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Il diritto di avere diritti
di Alba Vastano
“Soffriamo di una cittadinanza oppositiva, nazionale, puramente identitaria, mentre dovremmo essere preparati a vivere in una nuova common, ove la persona è cittadina in qualunque luogo si trovi”
Nell’era della globalizzazione in cui siamo immersi è necessario rielaborare il concetto di diritto, svilito dalle trasgressioni sull’impianto costituzionale e dalla dilagante corruzione. Retaggi di un passato che si è fatto un insopportabile presente, in cui giustizia, vivere civile e diritti sociali umanitari sono spariti. Stefano Rodotà (già recensito in Solidarietà, utopia necessaria) da eccellente giurista e grazie alla sua passione civile, ci lascia in eredità, tramite i suoi scritti, gli strumenti per analizzare le questioni più importanti, legate al “diritto di avere diritti”, che è anche il titolo di un suo importante saggio.
Lo spazio e il tempo dei diritti
È un nuovo mondo. Viviamo in uno spazio sconfinato. L’era dei sans frontieres e della globalizzazione, l’era di internet. Può dare effetti collaterali, come lo spaesamento o l’agorafobia. Se ne può verificare il rigetto e il voler tornare alle frontiere, a confini ben delimitati o anche allo Stato nazionale, all’identità territoriale, allo spazio privato ove l’altro che viene da lontano, se lo oltrepassa, è considerato un invasore e va tenuto a distanza, ne dobbiamo diffidare.
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Non c’è emancipazione senza populismo
Tatiana Llaguno intervista Nancy Fraser
A seguito delle manifestazioni convocate dal movimento femminista contro l’investitura di Donald Trump, Nancy Fraser, attualmente professoressa di Filosofia e Politica presso la New School for Social Research di New York, firmò – assieme a molte altre, come Angela Davis e Rasmea Odeh – un appello per un “femminismo del 99%”, transazionale e anticapitalista. La sua scommessa cerca di costruire un femminismo maggioritario, inclusivo, che rifiuti la cooptazione neoliberale.
Con vari decenni di lavoro accademico alle spalle, durante i quali ha indagato questioni come la giustizia, il capitalismo ed il femminismo, Fraser è al giorno d’oggi una delle più riconosciute intellettuali del pensiero critico. Ferma nella difesa della strategia attuata da Bernie Sanders, critica su Hillary Clinton e in strenua opposizione a Trump, in questa intervista analizza nel dettaglio la situazione politica attuale, posizionandosi a favore di un “populismo di sinistra” che si opponga al “neoliberalismo progressista” e al “populismo reazionario”.
* * * *
Qual è la sua valutazione dei primi cento giorni del mandato del Presidente Trump? Cosa ci raccontano questi mesi sul suo progetto, i suoi limiti e le possibili resistenze?
Direi che ci segnalano due aspetti: da un lato, la facilità con la quale le correnti più convenzionali del Partito Repubblicano siano riuscite a frenarlo e a disarmare la dimensione populista della sua campagna.
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I vincitori scrivono la storia, non la verità
di Giovanni Dall'Orto
Dopo l’attentato nazista che a Charlotteville ha causato morti e feriti, sono stato inghiottito mio malgrado dalle polemiche per una questione marginale se non irrilevante, ossia l’oltraggio che ho espresso, in quanto storico, di fronte all’idea che sia “progressista” o comunque scusabile vandalizzare opere d’arte solo perché rappresentano personaggi “odiosi”, come un soldato del Sud nella Guerra di Secessione americana.
In quanto storico io vado in panico al solo sentire parlare di “distruggere” un documento, sia esso un testo o una statua. Mi viene subito in mente che anche i cristiani provavano un giusto oltraggio di fronte alle statue religiose dei pagani (che li avevano perseguitati per secoli) scolpite da Prassitele o Fidia, e le sfasciavano. Come questo volto di Afrodite, copia da Prassitele, sfigurato da un cristiano che incise la croce sul volto e il naso per cancellare un passato “ignobile”, a beneficio dei posteri.
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Dovete morire prima. L’accelerazione di Maroni
di Redazione di Contropiano
Scorrendo i dati sul calo demografico della popolazione residente in Italia ci è capitato di ritrovare, nel nostro confuso archivio di appunti, un articolo apparso tre mesi fa su Il Fatto Quotidiano. L’autore, Vittorio Agnoletto, non è in cima ai nostri sogni come leader politico – ci è sembrata più che sufficiente la stagione di Genova 2001, in tandem con Bertinotti – ma è certamente un medico esperto. Quindi, quando analizza il sistema sanitario e i vari progetti di riforma, va preso molto sul serio.
