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zeroconsensus

Analisi del DEF 2015

di Riccardo Achilli

basta tasse 679x535Con l’approvazione ufficiale del Def, si è in grado di fornire una indicazione, sia pur non ancora consolidata (come è noto, il Def va inviato, insieme al Piano Nazionale delle Riforme, alla Commissione Europea, entro metà aprile, in modo tale che, entro giugno, pervengano al Governo nazionale le “raccomandazioni” comunitarie, vero e proprio antipasto di possibili, per non dire probabili, modifiche al quadro previsionale di finanza pubblica, ed alla stessa manovra di stabilità per il 2016 che il Def anticipa, a grandi linee. Vale la pena ricordare che, l’anno scorso, le previsioni di disavanzo nominale rispetto al Pil, inizialmente stabilite al 2,2% da Padoan, sono state portate al 2,6% su pressione della Commissione, evidentemente portando ad una manovra di stabilità più pesante e recessiva di quella inizialmente abbozzata).

Iniziando dal quadro previsionale di finanza pubblica, esso si basa su una ipotesi di progressivo irrobustimento, sotto forma di vera e propria ripresa, della crescita, che quest’anno dovrebbe attestarsi sullo 0,7%, per poi arrivare all’1,4% nel 2016 ed all’1,5% nel 2017. Tale ipotesi si bassa su una ripresa delle esportazioni, che dal +2,7% del 2014dovrebbero crescere del 3,8% nel 2015 e del 4% in ciascuno dei due anni 2016 e 2017, degli investimenti privati (che dopo il calo di 3,3punti nel 2014 dovrebbero crescere di 1,1 punti nel 2015, e di 2,1punti nel 2016) e dei consumi interni, che dovrebbero crescere dello0,8% nel 2015 (dopo lo 0,3% del 2014) fino all’1,4% nel 2017.Completa questa rosea previsione una riduzione di spesa per interessi sul debito pubblico pari a 0,3 punti di PIL (ovvero, per un risparmio pari a poco più di 4,9 miliardi).

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micromega

Alle origini del declino economico italiano

di Guglielmo Forges Davanzati

Le tesi più accreditate nel dibattito sulle cause della recessione italiana – eccessivo debito pubblico, settore pubblico ipertrofico e poco produttivo, adozione dell’euro – non tengono conto che la crisi attuale è il prodotto di un lungo sentiero di declino economico che parte dagli anni novanta, la cui principale causa risiede nella rinuncia all’attuazione di politiche industriali

declino economico italiano forges davanzati 150Nel dibattito sulle cause del c.d. declino economico italiano, le due tesi più accreditate sono le seguenti. Da un lato, vi è chi sostiene che esso dipende dall’eccessivo debito pubblico e dall’esistenza di un settore pubblico ipertrofico e poco produttivo; dall’altro vi è chi ritiene che esso sia imputabile, in ultima analisi, all’ingresso nell’Unione Monetaria Europea e alla conseguente adozione dell’euro, che, impedendo la svalutazione, avrebbe ridotto la domanda interna a causa della contrazione delle esportazioni. Ciò che accomuna queste posizioni è il ritenere che la recessione italiana trovi le sue cause in vicende che si sono determinate in un passato relativamente breve e il ritenere che il declino italiano abbia una radice monocasuale.

In quanto segue, si proverà a mostrare, per contro, che il declino economico italiano è semmai da imputare a una dinamica di lungo periodo e che si è manifestato con la massima intensità in questi ultimi anni a seguito di un shock esogeno (l’esplosione della bolla dei mutui subprime negli USA come esito dell’accelerazione dei processi di finanziarizzazione) innestatosi su una struttura produttiva la cui fragilità era palese già da almeno un ventennio.

Si parta dal presupposto che le caratteristiche strutturali dell’economia italiana sono fondamentalmente queste.

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orizzonte48

L'austerità non funziona per la ripresa ma solo per distruggere la democrazia

di Quarantotto

ae992cab 43fe 46de aaf9 17ccfa4520fa medium1. Ancora sulla ripresa fantasma, "a dispetto del QE" e delle sue attese irrealistiche.

