Il progetto mediorientale di Israele e Stati Uniti: egemonia o collasso?
di Roberto Iannuzzi
Le turbolenze interne a Israele, l’accelerazione del declino americano e le contraddizioni del piano Trump potrebbero mandare in fumo l’intero progetto egemonico israelo-americano per la regione
Proprio nei giorni scorsi Israele ha commemorato il trentennale dell’assassinio di Yitzhak Rabin, il primo ministro che nel 1993 aveva firmato gli Accordi di Oslo dando il via al “processo di pace” israelo-palestinese.
Rabin fu assassinato il 4 novembe 1995 da Yigal Amir, un estremista ebreo che si opponeva alla nascita di un’autonomia palestinese in Cisgiordania in base agli Accordi di Oslo.
Ricordando Rabin, Dennis Ross (all’epoca inviato USA per il Medio Oriente, e ora membro del Washington Institute for Near East Policy, un think tank filo-israeliano di orientamento neocon) ha tracciato un parallelo fra quegli anni e la fase attuale.
L’idea di una “nuova Oslo
Allora, gli Stati Uniti avevano appena sconfitto Saddam Hussein, e il presidente George H. W. Bush ne approfittò per lanciare la Conferenza di Madrid (1991) che avrebbe fatto da premessa agli Accordi di Oslo.
Oggi come allora, “i nemici di Israele sono in rotta”, ha scritto Ross. Tel Aviv “ha duramente colpito Hezbollah e Hamas; il regime di Assad in Siria è crollato; e la guerra dei 12 giorni condotta da Israele e Stati Uniti ha inferto un colpo significativo all’Iran”.
Ross conclude che “come accadde con Bush nel 1991, pochi paesi sono disposti a dire di no al presidente Donald Trump”.
Il ragionamento dell’ex inviato statunitense è indirizzato al premier israeliano Benjamin Netanyahu, accusato da Ross di non avere la stessa capacità di Rabin di cogliere le “opportunità” offerte dalla storia.
Ross ricorda che:
“Rabin cercò di trarre vantaggio da quelle circostanze collaborando con gli Stati Uniti per perseguire la pace con Siria, Giordania e palestinesi.
I suoi sforzi si fondarono sulla Conferenza di pace di Madrid, che gli Stati Uniti avevano contribuito a organizzare poco dopo la guerra [del Golfo]. La conferenza infranse l’annoso tabù sui colloqui diretti tra arabi e israeliani, e Rabin ne approfittò. Come egli spiegò in un discorso dopo essere diventato primo ministro l’anno successivo, Israele doveva promuovere la pace con i suoi vicini per concentrarsi sulla minaccia maggiore rappresentata dall’Iran e dal suo programma nucleare”.
Non pace, ma isolamento dell’Iran
Rivolgendosi a Netanyahu, Ross sostiene che:
“Se Rabin fosse vivo, riconoscerebbe questa apertura strategica e cercherebbe di coglierla. Vedrebbe nel piano di pace in 20 punti di Trump un’opportunità per ricostruire una Gaza migliore e creare una coalizione con gli stati arabi per contrastare l’Iran e le forze estremiste nella regione”.
In sostanza, nel suo articolo l’ex inviato americano esorta Netanyahu a non boicottare il piano Trump adottando posizioni massimaliste perfino per l’amministrazione USA.
Come ho spiegato in due precedenti articoli, il piano formulato dalla Casa Bianca per Gaza è in realtà un progetto neocoloniale che non offre nulla ai palestinesi, tanto meno la prospettiva di uno stato indipendente.
Ma il parallelismo storico tracciato da Ross è sostanzialmente corretto.
Alla luce della nascente rivalità con l’Iran, Rabin decise di rinunciare alla strategia di alleanze con i paesi della “periferia” mediorientale, optando invece per un percorso di riconciliazione con i vicini arabi favorito da un processo di pace israelo-palestinese.
Contemporaneamente, Washington escluse l’Iran dalla Conferenza di Madrid e dal processo di riconciliazione arabo-israeliano (malgrado le aperture compiute dall’allora presidente iraniano Akbar Hashemi Rafsanjani), puntando invece sulla creazione di un fronte regionale arabo-israelo-americano che isolasse Teheran (come afferma lo stesso Ross).