In questo articolo coglie le infamie principali della “riforma sanitaria” in via di applicazione, ormai, nella Regione Lombardia e voluta da Roberto Maroni, la Lega e Forza Italia, ben supportati da tutta l’estrema destra che tanto dice di voler difendere “gli italiani”.
I punti principali sono più che evidenti:
a) Non sarà più un medico a decidere come dovrà essere curato un “malato cronico” rientrante delle 65 tipologie individuate dal legislatore regionale. Questo ruolo passa a un “gestore” – un ente o una società, che potrà gestirne fino a 200.000 – cui la stessa Regione affiderà un budget pro capite cui attingere per analisi,diagnosi, cure, ricoveri, ecc.
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Riflessioni su un’intervista a Olin Wright
Capitalismo, classi, lotta di classe
di Mauro Poggi
Su Micromega e qui un’intervista al sociologo Erik Olin Wright. Nella prima parte analizza i concetti di classe e lotta di classe, che oggi è di moda ritenere superati per prossima estinzione di uno dei contendenti, il ceto operaio; nella seconda spiega la sua visione strategica per “la democratizzazione e il controllo del capitalismo”.
Condivisibile la prima parte dell’intervista, meno la seconda.
Fino al secolo scorso l’identificazione del ceto operaio con la classe subordinata era giustificata dal fatto che esso ne costituiva la parte prevalente e trainante. Omogeneità (socio-economica) e aggregazione (nei luoghi di lavoro) erano i fattori che agevolavano il discorso identitario.
Oggi è vero che il ceto operaio è in fase di forte regressione, sia numericamente che dal punto di vista politico; ma ciò non significa che altrettanto stia succedendo alla classe subordinata, la quale è anzi in aumento a causa del progressivo smottamento dei ceti intermedi. Il problema, semmai, è che a questo aumento quantitativo (la classe “in sé” marxiana) non ne corrisponde ancora uno qualitativo (la classe “per sé”): manca cioè della consapevolezza necessaria a trasformarla in classe dal punto di vista politico, a causa della sua disomogeneità e grazie alla manipolazione culturale della narrazione di sistema (1).
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Vaccini. Scienza. Macchina mediatica
di Sandro Arcais
E alla fine hanno ottenuto il loro decreto urgente in assenza di urgenza. La vicenda è emblematica, cristallinamente rappresentativa del saldo intreccio di interessi internazionali, piccoli e grandi, che presiede al governo mondiale, della macchina mediatica che lo copre e ne è strumento e che gli permette di governare “democraticamente” (almeno nei paesi occidentali), della trasformazione della scienza e dei suoi metodi in dogmatismo.
La scienza trasformata in dogma
Pochi giorni fa, esattamente il 29 luglio, il Consiglio direttivo nazionale della Società Italiana di Psiconeuroendocrinoimmunologia (SIPNEI) ha reso pubblico un comunicato ufficiale in cui prende posizione sul decreto legge sull’obbligo vaccinale e sul dibattito da esso suscitato. Subito dopo il riconoscimento che è
un dato oggettivo che i vaccini siano una risorsa di prevenzione sanitaria assolutamente preziosa
il documento afferma chiaramente che
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La contestazione del decreto Lorenzin
di Guido Viale
La contestazione del decreto Lorenzin, diventato legge il 28 luglio, sui 12 vaccini (poi “solo” 10) obbligatori per l’ammissione dei bambini ai nidi e alla scuola pubblica ha suscitato un movimento di massa – due manifestazioni nazionali di 40mila persone a Roma, una a Pesaro di 60 mila, un presidio di parecchi giorni davanti al parlamento, decine di cortei e fiaccolate con migliaia di partecipanti in tutta Italia – intorno a cui media e stampa hanno eretto un muro di silenzio, fino a che due calci contro l’auto di tre deputati del PD non hanno permesso loro di gridare alla violenza e al fanatismo (Michele Serra), riempiendo pagine e schermi di editoriali e deprecazioni. Non entro nel merito tecnico della contestazione – non ne ho le competenze – ma alla dimensione sociale e politica di questa vicenda non solo è lecito, ma doveroso prestare attenzione. Partiamo dagli schieramenti in campo.
A sostegno del decreto troviamo in prima linea Beatrice Lorenzin, ministra che non ha fatto niente per la salute degli italiani, ma si è messa in evidenza con la promozione del fertility-day e l’accusa alle popolazioni della Terra dei fuochi, massacrate dai rifiuti, di essere loro la causa dei propri malanni per abuso di alcol e fumo. La ministra ha anche raccontato fandonie, come una epidemia di morbillo a Londra completamente inventata.