Questi i dati principali di un'analisi del Centro studi di Unimpresa, secondo cui nell'ultimo anno, ogni mese non sono stati spesi o investiti, in media, 6,5 miliardi.

"Le famiglie non spendono e lasciano in banca oltre 30 miliardi di euro in un anno: vuol dire che ogni mese vengono accantonati 2,5 miliardi. Negli ultimi 12 mesi è passato infatti da 861 a 891 miliardi, in aumento di oltre il 3%, l'ammontare delle riserve degli italiani. 

"C'è paura di spendere e paura di investire, paura di nuove tasse o di ulteriori difficoltà coi bilanci'', spiega il presidente di Unimpresa, Paolo Longobardi. Una tendenza seguita anche dalle aziende e dalle imprese familiari, con i salvadanai cresciuti, rispettivamente, di 13 miliardi (da 190 a 203 miliardi) e di 2 miliardi (da 43 a 45 miliardi), oltre che dalle onlus (+717 milioni) e dagli istituti di credito (+32 miliardi); in leggero calo i depositi delle assicurazioni (-1,3 miliardi). Complessivamente, le provviste finanziarie sono salite di 78 miliardi (+5%) passando da 1.457 miliardi a 1.535 miliardi.

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micromega

L’austerità “flessibile” che non genera crescita e accentua le diseguaglianze

di Guglielmo Forges Davanzati

no austerity europaCon uno slittamento semantico che ben poco toglie alla sostanza della questione, le politiche economiche suggerite dalla commissione europea vengono ora definite di austerità “flessibile”1, dove è l’aggettivo a contare maggiormente sul piano comunicativo. Ciò a indicare che la stagione delle misure radicali di riduzione della spesa pubblica e di aumento della pressione fiscale sarebbe ormai terminata.

In questa nuova prospettiva, fatta propria dal Governo Renzi, si inserisce la proposta formulata da due dei più accreditati economisti italiani – Alberto Alesina e Francesco Giavazzi – di far ripartire la domanda interna riducendo la pressione fiscale e sforando temporaneamente il vincolo del 3% del rapporto deficit/Pil2. E’ una proposta che merita di essere discussa proprio perché essa è alla base di quello che viene propagandato come un nuovo corso della politica economica italiana.

Si tratta di una proposta apparentemente di buon senso, definita keynesiana e, in quanto tale, “di sinistra”. In realtà, essa non è affatto keynesiana, non è affatto “di sinistra” (se la si legge considerando gli effetti redistributivi che la sua attuazione produrrebbe), e non è neppure di buon senso. Per queste ragioni.

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marx xxi

L'Italia ha perso nella guerra tra capitali

di Pasquale Cicalese

draghi merkel murales«La decisione di immettere base monetaria attraverso il canale dell’acquisto di titoli di stato per un totale di 130 miliardi da parte della Banca d’Italia ha due conseguenze. Mina il bilancio di Palazzo Koch impegnando – in maniera obbligatoria, pare – le riserve ufficiali anche auree. E impedisce in futuro allo stato italiano ogni genere di rinegoziazione o di dichiarare default del proprio debito senza determinare gravi conseguenze anche per la “sua Banca centrale”. Il QE funziona come un’ulteriore bardatura che impedirà al paese scelte diverse da quelle di stare in Europa, obbedendo a Berlino-Bruxelles a rischio di trasformarci in colonia politica». Paolo Savona, economista, già Ministro dell’Industria del governo Ciampi, in “Quel trucchetto di Draghi per incatenare l’Italia all’euro”. Il Foglio 12 febbraio 2015.

Abbiamo perso la guerra, perché non l’abbiamo mai combattuta. Resa senza condizioni, sin dal 1992, quando si decise la fine della Prima Repubblica fondata sul ruolo dei partiti nati dalla Resistenza e si decise, in ossequio a Washington e Berlino, di smantellare i colossi pubblici.

