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liberazione

Legare i salari alla produttività è pericoloso e poco economico

di Felice Roberto Pizzuti

salari03L'indagine della Banca d'Italia sui redditi delle famiglie conferma la necessità di aumentare i salari, che non è solo sociale, ma anche economica; stupisce invece che sulla stampa se ne parli come fosse una novità. E' dall'inizio degli anni '90 che i salari sono pressoché esclusi dagli incrementi di produttività e a malapena hanno recuperato sull'aumento dei prezzi; nel frattempo i profitti hanno aumentato la loro quota sul reddito di oltre dieci punti.

Per aumentare i salari, oramai tra i più bassi in Europa, il governo Prodi e le parti sociali stavano ragionando sulla possibilità di utilizzare la leva fiscale; è uno strumento che certamente può concorrere all'obiettivo, ma evitando due rischi. Il primo è che l'ipotizzata riduzione delle imposte sui salari possa essere compensata da tagli alle prestazioni sociali (già proposti da più parti) cosicché la loro sostituzione con acquisti sul mercato vanificherebbe l'aumento della busta paga.

Il secondo rischio è che anche le imprese (come già hanno chiesto) partecipino agli sgravi fiscali, sia direttamente (riducendo i loro contributi) sia indirettamente (contando sugli aumenti in busta paga derivanti dalla decontribuzione dei salari per contenere gli aumenti contrattuali a loro carico).

Se questi rischi si concretizzassero, non solo verrebbe meno l'obiettivo redistributivo a favore dei lavoratori, ma si asseconderebbe ancora la miope strategia seguita dalle imprese di perseguire la competitività riducendo gli oneri salariali anziché investendo nell'innovazione.

La via maestra per aumentare i salari è la contrattazione tra le parti sociali; a tale riguardo sta crescendo il dibattito sui ruoli da assegnare alla sfera nazionale e a quella aziendale.

Secondo una tesi accolta anche in settori dell'Unione e del sindacato, gli incrementi salariali dovrebbero essere giustificati dagli aumenti di produttività realizzati in ciascuna realtà produttiva, cosicché andrebbero decisi essenzialmente a livello aziendale, riducendo il peso della contrattazione centralizzata.

Circa il ruolo della produttività, va ricordato che essa esprime un concetto "fisico" cioè il rapporto tra la quantità prodotta e la quantità di lavoro impiegato. La sua crescita è legata al progresso tecnologico il quale, tuttavia, procede in modo difforme nei diversi settori produttivi, con determinanti e modalità che trascendono l'impegno dei rispettivi lavoratori.

L'incremento dell'intero reddito reale di un paese (che non coincide affatto con il suo benessere, ma questa è un'altra questione) è direttamente connesso all'aumento della produttività del suo sistema produttivo. Peraltro, con l'accresciuta integrazione economica sopranazionale e gli sviluppi tecnologici degli ultimi decenni, la crescita del reddito complessivo di un paese dipende maggiormente dalla sua competitività di qualità che non da quella di prezzo, più dall'innovazione di prodotto che non dalla compressione degli oneri salariali.

Ma qualunque siano le determinanti e la crescita quantitativa del reddito nazionale, la sua distribuzione - in particolare, tra i lavoratori di diversi settori e aziende - non ha molto a che vedere con l'evoluzione delle rispettive produttività.

Se si osservano le tendenze storiche, è facile constatare che in alcuni settori (specialmente in quelli industriali che maggiormente hanno incorporato il progresso tecnico) la produttività è cresciuta relativamente molto; in altri (specialmente in quelli dei servizi dove prevale l'impegno diretto delle capacità umane) è cresciuta relativamente poco. Tuttavia, l'evoluzione dei salari nei vari settori non si è adeguata ai rispettivi andamenti della produttività.

Per produrre un chiodo oggi occorre un impiego di lavoro "infinitamente" inferiore rispetto a qualche secolo fa, ma il tempo necessario ad un docente per spiegare il teorema di Pitagora ad uno studente non è cambiato molto. Se le dinamiche salariali dei lavoratori nei due settori dipendessero dall'evoluzione relativa delle loro produttività fisiche, negli ultimi secoli gli operai metalmeccanici dovrebbero aver goduto di una crescita delle retribuzioni "infinitamente" superiore a quella dei docenti di geometria. Naturalmente non è stato così. D'altra parte, il progresso tecnologico di cui hanno usufruito molti comparti industriali non è estraneo al fatto che il teorema di Pitagora continui ad essere insegnato, pur senza significativi incrementi di produttività (i quali non sempre sono auspicabili: Baumol giustamente si compiaceva che per suonare un quintetto di Mozart della durata di mezz'ora, da oltre due secoli continuano ad essere necessarie due ore e mezza di lavoro complessive).

Rintracciare un collegamento a livello aziendale tra crescita dei salari e della produttività rimane problematico anche se - come normalmente avviene (per omogeneizzare prodotti qualitativamente diversi) - la seconda viene misurata in termini non fisici ma di valore (ad esempio, fatturato per addetto).Ma in tal modo, la misura della produttività e il confronto della sua dinamica tra diversi settori vengono a dipendere anche dall'evoluzione dei prezzi relativi, creando problemi di circolarità.

Il punto è che i prezzi relativi e il valore attribuito alla produzione di ciascun settore e azienda dipendono essi stessi dalla distribuzione del reddito la quale, a sua volta, dipende dagli equilibri politici e dalla forza economico-contrattuale delle diverse parti sociali titolari di profitti, rendite e salari. Cosicché è la distribuzione del reddito che influenza la misura della produttività (in valore) e non il contrario. Peraltro, i fattori socio-politici che determinano la distribuzione del reddito non agiscono in modo omogeneo nei diversi settori, aziende e territori di uno stesso paese; inoltre i prezzi relativi sono influenzati anche da altre circostanze concrete come le differenti condizioni di mercato (più o meno concorrenziali) diffuse nei diversi settori e territori di produzione.

Dunque, pensare che i salari pagati in ciascuna azienda dipendano dalla produttività dei rispettivi lavoratori non solo non corrisponde alla realtà del modo di funzionamento dei sistemi economici, ma comunque non costituirebbe un legame tra retribuzioni e "meriti" dei lavoratori.

D'altra parte, i lavoratori impiegati nei diversi settori produttivi convivono in una stessa società e hanno bisogni simili cosicché se le dinamiche delle produttività aziendali e settoriali fossero fortemente disomogenee (come normalmente accade) e gli andamenti retributivi fossero corrispondentemente diversi, si creerebbero elevate e ingiustificate disparità, con conseguenti problemi di coesione sociale, a cominciare da forti conflitti e divisioni interne tra i lavoratori (che sarebbero un risultato politico non secondario e non casuale).

In definitiva, la proposta di legare i salari alla produttività aziendale e privilegiare la contrattazione decentrata non solo è socialmente e politicamente pericolosa, ma non è sorretta da solide ragioni economiche e risulta controproducente ai fini della competitività e della crescita. Infatti il legame aziendale tra produttività e salari tenderebbe ad accentuare il meccanismo perverso diffuso nel nostro sistema produttivo: esso non disincentiverebbe ma avvallerebbe le strategie delle imprese meno innovative, poiché - almeno nel breve periodo - consentirebbe di attenuare gli strutturali effetti negativi di quella loro miopia contenendo la dinamica salariale, la sicurezza delle condizioni di lavoro e la stabilità occupazionale dei loro malcapitati lavoratori.

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