Il processo di pace avviato dagli Accordi di Oslo non avrebbe mai dato vita ad uno stato palestinese indipendente. Al contrario, dopo il 1993 la costruzione di insediamenti israeliani in Cisgiordania crebbe in maniera esponenziale.
Lo stesso Rabin non concepiva la possibilità di uno Stato palestinese, ma al più di una “entità” autonoma che fosse “meno di uno Stato”. La sua idea di un’autonomia palestinese, invisa all’estrema destra israeliana, gli sarebbe però costata la vita.
Similmente, lanciando il proprio piano in 20 punti da Sharm el-Sheikh in Egitto, Trump ha trionfalmente parlato di una nuova “era di pace” in Medio Oriente.
Se il suo piano, che ufficialmente non prevede più l’espulsione dei palestinesi da Gaza, dovesse concedere a questi ultimi un minimo di autogoverno nella Striscia e impedire l’annessione israeliana della Cisgiordania, diversi regimi arabi, fra cui l’Arabia Saudita, potrebbero di nuovo prendere in esame l’idea di una normalizzazione dei rapporti con Israele.
Come ha riconosciuto Ross, il vero obiettivo del piano non è quello di giungere realmente a una pace regionale, ma di “creare una coalizione con gli stati arabi per contrastare l’Iran” e i suoi alleati nella regione, oltre che di ancorare le monarchie del Golfo agli USA strappandole all’abbraccio cinese.
Una nuova “Oslo” in scala ridotta servirebbe dunque non già a offrire una reale soluzione alla questione palestinese, ma a fornire un’apparenza di soluzione in grado di compattare un fronte anti-iraniano che lasci Teheran completamente isolata nella regione.
Il paragone tra Oslo e il piano Trump lo ha proposto anche Shimon Sheves, che fu per anni il braccio destro di Rabin, proprio in occasione delle recenti commemorazioni dello scomparso leader.
Distruggere l’asse iraniano
Quanto il piano Trump sia sbilanciato a favore di Israele è già emerso in questi giorni, durante i quali Tel Aviv ha violato più volte il cessate il fuoco con il consenso di Washington, uccidendo oltre 240 palestinesi, ed ha fatto entrare meno di un quarto degli aiuti previsti in base agli accordi, ed essenziali per alleviare l’emergenza umanitaria nella Striscia, senza che la Casa Bianca sollevasse obiezioni.
Ma sia in Israele che negli ambienti neocon americani, vi è chi pone l’accento, prima ancora che sulla realizzazione del piano Trump, sulla necessità di sfruttare il momento di debolezza attraversato dall’Iran e dai suoi alleati, a seguito dei colpi loro inflitti da Israele nel corso della sua guerra “su sette fronti” (Gaza, Cisgiordania, Libano, Siria, Yemen, Iraq, Iran), per smantellare definitivamente il cosiddetto “asse della resistenza” filo-iraniano.
Come ha dichiarato lo stesso Netanyahu, Israele è passato “dal contenimento all’iniziativa”, in vista di una vittoria finale sui suoi avversari regionali.
A una riunione dello Stato maggiore dell’esercito, lo scorso settembre, il premier israeliano ha affermato che il prossimo anno avrà una portata storica, in quanto Israele porterà a termine la “distruzione dell’asse iraniano”.
Quest’idea non appartiene solo al governo, ma è condivisa anche da importanti esponenti dell’opposizione israeliana.
Presentando la “Visione di sicurezza israeliana per il 2040”, l’ex generale e attuale leader del partito “Blu e Bianco” Benny Gantz ha parlato della necessità di investire sulla difesa israeliana e di rendere inoffensivo l’Iran, poiché semplicemente “o siamo i più forti senz’ombra di dubbio, o non esistiamo”.
Gantz ha aggiunto che l’esistenza di Israele non è solo una questione di interesse nazionale degli israeliani, ma del mondo occidentale.
