Print Friendly, PDF & Email

La partita del Dragone

Marcello De Cecco

L’economista più influente degli ultimi 50 anni non è forse Milton Friedman nè sulla sponda opposta Hyman Minsky, ma un terzo uomo di Chicago meno noto ai non esperti, Eugene Fama, un signore di 72 anni che si è sempre occupato di mercati finanziari. Non solo ha reso celebre la teoria dei mercati efficienti, ma ha nel 1984 dato una base teorica all’arbitraggio tra valute praticato senza copertura a termine. Sulla base della sua analisi i cambisti e in genere gli investitori internazionali che ricercano profitti immediati si sono lanciati in spericolate avventure "senza rete" dando vita a quel che oggi è noto come "carry trade", il procurarsi fondi a prestito su un mercato dove sono a buon mercato per investirli su una piazza con altra valuta dove rendono di più. La mancanza di necessità di coprirsi a termine, suggerita dall’articolo di Fama, rende possibili operazioni altrimenti non redditizie, per differenziali anche ridotti. Il rischio che si corre, suggerisce la teoria di Fama, può essere fronteggiato guardando attentamente ad alcuni parametri, e tenendosi pronti a uscire dal mercato in ogni momento.


Questo rappresenta un autentico incubo per le autorità monetarie di tutti i paesi, perché il mercato dei cambi e quelli dei titoli a reddito fisso di tutto il mondo sono soggetti a oscillazioni improvvise e profonde, e sono all’ordine del giorno vere e proprie bolle su alcune valute, alle quali corrispondono movimenti opposti per altre, che sconvolgono non solo la politica monetaria ma anche le decisioni di investimento degli imprenditori e le politiche di bilancio dei governi, che si basano sull’uso del debito pubblico.

Questa premessa è necessaria per capire il senso del grido di dolore del ministro brasiliano Mantega, che ha comunicato al mondo la disperazione di un governo e di un intero paese alle prese con una rivalutazione del 35% della propria moneta sul dollaro (in un anno), con un declino corposo delle esportazioni e un aumento veloce delle importazioni. Il tutto perché il Brasile, al contrario dei paesi sviluppati, è sfuggito, insieme ad altri produttori di materie prime e prodotti agricoli, alle secche della recessione mondiale e continua a segnare aumenti del Pil secondi solo a quelli cinesi. Non può, il ministro Mantega nè alcun altro al suo posto, allentare la politica monetaria. L’inflazione, già parecchio alta, diverrebbe assai maggiore e condurrebbe ad una fine ingloriosa e immeritata l’era del presidente Lula da Silva, autentico padre del Brasile contemporaneo. Il Brasile non produce solo materie prime. Ha sviluppato una potente industria manifatturiera e si spinge nel terziario avanzato. La feroce rivalutazione attuale mette in pericolo la sopravvivenza di entrambi questi settori, che danno lavoro alla parte più istruita e giovane della popolazione.

Per colpa, indirettamente, del professor Fama o almeno dei suoi seguaci cambisti e investitori, il Brasile si gioca quindi non solo il suo futuro ma anche gli ultimi dieci anni del suo passato.

Lo stesso vale per gli altri paesi che si trovano, per la fortuna o per i propri meriti, in una fase economica non disastrata come quella in cui versa, per le proprie nefandezze finanziarie, ma anche per l’esaurirsi di un modello di sviluppo, il cuore del sistema economico mondiale. Quando il primo ministro cinese, che parla a nome del prossimo paese leader mondiale, asserisce in pubblico che la rivalutazione del 20%, del livello dello yuan che si richiede al suo paese da parte dei paesi sviluppati e in particolare da Stati Uniti e Giappone, costituirebbe un disastro senza pari per la Cina, in termini di sviluppo e occupazione, c’è da prenderlo sul serio. I cinesi osservano quel che accade nel mondo con molta attenzione e ricordano bene le conseguenze della svalutazione del dollaro della metà degli anni ottanta sullo yen e sul marco. In questa parte del mondo, lo ricordiamo anche noi, si giunse a parlare di eurosclerosi, quando il cambio del marco tedesco, spinto verso livelli stratosferici dalla svalutazione americana, si portò appresso le altre valute dello Sme, che potevano assai meno sopportare una rivalutazione tanto drastica, e mise in crisi il futuro dell’Europa. Solo il ritorno alla speranza della presidenza Delors, e assai più l’arrivo della riunificazione tedesca, con il lancio della moneta unica che lo seguì per il diktat di Mitterrand (o Euro e niente riunificazione) fece voltar pagina all’Europa, ma non prima che la debolezza del dollaro e la forza del marco avessero indotto la orribile crisi del 1992, che in pratica mise fine all’avventura di sviluppo dell’Italia unita, introducendo nel nostro paese una instabilità che una colpevolmente incapace gestione della introduzione dell’Euro ha trasformato in inarrestabile declino.