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La città turistica come messinscena*
di Marco d'Eramo
Il turismo uccide la città in modo più sottile, svuotandola di vita, privandola dell’interiore, proprio come nella mummificazione, facendola diventare un immenso parco a tema, un’immensa Disneyland storica, in una sorta di tassidermia urbana
I geografi distinguono “tre tipi fondamentali di città turistiche: le stazioni (resorts) turistiche ‘costruite espressamente per il consumo dei visitatori’; città turistiche storiche che ‘pretendono un’identità culturale e storica’; e città convertite, luoghi di produzione che devono ricavare uno spazio turistico all’interno di contesti altrimenti ostili ai visitatori”.
Poiché non esiste ormai città al mondo in cui non capiti per sbaglio qualche turista, il termine città turistica va precisato: per esempio, molti stranieri visitano São Paulo, ma quest’enorme megalopoli brasiliana prescinde a tal punto dalla presenza di turisti che è impossibile trovarvi una cartolina da comprare, come si scopre con un sollievo di liberazione.
In senso lato, sono turistiche le città in cui il numero di visitatori annui supera di gran lunga il numero di abitanti: in questo senso sono tali non solo Kyoto, Dubrovnik, Bruges, Venezia o Firenze, ma anche centri più grandi come Roma o Barcellona; persino Parigi e Londra sono “città turistiche”, come anche New York, se ci si limita all’isola di Manhattan.
Ma in senso più stretto, il turismo sta diventando la sola industria locale per molte città, che così diventano company towns, come Essen era la città dell’acciaio (Krupp), Clermont-Ferrand quella della gomma (Michelin), Detroit e Torino erano le città dell’automobile (General Motors e Fiat).
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Ha vinto Lascienza
di Il Pedante
Venerdì 28 luglio è stato approvato alla Camera il «decreto vaccini» che porta il nome del ministro Lorenzin. Come previsto su questo blog, il testo convertito in legge si è ammorbidito nel passaggio parlamentare con la riduzione del numero delle vaccinazioni obbligatorie e delle pene per gli inadempienti. E, come previsto, la sua applicazione si sta già scontrando con difficoltà di diverso ordine che lasciano presagire una situazione di incertezza del diritto ormai tipica di ogni riforma contemporanea: dalla carenza di organici delle aziende sanitarie che non riusciranno a vaccinare tutti gli obbligati nei tempi previsti, agli oneri burocratici a carico delle scuole, nelle cui aule non si raggiungerà comunque l'«immunità di gregge» non essendo vaccinati i docenti e il personale, né potendoli vaccinare per mancanza di fondi.
A ciò si aggiungono le più gravi opposizioni dei governi regionali, cioè di coloro che dovrebbero mettere in pratica la legge. Per toccarla piano, l'assessore all'Istruzione della Valle d'Aosta e la sua collega ligure alla Sanità hanno rispettivamente definito il decreto «nazista» e «fascista», con la promessa di boicottarlo non applicando le sanzioni previste. In giugno il Consiglio provinciale dell'Alto Adige ha approvato all'unanimità un documento contro l'obbligo vaccinale, mentre la Regione Veneto è ricorrente in Corte costituzionale contro la riforma.
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Le ragioni dello sciopero dei professori
di Guglielmo Forges Davanzati
Lo sciopero dei professori universitari programmato per il prossimo settembre – con la sospensione degli esami di profitto nella sessione autunnale – sta suscitando numerose polemiche perché interpretato come una rivendicazione corporativa di lavoratori privilegiati, con stipendi elevati. E’ opportuno ricordare che la decisione di scioperare deriva da anni di vertenze con il Ministero per avere riconosciuti gli scatti stipendiali fermi dal 2011: trattative che non hanno portato ad alcun esito. Ed è opportuno anche ricordare che, a partire dal 2015, alle altre categorie del comparto pubblico è stato accordato il riconoscimento a fini giuridici degli anni di blocco: ci si riferisce ai docenti delle scuole, ai medici, al personale degli enti di ricerca. E’ necessario poi precisare che un professore universitario con venti anni di anzianità guadagna circa 2000 euro netti mensili e che un suo collega di altri Paesi europei guadagna almeno cinque volte tanto. A ciò va aggiunto – e non è cosa di poco conto – che i fondi per la ricerca, in molte sedi, sono stati pressoché azzerati, a seguito dei tagli al sistema formativo, praticati con la massima intensità nelle sedi universitarie meridionali, che prosegue ininterrottamente da quasi dieci anni. Il Fondo di finanziamento ordinario – ovvero il finanziamento statale che costituisce la principale fonte di entrata delle Università – si è ridotto di circa 10 miliardi dal 2010 al 2016.
