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Luca Ricolfi, “La società signorile di massa”

di Alessandro Visalli

folkert de jong f01fced4 2a64 47fd a783 b58939f5a7d resize 750 1Il libro di Luca Ricolfi, presidente della Fondazione Hume[1], che fa del dato uno scopo morale, è un testo a tema, costruito intorno ad un’aspra forzatura linguistica e un violento strattonamento, sia del linguaggio sia dei dati stessi. Un testo infarcito, anzi intessuto, di ideologismi e di autentici falsi, non numerosi ma decisivi. Alcune delle cose che scrive l’autore sono anche interessanti, alcune sono pezzi di verità, anche dolorosa, ma tutto è fondato su un’attitudine a far passare la descrizione del reale proposto per inevitabile stato del mondo ed il particolare come generale, il contingente come strutturale, la causa come effetto. I pensionati che sostengono i nipoti, in parte o in sostanza, in Italia sono solo il 14%, ovvero sono circa duemilioni, ovviamente da individuare nello strato più abbiente, dato che dei 17 milioni di pensionati 10 vivono con meno di 750,00 euro al mese, e l’importo medio erogato è di 1.100,00 euro al mese[2]. Il reddito lordo procapite è di 21.000,00 euro all’anno, sotto la media europea[3], ad onta dell’essere un paese con consumi di massa “opulenti”. Soprattutto gli “insoddisfatti” del proprio livello di reddito sono in Italia la metà della popolazione, con grandi differenze geografiche, dal minimo del 40% al Nord al quasi 70% nelle isole[4], e se si passa al giudizio sulla situazione familiare non è molto diverso, il 57% la giudica “adeguata” (63% al nord). Come si faccia, su questa base, a giudicare la società italiana una “società dei tre quarti” si spiega solo se i dati sono selezionati tra quelli presenti e le definizioni, come è, tra quelle degli anni che vanno dai settanta ai novanta e dalla letteratura della insorgenza neoliberista[5].

Tutto questo indicherebbe, naturalmente dando altri e ben selezionati numeri e stime, per Ricolfi una condizione “signorile di massa”. Una condizione che si associa ad una condizione “servile” di alcuni milioni di immigrati e di italiani in condizione di semi-povertà.

Qui si annida il vero del libro, la condizione di relativa e selettiva agiatezza, di una minoranza, ma non irrilevante (il termine “di massa” qui esplica la sua funzione di intenzionale ambiguità e quindi la sua funzione ideologica[6]), è strutturalmente associata alla condizione servile, di una analoga minoranza. Si tratta di un meccanismo causale, che ovviamente il libro trascura, per il quale la compressione delle condizioni di lavoro spinge fuori chi ha una ‘convenzione lavorativa’[7] più alta. Costringendolo all’inattività a causa specificamente dell’offerta sovrabbondante di lavoro “servile”, con il quale non può e non vuole competere. Su questa considerazione si innesta il secondo elemento di verità del libro, il capitalismo contemporaneo riesce ad offrire a poco prezzo, anche grazie allo sfruttamento di lavoratori servili oltre i confini, uno stile di vita tale da poter illudere di essere ancora incluso nella società dei consumi. Molti possono permettersi un account di Netflix, che costa meno di 5€ al mese[8], un apericena ogni tanto, i social come Instagram, Facebook, a simulare una vasta e soddisfacente vita sociale, qualche breve vacanza low cost, … si tratta di una risposta di mercato a capacità di spesa libera sempre minore, e della cattura egemonica in consumi distintivi sempre più diversificati e tali da dare l’illusione della particolarità.

Ma si tratta anche di qualcosa di diverso: la società neoliberale ha da sempre intesa la propria legittimazione per la rivendicata capacità di creare ricchezza per la maggioranza. Il nucleo di legittimazione dello stato, ciò che rende la descrizione anche norma, del libro di Ricolfi è, infatti, la parte su cui più insiste, sin dal titolo, e che si sforza di fondare perché è niente di meno che il principio di legittimazione nella modernità: il lavorare per il maggiore bene, e progressivo, della maggioranza. Quindi il ceto medio deve essere maggioritario, esso deve rappresentare oltre il 50%, o i due terzi, o i tre quarti, e via aggiungendo. Occorre che il suo status sociale, nel quale in effetti consiste, sia il centro stabilizzante. Qui c’è il gioco di prestigio del nostro sociologo, fotografa una condizione di stagnazione (negando che sia declino), che viola il requisito standard degli anni di formazione della classe media dominante (la quale, si faccia attenzione, non è una costante storica, ma una specifica eccezione[9]) la dinamica ascendente, almeno potenziale. Resta un maggior grado medio di istruzione rispetto alle classi ‘inferiori’, ma sono in crisi sia i consumi sia e soprattutto la sicurezza nelle prospettive di lavoro, quella certa protezione che in effetti l’ha generata storicamente. Nasce un problema che Ricolfi cerca di risolvere nascondendo sotto il tappeto la dinamica discendente, quanto a consumi, protezioni ed autocomprensione (anche se questa ultima in ritardo), e contemporaneamente valorizzando il residuo di status che si annida in consumi distintivi, come vedremo. Consumi che, pur essendo in sostanza poveri, potrebbero essere nominati come tipici di “nicchie di massa”. Sono un centro di stabilità residuale ma essenziale, perché da sempre essere nel ‘ceto medio’ ha sempre significato sentirsi nel centro della società e godere quindi di una piena cittadinanza.

L’operazione ideologica di Ricolfi è insomma di quelle cruciali: cerca di valorizzare la creazione di “nicchie di massa”, riaffermando l’esistenza di un centro maggioritario, per ribadire diagonalmente ed in controluce il buon diritto della società esistente alla sua conservazione.

Certo, il carattere paradossale del suo tentativo, che in sostanza regge sulla scelta di alcune parole e fonti, di affermare l’esistenza di un ceto medio maggioritario mentre riconosce che il lavoro è diventato minoranza e spesso molto povero, che intorno alla cittadella del benessere si accampa una vasta tendopoli di disperazione e sfruttamento, emerge ovunque. E lo costringe a chiudere il libro chiedendo quanto può durare questo equilibrio, tutt’altro che “signorile”.