Quanto al Giappone, la monetizzazione del gigantesco influsso di capitali stranieri, se ridusse la rivalutazione dello Yen, portò alla bolla dei mercati finanziari e immobiliari della fine degli anni ottanta e, dopo il suo scoppio, ad un terribile decennio di stasi, gli anni perduti del Giappone.

I cinesi hanno osservato specialmente quel che è accaduto al loro potente vicino di casa. Sanno benissimo di avere, rispetto al Giappone, il vantaggio di non aver perso la guerra né subìto il solo bombardamento atomico della storia e di non aver dovuto firmare una resa e un trattato di pace le cui clausole segrete sono, a quel che si dice, molto pesanti. Sanno di essere soci fondatori dell’Onu, di possedere una sovranità a 360 gradi, e di essere la prossima super potenza mondiale. La abbiamo già ripetuta tante volte, su queste pagine, questa litania di caratteristiche della nuova Cina, ma siamo costretti a ripeterci, perché questa realtà sembra sfuggire sia ai giapponesi che agli americani. I primi, in una serie recente di episodi, sono usciti a ossa rotte dal confronto di potenza con il gigante vicino di casa. Quanto agli Stati Uniti, ricorrono una volta ancora al gioco delle parti tra Congresso e Presidenza, votando una legge protezionistica che scatenerà la furia cinese e risposte che, in puro stile confuciano, saranno pesanti ma sottili e perfide e, in particolare, protratte nel tempo.

Sembra, purtroppo, di vedere il ritorno della situazione monetaria internazionale degli anni venti, quando il testimone della egemonia monetaria mondiale stava passando: da una Inghilterra in pesante declino, che aveva ceduto agli Usa tutti i suoi investimenti americani per pagare le spese della prima guerra mondiale, e si trovava con un cambio sopravvalutato e le casse vuote di riserve, a premere sugli Usa perché facessero salire i propri prezzi interni o il proprio cambio. Mentre l’egemonia la assumevano gli Stati Uniti, che avevano ammassato tutto l’oro di Europa vendendo merci ai belligeranti. Ma, come notava parecchi anni fa Charles Kindleberger, maestro di storia monetaria internazionale, gli Stati Uniti non erano pronti a portare il fardello dell’egemonia monetaria con la necessaria lungimiranza. E non erano nemmeno attrezzati, a farlo, dal punto di vista delle architetture finanziarie.

Sarebbero stati in grado di assumere una leadership costruttiva solo dopo avere ulteriormente acquistato potere ed esperienza come vincitori, insieme alla Unione Sovietica, della seconda guerra mondiale.

Gli accordi di Bretton Woods, il Piano Marshall, l’elaborazione della teoria dell’equilibrio del terrore, furono il risultato della nuova capacità americana di gestire il proprio enorme potere.

Ma non avevano di fronte nessuno che li sfidasse, tranne una Unione Sovietica chiusa negli spazi guadagnati con il sacrificio di diecine di milioni di russi in guerra e intenta a realizzare in solitudine il suo esperimento di sistema socio economico alternativo al capitalismo.

Ora la sfida rassomiglia a quella che posero gli Stati Uniti all’Inghilterra all’alba del novecento, quando la crescita americana aveva tenuto ritmi "cinesi" per quasi trent’anni, portando il paese al primo posto tra le economie mondiali.

Ci vollero cinquant’anni, e due guerre mondiali, per conferire agli americani l’egemonia mondiale piena. Speriamo che la confuciana saggezza della quale la dirigenza cinese ha dato ripetuta prova continui ad ispirare le sue decisioni, evitando al mondo aggiustamenti di peso equivalente. Purtroppo, credo che lo sapremo presto, da come i cinesi affronteranno la mancanza di equilibrio dell’egemone in declino (e qui il precedente inglese non fa bene sperare). Speriamo che il drago non decida di risolvere la partita con il Grizzly in campo aperto, perché i vasi di coccio siamo noi, paesi piccoli in balia degli eventi. Speriamo che la dirigenza cinese non si sia occidentalizzata tanto da fare politica per la piazza e la plebe e che mantenga il confuciano distacco che permette decisioni razionali e ispirate al bene comune, anche di fronte al disordinato comportarsi dei leader della maggior democrazia mediatica del mondo.

Pin It

Add comment

Submit