In altre parole, siamo chiaramente in presenza di un progetto egemonico, o che quantomeno è percepito come tale da molti paesi della regione.
Offensiva israelo-americana, dalla Cisgiordania a Teheran
Tra il 2023 e il 2025 vi è stato un aumento senza precedenti nell’approvazione di nuovi insediamenti in Cisgiordania, mentre Netanyahu dichiarava che “non scenderò a compromessi sul pieno controllo […] israeliano di tutto il territorio a ovest del Giordano”.
Fatti che contraddicono palesemente l’idea di uno stato palestinese.
Tom Barrack, inviato speciale USA per Siria e Libano, ha dichiarato che questi due paesi sono gli altri due pezzi essenziali della nuova “architettura di pace” regionale. Perché tale architettura si completi è necessario che il governo libanese proceda al disarmo di Hezbollah e che la Siria firmi un accordo di sicurezza con Israele.
Mentre l’amministrazione Trump sta esercitando enormi pressioni sul governo di Beirut affinché porti a termine il suo compito, Israele sta impedendo la ricostruzione nel sud del paese.
Nelle scorse settimane, aerei israeliani hanno bombardato macchinari edili e impianti per la produzione di cemento.
Un altro successo per Israele è l’aver ottenuto la terminazione del mandato dell’UNIFIL, la forza ONU dispiegata nel sud del Libano, entro la fine del 2026. Senza una presenza internazionale, Israele potrà consolidare il proprio controllo su quella porzione di territorio dove già oggi impedisce il ritorno di più di 82.000 sfollati libanesi.
Nel sud del Libano le forze armate israeliane, oltre a controllare cinque avamposti militari, hanno già imposto una occupazione “da remoto” attraverso l’impiego di droni e altri sofisticati sistemi di sorveglianza e dissuasione.
In Siria, sebbene il nuovo governo di Damasco non abbia compiuto alcun atto ostile nei confronti di Israele, le forze armate israeliane hanno occupato altre porzioni del Golan, hanno preso il Monte Hermon (la vetta più alta del paese), hanno bombardato l’aeroporto di Damasco e numerosi altri obiettivi, e si sono impadronite di risorse idriche strategiche.
Il governo Netanyahu è anche intenzionato a impedire che l’Iran ricostituisca il proprio programma nucleare danneggiato e le proprie capacità missilistiche, eventualmente attraverso un secondo round del conflitto militare avviato lo scorso giugno.
Anche su questo fronte Israele è spalleggiato dall’amministrazione Trump, che intende mantenere la propria politica di “massima pressione” nei confronti di Teheran, in particolare attraverso un’applicazione inflessibile delle sanzioni.
Washington è altrettanto determinata a spingere il governo iracheno a sbarazzarsi dell’influenza iraniana nel paese, soprattutto smantellando le milizie sciite vicine a Teheran.
La Casa Bianca è anche pronta a esortare Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti a collaborare con “partner locali” nello Yemen per contrastare il movimento di Ansar Allah (gli Houthi) che minaccia il traffico commerciale nel Mar Rosso ed è ritenuto uno dei pochi membri dell’asse iraniano a cui non sia stato ancora inferto un duro colpo.
Gaza come hub dell’integrazione economica arabo-israeliana
Nel quadro della nuova architettura regionale americana, Gaza va trasformata, attraverso l’eliminazione di Hamas, “da proxy iraniano demolito a prospero alleato abramitico”, come recitava il prospetto GREAT (Gaza Reconstitution, Economic Acceleration and Transformation) precursore del piano Trump.
La Striscia ricostruita viene concepita da tale piano non come un territorio abitato da una popolazione in possesso di diritti politici, ma come un hub logistico dell’India–Middle East–Europe Economic Corridor (IMEC), lanciato già dal predecessore di Trump, Joe Biden, nel settembre 2023.
L’IMEC rappresenta l’architettura economica degli Accordi di Abramo (i quali prevedono la normalizzazione dei rapporti diplomatici fra arabi e Israele), attraverso l’integrazione dello stato ebraico nelle catene di fornitura del Golfo, al prezzo della marginalizzazione della sovranità e dei diritti dei palestinesi.
