
La canea filosionista e l’arresto di Hannoun
di ALGAMICA
Il giornalismo è l’arte di come si monta una notizia da fatti più o meno accertati, sviluppando poi una trama secondo gli interessi di chi si vuole servire.
A far gran cassa in questi giorni è l’operazione congiunta da parte della DNAA, Digos, Guardia di Finanza e la logistica dei servizi segreti israeliani che hanno portato all’arresto di 9 persone, tra cui Mohammad Hannoun e altri esponenti e attivisti dell’Associazione Palestinesi d’Italia (API). Un’operazione che prima di essere di polizia e della Magistratura è del governo, che nella complicità col genocidio ancora in atto in Palestina e a Gaza, mira a colpire, disorientare e scoraggiare una mobilitazione generale in fase di riflusso contro lo Stato di Israele e tutti i suoi complici occidentali.
Le carte degli inquirenti, di cui la stampa del libero Occidente è felice di fare da megafono, raccontano di come certe organizzazioni dei palestinesi in Italia abbiano raccolto la cifra di 7,28 milioni di euro, di cui uno sequestrato durante il bliz poliziesco. Una raccolta fondi cresciuta nell’ultimo periodo “strumentalizzando” le mobilitazioni ProPal di questi ultimi due anni, il cui scopo non erano gli aiuti per i gazawi ma per altri fini: ovvero finanziare la rete “terroristica” di Hamas. Una ricostruzione degli inquirenti cui si aggiungono i ricami della stampa liberale e del governo Meloni, che collegano Hannoun alle operazioni Flotilla e all’attivismo di Francesca Albanese additando i partecipanti di un intero movimento quali utili idioti. Mentre i partiti di opposizione AVS e M5S, vergognosamente fanno proprie le ragioni degli inquirenti e si rivolgono al movimento ProPal, nella sua fase di riflusso, suggerendo di prendere le distanze da una strenua difesa di Mohammad Hannoun, Abu Omar (e l’intera API di conseguenza), e lasciati in balia delle autorità costituite perchè nemici della causa palestinese.
Vogliamo chiarire da subito che ci interessa poco accertare se i fatti da cui originano le indagini degli inquirenti e che i giornali riportano con dovizia di particolari siano veri o artefatti.
Anche il giornalismo è un’arte libera, dipende chi paga. Certo – ecco l’arte del giornalismo – la cifra raccolta negli anni (7 milioni di euro) pare da capogiro, così come il contante sequestrato durante le perquisizioni dell’altra notte.
Nel farlo, il giornalismo mette in secondo piano il contesto. Che la cifra in questione è il totale raccolto dal 2001 ad oggi, ovvero in più di 23 anni, che per lo più proviene dalle rimesse dei palestinesi della diaspora e di chi è solidale con la Palestina e che rappresenta una media di 320 mila euro all’anno. Se così stanno le cose parliamo di bazzecole!
Così come non si fa menzione alcuna che gli accordi di Oslo del 1994 negavano una qualsiasi autonomia finanziaria dei palestinesi per le amministrazioni di West Bank e di Gaza (prima di essere rasa al suolo). Un meccanismo, quello sancito dagli accordi di Oslo, che imponeva alle rimesse dei Palestinesi della diaspora di dover essere convertite in Shekel israeliano attraverso dei fondi bancari controllati dal governo israeliano. Un elemento che ha consentito negli anni allo Stato ebraico di tagliare fuori dal sistema finanziario internazionale la Palestina come e quando voleva, nonché di bloccare la circolazione della moneta nei territori “amministrati” dai palestinesi, e di trattenere nelle casse dello Stato israeliano un 3%, di bloccare i fondi per Gaza, tagliare dai piani amministrativi le pensioni per le famiglie dei martiri o dei prigionieri palestinesi. In sostanza, un quadro di controllo finanziario assoluto per amministrare il fabbisogno quotidiano complementare allo stato di occupazione dell’insediamento del colonialismo, dell’apartheid e di pulizia etnica.