Per avviarci alla lettura bisogna quindi chiedersi che significa, esattamente, che la società è “signorile” e “di massa”. I due termini insieme frizionano gravemente, ma sono assolutamente indispensabili al programma ideologico del testo. Del resto, come vedremo, sono definiti in molti modi diversi durante il libro.

Ricolfi avvia la sua descrizione della società contemporanea sintonizzandosi abilmente sul senso naturale della borghesia del nord alla quale appartiene e chiarendo subito il nemico. Da una parte i “notiziari”, dall’altra “un giretto”. Da una parte chi dice che l’ineguaglianza è cresciuta nell’ultimo ventennio[10], l’Italia è un paese con tanti disoccupati, con milioni di persone prive dei diritti sociali minimi, con 13 milioni di pensionati con meno di 1.000 euro al mese (in realtà meno di 750 come sostiene l’Istat), di giovani esclusi dal lavoro, di immigrati sfruttati… dall’altra chi vede “gente che non lavora, oppure lavora e trascorre degli splendidi fine settimana in luoghi di villeggiatura”, piazze piene di giovani che “apericenano”, spiagge piene di bagnanti, famiglie con due case di proprietà, barche ormeggiate, ristoranti pieni… insomma, il racconto che qualche anno fa faceva Rifondazione Comunista, quando avviò la campagna sulla “terza settimana del mese” (quando finiscono i soldi), e quello che opponeva Berlusconi, quando segnalava i “ristoranti pieni e le barche ormeggiate”. Ci sono entrambi, ovviamente.

Lo specifico punto di Ricolfi è che si tratta di una realtà intrecciata. Ma che lo è in un modo ben specifico: una maggioranza della popolazione (i tre quarti dirà) italiana vive molto bene, si permette stili di vita “signorili”, mentre sono solo piccole minoranze, autoctone o immigrate, a soffrire la condizione di deprivazione.

Vediamo come funziona, sostiene l’autore:

“la tesi che vorrei difendere in questo libro è che l’Italia non è una società del benessere afflitta da alcune imperfezioni, in via di più o meno rapido riassorbimento, ma è un tipo nuovo, forse unico, di configurazione sociale. La chiamerò ‘società signorile di massa’ perché è il prodotto dell’innesto, sul suo corpo principale, che resta capitalistico, di elementi tipici della società signorile del passato feudale e precapitalistico. Per società signorile di massa intendo una società opulente in cui l’economia non cresce più e i cittadini che accedono al surplus senza lavorare sono più numerosi dei cittadini che lavorano”.

Abbiamo trovato quindi la prima definizione.

Vediamo le altre, nel libro si intende per “società signorile”:

“accedere al surplus senza lavorare”,

“l’accesso ai consumi opulenti da parte di cittadini che non lavorano”, infatti “metà del consumo è sostenuto da redditi che non vengono dal lavoro”,

la capacità di accedere ad un “consumo cospicuo, ovvero capace di soddisfare esigenze che, tipicamente, in passato solo i ‘signori’ si potevano permettere”,

il possesso della “seconda auto, la seconda casa, le lunghe vacanze ed i weekend lunghi e ripetuti, i corsi per i figli, …”,

la possibilità di “consumi che eccedono i bisogni essenziali e che superano del triplo il livello di sussistenza”,

quando “i signori sono più numerosi dei lavoratori”,

non “una società in cui tutti sono ricchi, ma il modello della società dei due terzi, o della società dei tre quarti, in cui una maggioranza benestante convive con una minoranza abbastanza lontana dagli standard di consumo della prima, e in alcuni casi decisamente povera” (esempi e letteratura interamente presa dagli anni novanta o precedenti).

E si intende per società “di massa”:

una “condizione che tocca più della metà dei cittadini”,

che coinvolge le persone che “non sono povere”, il 94% della popolazione italiana,

una condizione che isola i cittadini italiani, in modo da poter escludere solo il 5% di poveri (sono il 7%, ma il 2% sono stranieri).

Una nuvola di definizioni e numeri. Incoerente. Per lo più fondata su una calibrata miscela di vecchie e talvolta vecchissime fonti di definizioni obsolete (a piene mani tratte dagli anni sessanta e settanta, i suoi anni di formazione e forse gli ultimi nei quali ha studiato davvero) e di selezioni di dati statistici.

Non mancano, in posizione strategica, anche gli ideologismi tipici della borghesia conservatrice e talvolta reazionaria di tutti i tempi e luoghi[11]. Traiamo un altro strato di lettura:

- sono nominati i “ceti parassitari”, facendo ambiguo riferimento a Claudio Napoleoni e ovviamente all’ambiente della critica che invalse nel Partito Comunista Italiano negli anni settanta, nel contesto del “compromesso storico”,

- il ritiro dal lavoro è classificato come volontario e causato dal benessere, si evoca la questione dei ‘bamboccioni’ ed implicitamente del ritornare in contatto con la “durezza del vivere”[12], citando ovviamente letteratura del 1970, 1972, 1976,

- è accusata la scuola di massa, che “infiacchisce la capacità dei giovani di affrontare compiti difficili, di concentrarsi, di memorizzare conoscenza”,

- si tratta di “vivere al di sopra dei propri mezzi” (dal 1975 al 1995, quando l’austerità ha iniziato a ripristinare le giuste cose),

- e “non c’è mai stata austerità” (in nota 43),

- i redditi, quindi, sono “troppo alti rispetto alla produttività” (ovviamente data la concorrenza), come mostra Fuà nel 1976, cosa che provoca “strozzature” (esempio di come il modello neoliberale, basato sull’offerta sia penetrato negli anni settanta nella cultura della sinistra, e come il paradigma permanga, cfr. p.144),

- i titoli di studio sono “regalati”,

- la scolarizzazione di massa ha creato inutili aspettative,

- la distribuzione del reddito non è più ineguale di come è sempre stata (solita cantilena neoliberale, nota 69),

- i poveri sono tali perché irresponsabili (dato che spendono il loro reddito in droghe e gioco d’azzardo), un evergreen (vedi p.118) e tutta la letteratura dei moralisti di ogni tempo, a partire dall’ottocento,

