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Banche: Il caso Profumo. Ovvero "Unicrack"

di Parvus

Raramente così tante pagine di giornale sono state spese inutilmente come nel caso del recente terremoto ai vertici di Unicredit.

Raramente si è letta una tale quantità di congetture su retroscena e motivi che tanto poco avevano a che fare con le vere ragioni degli avvenimenti.

La verità è che la narrazione giornalistica – indietro di un paio di secoli rispetto alla narrazione storica – non sa affrancarsi dalla “storia dei grandi uomini”. E questo ha risultati tanto più patetici quanto più ci si addentra in vicende che hanno a che fare con la finanza internazionale.

Perché qui – più che altrove – dovremmo abituarci a considerare i supermanager, gli amministratori delegati e i direttori generali per quello che sono: funzionari del capitale.

Più o meno adatti e capaci. Ossia più o meno adeguati alle diverse fasi economiche. E cioè più o meno in grado di sfruttarle dal solo punto di vista che interessi al capitale: ossia il suo autoaccrescimento e la sua accumulazione.

Anche la parabola di Profumo andrebbe letta così. Con il vantaggio che, avendo egli retto lo scettro di Unicredit per un periodo molto lungo, potrebbe farci intravedere alcune grandi tendenze economico-finanziarie degli ultimi 15 anni.

Ovviamente, però, nelle ultime settimane nulla di questo è stato fatto. È un vero peccato e una grande occasione sprecata.

La verità è che Alessandro Profumo è stato il manager italiano che meglio ha incarnato la transizione delle banche italiane dall’epoca del pubblico (l’epoca dei boiardi di Stato e del governo politico del credito, con le famose terne di nomi, tutti rigorosamente pentapartitici a prevalenza democristian-socialista, che venivano recati dai governi pro tempore alla Banca d’Italia affinché tra essi – e solo tra essi – Bankitalia potesse trascegliere il nome più adeguato, o quello meno inadeguato) all’epoca delle banche italiane privatizzate, sempre più integrate nel panorama finanziario europeo e transnazionale dei ruggenti (finanziariamente parlando) primi anni del nuovo secolo.

Sino al Grande Crack del 2007 e a quello che ne è seguito e ne segue: la grande paura del 2008, poi le flebo di danari pubblici nelle vene dei colossi bancari mondiali e la pseudo ripresa. Ma comunque la fine della Bubble Epoque e l’inizio di quella che gli strategist di Pimco (il più grande gestore obbligazionario mondiale) chiamano la “nuova normalità” – ossia uno scenario economico e finanziario profondamente mutato, segnato da bassa crescita ed elevata instabilità e volatilità dei valori finanziari (azionari, obbligazionari e valutari).

Proviamo quindi a vedere i passaggi fondamentali di questa parabola esemplare.

La storia comincia in realtà con la privatizzazione del Credito Italiano nel 1993, per cui il prezzo pagato all’Iri di Romano Prodi per la quota di maggioranza del 58% è di 1830 miliardi di lire (945 milioni di euro), cifra modestissima; essa corrisponde ad una valutazione del 100% della banca di 2.700 miliardi, quindi inferiore alla capitalizzazione di borsa dell’epoca (di 3.012 miliardi di lire): non solo quindi non viene pagato alcun sovrapprezzo per il controllo, ma anzi c’è un grazioso sconto. Sono le privatizzazioni all’italiana, baby!

La storia continua nel 1995 con l’annessione del Rolo e poi di altre banche del nord quali CRT, Cariverona e Cassa Marca Trevigiana. Nello stesso 1995 Profumo diventa direttore generale della banca e dal 1997 ne è amministratore delegato.

È con lui che Unicredito (così chiamato dal 1998) compie il “grande balzo in avanti”: con l’acquisizione di Banca Pekao in Polonia e soprattutto della tedesca Hypo-Vereinsbank (che a sua volta possiede Bank Austria). L’acquisizione tedesca, avvenuta nel 2005, fece particolare rumore. Perbacco, la Germania che “ci” cede uno dei suoi gioielli bancari! I più ottimisti vollero scorgere in questa operazione il segno del definitivo affrancamento del mondo bancario italiano dal complesso del brutto anatroccolo mediterraneo. Gli scettici pensarono ad un “pacco” gentilmente piazzatoci dal governo Schröder, che avrebbe creato non pochi guai all’acquirente. Ovviamente avevano ragione i secondi.

In ogni caso, l’Unicredit che si affaccia sulla soglia dell’inizio della Grande Crisi 3.0 (le prime release essendo quella del 1873-96 e quella del 1929-1945) è una banca apparentemente in grande forma. Lodata per il suo seguire come poche altre la religione del libero mercato deregolato, grazie a stuoli di sacerdoti McKinsey (a cominciare ovviamente dallo stesso Profumo). Con velleità anglofone, grazie al globish malamente parlato a piazza Cordusio, del resto necessario per interloquire (con risultati dubbi) con i cugini tedeschi (e polacchi, russi, kazaki ecc.). E anche un po’ arrogantella. Se lo ricordano bene i funzionari dell’ex gruppo Capitalia, annesso a Unicredit nel maggio 2007 grazie ad una vera congiura di palazzo ordita dal presidente Cesare Geronzi ai danni di uno scalpitante Matteo Arpe. All’epoca stupirono non in pochi nel vedere Profumo, culturamente assai più vicino ad Arpe che all’andreottiano di lungo corso Geronzi, stringere la mano a quest’ultimo e siglare in men che non si dica un patto tra gentiluomini: fuori Arpe e a me Capitalia, a te un salvacondotto e il transito da una poltrona ormai in bilico alla presidenza di Mediobanca.