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Fermate quel reddito di cittadinanza
di Giuliana Commisso e Giordano Sivini*
Cultura imprenditoriale, personalizzazione dei percorsi, enfasi sull’auto-attivazione nel lavoro sono al centro del disegno di legge sul reddito di cittadinanza del M5S e sono parte integrante di un ordine del discorso che mira a far interiorizzare la normalità della precarietà lavorativa. Per questo, secondo gli autori del libro Reddito di cittadinanza: emancipazione dal lavoro o lavoro coatto? quel disegno va conosciuto, discusso e contestato
Il Reddito di cittadinanza è, nelle enunciazioni, una misura volta a dare dignità a milioni di persone, che il M5S ha posto all’ordine del giorno. Ma gli strumenti previsti dal suo disegno di legge sono contestabili: dall’obbligo per i beneficiari di documentare una ricerca attiva di lavoro non inferiore a due ore giornaliere, a quello di accettare qualsiasi lavoro se dopo un anno non hanno trovato un’occupazione.
Dignità lesa e sconquasso del mercato del lavoro. È già successo. In Gran Bretagna i poveri sono costretti al lavoro coatto gratuito, altrimenti perdono il sussidio; in Germania devono accettare, per lavori che vengono loro imposti, salari miserevoli a cui viene aggiunto il sussidio.
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Luoghi pubblici e norme private
di Alessandro Gilioli
Per aver condiviso questa vignetta di Biani sono stato sospeso da Facebook per 24 ore. La vignetta è una parodia di un manifesto fascista e razzista del '44. Non è difficilissima da capire.
Niente di grave, s'intende, il mio ban: e sarà capitato a tutti o quasi quelli che qui mi leggono. Un po' come alle medie, quando la prof ti mandava in corridoio o dietro la lavagna una ventina di minuti per punizione.
Ci trattano come dei ragazzini, i padroni della rete. Sanno che loro sono onnipotenti, noi nelle loro mani. La nostra possibilità di parlare - di diffondere le nostre opinioni - è in mano a un ignoto poliziotto che è allo stesso tempo legislatore e giudice.
Un poliziotto-giudice-legislatore che esercita il suo potere in assoluto e che non sempre è intelligentissimo: quando ho chiamato Facebook, mi hanno risposto che probabilmente il "revisore" (così vengono chiamati, quelli che impongono i ban) che mi ha messo in punizione non parlava italiano e non ha capito.
Questo almeno è quanto mi ha detto l'ufficio stampa di Facebook, a cui come giornalista - quindi "privilegiato" - mi sono rivolto.
Così come mi sono rivolto a Luca Colombo, country manager di Facebook in Italia, insomma il numero uno dell'azienda in questo Paese. Che sostiene di non sapere nulla di ban e sospensioni, lui non se ne occupa, «non so nemmeno se a sospendere sia un algoritmo o una persona».
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Attacco bipartisan alle pensioni
Quando la solidarietà tra generazioni diventa un dispositivo neoliberale
di Alessandro Somma
Due proposte di legge
La Commissione Affari costituzionali della Camera ha da poco iniziato l’esame di due proposte di modifica dell’articolo 38 della Costituzione, nella parte in cui menziona il diritto alla pensione e precisa che alla sua attuazione “provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato”. Con la prima proposta, sottoscritta da parlamentari di maggioranza e opposizione, dal Pd ai Fratelli d’Italia, si vuole puntualizzare che il diritto alla pensione si attua “secondo principi di equità, ragionevolezza e non discriminazione tra le generazioni”1. La seconda proposta è stata presentata da deputati del Pd e ha un contenuto simile: vuole precisare che “il sistema previdenziale è improntato ad assicurare l’adeguatezza dei trattamenti, la solidarietà e l’equità tra le generazioni nonché la sostenibilità finanziaria”2.
Molti hanno accolto con entusiasmo il richiamo alla solidarietà tra generazioni, considerato una novità positiva per i pensionati di domani. Proprio su questo aspetto deve avere insistito una velina a cui evidentemente si deve un titolo molto gettonato dalle testate, che hanno sbrigativamente parlato di “norma salva-giovani”. Sono però mancate analisi più approfondite su una vicenda di notevole portata e impatto, tutto sommato passata sotto silenzio.