- è il gioco d’azzardo a “secernere diseguaglianza” (quindi questa, se pure esiste marginalmente è una colpa dei poveri, p.124),

- è l’ipernormazione ad impedire la crescita della produttività, p.208,

- chi protesta è mosso dall’invidia sociale e dal vittimismo, p.201,

Questo è, insomma, un libro straordinario per comprendere in quale profonda misura i ceti intellettuali imborghesiti e da tempo inseriti profondamente nel sistema di potere e riproduzione sociale che ha dominato incontrastato, nell’alternanza per lo più apparente dei colori, il paese negli ultimi cinquanta anni siano ancorati a poche idee radicali: siamo nel mondo migliore per i più, non può cambiare e neppure è necessario lo faccia, se qualcosa va male è sempre per colpa dei singoli, e soprattutto dei deboli e ignoranti. Deboli e ignoranti che sono anche immorali, ‘parassiti’, incapaci e ‘choosy’, fanciulloni, che non lavorano perché non hanno abbastanza coraggio e forza, non si accontentano, …

Una descrizione straordinaria per persone che, per lo più: sono nate quando l’Italia, grazie a massive politiche pubbliche e all’ambiente espansivo internazionale determinato dal “New deal mondiale” e dalla guerra fredda[13], era nel boom e cresceva a tassi “cinesi”; si sono laureate nei primi anni settanta (Ricolfi in filosofia nel 1973), in una Università non certo particolarmente meritocratica, nella quale i docenti del vecchio corso erano letteralmente assediati dalla contestazione e dominava il ‘18 politico’ (talvolta anche il ’30 politico’ per i militanti); magari hanno fatto carriera nei corposi corpi intermedi politici allora vitali (Ricolfi nel sindacato della FLM con Oddone) o in enti pubblici più o meno intermedi (nel LIA, Laboratorio di Intelligenza Artificiale, del CSI-Piemonte); entrate all’Università dal portone e talvolta per ‘meriti politici’ (lui nel 1990 e dopo soli nove anni è già ordinario). Sono state subito inserite nel mondo del lavoro, hanno avuto numerose e ricche alternative, hanno avuto un percorso protetto nelle organizzazioni di massa dei partiti della sinistra e nelle loro derivazioni.

Di fronte a queste traiettorie si resta sempre sconcertati, in particolare per l’ingratitudine e per la ferma volontà di chiudere la porta dietro il loro passaggio.

Ma andiamo al filo narrativo del testo, che comunque merita essere letto. Questa condizione che avvolgerebbe l’Italia con un tutto unico, internamente coerente, con delle strutture ed un suo funzionamento, deriva sostanzialmente, dice Ricolfi, da tre condizioni:

1- Il numero dei cittadini che non lavorano ha superato (già dagli anni sessanta) quello dei cittadini che lavorano;

2- La condizione “signorile”, ovvero l’accesso a consumi opulenti da parte di cittadini che non lavorano, è diventata di massa;

3- Il sovraprodotto ha cessato di crescere, ovvero l’economia è entrata in un regime di stagnazione o di decrescita.

Si tratta di condizioni che si sarebbero date dagli anni sessanta (la prima), o dagli anni novanta (la seconda), o dopo il 2008.

Naturalmente già qui ci sarebbe da dire non poco: se si concede la prima condizione, la seconda potrebbe essere parzialmente concessa solo negli anni novanta (non a caso quelli nei quali il nostro studia per diventare ordinario, status dopo il quale in genere si cessa la faticosa occupazione) ma negli ultimi trenta anni è passata tanta acqua sotto i ponti; la terza, infine, ha cause specifiche e la direzione causale di molti dei fenomeni indicati nel testo ne è altamente influenzata.

Ma già immediatamente dopo la definizione usata in questo incipit, quella di “consumi opulenti di massa”, viene sostituita con una definizione di “massa” certo più indiscutibile (il 94%), ma che perde completamente “l’opulenza”. Infatti leggiamo a pag. 27 che ciò che “induce a parlare di società signorile di massa” è il fatto che il 94% dei cittadini italiani, al fine, “vivono sopra la soglia di povertà”. Insomma, in questo primo slittamento, nel tentativi di associare all’opulenza (che, naturalmente esiste) la “massa”, ed ai “signori” (che proliferano) la maggioranza, sarebbero “signori” tutti quelli che non sono espressamente poveri, e questi sarebbero solo tre milioni. Insomma, sono “signori” oltre cinquanta milioni di italiani. In pratica, sappiatelo, tutti voi che leggete siete “signori”.

Slittando di definizione analitica in definizione analitica, però, appena più avanti si ritrova che è “consumo opulento” (che, ricordo, otto pagine prima doveva essere praticato da cinquanta milioni di persone) quello che è “capace di soddisfare esigenze che, tipicamente, in passato solo i ‘signori’ potevano permettersi”. Con questa diversa definizione ci si ricollega alle letture di formazione. In effetti, un topos molto praticato nel dibattito americano, tra autori progressisti e conservatori, è che non ci sarebbero davvero poveri in Usa in quanto, dicono i conservatori, da una parte tutti gli americani poveri stanno comunque molto meglio di altri nel mondo, dall’altra godono di beni, come l’acqua corrente e i bagni nell’appartamento, che una volta solo i re potevano avere. Una definizione curiosa, in quanto per chiamare qualcuno “signore” sarebbe necessario che abbia quel che distingue questo status ora, non mille anni fa. Mica può vivere a cavallo dei millenni. Miracoli della cattura egemonica che la sinistra anni novanta subì da parte della destra neoliberale anglosassone (quasi tutte le citazioni sono di testi della scuola di Chicago e risalenti agli anni settanta-ottanta).