Secondo una diffusa leggenda metropolitana, sarebbero state proprio alcune patacche racchiuse tra le pieghe del bilancio di Capitalia uno dei regali avvelenati di Geronzi a Profumo. Nulla di più falso. Capitalia, acquistata senza sborsare un euro ma con scambio di azioni, quindi senza alcun indebolimento patrimoniale dell’acquirente; anche perché aveva un bilancio già ampiamente ripulito delle fecalità che lo adornavano sino a pochi anni prima. E la capitalizzazione complessiva dell’aggregato, che giunse a 100 miliardi di euro, fu assai utile a Unicredit, nel momento in cui scoppiò la crisi, per evitare di essere mangiato da qualche pesce più grande. Inoltre la quota di mercato di Unicredit in Italia, con  questa acquisizione, si avvicinava a quella di Intesa-Sanpaolo e dava vita a un oligopolio (in alcune zone  del  nord un duopolio di fatto) nel mercato del credito, che avrebbe dovuto scandalizzare i nostri ultras della concorrenza, e invece si attirò soltanto lodi. Fiumi di insensatezze corsero allora sui giornali. Si riuscì a dimostrare l’impossibile: ossia che tutti, ma proprio tutti, avrebbero guadagnato dall’operazione. I dipendenti (ne furono mandati a casa 7.000), i risparmiatori (che vedevano diminuire la  scelta di prodotti), i padroni e padroncini (che di colpo si trovavano ad avere a che fare con un molosso che in alcune regioni aveva da solo il 30% dei crediti), gli azionisti (l’unico che ci guadagnò fu il gruppo Angelucci, cliniche e giornali, che vendette prontamente i titoli Capitalia in proprio possesso e ritirò 400 milioni, avendone investito 5 anni prima appena 40).

Sconsiderate furono invece alcune acquisizioni  estere effettuate tra 2007 e 2008: in particolare  in Ucraina (Ukrsotsbank: 1,6 miliardi di euro) e Kazakhstan (ATF Bank: 1,6 miliardi anche in questo caso). Pagate per cassa, con generosi e insensati avviamenti, sono state un vero bagno di sangue. E probabilmente dovranno prossimamente essere rivendute per evitare svenamenti ulteriori.

Ma attenzione: già nell’estate del 2007 lo scenario cambia. All’inizio sembra soltanto una crisi di un prodotto obbligazionario un po’ strano, basato sui mutui subprime. Poi la situazione si avvita e parte la peggiore crisi economica da 80 anni in qua. Nel settembre 2008 Lehman Brothers fallisce e la circolazione sembra paralizzarsi a livello mondiale.

Unicredit come reagisce in questo nuovo contesto? Male. Anche perché proprio i suoi possedimenti tedeschi sembrano aver flirtato non poco con veicoli fuori bilancio e altre diavolerie escogitate per mettere fuori dal bilancio consolidato di gruppo molti rischi assunti con prodotti speculativi (derivati e non). Risultato: il titolo si accartoccia su se stesso, e la capitalizzazione  della banca crolla sino a 20 miliardi di euro, per poi riprendersi ma non troppo (oggi siamo intorno ai 37 miliardi, ma dopo ben due aumenti di capitale a pagamento del valore complessivo di 7 miliardi, a cui vanno aggiunti 2,4 miliardi di scrip dividend, ossia di dividendi non distribuiti).

In mezzo, tra caduta e stentata ripresa, succedono diverse cose importanti. Le autorità di mezzo mondo inondano il pianeta di liquidità, effettuano salvataggi bancari a ripetizione: in poche parole lo Stato non è più reaganianamente il problema, ma la soluzione – o, più prosaicamente, la ciambella di salvataggio per l’intero mondo finanziario internazionale. A questo punto sono nel mirino gli stessi manager prima glorificati come eroi del mercato. Profumo non fa eccezione. Ma tiene duro. Anche se non mancano gli scivoloni. Come quel mercoledì in cui annuncia al TG1 che Unicredit non ha bisogno di effettuare alcuna ricapitalizzazione, e la domenica successiva chiede svariati miliardi di euro ai suoi azionisti.

