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L'attacco a Rafah e la scommessa persa da Israele

di Piccole Note

L'attacco a Rafah non sembra imminente. Netanyahu lo propugna a fini interni. Ma Israele ha chiesto troppo a quanti erano disposti a schiararsi con esso. E ha perso, diventando un paria

L’attacco in grande stile a Rafah, il più grande campo profughi del mondo, non è ancora avvenuto, anche se si registrano bombardamenti sporadici non beneaguranti. È come se l’operazione fosse stata sospesa, mentre, al contrario, sul fronte Nord, si è registrato l’attacco più massivo contro il Libano dall’inizio della guerra, per rispondere a un’azione offensiva di Hezbollah particolarmente riuscita, ma soprattutto per colmare un vuoto.

La macchina da guerra israeliana, infatti, come accade in tutte le guerre, ha bisogno di inanellare successi, veri o asseriti che siano. E in un mondo accelerato come l’attuale, tale processo necessita di una cadenza quotidiana.

Sull’offensiva a Rafah, segnali contrastanti. Iniziamo dalle rivelazioni di Politico, che riporta indiscrezioni di rilievo: “L’amministrazione Biden non ha intenzione di punire Israele qualora lanciasse una campagna militare a Rafah senza garantire la sicurezza dei civili […] non ha nessuna intenzione di muovere rimproveri, il che significa che le forze israeliane potrebbero entrare in città e nuocere ai civili senza dover affrontare conseguenze da parte dell’America”.

Insomma, “una luce verde a uccidere i civili di Rafah”, come da titolo dell’articolo di Dave DeCamp. Due le ipotesi. La prima è che le rimostranze pubbliche dell’amministrazione Biden, che pure ci sono (tanto da suscitare indignazione in Israele, vedi l’editoriale del Jerusalem Post), siano solo teatro, per non perdere consensi interni e internazionali. La seconda è che le rivelazioni di Politico servano a intorbidire le acque, per rassicurare israeliani e alleati sul fatto che, qualsiasi cosa decida Tel Aviv, non perderà l’amico americano. Propendiamo per la seconda ipotesi o un combinato disposto delle due (l’amministrazione Usa è divisa su Gaza).

 

Netanyahu: attaccare Rafah per continuare a regnare

Su Rafah, è interessante quanto scrive Anshel Pfeffer su Haaretz. Secondo il cronista, sebbene Netanyahu abbia dichiarato di voler attaccare, non ci sono segnali che ciò sia imminente. Ad esempio, non è stato dato nessun avvertimento ai civili perché evacuino, come è avvenuto per le altre offensive di Gaza (avvertimenti inutili, ma ha ragione Pfeffer nel segnalare l’assenza come significativa). Ma soprattutto non si stanno ammassando forze massive nella zona, per un attacco che coinvolgerebbe “intere brigate e durerà settimane, se non mesi”.

Infatti, scrive Pfeffer, “lo schieramento delle Forze di difesa Israeliane nella Striscia di Gaza è il più esiguo registrato negli ultimi tre mesi, con solo cinque brigate che combattono più che altro a Khan Yunis. Non ci sono segni che altre brigate si stiano ammassando vicino a Rafah […]”.

“Quasi tutti i battaglioni di riserva […] che hanno preso parte ai precedenti scontri, sono stati smobilitati e sono tornati a casa. Una delle divisioni corazzate regolari è stata inviata al confine settentrionale. È improbabile che l’IDF lanci un’importante operazione a Rafah mentre un’intera divisione (quattro brigate) sta ancora combattendo nelle profondità di Khan Yunis”.

È presto per parlare di un ripensamento e tirare un sospiro di sollievo, ma è un dato da registrare. Ma, allora, perché Netanyahu, come scrive Pfeffer, sta dicendo ai quattro venti che l’attacco è imminente? Secondo il cronista israeliano i motivi sono di stretta politica interna.

Finora, nonostante abbia una salda presa sul potere, l’opinione pubblica israeliana è sfavorevole al premier, cosa che non è cambiata neanche dopo la recente liberazione di due ostaggi israeliani da parte dell’IDF.

Propagandare l’attacco a Rafah gli serve per rilanciare la sua immagine, per convincere l’opinione pubblica israeliana che egli è l’unico che vuole ed è in grado di riportare una vittoria decisiva su Hamas, rintuzzando così la sfida posta dai suoi nemici interni – Benny Gantz e Gadi Eisenkot in particolare – che sono troppo concentrati “su un ‘debole’ accordo per salvare gli ostaggi per portare avanti la guerra fino alla ‘vittoria totale'”.

Ciò spiega anche perché Netanyahu, almeno al momento, ha posto un niet alla ripresa dei colloqui sugli ostaggi, impedendo alla delegazione israeliana di recarsi al Cairo. Insomma, se si consumerà un altro massacro a Rafah, che tutti dicono che sarebbe ancora peggiore di quelli pregressi, sarà a maggior gloria del nuovo re-profeta d’Israele (segnaliamo a tale proposito che, secondo la profezia del rebbe dei Lubavitcher, un’influente setta ultraortodossa, “dopo Bibi arriverà il messia“…).

Possibile, però, anche che la minaccia di Bibi serva a far pressioni, sia nei confronti dell’America che dell’Onu, perché gli sia concessa la vittoria che più brama: restare al potere.

 

Israele ha chiesto troppo e ha perso

Quanto, invece, alle conseguenze della mattanza che si sta consumando nella Striscia, interessanti le osservazioni di Patrick Lawrence su Consortiumnews. Secondo Lawrence, fin da quando è iniziata la campagna di Gaza, a molti è stato evidente “che Israele rischiava di chiedere troppo a quanti erano disposti a schierarsi dalla sua parte”. 

Israele “ha chiesto ciò che molti non possono dare: ha chiesto loro di rinunciare alla propria coscienza, alla propria idea di ordine morale e alla propria decenza, mentre uccide, affama e disperde una popolazione di 2,3 milioni di persone, rendendo la loro terra inabitabile. Gli israeliani hanno corso questo rischio e hanno perso”.

“[…] Dopo Gaza, è improbabile che l’Israele dell’apartheid possa mai recuperare il posto di cui godeva, meritato o meno, nella comunità delle nazioni. Adesso è un paria”.

“Anche il regime di Biden ha corso questo rischio e anch’esso ha perso. Il suo sostegno alle brutalità quotidiane degli israeliani ha un grande costo politico, in patria e all’estero, e sta dilaniando l’America – le sue università, i suoi tribunali, le sue assemblee legislative, le sue comunità – e direi anche quel minimo di le orgoglio che ancora aveva nei propri confronti”.

Quando verrà scritta la storia del declino dell’America come potenza egemone, la crisi di Gaza figurerà sicuramente come un indicatore significativo della discesa della nazione in un pantano di immoralità che ha contribuito al crollo della sua credibilità”.

Osservazioni che possono suonare estreme, ma appartengono di diritto al momento estremo che stiamo vivendo (e sono, comunque, meno estreme di altre). Al netto dell’estremismo, dicono cose.

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