determinate modificazioni. E infine, bisogna anche analizzare ed esporre lo sviluppo storico e il relativo stato empirico di queste forme e serie di trasmissioni, se si vuole conoscere la relazione del capitale come qualcosa di assolutamente concreto allo stato attuale della sua evoluzione.
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La Siria, la geopolitica e la complessità
di Piotr
L'analisi media sulla crisi siriana impiega poca immaginazione e mette in pace con se stessi. Ma è il contrario di ciò che bisogna fare
La guerra del Vietnam fu combattuta alla vigilia della crisi spia (Nixon shock) che segnalò che il sistema globale di accumulazione a guida USA uscito dalla Seconda Guerra Mondiale era entrato in crisi sistemica.
Il conflitto era iniziato a bassa intensità agli inizi degli anni Cinquanta ma l'escalation americana è contemporanea ai netti segnali che l'impianto di Bretton Woods (per dare un nome al sistema postbellico che caratterizzò il superamento della precedente crisi sistemica, quella del lungo declino dell'Impero Britannico e, al suo interno, della Grande Depressione del '29) non poteva funzionare più come prima. Il sistema doveva espandersi in tutta l'Eurasia e la guerra del Vietnam era un punto obbligato, ma anche un test, riguardo questa possibilità.
Lo sapevano tutti: gli Statunitensi, i Sovietici, i Cinesi e anche gli Europei.
Così Sovietici e Cinesi, nemici tra loro, si allearono per non far passare gli Americani, ognuno avendo in mente i propri interessi. I grandi Stati europei davano un blando appoggio agli USA, in quanto alleati, ma cercavano di utilizzare le difficoltà statunitensi per guadagnare in autonomia e strappare posizioni a Washington. In testa a questa operazione c'era la Francia gaullista, ma anche l'Italia democristiana faceva la sua parte.
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Macchine di macchine. Appunti di tecnopolitica
di Daniele Gambit
Pubblicando questo approfondimento su Reti e Big Data, cogliamo l’occasione per segnalare la presenza nella nostra prossima Scuola di un tavolo sulla comunicazione, convinti che la battaglia nel campo della produzione virtuale sia oggi essenziale per qualsiasi lotta “reale”. Invitiamo perciò chiunque sia interessato a contribuire a questo momento della Scuola a contattarci, segnalare materiali utili e partecipare!
“Che errore aver detto l’(es). Ovunque sono macchine, per niente metaforicamente: macchine di macchine, coi loro accoppiamenti, colle loro connessioni.”
Deleuze-Guattari, L’Antiedipo
“Nel modo in cui la cultura d’oggi vede il mondo, c’è una tendenza che affiora contemporaneamente da varie parti: [...] Il pensiero, che fino a ieri ci appariva come qualcosa di fluido, evocava in noi immagini lineari come un fiume che scorre o un filo che si dipana […], oggi tendiamo a vederlo come una serie di stati discontinui, di combinazioni di impulsi su un numero finito di organi sensori e di controllo”
Calvino, Cibernetica e fantasmi
Atomi imprevedibili
Ripercorrendo le fasi storiche dello sviluppo scientifico nelle sue varie discipline è possibile riscontrare un passaggio dall’utilizzo di metodi qualitativi a metodi via via più quantitativi, numerici, formalizzati. E’ il caso dell’alchimia, antico sistema filosofico esoterico che condensava chimica, medicina e astronomia unendo risultati sperimentali con interpretazioni mistiche, e che soltanto nel 1661 con Il chimico scettico di Boyle e poi con Lavoisier si è tramutata nella chimica moderna, introducendo formule e codici per esprimere il mescolarsi tra sostanze e le reazioni che queste causavano.
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"Sei lezioni di economia"
Tra marginalismo, Sraffa e... il vincolo costituzionale
di Quarantotto
http://www.imprimatureditore.it/index.php/2016/08/25/sei-lezioni-di-economia/
1. Il libro di Sergio Cesaratto, la cui copertina vedete nell'immagine di apertura, è una piacevole lettura, solida e scorrevole, sia dal punto di vista storico che, ovviamente, teorico-economico.