Per Washington l’IMEC non è mai stato solo un progetto logistico, bensì una visione geopolitica per controbilanciare la Belt and Road Initiative cinese mantenendo l’India e le monarchie del Golfo ancorate al blocco transatlantico.
Il piano presenta però numerosi problemi di sostenibilità economica oltre che di fattibilità geopolitica, alla luce delle tensioni e dei conflitti che tormentano la regione.
Come accennato all’inizio, tale piano è poi messo in pericolo dall’intransigenza del governo Netanyahu.
Quest’ultimo è ostile all’idea di un ritorno dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) nella Striscia, e più in generale a qualsiasi forma di autogoverno palestinese. E teme che la forza internazionale di stabilizzazione prevista dal piano Trump possa portare a una internazionalizzazione della questione di Gaza.
Dal canto loro, le monarchie del Golfo sono preoccupate dall’espansionismo israeliano, candidato a minacciare paesi essenziali per la stabilità regionale araba come il Libano, la Siria e la stessa Giordania, dove tali monarchie hanno interessi e investimenti.
E il recente bombardamento di Doha, la capitale del Qatar, per mano israeliana ha mostrato ai sovrani del Golfo che neanche i loro territori sono immuni dalla minaccia israeliana.
Verso la disgregazione di Israele?
Tali tensioni sono complicate dalle crescenti turbolenze politiche, economiche e sociali interne allo stato ebraico, le quali contribuiscono ulteriormente a minacciare la realizzazione del piano Trump.
Come ha scritto lo storico israeliano Ilan Pappé nel suo ultimo libro nel quale arriva a prevedere la fine di Israele (si veda la recensione più sotto), la destabilizzazione interna allo stato ebraico è stata accelerata dall’abbandono, da parte del governo Netanyahu, dell’approccio incrementale adottato dai precedenti esecutivi nei confronti della questione palestinese.
La decisione di procedere a una pulizia etnica nella Striscia, e di impegnarsi in una guerra su più fronti protrattasi per due anni, ha acuito le tensioni interne al paese e affrettato il processo già in atto di disgregazione della società israeliana.
Il presidente Isaac Herzog ha citato questi pericoli nel suo intervento alla cerimonia di commemorazione per il trentesimo anniversario dell’assassinio di Rabin.
Egli ha parlato degli “impressionanti traguardi” raggiunti da Israele nella sua guerra su più fronti che ha “cambiato il volto del Medio Oriente”, grazie anche all’impegno dell’amministrazione Trump la quale starebbe conducendo uno “sforzo storico per espandere il cerchio della pace e della normalizzazione nella regione”.
Tutto ciò “apre davanti a noi enormi opportunità”, ha detto Herzog, aggiungendo che “per molti versi, questa è la realizzazione della visione di Rabin”.
Il presidente israeliano ha però ammonito che lo stato ebraico si trova “ancora una volta sull’orlo di un baratro”, poiché a distanza di trent’anni il paese sta vivendo gli stessi livelli di odio e prevaricazione.
Herzog ha avvertito che il clima di violenza nella società israeliana “è una minaccia strategica in tutti i sensi” per lo stato ebraico.
La stessa cerimonia di commemorazione di Rabin ha messo in evidenza le divisioni interne al paese, in particolare attraverso l’assenza di importanti figure politiche.
Netanyahu, che era il leader dell’opposizione all’epoca dell’assassinio di Rabin, e che un mese prima di quel tragico evento aveva parlato a una manifestazione di protesta a Gerusalemme in presenza di poster che raffiguravano Rabin in uniforme nazista, ha saltato la cerimonia come fa ormai dal 2021.
Altri assenti illustri erano l’ex premier Naftali Bennett, ritenuto lo sfidante più credibile di Netanyahu alle prossime elezioni, e Benny Gantz.
In coincidenza con l’anniversario, il ministro della sicurezza interna Itamar Ben Gvir ha sostituito il ritratto di Rabin negli uffici del suo ministero con quello del ministro di estrema destra Rehavam Ze’evi (anch’egli assassinato, ma da uomini armati palestinesi) il quale invocava la deportazione dei palestinesi dalla Cisgiordania.