Ancora, troviamo che “oltre la metà” dei cittadini (che ora, solo tre pagine dopo, tornano nel presente), a dimostrazione dei consumi “opulenti”, tra gli anni ottanta ed il duemila (quando è finalmente diventato ordinario), hanno finalmente la seconda auto, la seconda casa, fanno vacanze lunghe e ricche, etc… consumano, insomma, oltre il triplo del livello di sussistenza[14]. Si tratterebbe dell’effetto della “seconda transizione consumistica” (quella, appunto, degli anni novanta). Ora, il triplo della sussistenza indicherebbe un reddito familiare per due persone di ca 3.000 €/mese, la media italiana nel 2017 è stata di 2.500 euro[15], mentre questo livello si raggiunge nelle famiglie di impiegati, quadri, dirigenti e imprenditori (quest’ultimi oltre i 4.000). Una domanda al professore: come fa oltre la metà ad avere un reddito di 3.000 euro al mese, avere il 5% con 1.000 euro o meno, e un reddito medio di 2.500? Chiaramente manipolando le medie, scegliendo bene i confini del segmento, si può ottenere tutto, ma cosa significa?

Ora, il reddito medio familiare è sceso, dai valori del 2008, di qualcosa come il 13%, e quello medio equivalente nelle stime della Banca d’Italia[16] è sceso a 18.000,00 €/annui, ovvero 1.500,00 €/mese, leggermente superiore alla stima Istat, tenendo conto che un terzo delle famiglie riesce a risparmiare qualcosa, mentre un altro terzo ha avuto un saldo negativo e faticava ad arrivare a fine mese, con l’indice di Gini che è salito al 33,5% e il 23% degli individui con reddito inferiore al 60% di quello mediano (840 euro al mese), anche se per due terzi stranieri. I conti non tornano.

Ma vediamo più da vicino qualcuno degli indicatori citati dall’autore: secondo la definizione più ristretta delle tante riportate, sarebbe “signorile” la condizione per la quale si possiedono due case, due macchine e si fanno lunghe vacanze, si possiedono ingenti capitali. Ebbene la Banca d’Italia, se conferma che il 70% degli italiani hanno la casa di proprietà limita la seconda ad un quarto di questi (ovvero al 24%), ed il loro valore medio a 1.800,00 €/mq, non sono dunque case principesche (che si attestano dai 4.000,00€ in su); secondo tema, in Italia, su sessanta milioni di persone, di cui cinque straniere, il parco auto è di 39 milioni di veicoli con età media di quattro anni, ma il 60% ha più di dieci anni e il 10% ne ha trenta; terza questione, le vacanze sono fatte da oltre il 60% dei cittadini italiani, e per una media di 10 gg, ma sono stati fatti 77 milioni di viaggi nel 2018, 27 milioni di italiani (1/3) hanno fatto viaggi lunghi, 11 milioni una sola notte nell’anno e 24 milioni una via di mezzo[17]; infine, la capitalizzazione media degli italiani è 200.000 euro, ma il 30% ha solo 6.500 euro, il 30% più ricco ha mediamente 500.000 euro (tra i quali il 5% ha 1,4 milioni). L’87% di questo patrimonio è immobiliare. Poi ci sarebbero i consumi “opulenti” in crescita riferiti ai cibi, al fitness (che nel 2018 è stato consumato da 18 milioni di persone, il 30% della popolazione), la chirurgia estetica (da 930.000 persone, il 2% della popolazione), i servizi alle famiglie (tra il 20 ed il 30% delle famiglie), l’accesso ad internet ed alla tecnologia connessa (non certo un consumo “opulento”, ma ormai parte del paniere di base), le droghe ed il gioco in espansione (dato che, se vero, indica piuttosto la crescita del disagio, p.118).

Insomma, i numeri ed i dati, se guardati completamente e non filtrati dalle convinzioni che l’autore si è fatto negli anni novanta (come confermato dalla letteratura, da Glotz in poi, che cita[18]), e che oggi sostengono la sua posizione di classe, non collimano con una società ‘signorile’ che coinvolge ‘la maggioranza’, o, addirittura, i tre quarti (o, al massimo dell’enfasi, il 94%). Casomai può coinvolgere tra il 25 ed il 30% della popolazione.

Veniamo alla questione probabilmente centrale, abbiamo una società nella quale quasi tutti sono “opulenti”, ma in effetti più della metà non lavora. Come è possibile? La risposta di Ricolfi è contenuta nella prima parte della frase, e cade con essa. Data l’opulenza di massa non è affatto la debolezza della domanda di lavoro, come vorrebbero i keynesiani, che disincentiva la ricerca, ma “il ritiro dei giovani, donne e anziani dal mercato del lavoro [che] è dovuto essenzialmente al benessere che il miracolo economico ha improvvisamente e repentinamente regalato agli italiani” (pag. 32).

Nel 2019?

Una frase attribuita ad un “manipolo di studiosi” coraggiosi, tra cui il Presidente dell’Istat De Meo, ma così strana che mi sono dovuto andare a guardare la nota (a fondo del testo, ovviamente). “Benessere” e “miracolo economico”? Parliamo dei figli del 5%, del 25% o del 30%? Certo, sono tanti, ma non proprio una “massa” (anche se possono riempire benissimo una piazza bolognese). La spiegazione è semplice: i ‘coraggiosi’ citati in nota sono De Meo nel 1970, La Malfa nel 1970, De Cecco nel 1972, Salvati nel 1976.

Testi di cinquanta anni fa. Espressivi della linea culturale che allora si impose alla cultura progressista italiana e da allora non l’ha mai più lasciata: la colpa è sempre dei poveri.

Dunque, i giovani non lavorano perché i padri sono ricchi (o i nonni), e “i signori sono più numerosi dei lavoratori” (p.38).

Questo accade, più in dettaglio, perché:

1- I genitori sono ricchi,

2- La scuola è stata distrutta e non premia più il merito, essendo diventata di massa, come l’università,

3- Abbiamo messo in piedi una infrastruttura ‘paraschiavistica’.

Vediamoli uno alla volta.

La famiglia media per Ricolfi e la Fondazione Hume, che ha la cultura del dato evidentemente molto più della Banca d’Italia, ha un reddito di 46.000,00 euro ed una ricchezza di 460.000,00 euro. In effetti è così, ma con il dettaglio che è quello di coloro che riempiono di barche i porti ed i ristoranti e resort, cioè del 30% degli italiani. La media vera è la metà di questa. Insomma, questo dato è semplicemente falso (ma decisivo)[19].