Si può non concordare in toto con talune implicazioni che, d'altra parte, sono comunque dimostrate nel quadro di una rigorosa ricostruzione economica, senza però debordare sul dato istituzionale; ma, nondimeno, anche in questo caso, il libro ci offre una fondamentale spiegazione, particolarmente rilevante per i lettori di questo blog.
La spiegazione di come, e perché, la parte della sinistra in origine comunista, poi in mutevole e variegata definibilità nominalistica e ideologica, sia risultata solo marginalmente - e comunque in modo costantemente "selettivo"- ascrivible al "partito della Costituzione del 1948": su di essa la stessa sinistra marxista avrebbe nutrito una costante "diffidenza", scientifica e, prima ancora, politica (Cesaratto, preoccupandosi del profilo scientifico, ritiene, con ampie argomentazioni, più attendibile Sraffa rispetto a Keynes; ma il primo, a differenza del secondo, è inevitabilmente al di fuori del processo Costituente, come vedremo tra breve).
2. Cerchiamo di evidenziare i passaggi del libro da cui scaturisce questa utile, e comunque interessantissima, spiegazione: nella parte in cui ricostruisce, - con l'occhio lealmente dichiarato di un insider -, le vicende della scienza economica italiana "vista da sinistra", Sergio attribuisce un giusto rilievo a Marx, ed alla sua sopravvivenza rispetto al tramontare di alcune, ma non altre, delle sue analisi, e conferisce, come accennato, un grande rilievo a Sraffa.
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È l’islam l’unica religione possibile del mondo globalizzato?
di Fabio Tarzia
1. L’islam in corsia di sorpasso
Le ultime statistiche, sebbene non perfettamente coincidenti, sembrano non lasciare scampo alla religione cristiana e cattolica soprattutto. Secondo l’incrocio delle varie fonti i cristiani sarebbero circa due miliardi e cento milioni e di questi solo un miliardo e cento potrebbero essere annoverati tra i cattolici. I restanti sarebbero ulteriormente distinguibili in: cinquecento milioni circa di protestanti, duecentoventicinque milioni di ortodossi, settantatré milioni di anglicani, settantadue milioni di cristiani orientali. Sull’altro versante, i musulmani ammonterebbero a circa un miliardo e seicento milioni, di cui un milardo e trecentocinquanta milioni sunniti. Tali dati parlano da soli in quanto la salute di una religione monoteistica, e allo stesso tempo universalistica, si basa appunto sulla sua capacità di propagazione: senza espansione non c’è identità1.
Tutte le proiezioni demografiche danno un sorpasso chiaro e definitivo da parte dell’islam ai danni dell’intero mondo cristiano nei prossimi cinquant’anni. Le spiegazioni sociologiche di questo trend, e in particolare dell’attuale rapporto di forze islam/cattolicesimo, sono ricollegate alla superiore capacità di sviluppo demografico musulmana rispetto a quella della civiltà occidentale cristianizzata.
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E se il lavoro fosse senza futuro? (V Parte)
Perché la crisi del capitalismo e quella dello stato sociale trascinano con sé il lavoro salariato
Giovanni Mazzetti
Quaderno Nr. 7/2016 - Formazione online - Periodico di formazione on line a cura del centro studi e iniziative per la riduzione del tempo individuale di lavoro e per la redistribuzione del lavoro sociale complessivo
Qui, qui, qui, qui le parti precedenti.