In sostanza se già prima del 7 ottobre 2023 ogni soldo, ogni chiodo e ogni kilowatt raggiungeva Gaza col contagocce mentre in Cisgiordania solo se vincolato agli accordi di sicurezza ANP e Tel Aviv, da dopo il 7 ottobre 2023 al cappio finanziario si è aggiunto il genocidio tutt’ora in corso seppure a bassa intensità. La stessa UNRWA, che per 75 anni aveva realizzato un canale legale – secondo i criteri imposti dal padrone occidentale – per gli aiuti ai rifugiati palestinesi in Giodania, Libano, Siria e a Gaza, subito dopo il 7 ottobre è stata liquidata per “sospetta” complicità con Hamas con il benestare di tutti gli Stati dell’Occidente. In questo quadro generale, dove ancora oggi Israele – con la complicità del governo italiano e dell’intero Occidente – non fa passare un chicco di riso a Gaza, può far stupore che nelle sedi delle Organizzazioni dei palestinesi ci si ingegni su come far arrivare denaro in Palestina e che, nell’estrema difficoltà di farlo arrivare si sia accumulato un magro tesoretto in contanti?
Parliamo di magro tesoretto sia in confronto alle necessità e alle distruzioni compiute in questi due anni, sia perchè impallidisce nel confronto con la cifra di 1.476,70 milioni di dollari racimolati nel solo primo trimestre del 2025 dalle varie Comunità Ebraiche in Occidente e che sono convogliati a sostenere finanziariamente Israele. Comunità, queste sì dedite al sostegno del terrorismo vero, quello di Israele, che non solo con le proprie rimesse finanziano la macchina del genocidio, ma nelle Sinagoghe fanno opera di reclutamento militare di volontari disponibili a partecipare al massacro di uomini, donne e bambini.
Sia detto per inciso, che una delle vittime di Bondi Beach del 14 dicembre scorso era il rabbino chabadnik Eli Schlanger, che nelle settimane precedenti si era fatto fotografare mentre firmava una bomba destinata ai palestinesi e ripreso sulle alture nei pressi di Hebron in una postazione dell’IDF mentre rivendicava l’appartenenza di tutta la terra al solo popolo eletto. Anche la celebrazione dell’Hanukkah di Sydney era organizzata da quella stessa corrente dall’ebraismo Chadab Chassidico occidentale, non sionista in senso tradizionale, che sostiene le politiche più oltranziste nella visione del Grande Israele, l’occupazione di tutte le terre in Palestina dal fiume al mare e la vivida propaganda che Tel Aviv sta facendo ciò che deve fare a Gaza. Una corrente giudaica in forte ascesa nelle Singagoghe d’Occidente – nelle quali già abbondava la complicità col genocidio fatto di colpevoli silenzi o di aperte giustificazioni nei confronti del governo israeliano - e che per quanto concerne il governo di Tel Aviv vede rispecchiati i propri valori nelle personalità del calibro di Ben Gvir e Smotrich.
Ma si sa, Israele è la creatura dell’Occidente che agisce per conto degli interessi occidentali. E gli ebrei in Occidente finchè si identificano con la difesa a oltranza dello Stato ebraico, le comunità ebraiche rappresentano l’avanguardia politica di quegli stessi interessi.
Sicchè quanto loro raccolgono finanziariamente ha il nulla osta della Guardia di Finanza perchè và solo in opere di bene. Se, poi come inevitabilmente accade, sono colpite per il ruolo, che in quanto comunità svolgono, da gesti di disperazione e spirito di vendetta di fronte a un genocidio che viene normalizzato mentre un movimento generale rifluisce, si esprime solenne cordoglio delle morti incolpando la mobilitazione internazionale che ha messo sotto il giudizio della storia il cane da guardia degli occidentali in Medio Oriente. Viceversa, quanto viene raccolto dall’impegno dei palestinesi andrebbe in opere di terrore, additando sempre lo stesso movimento come responsabile politico per averne coperto e dato spazio alle “trame”.
A questo punto vogliamo essere chiari. Raccogliere dei fondi lo fanno in tanti, e tutti a fin di bene, ci mancherebbe! Nel 2013 fu pubblicato L’industria della carità, un libro che insinuava qualche dubbio circa l’utilizzo dei fondi raccolti, scritto da una certa Valentina Furlanetto, non proprio comunista o anarchica, ma una giornalista del Sole 24 ore, giornale della Confindustria, anche se con la foglia di fico dell’introduzione di Alex Zanotelli.
Dunque in questione non c’è una raccolta fondi, ma una raccolta fondi da inviare ai palestinesi martoriati da una gabbia a cielo aperta prima e nel martirio di una Gaza rasa al suolo in due anni di bombardamenti, poi. Per tentare di realizzare un invio di aiuti – in beni materiali o in denaro che sia – a Gaza è non solo pienamente legittimo, ma doveroso da parte di chi ha sensibilità per una causa.