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kappadipicche

Privatizzazioni italiane

Una storia di insuccesso da portare a termine

Mario D’Aloisio

Riceviamo e nuovamente pubblichiamo una interessante riflessione di Mario D’Aloisio

svendesi-257x300Messa in archivio la partita del Colle, Matteo Renzi torna ad occuparsi di economia, e lo fa organizzando a Roma un raduno di due giorni coi principali investitori internazionali per mettere sul piatto quel che rimane della grande impresa pubblica italiana (Eni, Enel, Poste Italiane, Ferrovie dello Stato, Finmeccanica) in cambio di denaro liquido. A scriverlo è Bloomberg , secondo cui alla conferenza, patrocinata da UniCredit, saranno presenti anche emissari del Tesoro e della Cassa depositi e prestiti. L’obiettivo ufficiale del Governo italiano, condiviso con Bruxelles, è quello di accelerare il processo di privatizzazioni per raccogliere fondi destinati alla riduzione del debito pubblico, in conformità col patto di stabilità e crescita. Questa dunque la notizia, da tempo nell’aria. A questo punto sembra tuttavia doveroso un cenno a quel che hanno rappresentato le privatizzazioni italiane, condotte “da sinistra”, a partire dalla firma del Trattato di Maastricht e negli anni a seguire, soltanto per comprenderne la natura ambigua, oltre che gli effetti del tutto negativi in termini di opportunità economica. In quanto leader del Partito Democratico Renzi ha soltanto imboccato una strada già battuta dai sui predecessori. Vediamo di capire come.

 

La sinistra dopo Maastricht

Gli anni che seguirono al Trattato di Maastricht inaugurarono in Europa la stagione del socialiberismo, cioè del capitalismo camuffato sotto la falsa identità socialista. I governi della sinistra europea che gestirono il periodo della transizione furono i veri promotori a livello nazionale di un “modello di globalizzazione finanziaria e deregolarizzata” (Bloomfield) assai poco conciliabile coi valori tradizionali della socialdemocrazia.

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micromega

Una domanda semplice ad Alesina e Giavazzi

di Piergiorgio Gawronski

alesina-giavazzi-250Sul Corriere, dopo aver ricordato che in Italia “il Prodotto interno lordo scende da 13 trimestri”, i due alfieri del liberismo nostrano offrono la loro ricetta 2015.0 per “porre fine alla recessione”. E spiegano: “La riforma del mercato del lavoro non basta. Ci vuole anche più domanda”. Bene. Cioè… insomma: se ci vuole più domanda, allora la riforma del mercato del lavoro non è che “non basta”, è proprio dannosa: deprime la domanda! “Ci vuole più domanda” é come dire che c’è un eccesso di potenziale di offerta. Ma il Jobs Act mira a stimolare ulteriormente questo potenziale; se proprio lo si vuole approvare, adesso, sarebbe meglio che entrasse in vigore quando la domanda si sarà ripresa.

Domanda (aggregata) nel linguaggio degli economisti significa spesa, acquisti, e – dal punto di vista delle imprese - vendite. In effetti il grafico dell’Istat sulle vendite delle imprese mostra che la domanda continua a contrarsi: in ottobre il calo a/a è stato -0,8%.

Ripetiamolo: non basta che il barista prepari “100 caffè all’ora” (Bagnai) e li poggi sul banco (con efficienza, produttività, onestà): deve anche venderli. E perché mai la gente non dovrebbe comprarsi un buon caffè caldo, con freddo che fa? Sì, è così: perché ha paura poi di trovarsi in difficoltà economiche - con la crisi, le nuove leggi che facilitano i licenziamenti, il debito pubblico che se esplode sarà peggio che in Grecia, ecc. Perciò s’indebolisce anche la domanda di lavoro da parte delle imprese (grafico sotto), e il cerchio si chiude.

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gramsci oggi

Ridateci l'Iri

di Bruno Casati

Particle-Fever 07 Installing-the-ATLAS-calorimeter Photo-Courtesy-of-CERN-1024x667L’italia produttiva affonda. Per tenerla a galla non bastano più moda e turismo, ma nemmeno i “distrettini” del made in Italy che, senza una grande industria alle spalle, sono in sofferenza. Siamo alla desertificazione industriale: dal declino si è scivolati nel dissesto.