Presentazione Settimo quaderno di formazione on line
In questi ultimi due capitoli di E se il lavoro fosse … senza futuro? affrontiamo un’interpretazione della fase storica del keynesismo nella quale furono gettate le basi per un superamento dei rapporti capitalistici. Un superamento che certamente era caratterizzato da una continuità col passato, ma che era anche contraddistinto dal confuso prender corpo di una serie di istanze e di pratiche che, in qualche misura, trascendevano i rapporti capitalistici. Certo, i cambiamenti sociali hanno molte similitudini con i processi evolutivi naturali. Il fondamento razionale di tutto il progetto è confuso, e viene anticipato in forme grossolane; ma quando emergono i problemi si debbono saper raccogliere i nessi che legano quei problemi alla confusa spinta al cambiamento. E’ quello che non si è fatto nel momento in cui è esplosa la crisi dello stato sociale keynesiano. Ai conservatori, che spingevano per riportare la società a pratiche e valori del passato, si sono opposti i progressisti che si limitavano a riaffermare con forza la validità delle pratiche keynesiane, nonostante la loro evidente crisi. Questo approccio, del tutto improduttivo, ha caratterizzato anche le organizzazioni politiche e sindacali dei lavoratori, che sono precipitate in una situazione di progressiva impotenza.
Nell’ultima parte del testo si cerca di delineare il perché solo il tramonto del lavoro salariato può costituire la base di un nuovo sviluppo sociale.
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John Zerzan e l'agricoltura1
di Enrico Galavotti
Se John Zerzan avesse ragione, dovremmo dire che della vita non abbiamo capito niente. Per fortuna però che è un anarchico e che, come tutti gli anarchici, presenta dei lati estremistici che lo rendono poco credibile. Ciò senza nulla togliere al fatto che molte delle sue idee "primitiviste" siano tutt'altro che assurde.
Il suo estremismo, d'altra parte, è comprensibile. Come può non esserlo un uomo nato negli Stati Uniti del XX secolo? Questa nazione è una costola dell'Europa borghese nata nel XVI secolo, quel secolo in cui Marx fa decollare il moderno capitalismo. Ed è una costola puritana, cioè calvinista, quel ramo del protestantesimo che meglio s'è adattato e che, nel contempo, meglio ha favorito lo sviluppo del capitalismo manifatturiero.
Il cittadino medio americano risente profondamente di questa cultura, soprattutto se è di origine europea. Ne sono stati condizionati anche i neri provenienti dall'Africa, in quanto, dopo la loro liberazione giuridica dalla schiavitù, non sono mai riusciti a creare un'alternativa al capitalismo, neppure teorica. E ne sono condizionati oggi gli immigrati provenienti dal Sudamerica o dalla Cina o da qualunque altro paese, che sono convinti di trovare negli Usa una sicura possibilità di riscatto. Chi mette in discussione il valore del free market rischia di porsi appunto come un estremista, uno che non accetta l'idea di vivere nel paese più "democratico" del mondo, l'unico autorizzato a esportare ovunque, anche con la forza delle armi, la propria idea di "libertà".
Le uniche in grado di contestare il capitalismo in maniera "naturale" avrebbero potuto essere le 500 tribù o nazioni indiane, anteriori alla colonizzazione europea, ma oggi i sopravvissuti vivono relegati nelle riserve, in procinto di scomparire definitivamente.
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Capitalismo dal volto umano
di Tomasz Konicz
Tutto ricomincia ad andare bene - dal momento in cui tutti diventano buoni. È questa, più o meno, la logica che si può trovare dietro a tutti gli approcci di organizzazione, iniziative, leggi ed ideologie che pretendono di lottare per un capitalismo etico, per un capitalismo dal volto umano. È difficile che una qualsiasi impresa non faccia riferimento a pratiche etiche riguardo la fabbricazione dei suoi prodotti, nel momento in cui un'immensa confusione di regole, certificati e norme ha la pretesa di assicurare al consumatore dei centri capitalisti che il suo consumo non avviene grazie allo sfruttamento o al furto delle risorse delle periferie.