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“Houston, abbiamo un problema”
Andrea Aimar
Le trasformazioni tecnologiche di Industria 4.0 ci pongono di fronte due strade: subire questo progetto di trasformazione guidato dall’interesse di pochi oppure tentare di guidarlo nell’interesse di tanti. Un dibattito in vista del G7 di settembre a Torino
Sono nomi di computer ad alta potenza di calcolo, software, start up, piattaforme: YuMi, StasMonkey, Watson, Tug, Sedasys, Coursera, Shutterstock, Digits, Warren, e-discovery, Baxter, Iamus, Workfusion, Sawyer. Rappresentano il presente dell’innovazione e l’anticipazione di un futuro probabile dove il lavoro umano diminuirà.
49% [1]o 47%[2]le ipotesi più radicali, 9% [3]quelle più caute, 35%[4] per chi preferisce una via di mezzo: dietro le percentuali i posti di lavoro che verrebbero bruciati dall’innovazione tecnologica. Tecnologie delle reti e dell’informazione, robot, macchine potentissime, big data: è più o meno questa la ricetta che si aggira per il mondo promettendo rivoluzioni digitali e industrie 4.0.
Chi minimizza ricorda l’introduzione del telaio meccanico a fine Ottocento e l’automazione degli anni ‘70 e ‘80: sembrava la fine del mondo ma era solo l’inizio di qualcosa di nuovo. Si bruciano posti di lavoro ma si ritrovano da altre parti. Ma assai più del “vissero tutti felici e contenti” sembra convincere la narrazione a la “Houston, abbiamo un problema”.
A guardarla da vicino, questa rivoluzione guidata da algoritmi intelligenti, sembra davvero un’altra storia.
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Appunti politici: Visalli e i migranti
di Ennio Abate
Questi appunti si confrontano con l’articolo di Alessandro Visalli, Poche note sulla questione dell’immigrazione: della svalutazione dell’uomo. apparso sul suo blog e segnalatomi da Cristiana Fischer (E. A.)
Ma in sostanza che dice o suggerisce Visalli sulla questione dei migranti?
Vediamo prima il suo ragionamento. Con l’integrazione nell’Europa e la mondializzazione, Il sistema produttivo italiano (io aggiungerei ‘capitalista’), risulta «schiacciato da una parte dalla pressione competitiva generata dai prodotti ad alta specializzazione e contemporaneamente basso costo del nord Europa […] e dall’altra da quelli a media specializzazione e basso prezzo derivanti dai mercati asiatici». E si sta dividendo in almeno tre settori: uno piccolo che si trova delle nicchie nel gioco competitivo internazionale e occupa sempre meno lavoratori; un altro, che si rivolge al mercato interno, esporta prodotti poveri e a bassa tecnologia, non fa investimenti e sfrutta sempre più intensamente i lavoratori; e uno enorme – quello dei servizi – dov’è «massima la frammentazione, la precarietà, e la bassa produttività e dove gli investimenti sono assolutamente nulli».
A questo punto entrano in scena i migranti. Visalli ricorre a uno studio del 2014 dell’ Ocse (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) per dirci che per loro «l’Italia negli ultimi quindici anni è il paese con maggiore capacità di attrazione» proprio «a causa di una persistente domanda di forza lavoro a bassa qualifica e bassi salari».
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Sinistra e tema migratorio: una analisi ed alcune proposte
di Riccardo Achilli
Ricevo da Riccardo Achilli il seguente testo che sono lieto di ospitare sul blog [av]
“Le nazioni più ricche sono tenute ad accogliere, NELLA MISURA DEL POSSIBILE, lo straniero alla ricerca della sicurezza e delle risorse necessarie alla vita, che non gli è possibile trovare nel proprio paese di origine. Le autorità politiche, in vista del bene comune, di cui sono responsabili, possono subordinare l'esercizio del diritto di immigrazione a diverse condizioni giuridiche, in particolare AL RISPETTO DEI DOVERI DEI MIGRANTI NEI CONFRONTI DEL PAESE che li accoglie. L'immigrato E' TENUTO A RISPETTARE con riconoscenza il patrimonio materiale e spirituale del paese che lo ospita, ad obbedire alle sue leggi, a contribuire ai suoi oneri". Catechismo della Chiesa Cattolica, passo 2.241.
Premessa: l’insufficiente stato dell’arte della riflessione a sinistra
Il tema dell’immigrazione è di grande criticità nel pensiero della sinistra. Di fronte alla crescita di ciò che, con una certa superbia intellettuale, si etichetta come “populismo di destra” o xenofobo, che in tutta Europa (e non solo, basti pensare a determinati temi posti da Trump nella campagna elettorale degli USA) si è radicato in una quota non indifferente delle classi popolari che dovrebbero essere la base di rappresentanza stessa della sinistra, essa balbetta. Balbetta per motivi comprensibili, per certi versi “nobili”.