A chi consegnare quanto si è riuscito a raccogliere, se non ai legittimi rappresentati dei palestinesi, cioè l’organizzazione della resistenza chiamata Hamas, che decide come utilizzare materiali, soldi o altro. A chi altri se non a chi governava Gaza prima che da lager a cielo aperto venisse poi trasformata in una landa di macerie? A chi altri se non a quella stessa Hamas, che di fronte all’impossibilità di rendere più vivibili le condizioni dei palestinesi chiusi dentro al lager e di quelli sottoposti alla quotidiana violenza dei coloni in Cisgiordania, il 7 ottobre per necessità di un intero popolo ha sfidato con la resistenza l’occupazione, l’apartheid, Israele e l’intero Occidente? I milioni di persone che hanno animato le piazze per due anni sono chiamati a porsi correttamente la domanda e rispondere affermativamente. Cosa c’è di strano, quindi, che dei palestinesi, a questo punto, nel mezzo di un genocidio provino con tutti i mezzi, trasparenti o nascosti perché obbligati dal diritto internazionale che tutela l’oppressore, di far pervenire il risultato dei propri sforzi proprio a quelle organizzazioni in Palestina che sono appunto espressione di quella necessaria resistenza. O avrebbero dovuto sottomettere i fondi raccolti alle forche caudine del diritto internazionale, ovvero al blocco imposto dall’Occidente e realizzato da Israele, oppure dati in gestione alle reti democratiche degli stessi carcerieri o fatte recapitare a altre realtà palestinesi che già collaborano con l’occupazione sionista e che qui sono celebrate a sinistra, quali la ANP, e accolte con tutti gli onori alla festa di Fratelli d’Italia?
Chi siamo noi per ergerci a giudici dell’attività politica di una organizzazione che si batte contro il martirio del proprio popolo? Chi rappresentano quegli stracciaroli di sinistra che pongono in premessa di ogni cosa la condanna del 7 ottobre 2023 e nel parlamento della repubblica frignano come imbecilli.
Per concludere: Mohammad Hannoun, Abu Omar, l’API e gli altri attivisti arrestati e messi in stato d’accusa dallo Stato italiano devono rispondere solo al mondo degli oppressi e dei martoriati dal colonialismo e dall’imperialismo che hanno armato lo Stato sionista di Israele.
Si tratta di due campi coi propri princìpi. Pertanto se le istituzioni dei potentati economici utilizzano il loro diritto per intimidire, scoraggiare e reprimere ogni tipo di attività di chi è espressione del campo degli oppressi e sfruttati risponderanno alla loro coscienza, mentre il nostro campo si raccoglie intorno ai propri valori e difende i propri aderenti con lo spirito della fraterna solidarietà, che è una cosa completamente diversa dal cosiddetto diritto uguale fra i diseguali, come i fatti ultimi stanno a dimostrare: lo Stato di Israele è finanziato dai potentati economici ebraici e non, per dominare e per seminare distruzione.
Mentre con lo stesso diritto si pretenderebbe di giudicare chi si batte contro l’azione genocida occidentale attraverso la mano assassina dello Stato di Israele.
Che diritto hanno i finanziatori dello Stato sionista di Israele di giudicare un Mohammad Hannoun o Hamas che si battono per un popolo a resistere contro un genocidio?
Che Hannoun venga incriminato e sottoposto a un processo politico sta a significare che si tenta di mettere sotto accusa un’intera mobilitazione internazionale, o di tentare una delle solite operazioni: quella di separare la massa dai personaggi più esposti, per indebolire e scoraggiare l’insieme della resistenza palestinese. Questo per un verso. E di stabilire razzisticamente che uno Stato criminale può raccogliere fondi per sterminare una popolazione e radere al suolo una intera città, mentre è vietato a chi subisce il genocidio. Per il versante opposto. È l’applicazione del loro diritto uguale.
Pertanto, pur sapendo che per lo stesso diritto liberista le accuse mosse nei confronti di quanti coinvolti nell’operazione politica e poliziesca, non reggono per una carcerazione preventiva e una eventuale condanna penale, riteniamo che vada ripresa la mobilitazione a sostegno dell’eroica resistenza palestinese e di chiedere la libertà per tutti gli imputati.
* Alessio Galluppi e Michele Castaldo








































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