E nessuno si sogna di investire in Italia. I capitalisti italiani, da tempo, si sono eclissati. Quelli esteri, indifferenti rispetto al Jobs act, si guardano bene dal metterci i quattrini a rischio nel paese che, secondo l’autorevole classifica di Transparency international, è ormai il più corrotto d’Europa (e quella classifica non considerava gli scandali Expo, Mose e Mafia Capitale). Ora però è squadernato un ultimo caso di crisi industriale, quello dell’Ilva di Taranto o, se si vuole, dell’acciaio italiano, che, per la sua rilevanza materiale e simbolica, costringe anche gli indifferenti che ci governano a metterci la faccia.

Perché l’Ilva è diventata un mistero doloroso, visto che, pur passata di mano da un manager ottantenne come Bondi a uno più giovane come Gnudi, continua comunque ad affondare inesorabilmente e in un silenzio tombale. ora questo silenzio viene rotto, all’unisono, dal segretario generale della Fiom e dal Presidente del Consiglio. Pare dicano le stesse cose, ma non è così.

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economiaepolitica

ILVA: i costi della chiusura e le ragioni per nazionalizzarla

Roberto Polidori e Nadia Garbellini *

Taranto-ILVALa vicenda di ILVA deve essere l’occasione per discutere le conseguenze economiche e sociali delle politiche Europee. A chi afferma che ILVA non si può nazionalizzare perché i trattati non lo consentono, è possibile opporre numerosi argomenti, tanto politici quanto economici.

Come riportato da Luigi Pandolfi, dal 2008 al 2013, mentre ingenti patrimoni privati venivano salvati con centinaia di miliardi di euro pubblici, i PIIGS operavano tagli strutturali a welfare e sanità per 230 miliardi di Euro, un’enorme redistribuzione di ricchezza diretta da Commissione Europea, BCE e Fondo Monetario Internazionale.

Questa Europa, come dice Colin Crouch,[1] è il trionfo del liberismo reale, che “produce un’economia politicizzata molto distante da ciò che gli economisti intendono per economia liberale”. Gruppi di interesse privati accentrano capitale attraverso l’attività di lobbying, concentrando la produzione nel centro e distruggendo capacità produttiva “in eccesso” nelle aree periferiche, depredandone le risorse ambientali e creando disoccupazione. Emiliano Brancaccio ha spiegato il processo di germanizzazione dei capitali (o mezzogiornificazione dellEuropa) sottolineando come anche aziende competitive possano essere spazzate via in questo processo di desertificazione industriale.

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rassegna sind

Economia: il bilancio (molto) magro del governo Renzi

di Paolo Pini e Roberto Romano

vauro-1-300x300Il bilancio della politica economica del governo Renzi è molto magro. Dopo quasi 10 mesi di governo, tanti annunci, pochi risultati e non pochi errori, l’azione economica del governo non solo non ha fatto cambiare idea a coloro che lo avevano sin dall’inizio contrastato, e questo può essere ovvio benché qualche ripensamento sia sempre da annoverare, ma sta profondamente deludendo anche chi aveva dato ampio credito a Renzi che ha sostituito a febbraio 2014 l’inefficace Letta. Ma oggi vi è chi rimpiange pure quel precedente governo.

Prologo. Nell’autunno del 2013, la Legge di Stabilità 2014 elaborata dal Governo Letta era volta unicamente al rispetto dei vincoli previsti dai Trattati europei, e non alla crescita del reddito e dell’occupazione. Ciò nonostante, la Commissione Europea non aveva dato “semaforo verde”, in quanto il rientro dal debito non era garantito nel breve e medio periodo. La proposta governativa non veniva giudicata soddisfacente dai tecnocrati europei perché non coerente con le politiche di rigore e di austerità. Essa però neppure soddisfaceva le parti sociali che chiedevano interventi non simbolici per la riduzione strutturale e selettiva del cuneo fiscale, e quindi per la crescita e l’occupazione. Il governo prevedeva allora una crescita del reddito dell’1,1% per il 2014, ma per conseguire questo risultato non vi era traccia di alcuna politica economica supportata da risorse economiche reali. A dicembre 2013 il Parlamento approvava la Legge di Stabilità, ma il paese nei sondaggi sfiduciava Letta.