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Renzi: dalla Leopolda alla Rai
di Federico Repetto
La comunicazione di Renzi
Mentre Berlusconi e Grillo sono divenuti dei politici-star in tempi relativamente lunghi, Renzi ci è riuscito in tempi straordinariamente brevi. Per poterlo fare, egli ben presto ha creato un proprio brand politico personale, usando tutti gli strumenti più aggiornati del marketing. Ingredienti simbolici di questo brand sono il primato del merito e del talento, l’autenticità, la gioventù, l’innovazione, il cambiamento, le nuove tecnologie, ecc. Lo stesso cognome di Renzi è trasformato in un logo: una r frecciata, indicante appunto la svolta e il cambiamento, che appare nel suo sito personale (cfr Barile Brand Renzi, 2014, p. 26 sgg. e 82 sgg).
Renzi, a partire almeno dalla sua partecipazione alle “Invasioni Barbariche” nel 2008, accumula capitale comunicativo anche grazie alla conoscenza di esperti di immagine e di spettacolo (p.es. Giorgio Gori, già a capo di Canale 5 e il regista Fausto Brizzi). Ma anche grazie alla sua capacità di associare la propria immagine a star come Benigni e Jovanotti.
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Merito fra dono e debito
di Renata Puleo
Breve biografia di una parola e del suo successo. E’ possibile meritare qualcosa, che sia premio o castigo, senza il concorso dell’Altro?
Nel mio gruppo – da quando abbiamo iniziato a lavorare sulla valutazione, sull’INVALSI, sul servizio nazionale di valutazione – ci siamo sempre mantenuti su due piani di ricerca.Con appartenenze politiche e sindacali diverse e un retroterra marxista in comune, abbiamo puntato la barra sui cambiamenti antropologico culturali indotti dal neoliberismo, cornice senza la quale è impossibile comprendere quel che è avvenuto e avviene nella scuola. In questo orizzonte di senso abbiamo lavorato agli aspetti tecnici, ai dispositivi: i test, i frameworks europei, le guide a questo e quest’altro, provando a smascherarne la falsa ideologia scientifica, oggettiva, che li ispira.
Anche oggi, nella comunicazione che segue, mi muoverò su due livelli, una disamina sul merito, come metafora funzionale alla elaborazione di un consenso idiota, nel senso che non sa le parole, e un breve commento di carattere giuridico in cui, di quelle stesse parole, proverò a dare eco.
* * * *
Due parti, diverse per registro e per riferimenti. In entrambe gli attori sono quelli che si muovono intorno alle vicissitudini del merito, come parola chiave e complesso di pratiche.
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Estendere la democrazia per erodere il capitalismo
intervista a Erik Olin Wright
Nell'ambito della riattivazione contemporanea delle risorse critiche interne all'analisi marxista del capitalismo, un posto preminente spetta alla ricerca di Erik Olin Wright, per la sua attenzione al problema della definizione e della registrabilità empirica delle classi. Per agevolare la comprensione del lavoro di Olin Wright, pubblichiamo, accanto a un'intervista recentemente effettuata a cura di Lorenzo Zamponi e Marta Fana, anche una presentazione complessiva di Denise Celentano della sua figura intellettuale
Che fine ha fatto oggi, la classe operaia, e quali speranze ha di costruire un’alternativa al capitalismo? Ne parliamo con Erik Olin Wright, docente di sociologia all’Università del Wisconsin, importante marxista americano contemporaneo, nonché studioso, da oltre 40 anni, delle classi sociali e delle loro trasformazioni. Wright è stato a Firenze per un seminario organizzato da COSMOS, il centro studi sui movimenti sociali della Scuola Normale Superiore, dove ha presentato la sua proposta strategica: dimenticare sia il gradualismo socialdemocratico sia la rottura comunista, e investire su un lungo processo di erosione del capitalismo, che permetta di costruire nel tempo alternative in grado di sostituirlo.
* * * *
Secondo l’ultimo rapporto Istat, la classe operaia in Italia è morta. Lei pensa che sia così? La classe operaia è morta, nel XXI secolo?
Molto dipende da ciò che si intende per “la classe operaia”. Ci sono modi di definire la classe operaia secondo cui effettivamente è in declino in termini di percentuale della popolazione. Se si definisce la classe operaia come i lavoratori manuali dell’industria, allora la classe operaia è indubitabilmente in calo in termini di numeri, e forse lo è al punto che la sua morte può essere annunciata dal vostro istituto di statistica. Ma quella è una definizione particolare della classe operaia in un’economia capitalistica.