La scuola ha “infiacchito i giovani”, e li ha resi “choosy” (con espressa citazione della Fornero, p.64, ma anche di un Bordieu del 1978, p.66). Abbiamo infatti vissuto “al di sopra dei nostri mezzi”, fino al 1995 (quando fortunatamente è arrivato l’accordo per l’Euro) e non c’è mai stata austerità (p.68 e nota 43). Nasce qui la “classe disagiata” (termine che prende da Alberto Ventura) per effetto di “redditi troppo alti” rispetto a ciò che producono[20]; le cause sono titoli di studio rilasciati in modo eccessivo rispetto alle capacità[21] e scolarizzazione di massa che in una economia stagnante genera competizione eccessiva verso le posizioni medio-alte[22].

Il terzo fattore, e qui, la ragione è dalla sua parte, è la “infrastruttura paraschiavistica”. In effetti ho comprato il libro per leggere questa parte. Ci sono stime interessanti, si tratterebbe (p.71):

1- Di un segmento di lavoratori stagionali supersfruttati, che si può stimare in 200.000 persone;

2- Un segmento di lavoratrici del sesso, stimabile in 50.000 unità;

3- Un segmento, il maggiore, di persone a servizio della buona borghesia italiana, ca 850.000 persone a servizio di 3,5 milioni di famiglie (su 16 milioni[23] sono il 20% ca.);

4- Un’area di dipendenti in nero e sottopagati che stima in 450.000 persone;

Fin qui si tratta di un’area di lavoro servile che ammonta a ca. 3.000.000 di persone, per lo più immigrati.

A questi vanno aggiunte situazioni “di confine”, lavoratori della droga, della gig economy e della esternalizzazione dei servizi, stimate complessivamente in 500.000 persone.

Insomma, un occupato su sette è in condizione di lavoro “paraschiavistico”, e contribuisce ad abbattere il costo del lavoro e comprimere i salari.

Ma c’è un’altra pezza in appoggio alla tesi del nostro: la metà del consumo degli italiani sarebbe sostenuto da redditi che non vengono dal lavoro. Il consumo sarebbe, infatti, di 800 miliardi e di questi 460 miliardi non verrebbero dal lavoro. Nella strana tabella che segue questi sono divisi così:

- 223 miliardi da pensioni (che derivano in realtà per oltre due terzi dal lavoro, ma differito),

- 111 miliardi, da pensioni assistenziali (a vario titolo),

- 15 miliardi da trasferimenti delle famiglie,

- 23 miliardi da redditi finanziari,

- 88 miliardi da vincite di gioco (a fronte delle quali ci sono spese di gioco per 107 miliardi),

questa confusa e distorcente tabella andrebbe (casomai) riconfigurata in questo modo:

- 38 miliardi di redditi non da lavoro (15+23),

- 20 miliardi di reddito sottratto dal gioco d’azzardo,

poi ci sarebbe l’evasione fiscale, stimata in 150 miliardi (non si sa come), e che in qualche modo sarebbe “rendita non da lavoro”, quando è evidentemente da lavoro.

Insomma, al netto di forzature e confusioni concettuali, questa presenza, ad andar bene di una quarantina di miliardi su 800 (5%), giustificherebbe la prevalenza delle rendite e l’ “Effetto Pigou”[24] (p.131).

Ma se andassimo a verificare con i dati forniti da Banca d’Italia[25], troveremmo che a fronte di un reddito medio familiare di 30.000 euro, 12.000 euro sono da lavoro dipendente, 3.000 da libera professione ed impresa, 8.000 da trasferimenti, e 6.000 da capitale. Quindi i redditi non da lavoro incidono per 12.000 su 30.000. Non poco, ma non la metà (più vicino ad un terzo).

Ma considerando i soli italiani, come fa il nostro, si ottiene che in effetti solo il 51% è da lavoro, il 20% da capitale (nel quale è presumibilmente incluso anche il reddito da casa di proprietà) ed il 30% da trasferimenti (nei quali sono incluse a fini statistici le pensioni). Quindi il 50% sussisterebbe, includendo le pensioni, i redditi da fabbricato, quelli da trasferimenti assistenziali e/o familiari, e i redditi da capitale finanziario[26].

Bisogna guardare meglio, per condizione professionale: gli operai ottengono solo il 6% da trasferimenti, ma il 13% da capitale; gli impiegati, il 5% da trasferimenti ed il 18% da capitale; i dirigenti il 2,6 e 19%; gli imprenditori l’8% e il 19%; i pensionati il 70% da trasferimenti ed il 24% da rendite da capitale; i non lavoratori il 50% ed il 40%. Data l’eterogenità degli aggregati sembra che ci sia uniformità, ma non è detto sia così[27]. La presenza della casa di proprietà altera abbastanza la confrontabilità dei dati; con riferimento ai quintili di reddito, infatti, i redditi da capitale restano costanti (dalle parti del 20%, compatibili con l’uso di una casa) mentre i trasferimenti vanno dal 42% dei quintili più bassi al 20% dei più alti, probabilmente per il cessare dei trasferimenti assistenziali (o per trasferimenti negativi).

Comunque un qualche fenomeno c’è, anche se i dati di Ricolfi non sembrano i più adatti a mostrarlo.

Qui scaturisce, sullo sfondo dello stigma del “fannullone”, la parte di introspezione psicologica (di psicologia sociale) del testo, che cerca di spiegare fenomeni a base macroeconomica con gli strumenti piuttosto rozzamente espressi dell’indagine microeconomica. Anche questo un marchio di fabbrica.