Entrata in campo. Ad inizio gennaio Renzi annunciava il suo Jobs Act per la crescita e l’occupazione e chiedeva di cambiare verso, in Italia ed in Europa. Il lavoro veniva posto al centro della nuova azione, e due pilastri dovevano sostenerla: (a) una politica del lavoro per ridurre il dualismo tra i lavoratori protetti e gli esclusi dal lavoro e dal mercato; (b) una politica economica ed industriale per ridare competitività al sistema produttivo ed alle imprese italiane.

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the walking

L’esito giapponese del miracolo cinese

Maurizio Sgroi

wen hatoyama 2010Poiché mi persuade il pensiero che l’economia abbia a che fare con la fisiognomica assai più che con la matematica, ho letto con divertita sorpresa l’analisi contenuta nell’ultimo Geneva Report sullo stato di salute e le prospettive dell’economia globale dove ho trovato un capitolo sull’economia cinese. Ossia uno dei due vasi di ferro della nostra economia globale.

Divertito, perché il grande sforzo profuso dagli autori nell’elaborare aritmetiche astruse e congetture stocastiche non conduce poi così lontano da una considerazione che sarebbe bastata, appunto,  la semplice fisiognomica a dedurre: i cinesi somigliano ai giapponesi. Le loro economie, quindi, di conseguenza. E la constatazione che tanto è capitalista il giapponese quanto comunista il cinese appare un miraggio che evapora di fronte alla sostanza della realtà.

Poiché la cosiddetta scienza economica non frequenta le seduzioni del paesaggio, contentandosi di astrazioni cervellotiche ed econometrie retoriche in omaggio al mito seicentesco dell’obiettività, tale affermazione parrà ai tanti esperti che si dicono tali una sorta di molle chiacchiericcio, incapace di sostenere una seria conversazione da accademia. E sicuramente è così: l’accademia, per evidenti ragioni di bottega, è il luogo della censura di ciò che ad essa non corrisponde.

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asimmetrie

Le riforme strutturali sono depressive

di Piergiorgio Gawronski

11pol2f04-draghiIn questi anni abbiamo più volte osservato che in una Grande Recessione l’economia smette di funzionare in modo ‘normale’. La ‘trappola della liquidità’ genera un mondo alla rovescia “dove la virtù è vizio, ed il vizio virtù” (Krugman). Qualche esempio:

♦ L’austerità non riduce il debito pubblico (i moltiplicatori fiscali sono molto più alti del solito)

♦ La riduzione della spesa pubblica è più depressiva dell’aumento delle tasse

♦ Tuttavia alzare l’IVA è molto depressivo

♦ Stampare base monetaria (M0) non aumenta significativamente la massa monetaria (M3)

♦ Una crescita della massa monetaria M3 non aumenta l’inflazione

♦ Ampliare il deficit pubblico non alza i tassi d’interesse

♦ Le crisi finanziarie dei titoli pubblici (spread) “non dipendono tanto dal debito pubblico” quanto “piuttosto … dalla banca centrale”: Draghi dixit!

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micromega

Gli effetti redistributivi del debito pubblico

di Guglielmo Forges Davanzati

E’ evidente che ogni emissione di titoli dello Stato determina sul mercato
industriale una vera sottrazione di capitali e crea, per necessità, una classe
di oziosi. E come il debito pubblico cresce, cresce parallelamente il numero
delle persone che non fanno nulla e che vivono di rendita. Questa classe
parassitaria deprime inevitabilmente le condizioni del lavoro. Poiché lo Stato,
per mantenerla, è costretto ad attingere largamente all’imposta” (F.S.Nitti, 1894)

Nonostante dichiarazioni di segno contrario, il Governo ripropone misure di riduzione della spesa pubblica che, oltre a ridurre occupazione e crescita, aumentano il debito pubblico. Una strategia che, in assenza di monetizzazione del debito, rischia di penalizzare i percettori di redditi bassi a beneficio della rendita finanziaria. Vediamo perché

po4Il Presidente del Consiglio ha recentemente dichiarato che: “Se riusciremo a spostare l’attenzione dall’austerità alla crescita, cambiando il paradigma economico dominante di questi anni di crisi, la ricaduta sulla vita delle persone in posti di lavoro e capacità di spesa sarà evidente”, facendo propria una convinzione ormai pressoché dominante nel dibattito italiano secondo la quale le politiche di austerità hanno prodotto esclusivamente danni e, contrariamente all’obiettivo prefissato, hanno contribuito a far crescere il rapporto debito pubblico/Pil.