Oltre al ben noto marchio del Fair Trade che promette un commercio equo per mezzo di un salario più alto dei produttori (ad esempio, nella produzione di cioccolata) del "Terzo Mondo", i consumatori con un senso etico possono anche prestare attenzione all'abbigliamento, certificato dalla "Fondazione Fair Wear". Il cui marchio deve garantire l'osservanza di "condizioni di lavori decenti" ed eque, nell'industria tessile della periferia - cosa che, a fronte di situazioni barbare come quelle del Bangladesh o della Cambogia, equivarrebbe, nella realtà, ad una sollevazione rivoluzionaria. Commercio equo di prodotti naturali, come frutta, legumi, fiori o erbe aromatiche, viene garantito da certificati come Fair Flowers Fair Plants, FairWild, Flower Label Program, oppure dal marchio della Rainforest Alliance.
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Alle radici della guerra
di Giorgio Paolucci
In un mondo in cui non si muove foglia che il dio denaro non voglia la narrazione corrente che descrive la guerra moderna come uno scontro fra diverse fedi religiose o diverse civiltà è in realtà una costruzione tutta ideologica per occultare il fatto che le radici della guerra affondano negli elementi costitutivi del modo di produzione capitalistico
Con il crollo del muro di Berlino e con la fine della guerra fredda non avrebbero dovuto esserci più guerre. L’economista liberale Francis Fukuyama, nel suo saggio La fine della storia e l’ultimo uomo, giunse a sostenere che con la fine il comunismo, potendosi finalmente dispiegare su scala planetaria la “democrazia liberale” (ritenuta oltre che la forma di governo più confacente al capitalismo, anche, fra tutte quelle possibili, la migliore in assoluto) sarebbe venuta meno anche la principale causa scatenante delle guerre.
E pertanto la storia stessa, in quanto teleologicamente intesa come la progressiva successione di stadi tutti tendenti al raggiungimento di questo obbiettivo, si sarebbe conclusa. In questo nuovo mondo, senza storia, ogni singolo individuo avrebbe potuto finalmente compiutamente realizzarsi in base alle proprie aspirazioni e capacità. Con maggiore prudenza il politologo statunitense Samuel P. Hutington, sostenne, invece, che era sì venuta meno la contrapposizione politico- ideologica fra comunismo e capitalismo, ma permanendo le diversità culturali e per certi versi antropologiche che distinguono tutti i popoli del pianeta fra loro, la sola affermazione della democrazia liberale non sarebbe stata sufficiente a evitare l’insorgere di scontri fra queste diverse civiltà. E difficilmente potremmo dargli torto se ci attenessimo alle sole cronache e alle descrizioni che fanno delle guerre, che ormai insanguinano tutti i continenti, i media e, salvo qualche rara eccezione, gli analisti della borghesia.
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La politica della logistica
di Giorgio Grappi
In occasione della sua uscita, pubblichiamo l’introduzione di Giorgio Grappi al volume Logistica (Roma, Ediesse, 2016, pp. 265). È un lavoro documentato e preciso che non si limita però a considerare la logistica solo come una tecnologia applicata all’organizzazione e alla distribuzione. Essa è descritta come la forma politico-organizzativa di un capitale che ha ormai raggiunto una dimensione compiutamente globale. Mentre si espande ovunque e si concentra occasionalmente in certi punti, la rete logistica impone una ridefinizione dell’organizzazione spaziale e politica di intere regioni. La «logistica fa politica» perché connette segmenti produttivi e ordinamenti giuridici, coniuga la forza dei protocolli informatici e le tecnologie tradizionali di governo, riarticola le catene globali del valore e obbliga gli Stati a riconfigurare il loro ruolo politico a livello globale. La logistica è il capitale in movimento assieme alle regole costantemente riformulate delle sue dinamiche materiali. La logistica muove le merci nell’incessante ricerca del profitto ma, proprio per questo, essa è costretta a organizzare luoghi produttivi in grado di catturare una forza lavoro che tende costantemente a sfuggirle. La logistica è il rovescio delle migrazioni globali e della ricerca quotidiana di un salario e di una vita migliori da parte di milioni di uomini e di donne. Dire logistica significa nominare la forma contemporanea e globale del rapporto sociale di capitale e della costituzione materiale che lo sostiene.