Come dice, il “giovin signore” (definizione che si attaglia ai pargoli al massimo di un terzo degli italiani, per la verità), scopre che la sua aspettativa e autopercezione non è condivisa dal mercato che al massimo gli riserva salari miseri. Allora la sua “robusta condizione familiare” (la villa con piscina del padre, le molte auto, le vacanze pagate ai caraibi. …) e l’attesa della cospicua eredità, lo incoraggiano ad aspettare l’occasione giusta. Nel frattempo cerca una nicchia identitaria, e sposta la sua attenzione:

“il vero sforzo sta nel trovare la nicchia in cui emergere, nel convincere gli altri che quella nicchia ha valore, e che noi stessi ne siamo occupanti significativi. Il che nell’epoca di internet significa diventare promotori di se stessi, quotidianamente impegnati nella fatica di Sisifo di coltivare i propri follower, massimizzare la propria reputazione, valorizzare la propria immagine. Una valorizzazione che, a quanto pare, deve essere innanzi tutto visiva e rivolta a tutti” (p.168).

Quindi:

“la competizione si sposta dal piano dell’occupazione di posizioni di status elevate alla ricerca di nicchie di notorietà e di riconoscimento”

Questo sarebbe un comportamento razionale, data la situazione. E probabilmente lo è pure, per il 10% superiore della distribuzione (ma sono anche quelli che, per capitale relazionale familiare è meno probabile si trovino in una situazione simile).

Secondo l’autore ci sono, insomma, due fattori:

1- Il consumo opulento diffuso induce a rendere decisiva la manifestazione di sé e della vita che si fa (anche qui si tratta di analisi sociologiche molto famose, ma molto datate[28]);

2- La competizione per lo status, ormai marginalizzata, era legata ad un mondo in crescita, nel quale il numero di posti pregiati aumentava e quindi l’ascensore sociale era accesso.

Questo comportamento, la “mente signorile” è in effetti un “caso estremo di individualismo[29] ed è connesso con il potente meccanismo di sostegno dell’io che passa sotto il nome di “politicamente corretto”[30] nel quale la legittimazione scende dall’alto verso il basso.

Pensando che questo comportamento sia spiegazione della disoccupazione giovanile, Ricolfi giudica che sia anche il fattore che, aggregandosi, mette l’Italia in un sentiero discendente (p.155).

Ma solo l’Italia ha questo genere di società? Per l’autore anche Grecia, Spagna e Lussemburgo, sono sulla strada ma a tutti e tre mancano dei fattori (cosa manchi alla Grecia, tra stagnazione, opulenza e schiavi, mi pare noto).

Siamo, io credo, sulla buona strada per raggiungerla, ma per ragioni del tutto diverse.