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Non c’è comunità senza antagonismi
di Giulio Di Donato
Il dibattito sul “populismo di sinistra”, sulla scia delle elaborazioni di Ernesto Laclau, si fa sempre più interessante. Al fine di far confrontare ed esprimere opinioni diverse sull’argomento, riceviamo e ospitiamo un contributo di Giulio Di Donato, autore, con Tonino Bucci, del volume “Quale sinistra?” (Rogas edizioni, 2016)
La tradizione filosofica, da Platone e Aristotele in poi, ha sempre pensato l’uomo come un animale comunitario. La stessa razionalità che il pensiero greco del logos ha elevato a tratto specifico della natura umana, è da intendersi – lo si è visto non semplicemente come “ragione”, ma anche come “linguaggio”, come propensione a vivere in uno spazio pubblico di relazioni. Eppure, quel rischio che già a Platone doveva apparire come il principale pericolo per la sopravvivenza della polis greca, il rischio di regressione del collettivo nel singolare, del cittadino nella sfera dell’individualità, sembra aver sopraffatto la politica del nostro tempo. La brama di possesso, il desiderio dell’affermazione di sé sugli altri, il prevalere della pleonexia suonano come una conferma attuale dei timori platonici, il segno di una definitiva vittoria delle istanze dell’anima umana più ostili alla sopravvivenza di una comunità politica.
Siamo allora destinati a ripiegarci nel privato, indifferenti al governo di oligarchie sempre più sottratte al controllo dei governati, senza più possibilità di proiettare nella politica domande di cambiamento della nostra stessa vita? Uno scenario apocalittico al quale la realtà tende ad assomigliare, ma che – per fortuna – non potrà mai realizzarsi del tutto, a meno di un collasso di qualsiasi forma di comunità. Non può esistere una società che riesca ad abolire del tutto la necessità della politica. Nessun sistema istituzionale – per citare il famoso autore de “La ragione populista”, il filosofo argentino Ernesto Laclau – potrebbe spingersi fino al limite di mantenere isolate tra loro le istanze individuali e assorbirle in maniera differenziale all’interno del sistema stesso – cioè senza che si stabiliscano relazioni orizzontali e si formino identità collettive.
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Seimila anni di società complesse
di Pierluigi Fagan
Sugli ultimi raggiungimenti dell’archeologia complessa[1] su cui basare la proto-storia[2], ci informa M. Liverani con la riedizione del suo: Uruk, la prima città, Laterza, Bari Roma, 1998-2017. Il periodo è quello Antico Uruk – Tardo Uruk in Mesopotamia, tra il 4000 ed il 3000 dove una società a doppia circonferenza centro-periferia, ruota intorno ad una forte credenza condivisa[3], amministrata da un centro templare. Questo possiede una sua élite e sua mano d’opera ma si avvale anche di corveé generali stagionali per la coltivazione di propri campi di orzo che poi, sottratto l’automantenimento del centro templare, viene accumulato e reinvestito in scopi sociali. In termini di libertà, concetto caro ai moderni, il popolo era suddito per le questioni politiche e fiscali ma libero dal punto di vista economico. Le élite templari dicendosi suddite degli dei ed amministrando la credenza condivisa, accumulavano potere gerarchico sociale. L’economia era mista tra pubblico e privato, sia nel possesso di terra che nella sua lavorazione, non meno che nell’artigianato e nel sistema di scambio esterno mercantile.
L’emersione di queste prime forme di gerarchia che iniziano la prima complessità delle società sembra provenire da un processo funzionale, l’autorganizzazione sociale trova la via più facile per reggere la propria crescente complessità[4] riducendosi spontaneamente in un centro che quindi non si afferma per coercizione.
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Che fine hanno fatto le classi sociali?
di Denise Celentano
Il dibattito impegna le sinistre da tempo, alla ricerca di una sintesi tra lotta di classe e per il riconoscimento
Qualcuno ricorderà il gioco da tavolo Taboo, nel quale i partecipanti devono indovinare una certa parola senza mai pronunciarla ma evocandola in vari modi. Nello stesso modo il dibattito pubblico sembra impegnato da qualche anno in un’elaborata partita di Taboo pur di non pronunciare una certa parola. Chi la pronunciasse rischierebbe di essere accusato di passatismo, d’intenti polemici, o ancora di voler semplificare troppo le questioni sociali; eppure ce l’abbiamo tutti sulla punta della lingua, pronta a scappar fuori. È la parola “classe”.