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Cieca fortuna del capitale
di Marco Dotti
Che cosa ne è stato della Fortuna? Si è nascosta? Fuggita? «…Les dieux s’en vont», si diceva un tempo ma quando se ne vanno – questo si è preferito tacerlo o non vederlo – dietro di loro lasciano tormenta e deserto. Oppure la fortuna si è disseminata, secolarizzata integrandosi e diventando tutt’uno con un mondo che vede le sue grazie e i suoi rischi sempre più racchiusi dentro la gabbia che – forse per mancanza di parole, forse per disperazione d’uomini o desolazione di teorie – ci si rassegna, comunque sottovoce, a chiamare “capitale”? Da quando la fortuna coincide con l’inevitabile, l’ineluttabile, la staticità e la gabbia? Da quando la salvezza è tornata a riaffiorare nella forma di un debito infinito con la sorte?
Alcune pagine del filosofo Peter Sloterdijk aiutano, quanto meno, a problematizzare. Peter Sloterdijk, che ha esposto la sua teoria della globalizzazione nella ben nota trilogia Sphären (ora edita integralmente da Cortina), ha insistito a lungo sulla moderna deriva di “fortuna”, in particolare in un capitolo del suo Im Weltinnenraum des Kapitals (2005; Il mondo dentro il capitale, Meltemi, Roma 2006), dedicato proprio alla “Fortuna e alla metafisica e chance” e, più recentemente, anche in Das Reich der Fortuna (Fundación Ortega Muñoz, 2013).
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A proposito di qualche testo: Anselm Jappe, Jaime Semprun, Robert Kurz, Jean-Marc Mandosio
di François Bochet
Per Bordiga, nel socialismo il valore non esiste piú, cosí come la moneta, il salariato, l’impresa, il mercato: laddo-’è il valore, come in URSS, non può esserci socialismo. Anselm Jappe — già autore di un Guy Debord, apparso nel 2001 — ha scritto un libro ambizioso ed interessante, Les aventures de la marchandise. Pour une nouvelle critique de la valeur (Le avventure della merce. Per una nuova critica del valore), Denoêl, 2003; egli fa una distinzione fra un Marx essoterico partigiano dei Lumi e di una società industriale diretta dal proletariato — un Marx che si interessava ai problemi contingenti, politici, alla lotta di classe e al movimento del proletariato, quello del Manifesto e della Critica del Programma di Gotha — ed un Marx esoterico, quello del Contributo alla Critica dell’Economia politica, dei Grundrisse, dell’Urtext, del VI capitolo inedito del Capitale e dei quattro libri dello stesso Capitale, un Marx che si pone il problema del capitale, della sua definizione, della sua origine, del suo divenire e del suo superamento nel comunismo e nella comunità. Scrive Jappe che il pensiero di Marx è servito a modernizzare il capitale — il che è innegabile — e che i marxisti tradizionali si sono posti solo il problema della redistribuzione del denaro, della merce e del valore, senza metterli in discussione in quanto tali. Per Jappe il movimento rivoluzionario avrebbe perciò accettato valore, salario, merci, denaro, lavoro, feticismo, ecc. — il che è nello stesso tempo falso ed esatto — e lui, Jappe, si propone di «ricostruire la critica marxiana del valore in modo abbastanza (?) preciso».
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Qual è il tuo mito?