Alcune settimane prima dell’assassinio di Rabin, Ben Gvir (allora giovane attivista di estrema destra) aveva mostrato uno stemma rubato all’auto del premier ammonendo: “Siamo arrivati alla sua auto, arriveremo anche a lui”.
Le turbolenze interne a Israele, l’accelerazione del declino americano e le contraddizioni del piano Trump potrebbero mandare in fumo l’intero progetto egemonico israelo-americano per la regione.
La fine di Israele
Le ragioni storiche alla base delle tensioni interne a Israele descritte nell’articolo qui sopra sono esposte in maniera esemplare dal noto storico israeliano Ilan Pappé nel suo ultimo libro, “La fine di Israele”, da poco uscito in Italia per Fazi editore.
Autore di numerosi volumi che rappresentano altrettante pietre miliari nello studio della storia israelo-palestinese, Pappé sostiene nella sua ultima opera che Israele si trovi ormai su una traiettoria insostenibile, di progressiva disgregazione.
Le ragioni di questa graduale implosione vanno ravvisate, secondo Pappé, nel lungo processo di trasformazione del sionismo, culminato con l’ascesa al potere dell’attuale governo Netanyahu, che egli definisce “neo-sionista”.
Lo stato neo-sionista di Israele è caratterizzato da un’estremizzazione dei valori del sionismo classico, e da un abbandono del vecchio approccio alla questione palestinese (che consisteva essenzialmente in una lenta e progressiva pulizia etnica), per passare all’arma del genocidio al fine di svuotare Gaza dai palestinesi in vista di un’operazione analoga da riprodurre in Cisgiordania.
La nuova entità neo-sionista fonde il sionismo religioso con l’ebraismo ortodosso ed è dominata da estremisti ebrei in gran parte emersi dal movimento dei coloni. Vi sono ormai 750.000 coloni in Cisgiordania e a Gerusalemme Est.
Oltre a impadronirsi dei territori palestinesi occupati scacciandone i loro abitanti, lo stato neo-sionista punta a creare un’egemonia israeliana regionale in grado di dominare i paesi vicini, primi fra tutti Libano, Siria e Giordania.
Detestati dai neo-sionisti sono non solo i palestinesi, ma anche gli ebrei laici, ritenuti un ostacolo alla nascita del nuovo stato. Questa tensione all’interno del tessuto sociopolitico israeliano è destinata a frammentare lo stato ebraico.
A questo processo di dissoluzione si accompagna la crisi degli Stati Uniti, il principale alleato di Israele e il pilastro che lo sostiene. Il declino dell’influenza americana nella regione è destinato ad accelerare la disgregazione israeliana.
Pappé ripercorre le tappe dell’ascesa del nuovo sionismo, individuando nell’affermazione del Likud di Menachem Begin che nel 1977 pose fine al predominio del sionismo laburista nel panorama politico israeliano, un punto di svolta che permise a gruppi e ideologi di estrema destra di accrescere progressivamente la propria influenza.
Essi svilupparono una letteratura che individuava nell’attuale fase storica un’occasione irripetibile per la rinascita dell’antico Israele biblico e per il ritorno al suo antico splendore.
Due ostacoli a una simile realizzazione erano rispettivamente la presenza dei palestinesi, e quella degli ebrei laici i quali avevano ormai esaurito il loro ruolo storico.
Queste correnti neo-sioniste, marginali negli anni ’70 e ’80 del secolo scorso, sono divenute sempre più rilevanti, ma il vero spartiacque per loro è giunto con la salita al potere del nuovo governo guidato Netanyahu alla fine del 2022.
Quest’ultimo, pur di rimanere al potere, ha deciso di schierarsi con le correnti della destra neo-sionista e di abbracciare la loro agenda politica. Ciò ha fatto sì che l’emergente stato neo-sionista stia gradualmente inghiottendo lo stato di Israele.







































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