Ma cos’è successo a questo termine, dalla storia lunga e gloriosa? Oggi per poter dire la stessa cosa – che non siamo tutti uguali, che c’è chi ha di più e chi ha di meno, e che questo rende sin dall’inizio i nostri destini diversi – si tende a preferire termini come «diseguaglianza» o «strati sociali», che assegnano alla questione un’aria neutralmente statistica. Perché con la classe non vogliamo fare i conti. Nel suo bestseller intitolato Chavs. The Demonization of the Working Class, Owen Jones ha notato che se nel Regno Unito commenti razzisti o omofobi sono ormai da tempo banditi, lo stesso non si può dire di espressioni classiste come chav, grossomodo traducibile con ‘tamarro’ o ‘poveraccio’ — al punto che il termine può essere utilizzato pubblicamente senza conseguenze.
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Il "Noir" nella Città di Quarzo
di Ubu Re
Tratto dall'affascinante libro di Mike Davis "La Città di Quarzo" (Manifestolibri - 1993), un potente affresco dedicato al "noir" dove si intrecciano politica, letteratura, cinema e vicende umane, sul grandioso sfondo di una dura e "postmoderna" metropoli, che allora era il futuro e oggi, forse, il passato: Los Angeles.
Ho inserito, naturalmente, musica per i pazienti: Swans, Dead Kennedys, X e Art Pepper
Noirs!
Nel 1935, il famoso scrittore radical Lewis Corey (il cui vero nome era Louis Fraina) annunciò nel suo Crisis of the Middle Class che il «Sogno Jeffersoniano» era moribondo: «Quell’ideale middle class è finita, e non la si può far risorgere. Oggi gli Stati Uniti sono una nazione di lavoratori dipendenti e di diseredati». In un momento in cui contabili senza lavoro e agenti di borsa in rovina stavano in coda per un piatto di minestra a fianco di camionisti e di operai delle acciaierie, il bigottismo middle class degli anni ’20 era ormai costretto a nutrirsi solo di un obsoleto orgoglio di classe. Corey avvertiva che una classe media in caduta verso il basso, «in guerra con se stessa», stava avvicinandosi a grandi passi a un crocevia radicale, dal quale si sarebbe diretta o verso il socialismo o verso il fascismo.
L’evocazione del duplice fenomeno di pauperizzazione e di radicalizzazione della classe media trovava un riscontro letterale e appropriato a Los Angeles nei primi anni ’30, più che in qualsiasi altra parte del paese.
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L’età del turismo
Un'industria basata sull'empatia del divertimento
Marco Dotti
Che cosa cerca, che cosa trova, che cosa, al più, spera di trovare o s’impone di cercare il turista impegnato a farsi un selfie davanti a una di quelle cattedrali della simulazione imperfetta che sono le varie “venezie” in replica sparse per il globo?
Prendiamo The World, il parco a tema vicino a Pechino.
Le Piramidi, il Partenone, i moai dell’Isola di Pasqua. Tutte riproduzioni, certamente. Ma, in scala o meno che siano, queste riproduzioni giocano un ruolo nella costruzione di un immaginario, così come i turisti giocano una parte in qualcosa che eccede questo immaginario sfondando in un campo, il “turismo”, che stentiamo a elaborare a pieno. Tutto suona inautentico, in questo gioco fra ruolo e parte, non fosse che per il fatto che una parte di quel tutto, in qualche modo, resiste e sfugge al circolo, fin troppo vizioso, del “post-”.
Anche del turismo odierno si è parlato in termini di post-turismo, forse perché nel fenomeno del turismo di massa e della nozione di “città turistica” che vi si connette si è tardato a cogliere la valenza epocale e il “post”, in questo come in molti altri casi, è valso da esorcismo.
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Dignità indecorosa
Riflessioni sui tempi che viviamo
Il concetto di decoro è oggi tornato alla ribalta. Utilizzato come giustificazione delle norme contenute nella Legge Minniti-Orlando, accostato, come sinonimo, ai concetti di «vivibilità» e «sicurezza», l’utilizzo di questo termine occulta malamente un aumento dei poteri discrezionali e repressivi degli apparati dello Stato (sindaci, questori, apparati di polizia, ecc.).
In questo testo proviamo a riflettere sulle implicazioni culturali del suo utilizzo, sul suo portato ideologico e su come evitare di cadere nelle grinfie di questo concetto.
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Ogni nozione paga pegno al proprio tempo e al proprio luogo di origine. Le idee del mondo nelle quali queste prendono vita, ne costituiscono infatti l’essenza più genuina. Per questa ragione non esistono nozioni neutre, parole “libere”. Di più, poiché il senso di un discorso non è frutto della semplice somma delle singole proposizioni, né tanto meno dei singoli termini, ma è dato piuttosto dal lavoro solidale di tutti gli elementi che compongono un discorso (una teoria, una dottrina, una visione della del mondo…), è impossibile o quasi appropriarsi dei concetti senza fare i conti con le implicazioni di cui questi sono portatori.
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