P. Bartolini intervista Romano Màdera
Cinque anni fa prendeva vita su Megachip una serie di interviste, a cura di Paolo Bartolini, dedicata a filosofi, psicoanalisti, sociologi, antropologi e ad altre figure della cultura italiana capaci di esprimere un pensiero originale sulla transizione epocale che la società globalizzata sta attraversando. Senza disperazione, ma con la consapevolezza di una convivenza umana ed ecologica da rifondare interamente, sono così iniziati dei dialoghi sinceri con persone di grande spessore umano e culturale, che condividono con noi una premessa etica e metodologica: non è possibile pensare a una trasformazione della società senza una concomitante e profondissima conversione della vita personale. "Trasformare se stessi per trasformare il mondo", dunque, senza per questo dimenticare che noi stessi siamo fatti di mondo e di relazioni. Fu proprio Romano Màdera ad aprire il ciclo di queste interviste e per questo lo ringraziamo di essere tornato là dove tutto ha avuto inizio (la Redazione)
Chi conosce la tua storia, personale e pubblica, ha la sensazione che tu abbia vissuto molte vite: quella del militante (ai tempi del Gruppo Gramsci da te fondato insieme a Giovanni Arrighi), del fine studioso di Karl Marx, del professore universitario, dell'analista junghiano, del creatore - insieme ad altri - dei primi gruppi di pratiche filosofiche in Italia, della guida esperta per colleghi e amici che grazie a te si sono riconosciuti in quella che hai chiamato "analisi biografica a orientamento filosofico". La mia impressione, a fronte di un cammino così "molteplice", è che sia proprio sul piano dell'etica e della prassi trasformativa che tutte queste vite convergono, lasciando intravedere una trama sotterranea coerente. Con che sguardo osservi, oggi, la crisi profonda della politica, in Europa e in Italia?
Sono d'accordo, forse anche perché non ce l'ho mai fatta a "studiare dall'esterno". Mi prende una sorta di "senso di colpa". Ma questo ci porterebbe troppo lontano. Diciamo che - lasciando perdere le possibili ragioni biografiche - non mi rassegno a credere che per l'umanità l'orizzonte della speranza si possa ritenere chiuso. Non vedo perché. Mi sembra miope e anche ridicolo. Perché mai la storia dovrebbe fermarsi?
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Per una buona pratica della filosofia
Riflessioni a partire da un cattivo esempio
di Andrea Cavazzini e Maria Turchetto
La Storia del marxismo in tre tomi curata da Stefano Petrucciani per l’editore Carocci e pubblicata nel 2015 è un encomiabile tentativo di fare informazione e buona divulgazione[1]. Tanto più lodevole quanto più non si potrebbe esagerare l’importanza di fornire alle generazioni più giovani delle conoscenze precise e verificabili sul marxismo, questa componente decisiva della storia degli ultimi due secoli che è ormai un oggetto della conoscenza storica.
Ci sono però altre ragioni che fanno di questa pubblicazione un utile stimolo per la riflessione. Innanzitutto, occorre precisare che si tratta di una storia principalmente filosofica, in quanto consacrata allo studio e all’analisi delle forme teoriche del marxismo[2]. Tuttavia, una specificità di Marx e del marxismo consiste nel mettere in questione le partizioni disciplinari troppo nette e abituali e di articolare filosofia, economia politica, storiografia, sociologia... Perciò, i concetti e le teorie che compongono queste forme del marxismo appartengono a pratiche teoriche e a regimi discorsivi differenti, e si inscrivono in congiunture storiche e politiche specifiche. Storia filosofica dunque, ma che corrisponde ad una pratica della filosofia per cui è centrale il rapporto con una molteplicità di saperi e con la storia globale.
Inoltre, tra i “generi” del discorso filosofico, quest’opera occupa una posizione specifica. Essa si rivolge infatti ad un pubblico che si suppone già maturo ed informato, ma non “specialista”.
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Tutti al capezzale del Montepaschi
di Sergio Farris
Che le banche italiane non godano di buona salute è ormai noto da tempo. Esse sono state principalmente danneggiate dalla controproduente gestione della crisi economica che, specialmente a partire dal 2010, le autorità italiane ed europee hanno adottato. Sono, semplificando, malate di euro.