Note
[1] - La Fondazione Hume, è intitolata al grande filosofo settecentesco, uno dei padri del liberalesimo, dopo Locke e Berkeley il fondatore della scuola empirista inglese.
[2] - Si veda, dati INPS a questo link.
[3] - Precisamente il “Reddito lordo depurato delle famiglie pro capite”, calcolato dall’Eurostat, si veda.
[4] - Si veda Annuario Statistico Italiano, 2018, cap 9.
[5] - Chiamo qui “insorgenza neoliberista” quel processo che le élite culturali italiane, soprattutto quelle di sinistra, ritenute colpevoli di essere state comuniste, hanno compiuto tra gli anni indicati andando ad alimentarsi disciplinatamente dalle fonti del pensiero neoliberale, in particolare nativo di Chicago.
[6] - Si veda ad esempio Jean-Claude Michéa, “L’impero del male minore”, la legittimazione e ispirazione più profonda del liberalismo è il rifiuto dell’incertezza derivante dagli scontri sociali e culturali e l’aspirazione ad una vita tranquilla, concepita nella forma della borghesia ascendente. L’energia impegnata nell’etica dell’onore viene dirottata verso il lavoro e l’industria, sulla base di una promessa essenziale: la ricchezza porterà la pace. E’ assolutamente necessario a questo concetto che ci sia progresso. Ovvero pacificazione ideologica, persino in un popolo di demoni, come scrive Kant in “La pace perpetua”, i quali si dedichino ai propri affari e così producano il maggior bene per tutti. Non si può concepire la logica del liberalesimo senza credere a questa armonizzazione, necessaria e progressiva, degli interessi sulla base del solo “dolce commercio” e del minimo necessario di autorità. Quel che chiamiamo l’economia deve, quasi da sola, realizzare il miracolo secolare di renderci felici, fraterni e buoni, perché ricchi. Il problema è che se manca la crescita, e tanto più se interviene un lungo processo di impoverimento e di insicurezza, l’incanalare grazie a strumenti giuridici e di mercato vizi privati e virtù fallisce nell’obiettivo (che è quello prioritario) di ottenere una società ben ordinata. Come correttamente scrive Michéa, mercato e diritto sono forme di socializzazione, ma secondarie, e non sono in grado di fondare le proprie stesse basi. Esse si basano su una preesistenza: quella della lealtà e di un qualche sentimento morale che sia in grado, essendo abbastanza condiviso, di presupporre da parte degli attori il reciproco riconoscimento e quindi la fiducia reciproca. Non si può avere fiducia sulla base del calcolo egoistico, perché si retrocede ad infinitum nel gioco strategico. Occorre un fondamento antropologico radicato nel “ciclo del dono” (Mauss, “Saggio sul dono”).
[7] - Concetto presente sin dalla ricerca di Engels sulla condizione della classe lavoratrice inglese, e abbondantemente ripresa nella letteratura di settore, per il quale
[8] - Dato che per 10€ rilascia due account, e questi in effetti possono essere condivisi anche tra più utenti, l’unica sanzione è che non è possibile vederlo contemporaneamente.
[9] - La classe media sociologicamente dominante è in sostanza un prodotto specifico delle politiche pubbliche e fiscali di protezione e redistribuzione del trentennio successivo alla second guerra, prima è sempre stata una significativa minoranza. Su questo, ad esempio, si veda il classico lavoro di Piketty.
[10] - Si potrebbe ad esempio, riportare il libro di un sociologo che non richiede presentazioni come Arnaldo Bagnasco in “La questione del ceto medio”, 2016, o Branko Milanovic, “Ingiustizia globale”, 2018, oltre che l’ampia analisi di Thomas Piketty, “Il Capitale del XXI secolo”, 2014, che dimostra la crescita delle ineguaglianze in occidente, Anthony Atkinson, “Disuguaglianza”, 2017, Christophe Guillyu, “La società non esiste. La fine della classe media occidentale”, e via dicendo…
[11] - Per una straordinaria ricostruzione, sia pure concentrata sul caso francese si veda Pierre Rosanvallon, “La società dell’uguaglianza”, 2011. Ad esempio nella prima parte dell’ottocento, conservatori come Girardin qualificavano come “barbari” gli operai in rivolta scrivendo: “la miseria è il castigo della pigrizia e del vizio. Ecco gli insegnamenti che ci dà la Storia”. Le classi lavoratrici sono, per il moralista ottocentesco, viziose e pericolose; occorre dunque istruirle e moralizzare.
[12] - Si veda “Tommaso Padoa-Schioppa, interventi prima e dopo la crisi”, il 26 agosto 2003, nel contesto della discussione sulla proposta di Costituzione Europea, Padoa Schioppa (quando la crisi finanziaria non si è ancora presentata sulla scena, ma solo due anni prima si era avuta la crisi delle società tecnologiche, la bolla .dot-com, che portò alla crisi per la cui risoluzione i mercati furono inondati di capitali da parte della FED), scrive in un articolo per il Corriere della Sera nel quale è contenuta una difesa a spada tratta della logica delle cosiddette “riforme strutturali”. L’economista considerato “di sinistra” iscrive in tal modo il proprio nome in continuità con l’approccio liberista ante litteram di Luigi Einaudi che descrive così: “lasciar funzionare le leggi del mercato, limitando l’intervento pubblico a quanto strettamente richiesto dal loro funzionamento e dalla pubblica compassione”.
Ascrive anzi questa prospettiva a Francia e Germania (il 14 marzo Schroder aveva tenuto il discorso di lancio dell’Agenda 2010, davanti al Bundestag) e definisce il suo campo di azione in questo modo: pensioni, sanità, mercato del lavoro, scuola. In tutti questi settori “attenuare quel diaframma di protezioni che nel corso del ventesimo secolo hanno progressivamente allontanato l’individuo dal contatto diretto con la durezza del vivere, con i rovesci della fortuna, con la sanzione o il premio ai suoi difetti o qualità”. Padoa Schioppa, che si sente abbastanza incredibilmente di sinistra, riesce a scrivere, senza che gli tremi la penna, che “cento, cinquanta anni fa il lavoro era necessità; la buona salute dono del signore, la cura del vecchio, atto di pietà familiare; la promozione in ufficio, riconoscimento di un merito; il titolo di studio o l’apprendistato di mestiere, costoso investimento. Il confronto dell’uomo con le difficoltà della vita era sentito, come da antichissimo tempo, quale prova di abilità e fortuna”. Simili frasi prefigurano –anche e soprattutto nella prospettiva etica- una totale liquidazione dello stato sociale, dei diritti di dignità e protezione che rendono la vita sicura e degna, dell’equilibrio che rende possibile azionare i propri diritti ed esercitare il potere cui la natura di libero cittadino ha dotato ognuno. Prefigurano il ritorno alla società gerarchica passata, nella quale l’individuo è abbandonato alle proprie forze di fronte al preminente potere del denaro e della gerarchia sociale. Padoa Schioppa arriva ad esprimere una frase che potrebbe essere virgolettata da un testo preso da un robivecchi: “il campo della solidarietà … è degenerato a campo dei diritti che un accidioso individuo, senza più meriti né doveri, rivendica dallo Stato”.
[13] - Naturalmente ci sono un intreccio complesso di cause.
[14] - Per la teoria marxiana, il livello minimo di consumi, al di sotto del quale è impossibile la sopravvivenza. Ma già in Engels e Marx il termine è sempre relativo, si tratta della sopravvivenza non meramente fisica ma sociale. Dunque, dipende dalle condizioni condivise in una società, dal suo livello medio. Si potrebbe individuare in Italia con disporre di una casa con un vano a persona, capacità di vestirsi, mangiare, comunicare, muoversi anche se con mezzi pubblici. L’Istat definisce la “soglia di povertà assoluta” come il valore monetario, a prezzi correnti, del paniere di beni e servizi considerati essenziali per ciascuna famiglia, definita in base all’età dei componenti, alla ripartizione geografica e alla tipologia del comune di residenza. Per una famiglia di due persone nel centro Italia è di 1.000 euro al mese.