Ma questa è ancora la superficie della storia. Veniamo alla polpa: la verità è che i risultati economici del gruppo sono sempre meno soddisfacenti. Dai poco meno di 6 miliardi di utile del 2007 si crolla ai 600 milioni del primo semestre di quest’anno. Per un gruppo che conta 160.000 dipendenti è un po’ poco. La soluzione comunque è presto detta: siccome non si riesce ad aumentare l’utile, bisogna far scendere ulteriormente i dipendenti (già diminuiti di 20.000 [!] unità dall’inizio del 2008). E il 9 settembre di quest’anno il capo del personale di Unicredit sbatte in faccia ai sindacati un piano che prevede ulteriori 4.700 ulteriori esuberi in Italia. E che li motiva denunciando esplicitamente il crollo del margine di interesse e la perdita di competitività assoluta e relativa (cioè rispetto ai principali concorrenti italiani), con un documento che rappresenta involontariamente un vero e proprio atto di accusa nei confronti dei vertici del gruppo.

In una parola: stiamo parlando di una banca che funziona male. A nulla è servito il taglio dei crediti alle imprese in Italia per 10 miliardi di euro nel 2009 (Intesa ha fatto altrettanto, anche se adesso propaganda 10 miliardi di presunti nuovi prestiti alle PMI con paginate sui giornali). Fra l’altro, le sofferenze (ossia i crediti inesigibili per fallimento o altro) aumentano in misura esponenziale, mentre le relative coperture diminuiscono.

Oggi l’impressione è che la banca nel suo insieme sia fuori controllo, con inefficienze in Italia, un buco nero in Germania, e non pochi casini nei paesi dell’Est europeo (con l’eccezione della Polonia, dove economia - e conseguentemente Banca Pekao – hanno il vento in poppa).

Sembra riaffacciarsi all’orizzonte lo spettro di una ulteriore ricapitalizzazione. Profumo cerca di sventarlo chiamando nell’azionariato i libici, che oltretutto gli consentirebbero di riequilibrare l’azionariato in direzione non favorevole alle fondazioni bancarie italiane, che dopo le elezioni regionali della primavera scorsa scontano l’ipoteca di una Lega sempre più famelica di poltrone e di credito facile ai padani (possibilmente familiari). Qui compie un errore tattico e uno strategico. Quello tattico consiste nel sottovalutare il presidente, il tedesco Rampl (più che un nome, un codice fiscale); il quale si sente scavalcato dal dialogo intessuto solitariamente da Profumo con i libici (o almeno questo è quanto fa uscire sulla stampa). Quello strategico riguarda più in generale il rapporto con gli azionisti. Gli azionisti sono come i cani: puoi anche prenderli a calci di tanto in tanto; ma devi dargli il loro osso. Se il piatto piange e ossi da lanciare non ce ne sono più, e perdipiù gli allenti un calcio, ti becchi un bel morso.

Detto fatto: personaggi da commedia scespiriana come l’autotrasportatore Palenzona, il periclitante Biasi e molti altri consiglieri di amministrazione (la quasi totalità: il soldato Totuccio Ligresti ad esempio non vota) decidono infine di liberarsi di Profumo. Oltretutto senza avere un sostituto già a disposizione. Ma tant’è: è meglio battere il ferro finché è caldo.

A distanza di una decina di giorni (cosa piuttosto abnorme viste le dimensioni e l’importanza di questa banca, come si affretta a deplorare il Wall Street Journal) viene infine designato il successore, tal Ghizzoni, da molti considerato una mezza tacca e quindi una soluzione provvisoria (attenzione agli errori di valutazione, però: nel 1976 i maggiorenti socialisti elessero Craxi segretario confidando di poterlo cacciare dopo 6 mesi, e se lo sono tenuto per 16 anni; per cacciarlo c’è voluta letteralmente la forza pubblica…). Per giunta parte poi anche la manfrina della scelta del direttore generale: e a quanto pare ne saranno nominati due.

Tutto questo non è serio. Anche perché riguarda una banca che sembra non avere più un centro di gravità. Mentre all’orizzonte si profila minacciosamente il nuovo accordo internazionale (Basilea III) sui requisiti di capitalizzazione delle banche (molto più severi di adesso), è sempre meno chiara la funzione di Unicredit: non serve alle imprese, non serve ai dipendenti,  non serve ai risparmiatori, non serve agli azionisti. E c’è già chi pronostica anche per Unicredit il futuro di Abn-Amro: lo spezzatino. Ossia, in questo caso: spin off della banca tedesca, che la Merkel aspetta a braccia aperte; cessione del Kazakhstan – e qui presumibilmente sarà necessario oliare a dovere qualche satrapetto locale, magari facendosi dare un aiutino dall’Eni; abbandono del risparmio gestito (vendita di Pioneer); e così via.

Sarà questo il piano industriale che Ghizzoni presenterà tra qualche mese ad azionisti ormai depressi e dipendenti sempre più rassegnati all’inesorabile declino del gruppo? Questo oggi nessuno può dirlo con certezza.

Una cosa, molto più importante, è invece sicura: mai come oggi, nel buio di questa crisi che non finisce, le logiche del capitale finanziario sono state tanto distanti dai bisogni delle persone in carne ed ossa. Da questo punto di vista, Unicredit non è l’eccezione ma la regola. Cerchiamo di non dimenticarcelo, quando la crisi finanziaria che cova sotto la cenere tornerà a travolgere le big corporations del settore.

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