Non vi è dubbio che ciò sia successo, e non vi è dubbio sul fatto che esse siano assolutamente irrazionali. Ma va registrato che questo Governo continua a praticare misure di riduzione della spesa pubblica (in particolare, nei settori della formazione e della sanità[1]), in palese contrasto con le dichiarazioni – o gli auspici – di Renzi.

E va anche registrato che, almeno nelle intenzioni dichiarate, ciò che il Governo intende fare è convincere la commissione europea a rendere più “flessibili” i vincoli di finanza pubblica, così da rendere possibili politiche di spesa pubblica in disavanzo. Politiche che, nelle condizioni date, non potrebbero che essere finanziate tramite emissioni di titoli pubblici sui mercati finanziari.

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appelloalpopolo2

La Legge di stabilità e l’ingannevole evergetismo renziano

Andrea Riaca

Matteo-Renzi-Foto-da-Facebook-di-Matteo-RenziAl Tg Rai delle 13.00 del 18 ottobre a proposito della legge di stabilità hanno parlato di “manovra espansiva ottenuta attraverso un taglio delle tasse coperto con la riduzione della spesa pubblica”.

Gli fa eco Linda Lanzillota Vice Presidente del Senato intervistata a Skytg24 Pomeriggio: “Legge di stabilità: Manovra espansiva come non si vedeva da vent’anni”.

E ancora da un ANSA del 16 ottobre: “Una manovra da 36 miliardi di euro, espansiva e studiata con l’obiettivo preciso di abbassare le tasse, arrivate ad un livello che, secondo la definizione di Matteo Renzi, è ormai pazzesco”.

Debora Serracchiani, vicepresidente nazionale del Partito democratico, a T-Mag: “Una manovra finalmente espansiva”.

Insomma il mainstream sta cercando di far passare il messaggio che la Legge di Stabilità 2015 sia una manovra espansiva.

Ma è veramente così?

Da un qualunque testo di politica economica apprendiamo che la politica di bilancio può essere espansiva, restrittiva oppure in pareggio.

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paroleecose

La Cina al bivio

Crescita economica e distruzione dell’ambiente

di Lara Marie Djurovic*

Foto1 webIn anni recenti la Cina è passata da un’economia di Stato a un’economia di mercato e da paese in via di sviluppo ad una nazione progredita. Questi cambiamenti complessi hanno prodotto contraddizioni inevitabili. Se le attuali disparità dell’economia cinese, lo “squilibrio degli investimenti” o il suo “squilibrio esterno”, rappresentano rischi di breve/medio periodo per la sostenibilità della crescita, il vero problema è però legato ai fattori ambientali e socio-politici di lungo periodo che minacciano non solo quest’economia, ma il futuro dell’intera nazione e della comunità internazionale.

Le questioni più urgenti che riguardano il futuro cinese sono l’esaurimento di sorgenti d’acqua non riciclabile, la crescita della popolazione, il degrado ambientale, il consumo di energia, l’inquinamento dell’aria, e, infine, la minaccia per la stabilità civile e lo Stato che simili contraddizioni potrebbero innescare. Questo saggio esaminerà ogni aspetto nel tentativo di comprendere quali siano gli ostacoli per una crescita sostenibile cinese e una sua espansione futura, cercando di capire se le misure del governo per attenuare le minacce siano davvero adeguate, oppure siano mere soluzioni soluzioni-tampone per mettere a tacere gli spettatori preoccupati, mentre nella realtà si continua a legittimare uno sviluppo pericoloso e irrefrenabile.