Dopo le “risoluzioni” di Banca Marche, Banca Popolare dell’Etruria e del Lazio, Cassa di Risparmio di Ferrara e CariChieti (con la copertura delle perdite ottenuta anche facendo ricorso al sacrificio di azionisti e possessori di obbligazioni subordinate), è stata la volta delle due banche venete Banca popolare di Vicenza e Veneto Banca, con l’ingresso nei rispettivi capitali societari da parte del fondo Atlante.
Se queste “risoluzioni” (o salvataggi) hanno riguardato istituti che si possono considerare minori, un allarme più rilevante si è tuttavia avuto quando è apparso chiaro che il Monte dei Paschi di Siena, uno dei maggiori gruppi bancari del paese, necessita ancora una volta (come confermato dai risultati dello “stress test” eseguito dall’Autorità Bancaria Europea) di un aumento di capitale. I titoli del Montepaschi hanno perso in borsa, nell’ultimo anno, l’87%. A gennaio un’azione valeva circa 1,21 euro, oggi vale circa 0,25 euro.
Per cui il 29 luglio, con il parere favorevole delle BCE, è stato approvato il “piano di salvataggio” del Monte dei Paschi.
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L’attualità politica e culturale di “Roma Moderna” di Italo Insolera
Roberto Donini
La polemica recentissima (6 agosto 2016) tra Roberto Giachetti e Paolo Berdini pare riprendere l’essenza delle problematiche affrontate in “Roma moderna”. Rinvio integralmente, senza entrare nel merito, al link che pubblica attacco e risposta. Mi pare un ottima premessa di cronaca politica per introdurre un capolavoro storico.
Libro evolutivo
Quasi 40 anni fa un caro amico, che poi avrebbe studiato architettura, mi suggerì la lettura di Roma moderna di Italo Insolera. Allora la lettura distratta e ideologica di qualche pagina si limitò alle parti riguardanti gli sventramenti fascisti e la nascita delle borgate; in compenso quelle sparse nozioni caddero in un contesto militante di lotta per il verde e nella stagione di grandi speranze per la città, aperta a metà degli anni 70 con i sindaci Argan e Petroselli. Fu, quindi, un pallido sorgere di coscienza urbanistica.
Ora riprendo in mano quel libro, nel frattempo aggiornato dei 40 anni trascorsi. L’edizione che lessi allora fu quella del 1976, la prima era stata del 1962, quella di oggi è l’edizione del 2011 “ampliata con la collaborazione di Paolo Berdini”, proprio alla vigilia della morte di Insolera del 2012.
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La Grecia è stata il prologo
George Souvlis intervista Elias Ioakimoglou
Ormai la storia della capitolazione di Syriza alle istituzioni creditrici europea è ben nota.
Syriza è salita al potere nel gennaio del 2015 con il mandato di opporsi all’imposizione dell’austerità. Syriza, invece, si è piegata alla pressione della troika, accettando misure accentuate di austerità e facendo svanire le speranze dei suoi sostenitori.
In questa intervista con George Souvlis l’economista Elias Ioakimoglou descrive la conseguente crisi che continua a devastare la Grecia un intero anno dopo. Secondo i suoi dati la depressione greca è oggi più profonda e più grave della Grande Depressione statunitense degli anni ’30.
* * *
Il governo di Syriza/Greci Indipendenti (ANEL) si è dimostrato totalmente incapace di invertire l’austerità; al contrario, le politiche neoliberiste sono proseguite e persino intensificate. Il primo ministro Alexis Tsipras aveva ragione quando ha affermato che non c’era alternativa a una continua austerità in Grecia?
Non spettava a Tsipras decidere se c’era o non c’era un’alternativa.
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Contro la Costituzione, quella di ieri, di oggi e di domani
di Sebastiano Isaia
Tutti questi argomenti, che ci si vuol
proporre come questioni della massima
importanza per la classe lavoratrice, in
realtà presentano un interesse di portata
essenziale solo per i borghesi (F. Engels).