[15] - Si veda qui.
[16] - Si veda, qui.
[17] - Si veda qui.
[18] - Citati, Peter Glotz, “Il moderno principe nella società dei due terzi”, Il Contemporaneo, n.8, 1987; Ralph Dahrendorf, “Dalla società del lavoro alla società dell’attività”, in P.Ceri, Impresa e lavoro in trasformazione, Il Mulino, 1988.
[19] - O, per meglio dire, dipende dal confine e dalle esclusioni che si fanno, ma senza dirlo espressamente, se nella media si tagliano i “non italiani” (che hanno un reddito basso e sono comunque un decimo del totale dei residenti), e magari i poveri e quelli a rischio povertà, facendo in effetti una media della sola parte medio-alta della società italiana, forse si possono ottenere questi numeri.
[20] - Un classico sempreverde della cultura di destra liberale, la produttività a capitale costante deve garantire un “adeguato” profitto, e quindi fisso questo e fisso l’investimento di capitale (massimizzato il primo e, quindi, minimizzato il secondo) è il salario che deve essere flessibile.
[21] - Cosa particolarmente vera negli ultimi anni settanta, quando ha compiuto il ciclo di studi universitario il nostro, che quindi probabilmente sa di cosa parla.
[22] - Anche qui, se la relazione sussiste, la soluzione di abbassare la soglia di istruzione (che non è solo finalizzata al lavoro ma anche alla creazione di uno spirito critico diffuso e quindi della precondizione per una democrazia sviluppata) è quella comoda per le élite. Quella scomoda è di spingere la crescita. In effetti le élite consolidate non amano la crescita perché aumenta la concorrenza verso di loro e diluisce il loro potere sociale.
[23] - Si veda qui.
[24] - Il cosiddetto “effetto ricchezza”, per il quale avere le spalle coperte da un patrimonio familiare induce a consumare di più.
[25] - Si veda qui.
[26] - Nella nota metodologica dell’indagine di Banca d’Italia si legge che i “trasferimenti” includono: pensioni, assistenza economica pubblica, come il Cig, borse di studio, assegni per alimenti e/o regali ricorrenti. Mentre i redditi da capitale includono: i redditi da fabbricato (effettivi ed imputati), i redditi da capitale finanziario.
[27] - Ad esempio, i redditi da capitale includono i redditi da fabbricato e quelli da capitale finanziario, il 40% per i non lavoratori potrebbe essere un effetto di redditi assoluti molto bassi e redditi “da fabbricato” quindi in proporzione maggiori.
[28] - E’ la cosiddetta personalità “post-materialista”. Si veda la storica analisi di Ronald Inglehart, “La società post-moderna”, 1988, ma anche, in una chiave più positiva quella di Antony Giddens, “Identità e società”, 1991. Lo snodo centrale della letteratura che negli anni novanta esplora la nuova forma sociale ed esistenziale della ‘cetomedizzazione’ della società dei consumi opulenti, estesa a relativa maggioranza della popolazione (oltre il 50%), è la individualizzazione e la “cultura del rischio” (Beck, Giddens, Inglehart, Bauman. Gli individui che hanno raggiunto un certo livello di benessere e danno per acquisita la protezione, la sicurezza che attribuisce lo ‘status’ di ceto ‘medio’, si sentono poste di fronte a molteplici scelte e davanti a possibilità crescenti. Nella ‘condizione di incertezza’, quando associata ad una sicurezza scontata, emergono plurimi processi di costruzione di senso e “riflessivi”. Sarà allora proprio il “rischio”, con un classico topos liberale, a fungere da attivatore dei percorsi di vita riflessivi ed individuali. Per Giddens, in particolare La modernità contemporanea è dunque un “processo di ritrovamento di se stessi” che vive nella tensione tra pulsione all’autenticità e apertura al mondo determinata dai sistemi astratti che ci circondano e definiscono. Chiaramente questo è fonte di ansia, tuttavia essa in positivo è “stimolo per risposte utili per l’adattamento ed anche per prendere delle nuove iniziative” (“Identità e società”, p.19). Dunque, in sintesi, “la modernità è un ordine post-tradizionale in cui la domanda ‘come vivrò’ deve ricevere una risposta attraverso le decisioni quotidiane riguardanti come comportarsi, cosa indossare, cosa mangiare o altro”. Il passaggio a quella “contemporanea” (p.24) si dà attraverso alcune accentuazioni: un estremo dinamismo; la separazione di tempo e spazio e il conseguente disancoraggio delle istituzioni sociali, lo sradicamento dai contesti locali e la riarticolazione in ambiti spazio-temporali definiti da segni simbolici (come il denaro) e sistemi esperti (conoscenza tecnica).
[29] - C’è in effetti anche qui il riverbero di analisi degli anni ottanta e novanta, si veda l’interessante libro di Christopher Lasch, “La cultura del narcisismo”, 1979.
[30] - Si veda Jonathan Friedman “Politicamente corretto”. Identifico con questo termine una forma di categorizzazione e quindi di comunicazione caratterizzata dalla ‘logica associativa’ (se dici una cosa, allora devi essere in quella data identità preclassificata), e che fa prevalere la ‘valenza indessicale’ (cioè il contesto della comunicazione) sul contenuto semantico (il significato)”. Rifiutandosi all’argomentazione l’effetto sociale, e di potere, che si produce è che inquadrare un’affermazione come “politicamente corretta” (o s-corretta) consente di neutralizzarla; essa non può più essere localmente vera, perché è semplicemente troppo terribile. Al contrario diventa vero ciò che è buono, e perché lo è. Insomma, “il terribile e il meraviglioso sono autoevidenti”. Dunque si ha un utilizzo politico della morale per controllare la comunicazione e censurarla ab origine in tempi di incertezza. Il “politicamente corretto” è coevo all’insorgere di una nuova élite transnazionale (ben vista da autori chiave come Rorty, Lasch e Dahrendorf) che cerca di neutralizzare l’opposizione moralizzando l’universo sociale e dunque mobilitando, a fini di controllo, la vergogna. La simmetria essenziale è con la politica mondiale a taglia unica (il “Washington Consensus”) ed i suoi TINA e passa per la riclassificazione del liberale come progressista e del socialista come reazionario. Ciò che è progressista è l’olistico, il nomade/rizomatico, il diffuso e l’orizzontale. Ciò che è reazionario è il moderno, razionale, astratto, verticale. La ‘vecchia’ classe lavoratrice diventa, da soggetto storico del progresso, ‘deplorabile’ e nazionalista, egoista e meschina. Mentre il migrante, rifugiato, le minoranze colorate, le identità plurali, diventano i nuovi eroi. Questa è una cultura fondata sul narcisismo (Lasch) che egemonizza una forma di controllo basata sulla classificazione creando un controllo operativo (“matriarcale”) basato sulla vergogna. Le varie versioni del “politicamente corretto” sono l’ideologia funzionale allo stato della tecnica e ad un modo di produzione che da lungo tempo ha dismesso i ferri vecchi della triade Dio-Stato-Famiglia, inseguendo la forma ‘liquida’ della merce e costruendo un ‘umano non sociale’ abbandonato a tutte quelle forme di autoritarismo nascoste nell’apparenza di pienezza di diritti la cui piena espressione è il mercato autoregolato.

Comments

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Antonio Esposito
Friday, 17 January 2020 11:06
Spocchia, spocchia e ancora spocchia con argomentazioni confuse in un italiano faticoso.
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Vincesko
Monday, 02 December 2019 13:48
Bell'analisi!
PS: M'ero già accorto che Luca Ricolfi non "sapesse" interpretare i dati. Tant'è che l'ho dovuto inserire nel mio saggio nell'elenco, riportato nell'Appendice, delle 40 vittime illustri (tra le 60 milioni in Italia, oltre all'estero) della PRIMA PIU' GRANDE BUFALA DEL XXI SECOLO, relativa alle manovre finanziarie correttive della XVI legislatura (governi Berlusconi e Monti).
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