Leggo da qualche parte:
«La posta in gioco è decisiva. Non ci troviamo di fronte ad un passaggio qualsiasi della politica italiana, ma di fronte al tornante storico che definirà il nostro modello di sviluppo di qui ai prossimi decenni [nientedimeno!]. È una partita, quella del referendum, in cui la sinistra di classe gioca oggettivamente un ruolo subalterno e minoritario. Si tratta di mobilitare decine di milioni di voti, un campo dunque fuori dalla portata degli attuali movimenti di classe. Nonostante ciò, il contributo che da questi potrà venire favorirà quel processo che potrebbe aprirsi con l’eventuale vittoria dei NO. Non giocarsi nemmeno la partita, al contrario, regalerà quei NO alla rappresentanza politica della destra reazionaria o populista. La più classica delle eterogenesi dei fini».
Quando la mosca cocchiera parla di «eterogenesi dei fini» non si può che sghignazzare e lasciarla al suo gioco virtuale preferito: “fare la storia” – o quantomeno provarci.
Qui di seguito svolgerò alcuni ragionamenti, per dirla con il filosofo di Nusco, con l’obiettivo di convincere anche un solo lettore (meglio se non già convinto “di suo”) circa la natura ultrareazionaria della contesa referendaria sulla riforma – o «controriforma» – della Costituzione.
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Lo stato spende prima, poi incassa. Logica, fatti, finzioni*
di Sergio Cesaratto
Introduzione
La logica keynesiana (o kaleckiana) conduce gli economisti post-keynesiani a presumere che una variazione delle entrate dello Stato provenienti dalla tassazione o dalla vendita di buoni del Tesoro siano il risultato di una variazione della spesa pubblica, e non il contrario – date le altre componenti autonome che costituiscono la domanda aggregata (AD) e dati i parametri che regolano il moltipli catore del reddito (oppure, in un’analisi di lungo periodo, del super-moltiplicatore)1. La logica di questa proposizione è la medesima applicata dagli economisti post-keynesiani alla teoria degli investimenti: la creazione di moneta endogena finanzia l'investimento (finanziamento iniziale), mentre il risparmio compare solo alla conclusione del processo del (super)moltiplicatore del reddito e costituisce un fondo per il cosiddetto finanziamento finale (o “funding”) (Cesaratto 2016). Mentre la sequenza keynesiana moneta endogena→investimento→risparmio è generalmente accettata, almeno nei suoi termini generali, la proposizione che "lo Stato spende prima" invece non lo è. Come è noto, negli ultimi due decenni gli esponenti della Teoria della Moneta Moderna (MMT) sono stati in prima linea nel sostenere la logica keynesiana (o kaleckiana) di questa proposizione, riempiendo un vuoto teorico del pensiero post-keynesiano stesso. Considerando l’importanza della proposizione, si tratta di una lacuna davvero sorprendente. La preposizione è stata forse data per scontata, ma non dovrebbe esserlo.
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Grandi disastri, pace e corruzione. Spinelli e Hayek €nunciano la via
di Quarantotto
1. Com'è ormai tradizione del blog, riteniamo molto utile fissare alcune informazioni che dovrebbero essere incorporate nella comprensione consapevole del momento storico, e del ciclo economico che stiamo vivendo, per come emergono dai commenti e in raccordo a precedenti post.
Questa volta, come in molte alter occasioni, diamo il dovuto risalto a vari interventi di Arturo (che sempre ringraziamo...).
Il primo riguarda la reale visione di Spinelli sulla costruzione €uropea, ritraibile da un discorso (del 1985) che, nell'attualità, - e quando le dinamiche che erano auspicate esplicitamente (e implicitamente ma necessariamente) nel "Manifesto" si sono consolidate in modo coerente -, costituisce una sorta di interpretazione autentica dell'ideologia e della prassi politica concepita a Ventotene.
Un tale carattere ne consiglia la lettura integrale e con attenzione, specie per quei lettori che dispongono del quadro critico che emerge dal complesso del blog.
Arturo seleziona e commenta per noi dei passaggi altamente "eloquenti":
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